La nonviolenza e' in cammino. 1384



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1384 dell'11 agosto 2006

Sommario di questo numero:
1. Peppe Sini: La tomba di Periandro
2. Giuliana Sgrena: Ombre italiane
3. La parola disonesta
4. Parliamo d'altro
5. Uri Avnery: Scegliere la pace
6. Moni Ovadia: Yad Vashem
7. Bia Sarasini: Julia Kristeva, tre donne di genio nel Novecento, contro il
"femminismo di massa"
8. Bia Sarasini: Nadine Gordimer, la verita' nel romanzo, la speranza nella
vita quotidiana
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. LA TOMBA DI PERIANDRO

Quel ministro afgano non era stato informato della grande menzogna imperante
in Italia: che i nostri soldati non sono in Afghanistan come parte della
coalizione che sta facendo la guerra, ma come turisti capitati per caso in
quell'ameno esotico paese e visto che ci sono danno una mano a fare del
bene, anzi del benissimo.
O forse era stato informato, ma avra' pensato che lo stessero prendendo in
giro; avra' detto sorridendo imbarazzato ai suoi italici callidissimi
interlocutori: andiamo, signori miei, vi sembra il caso di scherzare su cose
cosi' serie?
Non poteva immaginare che da cinque anni in Italia il governo in carica
(quale che sia il colore della casacca, il siglario e la retorica di cui
s'ammanta il mandrino di volta in volta dicasterialmente assiso) fa la
guerra ma dice al paese che sta facendo la pace; ne' poteva immaginare che
l'intero parlamento italiano appoggia la guerra ma beninteso spacciandola
per pace (con quattro sole eccezioni: tanti hanno votato contro la guerra di
tutti i mille e passa fra senatori e deputati), facendo strame della legge
fondamentale dello stato italiano, quella Costituzione che pure il popolo
italiano ha voluto difendere con le unghie e con i denti ancora poche
settimane fa; e non poteva infine immaginare che tutte le forze politiche
italiane presenti dove si fanno le leggi sono unanimi nel fare la guerra,
nel chiamarla pace, nel distruggere la base e la fonte stessa della
legalita', nel perseverare nell'abominio delle stragi di cui la guerra
consiste.
*
Subito dopo la rivelazione della nudita' del re, la solita solfa, la solita
canea, la solita colluvie, la solita logorrea dei dichiaratori a
ripetizione. Per smentire quello che smentire non si puo', poiche' il
decreto parla chiaro, e tutte le posticce pupazzate della propaganda non
possono nascondere l'effettuale realta': l'Italia e' pienamente coinvolta
nella guerra afgana, con proprie forze armate sul terreno sotto comando Nato
e con proprie unita' navali sotto comando Usa. L'Italia e' li' in palese
violazione della legalita' italiana ed internazionale. l'Italia e' li' come
complice dell'invasione e dell'occupazione, delle stragi della guerra
infinita. L'Italia e' li' a far morire esseri umani.
*
E solo quattro parlamentari su mille si sono opposti alla guerra e alle
stragi. E non c'e' un solo partito rappresentato in parlamento che si
opponga. E non c'e' un solo giornale o televisione che si opponga.
E dei diecimila movimenti sedicenti pacifisti quasi solo i medici scalzi di
Emergency hanno continuato a opporsi alla guerra e alle stragi; e della
marea di parole che tracima ogni giorno nella rete telematica quasi solo
questo foglio e chi penosamente lo imbastisce ha continuato tutti i giorni a
opporsi. Con la forza della verita'. E con un dolore ogni giorno crescente.
*
Tutte le guerre la stessa guerra. Tutti gli omicidi lo stesso omicidio. Vi
e' una sola umanita'.

2. RIFLESSIONE. GIULIANA SGRENA: OMBRE ITALIANE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 agosto 2006. Giuliana Sgrena,
giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu'
prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche
alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai
liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola
Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo,
Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma
1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq,
Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005]

Se la visita a Kabul della delegazione delle commissioni difesa di camera e
senato doveva servire a manifestare il sostegno del parlamento alle nostre
truppe, ha invece contribuito soprattutto a far sorgere nuovi fondati dubbi
sulla nostra presenza militare in Afghanistan. Enduring freedom, uscita
dalla porta di palazzo Madama, potrebbe rientrare dalla finestra di via XX
settembre.
Nonostante l'eccesso di zelo del ministro della difesa afghano Abdul Rahim
Wardak, soddisfatto perche' "le forze italiane prenderanno parte alla
missione nel sud dell'Afghanistan", sia stato subito smentito dai presidenti
delle commissioni difesa, Roberta Pinotti e Sergio De Gregorio, tornano ad
emergere molte delle preoccupazioni che avevano preceduto, a fine luglio, il
voto sul rifinanziamento della missione militare. Alimentate anche dalle
dichiarazioni del generale Fabrizio Castagnetti, comandante del Comando
operativo del vertice interforze, confermate dal ministro della difesa
Arturo Parisi.
Se per ora infatti i nostri soldati resteranno a Kabul e a Herat - "il
nostro contingente e' infatti impegnato e autorizzato ad operare negli
stessi limiti geografici e operativi che hanno definito il suo ambito di
intervento" - nel caso dovessero presentarsi situazioni straordinarie l'Isaf
potrebbe chiedere un intervento italiano anche a sud. La richiesta, non
improbabile visto che anche Karzai ha detto ieri di contare sull'impegno
italiano nella lotta contro i taleban e i terroristi (che si trovano a sud)
dovrebbe essere sottoposta al governo italiano, con l'accordo che la
risposta deve arrivare entro 72 ore. Difficile immaginare che la parola
possa tornare al parlamento in poche ore, visto il tormentone che ha
caratterizzato il voto di luglio, quindi la discrezionalita' della decisione
sarebbe rimessa esclusivamente nelle mani del governo.
Discrezionalita' o ambiguita'? E le assicurazioni fatte ai parlamentari
pacifisti? Occorre anche aggiungere - come ha ricordato il generale
Castagnetti - che sono state rafforzate le regole di ingaggio: i militari
potranno neutralizzare un gruppo ostile alla coalizione prima che spari e
intervenire contro chi impedisce lo svolgimento di un'azione del contingente
della Nato. Si tratta di una poco camuffata licenza di uccidere che mette a
ulteriore rischio i soldati italiani anche se resteranno a Kabul e a Herat,
prima ancora o senza che si dislochino a sud per combattere il terrorismo.
Di livello di rischio "significativo" parla infatti un rapporto
dell'intelligence italiana, che prevede una "possibile intensificazione
dell'attivita' terroristica nei confronti di personale ed interessi della
coalizione internazionale dell'Isaf, con conseguente maggiore esposizione
anche del contingente italiano". Una recrudescenza determinata
dall'espansione a sud dell'Isaf e dall'estendersi dell'effetto Iraq in
Afghanistan. Sottovalutare o ignorare tali avvertimenti potrebbe essere
catastrofico, come e' stato in Iraq.
E intanto il governo italiano e' del tutto assente su un altro scenario di
guerra, dove potrebbe cercare di giocare un ruolo positivo per fermare il
massacro e la distruzione del Libano da parte di Israele. Per non parlare
dei palestinesi che consumano la loro tragedia senza nemmeno godere piu'
dell'attenzione dei media.

3. RIFLESSIONE. LA PAROLA DISONESTA

Dal punto di vista della responsabilita' per l'uccisione degli afgani il
fatto che la componente italiana dell'Isaf (che sotto comando Nato sta
facendo la guerra per conto degli invasori americani, del governo di
criminali di Kabul e dei narcotrafficanti contro i talebani, i quali
beninteso sono non meno - ma neanche piu' - terroristi dei signori della
guerra al governo e del neoimperialismo americano) se ne resti acquattata
nelle retrovie mentre i soldati di altri paesi della medesima coalizione
vanno ad uccidere e a farsi ammazzare al fronte, non e' un merito, ma solo
una ulteriore ipocrisia e pusillanimita'.
Dal punto di vista della minore esposizione degli italiani alla risposta
armata afgana, certo, le retrovie sono preferibili al fronte.
Ma a questo siamo giunti? Che l'Italia fa la guerra e poi spera che muoiano
solo gli altri, e una volta garantito che i "nostri ragazzi" sono un po'
meno esposti, allora tutti contenti?
Ci rifiutiamo di credere che siamo diventati delle simili belve.
Ma ci rifiutiamo anche di credere che i mille parlamentari che hanno
sostenuto la guerra siano degli idioti.
E allora, ahinoi, delle due l'una: o si rendevano conto di quel che
votavano, ed hanno ugualmente deciso di votare per la guerra e le stragi; o
sono degli insipienti nelle mani di burattinai senza scrupoli, americani e
italiani, che possono manipolarli a piacimento. Scelgano loro come dobbiamo
considerarli.
In un caso e nell'altro la decisione governativa e parlamentare di
rifinanziare la partecipazione italiana alla guerra afgana e' un crimine e
un'infamia. Una violazione della Costituzione e un delitto in se'.
Ne proviamo una vergogna, un disgusto, un dolore che nulla puo' estinguere.

4. RIFLESSIONE. PARLIAMO D'ALTRO

E' calato in Italia il silenzio sull'Iraq, come se non ci riguardasse piu',
come se non fossimo ancora li', come se non ci fossimo mai stati, come se
anche in quella guerra l'Italia non fosse coinvolta. La guerra? Quale
guerra?
L'unica guerra in corso nel mondo e' quella in Libano, ci ripetono ossessivi
tutti i mass-media, tutti i politicanti, tutti i galoppini. E certo la
guerra intrapresa da Israele teoricamente contro le basi missilistiche  e
terroristiche Hezbollah, e di fatto contro il Libano e il suo popolo tutto,
e' una follia  e un crimine. Ma sono follia e crimine anche le altre guerre.
E ne' l'una ne' le altre sconfiggeranno il terrorismo, poiche' sono esse
stesse terrorismo e alimentatrici di terrorismo.
Ma per i mass-media e gli araldi addetti alla propaganda di regime oggi c'e'
solo la fornace libanese. E i morti in Iraq non sono piu' nulla. Non sono
piu' nulla i morti in Afghanistan. Piu' nulla. Resta quasi solo Cindy
Sheehan a serbarne memoria, a denunciare la prosecuzione delle stragi.
Ecco da cosa riconosci i complici di tutte - tutte - le stragi: dall'uso
spregiudicato che fanno di una guerra per nascondere le altre, di un cumulo
di atrocita' altrui per occultare il cumulo delle proprie. Tutti i
guerrieri, tutti i terroristi conducono la stessa guerra: contro l'umanita'
intera.

5. RIFLESSIONE. URI AVNERY: SCEGLIERE LA PACE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 agosto 2006. Uri Avnery e' nato ad
Hannover nel 1924, ed e' emigrato in Palestina all'avvento del nazismo; gia'
militante dell'Haganah e combattente nella guerra del 1948; piu' volte
parlamentare, giornalista, impegnato nell'opposizione democratica e nel
dialogo col popolo palestinese; e' tra le voci più vive del movimento
pacifista israeliano. Opere di Uri Avnery: Israele senza sionisti, Laterza,
Bari 1970; Mio fratello, il nemico, Diffusioni 84, Milano 1988]

Appena finira' la guerra verra' il giorno dei lunghi coltelli. Tutti,
politici e militari, daranno la colpa a qualcun altro. I politici si daranno
la colpa a vicenda. I generali lo stesso. I politici daranno la colpa ai
generali. E, soprattutto, i generali daranno la colpa ai politici. Dopo ogni
guerra, quando i generali falliscono, comincia a circolare la leggenda della
"pugnalata alle spalle": se soltanto i politici non avessero fermato
l'esercito proprio quando era sul punto di realizzare la sua gloriosa,
storica, devastante vittoria...
E' quel che successe in Germania dopo la prima guerra mondiale, e dalla
leggenda nacque il movimento nazionalsocialista. E' quel che successe in
America dopo il Vietnam. E' quel che succedera' qui: e' gia' nell'aria.
La verita' e' che, finora, al ventinovesimo giorno di guerra, sul piano
militare non e' stato raggiunto un solo obiettivo. Lo stesso esercito che
impiego' sei giorni per mettere al tappeto tre grossi eserciti arabi nel
1967 non ce l'ha fatta a sgominare un piccola organizzazione "terrorista" in
un lasso di tempo ormai piu' lungo di quello della guerra dello Yom Kippur.
Allora, l'esercito ci mise venti giorni a trasformare una sconfitta senza
precedenti in una sonora, indimenticabile vittoria militare. Sperando di
dare l'idea di un qualche successo militare, i portavoce dell'esercito ci
dicono che "abbiamo ucciso 200 (o 300, o 400, chi tiene piu' il conto?) dei
mille guerriglieri Hezbollah". L'affermazione che l'intero terribile
esercito Hezbollah consti soltanto di un migliaio di combattenti parla da
sola.
Stando ai corrispondenti, il presidente Bush e' frustrato. L'esercito
israeliano non gli e' stato molto utile. Bush li ha mandati alla guerra
credendo che il piu' potente degli eserciti, equipaggiato con le piu'
potenti fra le armi americane, avrebbe finito il lavoro in qualche giorno,
eliminando Hezbollah, consegnando il Libano alle redini americane,
indebolendo l'Iran e magari facendo pure strada ad un cambio di regime in
Siria. Ovvio che ora Bush sia arrabbiato. Ehud Olmert e' anche piu'
arrabbiato. E' andato alla guerra di gran carriera ed a cuor leggero,
perche' i generali dell'aviazione gli avevano promesso di distruggere
Hezbollah e i loro razzi in pochi giorni. Adesso e' impantanato e senza
prospettive di vittoria. Come al solito, al termine dei combattimenti (ma
forse anche prima), comincera' la guerra dei generali. Gia' ne emergono le
prime linee. I comandanti delle forze terrestri gia' incolpano il comandante
in capo e tutta l'aviazione che, intossicata dal potere, aveva giurato di
vincere tutto con le proprie forze: di bombardare, distruggere ponti,
strade, quartieri residenziali, villaggi e... finito!
I seguaci del comandante in capo e dell'aviazione incolperanno le forze
terrestri, soprattutto il Comando nord. I loro portavoce nei media gia'
dichiarano che e' un comando zeppo di ufficiali inetti, sbattuti lassu'
soltanto perche' al nord si stava tranquilli mentre tutta la vera azione era
al sud (Gaza) ed al centro (Cisgiordania). Gia' circolano le prime
insinuazioni sul capo del Comando nord, Udi Adam, che sarebbe stato nominato
soltanto perche' suo padre, Kuti Adam, venne ucciso durante la prima guerra
libanese.
Piu' o meno tutte queste accuse sono fondate: questa guerra e' fatta di
fallimenti militari - per cielo, per terra e per mare. Sono fallimenti
radicati nella tremenda arroganza nella quale siamo stati cresciuti, ormai
nostro carattere dominante. Caratteristica delle nostre forze armate,
raggiunge l'apice nell'aviazione. Per anni ci siamo detti che abbiamo
l'esercito piu'-piu'-piu' del mondo intero. E non soltanto ci siamo convinti
fra di noi, ma anche Bush ed il resto del mondo. Uno degli obiettivi
dichiarati di questa guerra doveva essere proprio quello di riabilitare il
potere deterrente dell'esercito israeliano. L'abbiamo proprio mancato.
Perche', cosa e' successo?
Il problema e' che l'altro aspetto della nostra arroganza e' costituito dal
disprezzo nei confronti degli arabi. Adesso i nostri soldati stanno
imparando a loro spese che i "terroristi" sono combattenti duri ed assai
motivati, non un branco di drogati persi a sognare le loro vergini in
paradiso.
*
Ma al di la' dell'arroganza, c'e' un problema militare di fondo: e'
semplicemente impossibile vincere una guerra contro la guerriglia. L'abbiamo
gia' visto restando per 18 anni in Libano. Poi ci siamo inevitabilmente
arresi al ritiro. Adesso, dio solo sa cosa ha dato a questi generali
l'infondata sicurezza nel ritenersi in grado di riuscire dove i loro
predecessori hanno fallito.
E soprattutto: nemmeno il miglior esercito al mondo potrebbe vincere una
guerra priva di precisi obiettivi. Karl Von Clausewitz, guru della scienza
militare, disse che "La guerra non e' altro che il proseguimento della
politica con altri mezzi". Olmert e Peretz, due totali dilettanti, hanno
rigirato il tutto: "la guerra non e' altro che la continuazione dell'assenza
di politica con altri mezzi". Chiaramente e' un problema di leadership
politica. Quindi le colpe principali verranno deposte ai piedi dei due
gemelli siamesi, Olmert e Peretz. Hanno ceduto alla tentazione del momento
trascinando tutto il paese in guerra - una decisione intempestiva,
sconsiderata e priva di scrupoli. Come ha gia' scritto Nehemia Strassler in
"Haaretz": si sarebbero potuti fermare dopo due o tre giorni, quando tutto
il mondo asseriva che la provocazione di Hezbollah giustificava la risposta
israeliana e nessuno ancora dubitava della potenza del nostro esercito.
L'intera operazione sarebbe apparsa sensata, sobria e proporzionata.
Ma Olmert e Peretz non sono riusciti a fermarsi. Come due babbei, non si
sono resi conto che delle millanterie dei generali non ci si puo' fidare,
che neanche i piu' brillanti piani militari sono degni della carta sulla
quale sono scritti, che in guerra l'imprevedibile va previsto, che niente e'
piu' effimero delle glorie di guerra. Intossicati dalla fama di guerra,
istigati da un gregge di giornalisti scodinzolanti, la gloria di condottieri
ha dato loro alla testa. Olmert si e' eccitato coi suoi stessi discorsi
cosi' incredibilmente kitsch, provati e riprovati di fronte ai suoi
tirapiedi. Quanto a Peretz, sembra quasi si sia messo di fronte allo
specchio a rimirarsi gia' come fosse il prossimo primo ministro, il prossimo
Mister security, un nuovo Ben Gurion. Cosi', come i due idioti del
villaggio, si sono messi alla testa di questo carnevale di folli, diritti
verso il fallimento politico e militare.
Ne pagheranno il prezzo un volta finita la guerra.
*
Come andra' a finire questo disastro?
All'inizio della guerra il governo ha furiosamente respinto qualsiasi
ipotesi di dispiegamento di forze internazionali al confine. L'esercito
riteneva che una simile forza avrebbe ostacolato le sue operazione e neanche
sarebbe bastata per proteggere Israele. Adesso, improvvisamente, il
dispiegamento di una simile forza e' diventato uno dei motivi principali di
questa guerra. Il che costituisce, naturalmente, una scusa un po' triste;
qualsiasi forza internazionale potra' essere dispiegata soltanto previo
accordo con Hezbollah. Nessun paese spedirebbe i propri uomini a combattere
contro la popolazione locale. E dappertutto, al confine, gli sciiti faranno
ritorno ai propri villaggi - compresi i guerriglieri Hezbollah. Quindi, la
forza di peacekeeping sara' totalmente subordinata agli accordi con
Hezbollah. Altrimenti, bastera' l'esplosione di una bomba sotto un bus pieno
di francesi,ed ecco levarsi l'urlo da Parigi: "Riportate a casa i nostri
ragazzi!". Come e' successo quando vennero bombardati a Beirut i marines
americani. I tedeschi, poi, che hanno scioccato il mondo opponendosi al
cessate-il-fuoco, figuriamoci se manderanno i soldati al confine con
Israele.
Ma, ancora piu' importante: niente impedira' ad Hezbollah di lanciare i
propri razzi sopra le teste della forza internazionale, come e quando
vorranno. E allora, che fara' la forza di peacekeeping? Conquistera' tutta
l'area fino a Beirut? Ed Israele che fara'?
Olmert vuole che la forza internazionale si occupi di controllare anche il
confine siro-libanese. Il che e', ovviamente, illusorio, trattandosi di un
confine che si estende per l'intero nord-est del Libano: chiunque voglia
infiltrare armi dovra' soltanto tenersi lontano dai principali raccordi
stradali, che poi saranno gli unici ad essere pattugliati. Dopodiche' ci
saranno centinaia di stradine percorribili. Con la dovuta tangente, tutto e'
fattibile in Libano.
Dunque, alla fine di questa guerra, ci ritroveremo piu' o meno allo stesso
punto di prima quando ancora non erano stati uccisi un migliaio di libanesi
e molti israeliani, prima dello sfratto di un milione di esseri umani dalle
proprie case, prima della distruzione di migliaia e migliaia di case fra
Libano ed Israele. Dopo la guerra, l'entusiasmo scemera', gli abitanti del
nord torneranno alle loro case leccandosi le ferite, l'esercito aprira'
un'inchiesta sui propri fallimenti.
Tutti sosterranno di esser stati contrari a questa guerra fin dall'inizio.
L'unica soluzione che si profila dunque e': cacciar via Olmert, far fare le
valigie a Peretz e licenziare Halutz. E finalmente imbarcarsi in un nuovo
corso politico, l'unico che possa veramente risolvere tutti i problemi:
negoziare con i palestinesi, con i libanesi e con i siriani. E con Hamas ed
Hezbollah. Perche' la pace la si fa soltanto con i nemici.

6. RIFLESSIONE. MONI OVADIA: YAD VASHEM
[Dal sito www.peacereporter.net riprendiamo questo intervento gia' apparso
sul quotidiano "L'Unita'" del 5 agosto 2006. Moni Ovadia e' nato a Plovdid
in Bulgaria nel 1946, ricercatore, musicista, regista teatrale e interprete,
ha dato uno straordinario contributo alla conoscenza nel nostro paese della
cultura yiddish. Autore di vari libri, segnaliamo in particolare Oylem
Goylem, Mondadori, Milano 1998]

Yad Vashem e' il museo dell'Olocausto di Gerusalemme, il sacrario della
Shoa', ma per gli israeliani e' ben altro che questo. Quel luogo e' per
molti aspetti, il topos del senso stesso dell'esistenza di Israele come
stato ebraico.
Ogni cittadino, ogni fanciullo, ogni soldato, si reca in pellegrinaggio in
quel luogo per assumere il pieno statuto identitario di ebreo israeliano.
Ogni persona, dal semplice turista o viaggiatore, al piu' illustre politico
in visita in Israele, quale che sia la ragione della sua presenza, sa che ha
il dovere di rendere omaggio alle vittime dello sterminio nazista recandosi
a Yad Vashem.
Con quel solenne pellegrinaggio, il visitatore riconosce il suggello con cui
lo stato d'Israele assume su di se' un'intera eredita'.
Per un grandissimo numero di ebrei che si riconoscono nelle istituzioni
ufficiali, Israele diviene acriticamente e senza mediazioni, passato,
presente e futuro. Per essi la diaspora perde significato in se' per
divenire appendice di un ritorno in pectore anche se procrastinato sine die.
Di fatto, essi si sentono israeliani in standby.
Le recenti drammatiche vicende mediorientali, richiedono una rimessa in
questione di questi assetti israelo-ebraici e delle dinamiche
psicologico-culturali che vi sottostanno. Il movimento sionista ha avuto fra
i suoi obiettivi primari quello di normalizzare gli ebrei, collocandoli in
una terra con la quale avevano un antico legame e facendone un popolo come
gli altri.
Quando il primo ebreo fu arrestato per furto e messo in prigione nella
neonata entita' statuale ebraica, il padre fondatore e primo capo del
governo, David Ben Gurion, esulto': "Siamo un paese normale".
Mai affermazione fu piu' rovinosamente scentrata. Israele e' tutto fuorche'
un paese "normale". La sua collocazione geografica e' in Medio Oriente ma in
questo momento la sua vocazione e' occidentale. Per certi aspetti potrebbe
essere uno stato degli Stati Uniti, anche se piu' di meta' della sua
popolazione viene da stati arabi e il 17% di essa e' arabo-palestinese. La
sua politica, in grande misura coincide con quella delle amministrazioni
americane.
E' stato fondato da scampati alle persecuzioni antisemite zariste e degli
stati autoritari centro-orientali e da sopravvissuti alla Shoa', ha dunque
piena titolarita' a quella eredita', ma gli ebrei sterminati dai nazisti
erano quanto c'e' di piu' lontano da quello che e' oggi l'ebreo israeliano.
Quelli parlavano lo yiddish ed erano a proprio agio in molte altre lingue,
vivevano a cavallo dei confini, erano cosmopoliti, ubiqui, inquieti,
refrattari alle logiche militari, poco interessati, quando non ostili ai
nazionalismi, erano smunti, fragili, dediti allo studio, alle professioni
liberali, intellettuali, al piccolo o grande commercio, appartenevano alla
categoria dei paria perseguitati emarginati, erano dalla parte degli
sconfitti.
L'israeliano delle nuove generazioni si esprime in ebraico moderno, una
lingua costruita desantificando l'ebraico biblico e piegandolo alle esigenze
di una nazione e la sua seconda lingua e' l'inglese. L'israeliano sta con i
vincitori, e' forte, determinato, orgogliosamente nazionale, militarmente
molto preparato, capace di essere agricoltore e soldato quanto intellettuale
e tecnico, ma anche taxista, ingegnere, negoziante o impiegato, operaio e
persino occupante e poliziotto di un altro popolo, cosa inconcepibile per un
ebreo della diaspora che subi' lo sterminio.
Oggi, che nuovamente un leader fanatico di un paese islamico chiede la
cancellazione dello stato sionista dalla carta geografica, in Israele e
nella diaspora, si evoca il legame con la Shoa' in modo univoco e schematico
quasi a volere stabilire un parallelo inaccettabile con il ghetto di
Varsavia.
Ma ancorche' Israele viva in stato di grande difficolta' e subisca il
terrorismo e l'aggressione di Hezbollah sulla carne della propria gente,
pensare di rappresentare la tragica eredita' dello sterminio solo con un
modello rigido per giustificare l'uso indiscriminato della propria soverchia
forza militare e radere al suolo intere citta' provocando quasi
esclusivamente morti civili, e' scambiare etica per propaganda.
Se Israele vuole assumere l'eredita' di quell'ebraismo ridotto in cenere,
deve assumerne la piena eredita' morale, cessare di vessare ed imprigionare
un altro popolo, diventare piu' piccolo, molto piu' democratico, abbandonare
la mistica della potenza, diventare leader del processo di pace ed assumere
la funzione di ponte fra occidente e medio oriente.

7. INCONTRI. BIA SARASINI: JULIA KRISTEVA, TRE DONNE DI GENIO NEL NOVECENTO,
CONTRO IL "FEMMINISMO DI MASSA"

[Dal sito "DeA donne e altri" (www.donnealtri.it) riprendiamo il seguente
articolo di Bia Sarasini del 13 aprile 2006.
Bia Sarasini, prestigiosa giornalista, intellettuale femminista, ha diretto
"Noi donne" ed e' cofondatrice del sito "DeA".
Julia Kristeva e' nata a Sofia in Bulgaria nel 1941, si trasferisce a Parigi
nel 1965; studi di linguistica con Benveniste; intensa collaborazione con
Sollers e la rivista "Tel Quel"; impegnata nel movimento delle donne,
psicoanalista, ha dedicato una particolare attenzione alla pratica della
scrittura ed alla figura della madre; e' docente all'Universita'  di Paris
VII. Opere di Julia Kristeva: tra quelle tradotte in italiano segnaliamo
particolarmente: Semeiotike', Feltrinelli, Milano; Donne cinesi,
Feltrinelli, Milano; La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio,
Venezia; In principio era l'amore, Il Mulino, Bologna; Sole nero,
Feltrinelli, Milano; Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano; I samurai,
Einaudi, Torino; Colette, Donzelli, Roma; Hannah Arendt. La vita, le parole,
Donzelli, Roma. In francese: presso Seuil: Semeiotike', 1969, 1978; La
revolution du langage poetique, 1974, 1985; (AA. VV.), La traversee des
signes, 1975; Polylogue, 1977; (AA. VV.), Folle verite', 1979; Pouvoirs de
l'horreur, 1980, 1983; Le langage, cet inconnu, 1969, 1981; presso Fayard:
Etrangers a nous-memes, 1988; Les samourais, 1990; Le vieil homme et les
loups, 1991; Les nouvelles maladies de l'ame, 1993; Possessions, 1996; Sens
et non-sens de la revolte, 1996; La revolte intime, 1997; presso Gallimard,
Soleil noir, 1987; Le temps sensible, 1994; presso Denoel: Histoires
d'amour, 1983; presso Mouton, Le texte du roman, 1970; presso le Editions
des femmes, Des Chinoises, 1974; presso Hachette: Au commencement etait
l'amour, 1985. Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche (www.emsf.rai.it) riprendiamo la seguente scheda: "Julia
Kristeva e' nata il 24 giugno 1941 a Silven, Bulgaria. Nel 1963 si diploma
in filologia romanza all'Universita' di Sofia, Bulgaria. Nel 1964 prepara un
dottorato in letteratura comparata all'Accademia delle Scienze di Sofia; nel
1965 ottiene una borsa di studio nel quadro di accordi franco-bulgari e dopo
il 1965 prosegue gli studi e il lavoro di ricerca in Francia all'Ecole
Pratique des Hautes Etudes. Nel 1968 consegue il dottorato sotto la
direzione di Lucien Goldmann (con Roland Barthes e J. Dubois). Sempre nel
1968 e' eletta segretario generale dell'Association internationale de
semiologie ed entra nel comitato di redazione del suo organo, la rivista
'Semiotica'. Nel 1973 consegue il dottorato di stato in lettere sotto la
direzione di J. C. Chevalier. Dal 1967 al 1973 e' ricercatrice al Cnrs di
linguistica e letteratura francese, al Laboratoire d'anthropologie sociale,
al College de France e all'Ecole des Hautes Etudes en sciences sociales. Nel
1972 tiene un corso di linguistica e semiologia all'Ufr di Letteratura,
scienze dei testi e documenti dell'Universita' Paris VII 'Denis Diderot'. E'
nominata direttore del Dea di Etudes Litteraires. Nel 1974 viene eletta
Permanent visiting professor al Dipartimento di letteratura francese della
Columbia University, New York. Nel 1988 e' responsabile del Draps (Diplome
de recherches approfondies en psycopathologie et semiologie). Nel 1992 e'
nominata direttore della Scuola di dottorato "Langues, litteratures et
civilisations, recherches transculturelles: monde anglophone - monde
francophone", all'Universita' di Paris VII 'Denis Diderot' e Permanent
Visiting Professor al Dipartimento di Letteratura comparata dell'Universita'
di Toronto, Canada. Nel 1993 e' nominata membro del comitato scientifico,
che affianca il ministro dell'educazione nazionale. Attualmente e'
professoressa all'Universita' Paris VII 'Denis Diderot'. Dal 1978 dopo una
psicoanalisi personale e una analisi didattica presso l'Institut de
psychanalyse, esercita come psicoanalista. Gli interessi scientifici di
Julia Kristeva vanno dalla linguistica alla semiologia, alla psicoanalisi,
alla letteratura del XIX secolo. Esponente di spicco della corrente
strutturalista francese e in particolare del gruppo di 'Tel Quel', che ha
sviluppato in Francia le ricerche iniziate dai formalisti russi negli anni
Venti e continuate dal Circolo linguistico di Praga e da Jakobson, Julia
Kristeva ritiene che la semiotica sia la scienza pilota nel campo delle
cosiddette 'scienze umane'. Pervenuta oggi a un'estrema formalizzazione, in
cui la nozione stessa di segno si dissolve, la semiotica si deve rivolgere
alla psicoanalisi per rimettere in questione il soggetto senza di cui la
lingua come sistema formale non si realizza nell'atto di parola, indagare la
diversita' dei modi della significazione e le loro trasformazioni storiche,
e costituirsi infine come teoria generale della significazione, intesa non
come semplice estensione del modello linguistico allo studio di ogni oggetto
fornito di senso, ma come una critica del concetto stesso di semiosi. Opere
di Julia Kristeva: Semeiotike'. Recherches pour une semanalyse, Seuil, Paris
1969; Le texte du roman, Mouton, La Haye 197l; La revolution du language
poetique. L'avant-garde a' la fin du XIX siecle: Lautreamont et Mallarme',
Seuil, Paris 1974; Des chinoises, Editions des femmes, Paris l974;
Polylogue, Seuil, Paris 1977; Pouvoirs de l'horreur. Essai sur l'abjection,
Seuil, Paris 1980; Le language, cet inconnu. Une initiation a' la
linguistique, Seuil, Paris 198l; Soleil noir. Depression et melancolie,
Gallimard, Paris 1987; Les Samourais, Fayard, Paris 1990; Le temps sensible.
Proust et l'experience litteraire, Gallimard, Paris l994. Numerosi articoli
di Julia Kristeva sono apparsi sulle riviste 'Tel Quel', 'Languages',
'Critique', 'L'Infini', 'Revue francaise de psychanalyse', 'Partisan
Review', 'Critical Inquiry' e molte altre. Tra le opere della Kristeva
tradotte in italiano, ricordiamo: Semeiotike'. Ricerche per una semanalisi,
Feltrinelli, Milano 1978; La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio,
Venezia 1979; Storia d'amore, Editori Riuniti, Roma 1985; Sole nero.
Depressione e melanconia, Feltrinelli, Milano 1986; In principio era
l'amore. Psicoanalisi e fede, Il Mulino, Bologna 1987; Stranieri a se
stessi, Feltrinelli, Milano; Poteri dell'orrore, Spirali/Vel, Venezia; I
samurai, Einaudi, Torino 1991; La donna decapitata, Sellerio, Palermo 1997".
Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva
di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe
all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le
massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l
'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen
(1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti,
Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli,
Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e'
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di
brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano,
1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969.
Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra
amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975,
Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio
Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2.
1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita'
e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la
biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri,
Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt,
Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah
Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah
Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della
polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt,
Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su
Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah
Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli,
Roma 2005. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie
divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang
Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg
Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000.
Sidonie-Gabrielle Colette (1873-1954) e' stata la piu' apprezzata scrittrice
francese della prima meta' del Novecento.
Melanie Klein, illustre psicoanalista (Vienna 1882 - Londra, 1960). Opere di
Melanie Klein: Scritti (1921-1958), Boringhieri, Torino 1978; La
psicoanalisi dei bambini, Martinelli, Firenze 1970; Nuove vie della
psicoanalisi, Il Saggiatore, Milano 1982; Il nostro mondo adulto ed altri
saggi, Martinelli, Firenze 1972; Invidia e gratitudine, Martinelli, Firenze
1969; Analisi di un bambino, Boringhieri, Torino 1961. Opere su Melanie
Klein: Hanna Segal, Introduzione all'opera di Melanie Klein, Martinelli,
Firenze 1968; Hanna Segal, Melanie Klein, Bollati Boringhieri, Torino 1981,
1994; Franco Fornari (a cura di), Fantasmi, gioco e societa', Il Saggiatore,
Milano 1976]

E' stato un incontro appassionante quello che si e' avuto a Roma con Julia
Kristeva, festeggiata per la traduzione della sua trilogia dedicata al genio
femminile. Si tratta di tre libri dedicati rispettivamente a Hannah Arendt,
Melanie Klein, Colette, pubblicati in Italia da Donzelli che per questa
opera in corso di completamento (manca ancora all'appello il volume dedicato
a Melanie Klein), ha ottenuto il premio Amelia Rosselli 2005, destinato
dall'assessorato alle pari opportunita' del Comune di Roma alle case
editrici che valorizzano la creativita' femminile. "Per presentarmi" ha
detto Julia Kristeva, un'intellettuale speciale, di quelle che non si
limitano a un unico terreno di studio, "devo dire che sono cresciuta in
Bulgaria, sono francese e ho la cittadinanza europea, ma un pezzo della mia
esistenza e' radicato in America". Una nomade, dunque, della vita e del
pensiero, che in un percorso singolare, dallo studio della letteratura a
talento riconosciuto della semiotica, di cui ha studiato con Roland Barthes,
l'ha portata verso la psicoanalisi. Per cui dalla fine degli anni Settanta
accanto all'insegnamento all'Universita' Paris VII esercita come
psicoanalista. Sole nero. Depressione e melanconia (Feltrinelli), In
principio era l'amore. Psicoanalisi e fede (Il Mulino), Stranieri a se
stessi (Feltrinelli) sono alcuni dei libri pubblicati in italiano, oltre i
romanzi I samurai (Einaudi) e La donna decapitata (Sellerio), titoli che
testimoniamo della pluralita' dei suoi interessi, con un filo rosso a
legarli: la passione per il legame che si crea tra la vita, i sentimenti, le
persone, la parola.
Come avviene soprattutto nelle donne. "E' nell'affermazione di un io
inseparabile dai legami, siano questi politici, psichici, sensoriali,
amorosi, scritti, che sono tentata di leggere una costante della
psicosessualita' femminile", ha detto nella sala affollata non solo di donne
a Roma. "Anche quando si ribella agli impedimenti, alle costrizioni, alle
prigioni, e a tutte le altre forme di concentrazione sociale che ci
banalizzano", ha continuato, "la donna si dedica senza sosta, in legame con
l'oggetto, a reinventare costantemente le condizioni necessarie per la
liberta' psichica e politica".
Un discorso alto e difficile, dunque, testimonianza di un pensiero
originale, anche nelle premesse. "Non ho mai amato il femminismo di massa,
che punta a liberare tutte le donne. C'e' un elemento di totalitarismo, come
nel Terrore, che voleva liberare tutti i borghesi, o l'Ottobre, con i
proletari". Per questo ha scritto del genio femminile: "Una provocazione,
per mettere a fuoco la singolarita', l'opera di alcune donne straordinarie
che attraverso la loro vita e la loro opera hanno segnato la storia di
questo secolo. In questo modo faccio appello alla singolarita' di ciascuna".
A cominciare dallo studio su Hannah Arendt, di cui e' appena uscita
l'edizione italiana (Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli, 296
pagine, 23 euro). Arendt, la filosofa che "preoccupata di difendere la
singolarita' dalla minaccia del totalitarismo, non si rifugia nell'incanto
solipsistico. E contro l'isolamento dei filosofi di cui deride la tribu'
malinconica e contro le folle anonime, invoca una vita politica capace di
garantire la liberta' di ciascuno nel legame della memoria e del racconto
rivolto agli altri". E ancora, ha proseguito, proprio perche' ha
diagnosticato nel totalitarismo un male radicale che ha osato dichiarare la
superfluita' della vita umana "Arendt ha difeso la vita a condizione che la
vita abbia un senso. La vita non come zoe', ma come bios, aperto a una
biografia che si faccia memoria della citta'". Per questo ha potuto vedere
in Eichmann la banalita' del male, ha spiegato Julia Kristeva, perche' ha
visto in lui l'incapacita' di pensare. Mentre lei, Arendt, "ha fatto della
sua lotta politica una battaglia filosofica per il pensiero: non il pensiero
che calcola, ma il pensiero che domanda, gusta, perdona".
La liberazione delle donne, che le ha portate all'interno della polis, ha
posto "il tema dell'eguaglianza o differenza dagli uomini. Questa e' stata
la grande domanda del ventesimo secolo. Il terzo millennio sara' quello
delle sfide individuali". Allora esiste un genio femminile? "E' questa
inquietudine sul femminile che ha permesso alla nostra civilta' di svelare,
in un cammino comune, che il genio e' incommensurabile e si manifesta solo
nel mettere a rischio pensiero linguaggio, tempo e ogni identita' che vi si
adagi".

8. INCONTRI. BIA SARASINI: NADINE GORDIMER, LA VERITA' NEL ROMANZO, LA
SPERANZA NELLA VITA QUOTIDIANA
[Dal sito "DeA donne e altri" (www.donnealtri.it) riprendiamo il seguente
articolo di Bia Sarasini del 5 giugno 2006. Nadine Gordimer e' una delle
piu' grandi scrittrici contemporanee, sudafricana, impegnata contro l'
apartheid, Premio Nobel per la letteratura. Opere di Nadine Gordimer: oltre
i suoi numerosi volumi di racconti e romanzi (tra cui: Un mondo di
stranieri, Occasione d'amore, Il mondo tardoborghese, Un ospite d'onore, La
figlia di Burger, Luglio, Qualcosa la' fuori, Storia di mio figlio,
L'aggancio, Sveglia, tutti presso Feltrinelli; Il bacio del soldato, presso
La Tartaruga) segnaliamo Vivere nell'interregno, Feltrinelli, Milano 1990;
Scrivere ed essere, Feltrinelli, Milano 1996. Opere su Nadine Gordimer: AA.
VV., Nadine Gordimer: a bibliography of primary and secondary sources,
1937-1992, Hans Zell, London 1994]

Bisogna saperlo che ha 82 anni, Nadine Gordimer, a vederla camminare dritta
come un fuso, elegante e sobria nella giacca nera di foggia orientale
portata sui larghi pantaloni chiari, i capelli non del tutto bianchi
raccolti dietro, il bel viso appena segnato, donna di un fascino speciale,
severo eppure sorridente. "Non sono una pop-star" dice ai fotografi per
farli smettere, "tutto quello che c'e' da sapere di uno scrittore si trova
nei suoi libri, il contatto personale e' un di piu' per nulla necessario". E
per rafforzare i suoi argomenti racconta di quando era una scrittrice alle
prime armi, e ando' per la prima volta a New York, invitata dal suo editore
di allora. "Mi trovai a pranzare con una scrittrice famosa, che amavo
moltissimo. Fu un vero disastro, perche' si presento' ubriaca, per tutto il
pranzo si ostino' a mangiare nel piatto di mio marito. Se questo e' essere
famosa, pensai, non voglio mai diventarlo".
La scrittrice sudafricana, premio Nobel della letteratura nel 1991, e' stata
a Roma per il Festival delle letterature, nello spazio suggestivo della
Basilica di Massenzio ha letto "Una donna frivola", racconto dedicato a una
donna immigrata in Sud Africa dalla Germania nazista, testo secondo lei
molto adatto al tema scelto quest'anno dal festival, naturale/artificiale.
Come adatto e' il suo ultimo romanzo, Sveglia (Feltrinelli, 176 pagine, 16
euro), storia di Paul Bannerman, un ambientalista impegnato nella
salvaguardia della natura, dalle acque alle foreste, che si ammala di cancro
alla tiroide, e in seguito alle cure diventa radioattivo, cioe' del tutto
artificiale: "E' vero, c'e' un conflitto molto ironico al centro di questo
romanzo. Un uomo dedito a salvare la natura, che pero' viene travolto dalla
malattia". E che per salvarsi, ha bisogno della forza delle donne intorno a
lui, che credono nella vita, a cominciare dalla moglie: "Se vuoi un altro
figlio dovrai trovarti un altro uomo", le aveva detto, quando era tornato a
casa, ma lei aveva continuato, ostinata, a non prendere precauzioni, fino a
mettere la mondo la creatura in cui lui non aveva creduto.
"Questa e' la piccola verita' che racconto oggi, quello che penso vada
detto" dice Gordimer, sempre convinta, come ha gia' detto in passato che "la
verita' si trova nel romanzo. Quando scrivo saggi, o anche quando parlo in
pubblico, c'e' sempre qualche preoccupazione, anche solo di farsi capire
bene. Questo in qualche modo e' gia' un'autocensura. Mentre nel romanzo sei
libero. E' stato Goethe a dire che lo scrittore va verso la verita' quando
chiude gli occhi e affonda le mani nella societa' in cui e' immerso. Se e'
vero che nel passato ho aiutato a far emergere un po' di verita'
sull'apartheid, anche ora ci sono mille situazioni che mi lasciano
scontenta".
Il che non significa che non sia felice del cambiamento avvenuto nel suo
paese: "La caduta dell'apartheid e' qualcosa per cui tutti abbiamo lavorato,
che tutti abbiamo sognato, eppure nessuno pensava di poterne un giorno
vedere la fine". Il presente pero' non manca di problemi: "Siamo come dopo
la caduta del muro di Berlino. C'e' stata una grande euforia, ci sono stati
canti, balli, bevute. Poi cosa succede dopo una notte di euforia? La mattina
dopo ci si sveglia con una gran mal di testa. In Sud Africa poi abbiamo
problemi maggiori. L'aids, naturalmente. E grandi differenze nel paese.
Nell'istruzione, nella situazione degli alloggi".
Per questo Nadine Gordimer e' critica: "Non credo sia sufficiente fare
interventi uguali per tutti. Le scuole dei bianchi erano quelle dotate di
aule, infrastrutture come piscine o campi da gioco. Ora rischia di rimanere
tutto come prima. Per non parlare delle abitazioni. Prima c'era la
segregazione, ma anche nelle citta' del Sud Africa democratico sorgono le
bidonville, case fatte coi materiali piu' improbabili, dove abitano solo i
neri". E neanche e' soddisfatta di quanto si fa per l'aids: "Il ministro
della salute e' una donna, ma questo non significa che non debba criticarla.
Non si fa abbastanza. Il numero dei morti e soprattutto dei sieropositivi e'
spaventoso. Si ha ancora paura di parlarne".
Ma non mancano motivi di speranza: "Il miracolo, un miracolo totalmente
umano, e' stato riuscire a evitare la guerra civile. Un miracolo che non
sarebbe avvenuto, se non ci fosse stato Nelson Mandela. E una forma di
riconoscimento va anche ai leader bianchi, che alla fine hanno ceduto, forse
spinti dalla consapevolezza che le sanzioni economiche internazionali
avrebbero distrutto la ricchezza del paese". Non tutti i paesi africani
hanno avuto la saggezza del Sudafrica, a proposito di riconciliazione e
perdono, ammette Gordimer: "Pero' vedo che il nostro presidente Thabo Mbeki
e' invitato a testimoniare, per esempio in Costa díAvorio, o in Zimbawe. Mi
sembra segno della volonta' di evitare la guerra civile".
Per Nadine Gordimer i piu' forti motivi di speranza vengono dalla vita
quotidiana: "Vicino a casa mia c'e' una scuola elementare. In passato era
frequentata solo da bambini bianchi. Oggi li vedo quando escono. Prima i
maschietti: si chiamano, si spingono, si rincorrono, fanno chiasso, bianchi
e neri, tutti insieme. Poi le femminucce, bianche e nere. Chiacchierano
fitto fitto, ridacchiano, si confidano segreti, come tutte le bambine del
mondo. E' una meraviglia vederli crescere fianco a fianco. Questa per me e'
la speranza. Perche' e' chiaro che c'e' ancora del razzismo, soprattutto tra
gli anziani. Ma questi bambini bianchi e neri crescono insieme. Il loro
sara' un paese diverso".

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1384 dell'11 agosto 2006

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