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La nonviolenza e' in cammino. 1390
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1390
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 17 Aug 2006 00:34:39 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1390 del 17 agosto 2006 Sommario di questo numero: 1. Severino Vardacampi: La politica delle cannoniere e l'alternativa nonviolenta 2. Ehren Watada: Come soldati, come patrioti, come esseri umani ci opponiamo alla guerra illegale e criminale 3. Padri, figlie 4. Enrico Peyretti: Dall'Afghanistan al Libano 5. Gabriele De Veris: Una vita oltre la guerra 6. Eduardo Galeano: Salvagente di piombo 7. Maria Antonietta Saracino presenta "Il treno di notte" di Ruskin Bond 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. SEVERINO VARDACAMPI: LA POLITICA DELLE CANNONIERE E L'ALTERNATIVA NONVIOLENTA Se vi fosse ancora una distinzione tra politica interna e politica estera (ma da tempo vi e' solo una politica internazionale, di cui sono articolazione fin i problemi amministrativi di un quartiere), diremmo che la politica estera italiana attuale e' la versione ritardataria e stracciona della politica delle cannoniere dell'epoca d'oro (dell'oro rapinato lasciando scie di sangue per tutti i continente e i sette mari) del colonialismo e dell'imperialismo. Una politica estera che privilegia lo strumento militare; una politica estera di guerra e di complicita' con la guerra; una politica estera di potenza, stragista e razzista. La politica delle cannoniere, appunto. Dopo la squallida cialtronata propagandistica in puro stile berlusconiano della conferenza di Roma, il governo italiano si appresta a mettere a disposizione militari italiani per una missione Onu a parole di interposizione tra israele e Libano, nei fatti di internazionalizzazione ulteriore del conflitto bellico mediorientale. E si appresta a farlo con il consenso, dichiarato fin qui con minimi ed ipocriti distinguo, della totalita' delle forze politiche totalitarie che gia' unanimi hanno avallato or non e' guari la prosecuzione della scellerata e criminale partecipazione italiana alla guerra afgana in violazione della Costituzione repubblicana e del diritto delle genti. * No. La partecipazione militare italiana alla missione Onu nel Libano meridionale e' peggio che un errore, e' una follia: se la finalita' dichiarata della missione (di cui tutto il resto e' confuso e inquietante) e' far cessare gli attacchi di Hezbollah contro Israele, ovvero disarmare le milizie di Hezbollah, la cosa piu' irragionevole che si possa fare e' investire di tale compito le forze armate di un paese gia' impegnato nelle coalizioni che stanno facendo guerre e stragi in Afghanistan e in Iraq: ovvero guerre che vengono interpretate da milioni e forse miliardi di esseri umani secondo il paradigma della guerra dell'occidente cristiano, capitalistico, colonialista e imperialista contro i popoli oppressi, contro l'islam, contro il sud del mondo al fine di continuare a rapinare le risorse di quei popoli e quei territori, calpestando la dignita' e l'identita' di persone e popoli che non accettano di farsi schiavizzare. * Non solo: l'interposizione che occorre deve essere di pace con mezzi di pace. Di piu': deve essere nonviolenta. E il disarmo di Hezbollah deve avvenire per via politica e di polizia. La via militare ha gia' dimostrato il suo completo fallimento. E per essere piu' chiari: per quanto attiene a Hezbollah come forza politica presente fin nel governo libanese, e' evidente che l'azione politica - negoziale in senso forte - deve essere condotta dal governo libanese, e sostenuta dalla comunita' internazionale in modo adeguato. Per quanto attiene a Hezbollah come milizia armata e organizzazione che pratica il terrorismo, e' evidente che l'azione di disarmo deve avere carattere di polizia e non militare; deve essere condotta precipuamente da forze dell'ordine non militarizzate e con il coinvolgimento attivo della societa' civile locale; non deve essere e neppure apparire un intervento che la propaganda terrorista possa denunciare come "operazione dell'occidente per disarmare la resistenza dell'Islam al neocolonialismo e al neoimperialismo" trovando un ascolto di massa; e deve avvalersi di tecniche adeguate e fondamentalmente nonviolente: ad esempio nella campagna brasiliana per il disarmo le istituzioni offrirono compensi in denaro alle persone (anche appartenenti a gruppi criminali) che consegnavano armi - senza doverne dichiarare la provenienza - affinche' fossero pubblicamente distrutte: e' un modello cui si puo' far riferimento per una delle molteplici iniziative da condurre. * La vicenda libanese, letta nelle sue dinamiche di lungo periodo e valorizzando la spinta di pace e riconciliazione degli ultimi anni, costituisce forse oggi un'occasione privilegiata per cominciare a sperimentare alcune cose che ci stanno molto a cuore: a) un'Onu che finalmente intervenga come soggetto che esercita un'azione di polizia internazionale contro la guerra, un'azione di pace con mezzi di pace, un'azione autonoma dagli interessi di parte delle maggiori potenza statali; b) i Corpi civili di pace come soggetto civile e disarmato che esercita un'azione nonviolenta e riconciliativa contro la guerra e per la giustizia; c) la costruzione di ponti tra persone e popoli nel segno del rispetto dell'altro e della convivenza muovendo dal soccorso a tutte le vittime, dal progressivo disarmo delle parti in conflitto, da pratiche di riconoscimento, solidarieta' e riconciliazione che per cerchi concentrici includano aree sempre piu' vaste di popolazioni e di istituzioni di esse rappresentative; d) una politica internazionale centrata non su meccanismi punitivi e belligeni ma su incentivi positivi: rovesciando la logica infernale degli embargo e delle guerre, e promuovendo la democrazia nell'unico modo in cui la democrazia si puo' promuovere: facendola crescere dal basso, cessando di rapinare i poveri ed anzi sostenendoli nei loro bisogni e nei loro diritti. Molto altro vi sarebbe da dire, ma almeno questo deve essere detto. 2. TESTIMONIANZE. EHREN WATADA: COME SOLDATI, COME PATRIOTI, COME ESSERI UMANI CI OPPONIAMO ALLA GUERRA ILLEGALE E CRIMINALE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento tenuto dal tenente statunitense Ehren Watada al convegno dei Veterani per la pace il 12 agosto 2006. Ehren Watada il 22 giugno scorso si e' rifiutato di partire per l'Iraq, considerando illegali la guerra e l'occupazione: "Poiche' l'ordine di prendere parte ad un atto illegale e' ovviamente contro la legge, io devo rifiutare quest'ordine". Mentre si accingeva a fare il suo intervento, oltre cinquanta membri dei Veterani che hanno fatto esperienza del conflitto iracheno si sono posti in fila alle sue spalle in un simbolico sostegno al suo gesto. Il tenente Watada ha iniziato a parlare visibilmente commosso] Grazie a tutti. Grazie per questo enorme sostegno. Non so dirvi quanto sono onorato e felice di essere nello stesso luogo con voi. Sono profondamente, umilmente riconoscente di essere in compagnia di tali meravigliosi oratori. Voi siete tutti veri patrioti americani. Sebbene non vestiate piu' l'uniforme, voi vi attenete ai principi che un tempo avete giurato di praticare e difendere. Nessuno conosce la devastazione e la sofferenza della guerra meglio di chi l'ha provata, ed e' per questo che noi veterani dovremmo essere i primi a prevenirla. Non ero troppo sicuro di cosa avrei detto stasera. In generale, come comandante di uomini, dovrei parlare per motivare altri. Ma questo non e' l'esercito, e poi sono solo un tenente. Siamo tutti cittadini di questo paese e cio' che ho da dire non concerne la mia autorita', parlo quindi da cittadino ad altri cittadini. Noi tutti abbiamo visto questa guerra lacerare il nostro paese negli ultimi tre anni. Sembra che nulla di cio' che abbiamo fatto, dalle veglie alle proteste, alle lettere al Congresso, abbia avuto un minimo effetto nel persuadere i potenti. Stasera vorrei parlarvi delle mie idee a proposito di un mutamento di strategia. Sono qui adesso perche' ho fatto idealmente un salto in avanti. La mia azione non e' la prima di questo tipo, e certamente non sara' l'ultima. Pure, per il bene di coloro che mi seguiranno, io richiedo il vostro aiuto, un vostro sacrificio, lo chiedo a voi e a numerosi altri americani. Posso fallire. Potremmo fallire. Ma nulla di quello che abbiamo tentato sino ad ora si e' spinto molto lontano. E' tempo di cambiare, e il cambiamento comincia con ciascuno di noi. Sto qui davanti a voi, oggi, non come un esperto; non sono uno che pretende di avere tutte le risposte. Sono semplicemente uno statunitense ed un servitore del popolo statunitense. La mia opinione e' questa. Capisco che potrete non essere d'accordo con tutto quel che ho da dire. Tuttavia, non ho fatto la scelta che ho fatto per essere popolare. L'ho fatta per spirito di servizio, e per rendere migliori i soldati di questo paese. E giuro di portare avanti questo impegno in modo onorevole, sotto il dettato della legge. Vi parlo di un'idea radicale, che nasce dallo stesso concetto di soldato americano, o membro in servizio. E' stata cruciale nel porre fine alla guerra in Vietnam, ma da molto tempo giace dimenticata. Ed e' la seguente: per porre fine ad una guerra illegale ed ingiusta, i soldati devono scegliere di non combatterla. * Non che sia un compito facile per chi e' sotto le armi. Lui o lei deve essere consapevole di essere usato/a in un gioco sporco. Deve saper essere responsabile per le proprie azioni individuali. Deve ricordare che il suo primario dovere verso la Costituzione ed il popolo e' superiore alle ideologie dei leader. Il soldato deve avere la volonta' di affrontare l'ostracismo dei suoi pari, la preoccupazione per la propria famiglia e ovviamente per la possibilita' di perdere la propria liberta' personale. Deve capire che resistere ad un governo autoritario a casa propria e' importante quanto combattere un aggressore esterno. Infine, coloro che vestono un'uniforme devono sapere senza ombra di dubbio che se rifiutano di obbedire ad ordini immorali ed illegali, saranno sostenuti dalla gente non con semplici parole, ma con azioni. Il soldato americano deve saper vedere oltre l'addestramento che gli dice di obbedire all'autorita' senza porre domande. Il grado dovrebbe essere rispettato, ma mai seguito ciecamente. La consapevolezza della storia di atrocita' e distruzioni commesse in nome dell'America, sia con interventi militari diretti che sostenendone altri, e' cruciale. I soldati devono capire che questa guerra non e' stata intrapresa per autodifesa ma per scelta, per il profitto e la dominazione imperialistica. Le armi di distruzione di massa, i legami con Al Qaida, le connessioni con l'11 settembre [da parte dell'Iraq - ndr], tutto questo non e' mai esistito. I soldati devono sapere in che modo funzionari eletti hanno intenzionalmente manipolato le prove portate al Congresso, all'opinione pubblica e al mondo, per giustificare la guerra. Devono sapere che ne' il Congresso ne' il governo hanno autorita' bastante a violare la proibizione della guerra preventiva: e' una legge americana che e' ancora in vigore oggi. Questa stessa amministrazione ci usa per commettere flagranti violazioni di leggi esistenti da lungo tempo, che bandiscono la tortura e l'umiliazione dei prigionieri di guerra. Anche se un soldato americano volesse comportarsi giustamente, l'illegittimita' dell'occupazione, le politiche di questa amministrazione, e le regole di ingaggio di disperati comandanti sul campo, lo forzeranno ad essere complice di crimini di guerra. I soldati statunitensi devono venire a conoscenza almeno di alcuni di questi fatti, se non di tutti, per poter agire. Mark Twain una volta lo rimarco': "Ogni uomo deve decidere per se stesso cio' che e' giusto e cio' che e' sbagliato, quale condotta sia patriottica e quale no. Non puoi evitare questo e rimanere umano. Decidere in maniera contraria alle tue convinzioni e' diventare un traditore senza scusanti, un traditore di te stesso e del tuo paese". Percio' ogni soldato americano, ogni marine, ogni pilota, ogni marinaio, e' responsabile delle sue scelte e delle sue azioni. Il giuramento che abbiamo prestato ci lega non ad un uomo, ma ad un documento fatto di principi e leggi, disegnato per proteggere il popolo. Arruolarsi non significa abiurare al proprio diritto di cercare la verita', ne' e' una scusante che ci priva del pensiero razionale o della capacita' di distinguere fra cio' che e' giusto e cio' che e' ingiusto. "Eseguivo gli ordini" non e' mai una giustificazione. I processi di Norimberga hanno dimostrato che la cittadinanza ed i soldati hanno l'inalienabile obbligo di rifiutare la complicita' in crimini di guerra perpetrati dai loro governi. Tortura e trattamento inumano dei detenuti sono crimini di guerra. Una guerra di aggressione nata da una politica non legittima di supposta prevenzione e' un crimine contro la pace. Un'occupazione che viola l'essenza stessa delle leggi umanitarie internazionali e la sovranita' di un paese e' un crimine contro l'umanita'. Sono crimini che si nutrono dei soldi delle nostre tasse. Se i cittadini dovessero rimanere silenti, imponendosi di ignorarlo, cio' li renderebbe complici quanto i soldati. * La Costituzione non e' un semplice pezzo di carta, ne' e' vecchia, obsoleta o irrilevante. E' l'incarnazione di cio' che tutti gli statunitensi sentono prezioso: verita', giustizia, uguaglianza per tutti. E' la formula di un governo del popolo che lavora per il popolo. Un governo trasparente e responsabile verso coloro che serve. La Costituzione disegna un sistema di controlli e contrappesi, e la separazione dei poteri, per prevenire il male della tirannia. Ma per forte che sia, la Costituzione non e' a prova di bomba. Non tiene completamente in conto la fragilita' dell'umana natura. Profitto, avidita', fame di potere, possono corrompere gli individui cosi' come le istituzioni. I redattori della Costituzione non avrebbero neppure potuto immaginare quanto il denaro avrebbe infettato il nostro sistema politico. Ne' avrebbero potuto credere che un intero esercito sarebbe stato usato per il profitto ed interessi privati. Come in ogni comune dittatura, ai soldati viene ordinato di commettere atti di natura cosi' infame da essere indegni di un paese libero. Il soldato statunitense non e' un mercenario. Non combatte semplicemente guerre a pagamento. Forse, il suo status e' un po' peggiore di quello di un mercenario, perche' quest'ultimo puo' semplicemente andarsene, se gli atti del suo datore di lavoro lo disgustano. Invece, e particolarmente quando si arriva alla guerra, il soldato americano e' un servitore con un contratto scritto, che sia andato volontario per patriottismo o che lo abbia spinto all'arruolamento la disperazione economica. Che importanza ha cio' che il soldato crede essere moralmente giusto? Quando si arriva alla guerra ideologica, la divisione fra giusto e sbagliato diventa confusa. E' tragico che sia il "comma 22" a descrivere cio' che e' l'esercito americano oggi. In teoria, il militare americano avrebbe tratti piu' nobili. Semplice soldato o ufficiale che sia, giura alla Costituzione ed al popolo. Se i soldati comprendono che la guerra e' contraria a cio' che la Costituzione dice, se si alzano in piedi e depongono le armi, nessun presidente puo' piu' iniziare una guerra per sua scelta privata. Nel giuramento diciamo "Contro tutti i nemici esterni ed interni": ma cosa succede se a diventare nemici sono i nostri rappresentanti eletti? A che ordini obbediremo? La risposta e' che c'e' una coscienza in ogni soldato, in ogni americano, in ogni essere umano. Il nostro dovere verso la Costituzione non puo' essere messo in discussione. L'esercito ha pure in se' sentimenti di fraternita', di vicinanza. La pressione del gruppo di pari esiste, e assicura coesione, ma pure si fonda sugli individui, e sul pensiero individuale. L'idea di questo tipo di fratellanza e' difficile da respingere, se le alternative sono la solitudine e l'isolamento. Se vogliamo che i soldati scelgano il sentiero piu' giusto ma piu' difficile, dobbiamo fare in modo che sappiano senza il minimo dubbio che saranno sostenuti dagli americani. Per sostenere le truppe che faranno resistenza, dovete far sentire le vostre voci. Se vedono che in migliaia sosterrete me, lo sapranno. Sempre piu' militari si stanno domandando cosa si vuole da loro. In maggioranza non conoscono una verita' seppellita dai titoli dei giornali. Molti non vedono alternative all'obbedienza cieca. Dobbiamo offrire un'opportunita' a quelli dalla mente piu' aperta, dando loro il coraggio necessario ad agire. Tre settimane fa, il sergente Hernandez della 172a Brigata Stryker e' stato ucciso, ed ha lasciato la moglie e due bambini. In un'intervista, sua moglie ha detto che Hernandez ha sacrificato la sua vita affinche' la sua famiglia potesse sopravvivere. Io sono sicuro che il sergente apprezzava il cameratismo dei commilitoni, ma sono altrettanto sicuro che se avesse avuto una scelta non si sarebbe messo a rischio di lasciare una famiglia senza marito e senza padre. E' questo il punto, vedete. Persone come il sergente Hernandez non hanno una scelta. Combattere in Iraq o far morire di fame i tuoi, ecco le scelte che hanno. Molti non rifiutano totalmente questa guerra perche' valutano le loro famiglie piu' delle loro stesse vite e forse della loro coscienza. Chi passerebbe volentieri anni in prigione per i propri principi, se questo negasse la sussistenza alla propria famiglia? Vi dico questo perche' dovete sapere che per fermare questa guerra, se volete che i soldati smettano di combatterla, essi devono avere l'incondizionato sostegno popolare. Io l'ho visto con i miei stessi occhi. Per me si e' trattato di quel balzo in avanti che vi dicevo, un balzo in avanti ideale, nella fede. Altri soldati non hanno questo lusso. Devono poterlo avere, e voi potete mostrarglielo. Dovete convincerli che non ha importanza per quanto tempo resteranno seduti in prigione, non ha importanza quanto ci mettera' il nostro paese a raddrizzare se stesso, per tutto questo tempo le loro famiglie avranno un tetto sopra la testa, cibo negli stomaci, opportunita' ed istruzione. E' un compito assai difficile. Richiede dei sacrifici da tutti noi. Perche' devono essere i canadesi a dare riparo e nutrimento ai soldati statunitensi che hanno fatto la scelta giusta? Dovremmo essere noi a prenderci cura di cio' che e' nostro. O siamo cosi' poco desiderosi di rischiare qualcosa per coloro che veramente possono mettere la parola fine a questa guerra? Fate sapere a costoro che la resistenza alla partecipazione ad una guerra illegale non e' futile, e non e' senza futuro. * Io non ho violato leggi, tranne il codice del silenzio e della cieca lealta'. Se sono colpevole, sono colpevole di aver appreso troppo, e di aver sofferto troppo profondamente dell'insensata perdita dei miei compagni soldati, e dei miei simili esseri umani. Se devo essere punito, devo essere punito per aver eseguito gli ordini immorali di un solo uomo sotto la parvenza della legge. Se devo essere punito, e' per non aver agito prima. Martin Luther King Jr. disse: "La storia dovra' registrare come la piu' grande tragedia di quest'epoca non lo stridente clamore dei malvagi, ma lo spaventoso silenzio degli onesti". Vedete, io non sono un eroe. Sono un comandante di uomini che ha detto "quando e' troppo e' troppo". Quelli che chiamavano alla guerra prima dell'invasione paragonavano i tentativi diplomatici con Saddam Hussein alla compromissione con Hitler. Io dico che ci stiamo compromettendo ora, permettendo ad un governo che usa la guerra come prima opzione di continuare ad agire impunito. Dopo le Due Torri, molti hanno detto: "Mai piu'". Sono d'accordo. Mai piu' dobbiamo permettere a chi minaccia la nostra liberta' di spadroneggiare, siano essi terroristi o funzionari eletti. Il momento di contrattaccare e' adesso, il momento di alzarci in piedi e' ora. Vorrei terminare con un'altra citazione di Martin Luther King: "Chi infrange una legge perche' la sua coscienza gli dice che e' ingiusta, ed accetta volontariamente la pena della carcerazione per poter innalzare la coscienza della comunita' su tale ingiustizia, sta in realta' esprimendo il piu' alto rispetto per la legge". Grazie, e siate benedetti. 3. RIFLESSIONE. PADRI, FIGLIE Padri che uccidono figlie. Mariti che uccidono mogli. Fidanzati che fidanzate uccidono. Il professionista pedofilo. E il prete. Il proletario razzista a caccia di schiave nere. Il branco. Il magistrato comprensivo. Il branco. * Banchi, neri, europei, asiatici, consumisti e rigoristi, cattolici e musulmani, del Milan e della Juve, discotecari e filarmonici, austeri padri di famiglia e yuppies senza inibizioni. * Il patriarcato e' gia' la guerra. Il maschilismo e' gia' il fascismo. Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. La nonviolenza: femminile, plurale. 4. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: DALL'AFGHANISTAN AL LIBANO [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario] Sono uno che, andando contro se stesso, il mese scorso, insieme ad altri sinceri persuasi della nonviolenza ha ritenuto in coscienza necessario e doveroso, per ottenere il minor male possibile nelle strette costrittive della realta' politica, non condannare il rinnovo temporaneo e calante della spedizione militare italiana in Afghanistan. Ora, nuove preoccupazioni e rischi mostrano la gia' nota qualita' di guerra e non di vera pace di quella spedizione. Cio' impegna tutti ad accelerare il ritiro dei mezzi militari italiani, in vista della scadenza semestrale di dicembre, per sostituirli completamente con forme di solidarieta' e aiuto civile alla popolazione stremata da guerre e violenze. Era evidente, a me e a chi conosce il movimento e la cultura nonviolenta di cui intendo essere seguace, che quello non era approvare o vedere un bene nel metodo militare di affrontare i conflitti. Ho anch'io tante volte, fino alla noia, distinto come diversi per essenza e non a parole, la forza e la violenza, la polizia e la guerra, spesso volutamente confuse dai prepotenti. Una polizia davvero internazionale, non faziosa, e' necessaria alla comunita' dei popoli. Al punto attuale dell'evoluzione umana (lenta e tarda sul piano morale), le societa' non possono fare a meno della forza limitata, regolata, e non distruttiva della polizia, come riconosceva anche Gandhi. Ma la guerra - l'azione offensiva e distruttiva della violenza - e' ogni giorno piu' chiaro che deve essere progressivamente e totalmente abolita, espulsa dai mezzi della politica. Anche la difesa mediante la guerra e' diventata una falsa difesa, perche' sempre di piu' le armi si ritorcono su chi le usa, accomunano nel danno aggressori e difensori, creano un mare di odio che assicura insicurezza e infelicita' a tutti per molte generazioni. Bisogna affermare sempre piu' decisamente e pacatamente queste verita' evidenti, anche e proprio quando la guerra ritorna feroce e stolta, alluvione di vendetta, a uccidere persone e a distruggere le condizioni minime di vita delle popolazioni. Ora, sospesa nella tregua la guerra tra Israele e Libano (ma non quella tra Israele e Palestina), la comunita' internazionale pensa e prepara una interposizione militare, senza escludere l'uso delle armi per mantenere... la sospensione della guerra. Anche l'Italia vi partecipera', sembra, al momento, con un consenso politico generale. Il timore grande e' che, nella cronica deficienza di cultura pacifica del conflitto nella classe politica (quasi tutta, da destra a sinistra), non si sappia distinguere, nel principio e nei fatti, l'azione di polizia dall'azione di guerra. Inoltre, l'esercito che va a fare interposizione ha cultura e struttura e strumentazione di guerra e non di polizia. La stessa polizia, anche negli stati democratici, ha in genere scarsa educazione democratica e cultura dei diritti umani, che qualifichi il suo dovere di imporre ai riottosi il rispetto degli altri. Bisogna dire anche in questa occasione, nonostante il grave ritardo della politica corrente, che l'interposizione veramente di pace deve essere pensata, organizzata, finanziata, addestrata, voluta e realizzata come forza umana disarmata nonviolenta, educata all'esercizio della forza nonviolenta, istruita nell'arte della mediazione tra avversari, disinteressata e libera da calcoli di potere e di influenza. Nulla e' facile e comodo. L'interposizione nonviolenta non esclude vittime e costi, ma, a differenza dell'interposizione militare, assicura la dignita' umana a tutte le parti implicate e costa infinitamente meno in risorse umane e materiali, e in danni morali lunghi nel tempo. La presenza italiana tra Libano e Israele sara' solo quella che la cultura politica corrente sa concepire. Ma la cultura nonviolenta la discute, ne critica i limiti, e fa conoscere le esperienze alternative di Corpi Civili di Pace che oggi, in mancanza di forme istituzionali, si svolgono in modo volontario e anticipatore per iniziativa tutta meritoria di singoli e associazioni. Queste esperienze si affiancano alle associazioni costruttive di pace, formate insieme tra le popolazioni in conflitto, come le simili associazioni miste israelo-palestinesi. Le intermediazioni nonviolente hanno anche i loro martiri, testimoni della consapevole dedizione senza condizioni profusa da tanti senza alcun clamore. Essi sono la vera promessa della politica internazionale di pace. Conosciamo queste figure umili e serie, libere dalla retorica ufficiale, tanto umanamente superiori al soldato ucciso mentre va per uccidere, celebrato da morto da chi lo ha usato da vivo. Queste esperienze tagliano muri e confini, costruiscono ponti, sono l'esatto contrario della guerra, e non una sua tregua, creano quel clima umano nel quale puo' svolgersi la fatica del dialogo e la ricerca razionale e inventiva di soluzioni e mediazioni, nel conveniente riconoscimento reciproco. La cultura di pace dovra' andare oltre la protesta e la denuncia, anche nel prossimo incontro nazionale di Assisi il 26 agosto, e diventare sempre piu' politica, proposta e volonta' di mezzi nonviolenti costruttivi e di progetti concreti, come la proposta di Galtung per il Medio Oriente sul modello dell'Unione Europea. 5. RIFLESSIONE. GABRIELE DE VERIS: UNA VITA OLTRE LA GUERRA [Ringraziamo Gabriele De Veris (per contatti: gdeveris at tiscali.it) per questo intervento. Gabriele De Veris e' una delle figure piu' conosciute e stimate dell'impegno per la pace e la nonviolenza in Italia; vive e lavora a Perugia come bibliotecario; capo scout, obiettore di coscienza, si occupa da molti anni di educazione alla pace e nonviolenza; collabora con varie associazioni, e in particolare con la Tavola della pace per l'organizzazione della marcia Perugia-Assisi; attualmente sta anche organizzando un centro di documentazione su pace e nonviolenza. Angelo Frammartino, giovane militante della sinistra italiana, amico della nonviolenza, impegnato nella solidarieta' concreta con i bambini palestinesi a Gerusalemme, e' stato assassinato alcuni giorni fa] Abbiamo nel cuore la morte di tante persone nel Libano, abbiamo nel cuore la morte di Angelo Frammartino. Una vita giovane dedicata alla ricerca della pace. Credo che anche per lui dovremmo rilanciare la proposta dei caschi bianchi a parlamento e governo. Da otto anni aspettiamo che una legge riconosca questo strumento di pace, che renda efficace la prevenzione dei conflitti e la ricostruzione dopo una guerra. Quando avremo i caschi bianchi potremo davvero parlare di "missioni di pace". 6. RIFLESSIONE. EDUARDO GALEANO: SALVAGENTE DI PIOMBO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 agosto 2006. Eduardo Galeano e' nato nel 1940 a Montevideo (Uruguay); giornalista e scrittore, nel 1973 in seguito al colpo di stato militare e' stato imprigionato e poi espulso dal suo paese; ha vissuto lungamente in esilio fino alla caduta della dittatura. Dotato di una scrittura nitida, pungente, vivacissima, e' un intellettuale fortemente impegnato nella lotta per i diritti umani e dei popoli. Tra le sue opere, fondamentali sono: Le vene aperte dell'America Latina, recentemente ripubblicato da Sperling & Kupfer, Milano; Memoria del fuoco, Sansoni, Firenze; e i recenti A testa in giu', Sperling & Kupfer, Milano, e Le labbra del tempo, Sperling & Kupfer, Milano. Tra gli altri suoi libri editi in italiano: Guatemala, una rivoluzione in lingua maya, Laterza, Bari; Voci da un mondo in rivolta, Dedalo, Bari; La conquista che non scopri' l'America, Manifestolibri, Roma; Las palabras andantes, Mondadori, Milano] I nostri paesi si modernizzano. Ora la linea ufficiale comanda di onorare i debiti (anche se disonorevoli), attirare investimenti (anche se indegni) e allargarsi al mondo (anche per la porta di servizio). E in realta' continuiamo a credere alle favole di sempre. L'America latina e' nata per obbedire al mercato mondiale, fin da quando il mercato mondiale non si chiamava cosi'. Piu' male che bene, restiamo legati al dovere dell'obbedienza. Questa triste routine dei secoli comincio' con l'oro e l'argento e prosegui' con lo zucchero, il tabacco, il guano, il salnitro, il rame, lo stagno, il caucciu', il cacao, la banana, il caffe' e il petrolio. E che cosa ci ha lasciato tanto splendore? Ci ha lasciato senza presente ne' futuro. Giardini diventati deserto, campi abbandonati, montagne sforacchiate, acque imputridite, lunghe carovane di infelici condannati a una morte anticipata, palazzi svuotati in cui camminano fantasmi. Adesso e' il turno della soia transgenica e della cellulosa. E si ripete la storia delle glorie fugaci, che al suono delle trombe ci annunciano lunghe disgrazie. Sara' muto il passato? Ci neghiamo l'ascolto delle voci che ci avvertono: i sogni del mercato mondiale sono gli incubi dei paesi che si sottomettono ai suoi capricci. Continuiamo ad applaudire il sequestro dei beni naturali che dio o il diavolo chi ha dato, e lavoriamo per la nostra propria perdizione, contribuendo allo sterminio della poca natura che ancora resta in questo mondo. * Argentina, Brasile e altri paesi latinoamericani stanno vivendo la febbre della soia transgenica. Prezzi tentatori, rendimenti moltiplicati. L'Argentina e', da molto tempo, il secondo produttore mondiale di transgenici dopo gli Stati Uniti. In Brasile, il governo Lula si e' esercitato in una di quelle piroette che rendono ben magro favore alla democrazia e ha detto si' alla soia transgenica, nonostante il suo partito avesse detto no durante tutta la campagna elettorale. Questo vuol dire pane per oggi e fame per domani, come denunciano alcuni sindacati rurali e organizzazioni ecologiste. Ma e' noto che i paesani ignoranti si ostinano a non comprendere i vantaggi della biada di plastica e della vacca a motore, e che gli ecologisti sono guastafeste che sputano regolarmente sull'arrosto. Gli avvocati del transgenico affermano che non e' provato che siano dannosi per la salute umana. In ogni caso, nemmeno e' provato che non lo siano. E se sono tanto inoffensivi, perche' i fabbricanti di soia transgenica si rifiutano di scrivere sulle confezioni che vendono cio' che vendono? L'etichetta di soia transgenica non sarebbe la migliore delle pubblicita'? E ci sono prove che queste invenzioni del dottor Frankenstein danneggiano la salute del suolo e riducono la sovranita' nazionale. Esportiamo soia o esportiamo suolo? E non finiremo intrappolati tra le mascelle della Monsanto e delle altri grandi imprese dei cui semi, erbicidi e pesticidi ormai dipendiamo? Terre che producevano tutto per il mercato locale ora si consacrano a un solo prodotto per la domanda estera. Mi sviluppo dal di fuori, e del dentro mi dimentico. La monocultura e' una prigione, lo e' sempre stata, e ora con i transgenici lo e' molto di piu'. La diversita', invece, libera. L'indipendenza si riduce all'inno nazionale e alla bandiera se non si basa sulla sovranita' alimentare. L'autodeterminazione comincia dalla bocca. Soltanto la diversita' produttiva puo' difenderci dai repentini crolli dei prezzi che sono il costume, il mortifero costume, del mercato mondiale. Le immense estensioni destinate alla soia transgenica stanno devastando i boschi originari e espellendo i contadini poveri. Poche braccia vengono occupate in questo sfruttamento altamente meccanizzato, che in cambio stermina le piccole piantagioni e gli orti familiari con il veleno dei suoi fumi. Si moltiplica l'esodo rurale verso le grandi citta', nelle quali si suppone che gli espulsi vadano a consumare, se hanno fortuna, cio' che prima producevano. E l'agraria riforma. la riforma agraria al contrario. * Anche la cellulosa e' diventata di moda, in diversi paesi. L'Uruguay, senza andare piu' lontano, sta cercando di trasformarsi in un centro mondiale di produzione di cellulosa per rifornire lontane fabbriche di carta di materia prima a basso costo. Si tratta di monocultura da esportazione, nella piu' pura tradizione coloniale: immense piantagioni artificiali che dicono di essere boschi e si trasformano in cellulosa con un processo industriale che riempie di rifiuti chimici i fiumi e rende l'aria irrespirabile. Qui hanno cominciato con due fabbriche enormi, una delle quali e' gia' mezzo completata. Poi si e' aggiunto un altro progetto e si parla di un altro e un altro ancora, mentre sempre piu' ettari vengono destinati alla fabbricazione in serie di eucalipti. Le grandi imprese transnazionali ci hanno scoperto sulla mappa e si sono accese di repentino amore per questo Uruguay dove non c'e' tecnologia capace di controllarle, lo stato concede loro sussidi ed evita le imposte, i salari sono rachitici e gli alberi crescono in un amen. Tutto indica che il nostro piccolo paese non potra' sopportare l'abbraccio asfissiante di questi giganti. Come spesso accade, le benedizioni della natura si trasformano in maledizioni della storia. I nostri eucalipti crescono dieci volte piu' in fretta che quelli della Finlandia e questo si traduce cosi': le piantagioni industriali saranno dieci volte piu' devastanti. Al ritmo di sfruttamento previsto, buona parte del territorio nazionale sara' spremuto fino all'ultima goccia d'acqua. Questi giganti ci vanno a seccare il suolo e il sottosuolo. Tragico paradosso: questo e' stato l'unico luogo al mondo in cui e' stata sottoposta a plebiscito la proprieta' dell'acqua. A grandissima maggioranza, noi uruguaiani abbiamo deciso, nell'anno 2004, che l'acqua e' di proprieta' pubblica. Non c'e' la maniera di evitare questo sequestro della volonta' popolare? La cellulosa, c'e' da ammetterlo, si e' trasformata in qualcosa di simile a una causa patriottica e la difesa della natura non risveglia entusiasmi. Peggio: nel nostro paese, malato di cellulosite, alcune parole come ecologista e ambientalista si stanno trasformando in insulti che crocifiggono i nemici del progresso e i sabotatori del lavoro. Si celebra la disgrazia come fosse una buona notizia. Meglio morire di inquinamento che di fame: molti disoccupati credono che non ci sia altro rimedio che scegliere tra due calamita', e i venditori di illusioni sbarcano offrendo migliaia di posti di lavoro. Ma una cosa e' la propaganda e un'altra la realta'. Il Mst, il movimento dei contadini "sem terra", ha diffuso dati eloquenti che non valgono solo in Brasile: la cellulosa genera un posto di lavoro ogni 185 ettari, l'agricoltura familiare cinque posti ogni 10 ettari. Le imprese promettono il meglio. Lavoro a vagoni, investimenti milionari, stretti controlli, aria pura, acqua pulita, terra intatta. E uno si chiede: perche' non mettono tutte queste meraviglie a Punta del Este, per migliorare la qualita' della vita e stimolare il turismo della nostra principale stazione balneare? 7. LIBRI. MARIA ANTONIETTA SARACINO PRESENTA "IL TRENO DI NOTTE" DI RUSKIN BOND [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 agosto 2006. Maria Antonietta Saracino, anglista, insegna all'Universita' di Roma "La Sapienza"; si occupa di letterature anglofone di Africa, Caraibi, India e di multiculturalismo. Ha curato numerosi testi, tra cui Altri lati del mondo (Roma, 1994), ha tradotto e curato testi di Bessie Head (Sudafrica), Miriam Makeba (Sudafrica), la narrativa africana di Doris Lessing e Joseph Conrad, testi di Edward Said, di poeti africani contemporanei, di Aphra Behn; ha curato Africapoesia, all'interno del festival Romapoesia del 1999; ha pubblicato saggi sulle principali aree delle letterature post-coloniali anglofone, collabora regolarmente con le pagine culturali de "Il manifesto" e con i programmi culturali di Radio3. Ruskin Bond e' nato nell'Himachal Pradesh nel 1934; da giovane ha vissuto per alcuni anni nelle Channel Islands e a Londra; e' ritornato in India nel 1955, dove oggi vive con la sua famiglia allargata; ha pubblicato il suo primo romanzo breve, The Room on the Roof, all'eta' di diciassette anni, da allora ha scritto piu' di cento racconti, numerosi romanzi e piu' di trenta libri per bambini. Tra le opere di Ruskin Bond disponibili in italiano: Piccolo manuale della serenita', Idea Libri, 2003; Il treno di notte. Storie e racconti dall'India, Donzelli, 2006] Chi abbia memoria del film Gandhi, di Richard Attenborough, quello che piu' di altri in tempi recenti ha contribuito a creare in occidente un immaginario cinematografico sull'India, ne ricordera' forse la scena iniziale, nella quale il futuro Mahatma, qui giovane avvocato indiano del foro di Londra inviato a fare praticantato in Sudafrica, viene letteralmente afferrato e buttato giu' dal treno, dalla carrozza di prima classe nella quale lui, indiano, aveva osato sedersi. E' da quel gesto di sopraffazione che in questo racconto tutto comincia, segnando un percorso che di li' a qualche decennio avrebbe portato al crollo dell'impero britannico in quella che l'Inghilterra considerava la sua roccaforte piu' sicura e prestigiosa. E piu' avanti si vedra' Gandhi con i suoi seguaci distesi sui binari della ferrovia, a protestare perche' il governo conceda il voto agli intoccabili. In treno il Mahatma percorrera' il paese predicando il verbo della resistenza nonviolenta. Se la strada e' lo spazio nel quale la liberta' simbolicamente comincia, il treno, elemento reale ma anche dell'immaginario, mezzo di trasporto e veicolo di Storia, sta all'India come l'automobile sta all'America. Sara' certo per questo che esso abita la geografia del subcontinente, e al tempo stesso la sua cinematografia e le pagine dei romanzi che la narrativa indiana contemporanea ci ha consegnato numerosi: bersaglio spesso di attentati, anche recenti, che a tutt'oggi nel treno individuano un facile veicolo di strage, ma anche potente elemento simbolico. Famosi in questo senso, i cosiddetti treni-fantasma, che nell'estate del 1947, nelle settimane successive alla Partition, la spartizione tra India e Pakistan, arrivano a destinazione pieni unicamente di cadaveri. * Grande storia, piccole storie Difficile trovare un romanzo che affrontando tematiche legate a quel momento della storia dell'India, non ne parli. Valgano per tutti, per spessore narrativo, Quel treno per il Pakistan, di Khushwant Singh, classe 1915 (Marsilio, traduzione di Maria Teresa Marenco); e, per la generazione successiva, La spartizione del cuore, di Bapsi Sidhwa, classe 1942 (Neri Pozza, traduzione di Luciana Pugliese), che dello stesso episodio parla a partire dalla sua esperienza di bambina; questa verra' poi trasposta nel film Earth, di Deepa Mehta, che dell'episodio del treno-fantasma, come gia' nel romanzo, fara' uno dei momenti centrali della narrazione: "E' appena arrivato un treno da Gurdaspur... Tutti morti. Massacrati. Tutti musulmani. Nemmeno una giovane donna tra i morti! Solo due sacchi pieni di seni di donna... Stavo aspettando sei parenti... da tre giorni... dodici ore al giorno ho aspettato quel treno!". Treni che trasportano la storia, nel bene e nel male. Quella con la esse maiuscola. Al contrario, Il treno di notte, deliziosa raccolta di racconti dell'indiano Ruskin Bond, appena uscito per Donzelli nella bella traduzione di Maria Baiocchi (pp. 246, euro 21,90) non trasporta la grande storia, ma piccole storie individuali. Frammenti di vita. Una vita che ha il respiro poetico di un mondo d'altri tempi, e d'altro tempo. Il tempo lento dei ricordi, di momenti d'amore vissuti o solo sognati, in un'India come ci piacerebbe che fosse - e come certamente anche e'. Un mondo fatto di attese, di sguardi, di sorrisi e di incontri fugaci che lasciano intuire piu' che svelare, ma che della vita dei singoli personaggi costituiscono molto spesso il centro, il momento attorno al quale anni di ricordi si raccolgono e coagulano. Trenta racconti brevi, composti dall'autore in momenti diversi della sua vita, a partire dagli anni Cinquanta, fino all'ultimo, Un amore di tanto tempo fa, scritto mentre la raccolta andava in stampa. Il tutto tenuto insieme dalla costante presenza del treno. Ed e' lo stesso Bond, nella "lettera al lettore" che costituisce la prefazione al volume, a spiegarne il perche', quando dice che "nei miei racconti sentimento e avventura trionfano, spesso associati ai treni. La gente non fa altro che spostarsi in treno e andare in treno dappertutto, ma solo qualche volta succede che due persone si incontrino, che i loro sentieri si incrocino, e anche se presto si dovranno di nuovo separare, le loro vite saranno modificate in qualche indefinibile modo". Ruskin Bond e' una figura di narratore piuttosto anomalo secondo i parametri a noi consueti. Quasi sconosciuto in occidente, i suoi testi sono viceversa molto letti in India, e comunemente presenti in ogni biblioteca familiare. Nasce nel 1934 a Kasauli, nell'Himachal Pradesh, da padre inglese e madre indiana. Durante la prima giovinezza trascorre quattro anni a Londra, con la famiglia, ma nel 1955 fa ritorno in India, da solo, per non allontanarsene mai piu'. Da allora vive a Mussoorie, sugli altipiani himalayani. A diciassette anni esordisce con un romanzo, The Room on the Roof, che nel 1957 gli vale il John Llewellyn Rhys Prize per la narrativa. A questo fa seguito un secondo, e una raccolta di saggi, ma soprattutto una lunghissima serie di racconti, alcuni dei quali per bambini, la forma narrativa che piu' gli addice e che, in oltre cinquant'anni di inesausta attivita' assommano ormai a oltre un centinaio; questi, uniti a raccolte di saggi e di poesia e a cinque romanzi, fanno di Ruskin Bond un autore quantomai prolifico, con oltre ottanta volumi al suo attivo. * Via dalla pazza folla Bond non e' un autore che sperimenti con il linguaggio, alla Salman Rushdie, per intenderci. Non e' un innovatore. Suo e' il ritmo lento e sicuro dei grandi narratori dell'Ottocento, con i quali condivide, per l'appunto, l'amore per le singole storie, con una spiccata predilezione per storie d'amore, storie a due. Piu' spesso intessute di silenzio, con scambi verbali ridotti all'indispensabile. E' forse per questo che lo scrittore si trova cosi' a suo agio nella dimensione del racconto, preferibilmente con pochi personaggi, lontana dai grandi affreschi brulicanti di umanita', di facce, di voci, della narrativa indiana piu' famosa. Nei suoi racconti prevalgono il rumore di sguardi e di pensieri, e una certa dose di solitudine e disincanto. Piuttosto, e' l'incrociarsi e lo sfiorarsi delle vite, a interessarlo, in storie che spesso prendono lo spunto da momenti della sua autobiografia. "E' una mia debolezza", dichiara, "non ci posso fare niente. Sono uno scrittore fatto cosi'". E davvero si ha la sensazione di carpire momenti di vita passata dell'autore. Che sia lui il bambino che ne La donna del binario n. 8, aspetta la madre che non si fa vedere e che per non sfigurare davanti ai compagni accetta la complicita' di una sconosciuta che presenta come madre. Lui, l'amico del giovane che vende pettini e spazzole in una piccola stazione nel racconto Prossima fermata, Pipalnagar. Lui, il diciottenne protagonista de Il treno di notte a Deoli - che nell'originale inglese da' il titolo alla raccolta - il quale si innamora perdutamente della ragazza che vende cestini di paglia, senza mai avere il coraggio di parlarle. Nutritosi, come tutti gli autori della sua generazione, della grande narrativa inglese otto-novecentesca, Ruskin Bond trova in quella scrittura, in quella lingua, i suoi modelli. Ma e' vicino empaticamente a quanti - e sono sempre piu' numerosi - in India hanno scelto di scrivere nella loro lingua madre, visibilmente affrontando un cammino piu' arduo e impopolare: "Sono molti - osserva ancora nella prefazione - gli scrittori coraggiosi che oggi scrivono nella propria lingua, sia essa il Bengali, l'Oriya, il Telugu o il Marathi, o dozzine di altre, zappando il proprio orticello in solitudine, senza godere del privilegio di avere alle proprie spalle agenti, media o il Booker Prize. La ricompensa sara' minuscola, i lettori pochi, ma questo basta a impedire loro di spegnere la luce. Perche' sanno bene che la penna ha la forza di sconfiggere la morte. Ed e' per questo, caro lettore, che io mi separo da te con l' augurio che tu sappia avere tanta saggezza da riuscire ad essere semplice, e tanta ironia da riuscire ad essere felice". 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1390 del 17 agosto 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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