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La nonviolenza e' in cammino. 1384
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1384
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 11 Aug 2006 00:29:46 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1384 dell'11 agosto 2006 Sommario di questo numero: 1. Peppe Sini: La tomba di Periandro 2. Giuliana Sgrena: Ombre italiane 3. La parola disonesta 4. Parliamo d'altro 5. Uri Avnery: Scegliere la pace 6. Moni Ovadia: Yad Vashem 7. Bia Sarasini: Julia Kristeva, tre donne di genio nel Novecento, contro il "femminismo di massa" 8. Bia Sarasini: Nadine Gordimer, la verita' nel romanzo, la speranza nella vita quotidiana 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. LA TOMBA DI PERIANDRO Quel ministro afgano non era stato informato della grande menzogna imperante in Italia: che i nostri soldati non sono in Afghanistan come parte della coalizione che sta facendo la guerra, ma come turisti capitati per caso in quell'ameno esotico paese e visto che ci sono danno una mano a fare del bene, anzi del benissimo. O forse era stato informato, ma avra' pensato che lo stessero prendendo in giro; avra' detto sorridendo imbarazzato ai suoi italici callidissimi interlocutori: andiamo, signori miei, vi sembra il caso di scherzare su cose cosi' serie? Non poteva immaginare che da cinque anni in Italia il governo in carica (quale che sia il colore della casacca, il siglario e la retorica di cui s'ammanta il mandrino di volta in volta dicasterialmente assiso) fa la guerra ma dice al paese che sta facendo la pace; ne' poteva immaginare che l'intero parlamento italiano appoggia la guerra ma beninteso spacciandola per pace (con quattro sole eccezioni: tanti hanno votato contro la guerra di tutti i mille e passa fra senatori e deputati), facendo strame della legge fondamentale dello stato italiano, quella Costituzione che pure il popolo italiano ha voluto difendere con le unghie e con i denti ancora poche settimane fa; e non poteva infine immaginare che tutte le forze politiche italiane presenti dove si fanno le leggi sono unanimi nel fare la guerra, nel chiamarla pace, nel distruggere la base e la fonte stessa della legalita', nel perseverare nell'abominio delle stragi di cui la guerra consiste. * Subito dopo la rivelazione della nudita' del re, la solita solfa, la solita canea, la solita colluvie, la solita logorrea dei dichiaratori a ripetizione. Per smentire quello che smentire non si puo', poiche' il decreto parla chiaro, e tutte le posticce pupazzate della propaganda non possono nascondere l'effettuale realta': l'Italia e' pienamente coinvolta nella guerra afgana, con proprie forze armate sul terreno sotto comando Nato e con proprie unita' navali sotto comando Usa. L'Italia e' li' in palese violazione della legalita' italiana ed internazionale. l'Italia e' li' come complice dell'invasione e dell'occupazione, delle stragi della guerra infinita. L'Italia e' li' a far morire esseri umani. * E solo quattro parlamentari su mille si sono opposti alla guerra e alle stragi. E non c'e' un solo partito rappresentato in parlamento che si opponga. E non c'e' un solo giornale o televisione che si opponga. E dei diecimila movimenti sedicenti pacifisti quasi solo i medici scalzi di Emergency hanno continuato a opporsi alla guerra e alle stragi; e della marea di parole che tracima ogni giorno nella rete telematica quasi solo questo foglio e chi penosamente lo imbastisce ha continuato tutti i giorni a opporsi. Con la forza della verita'. E con un dolore ogni giorno crescente. * Tutte le guerre la stessa guerra. Tutti gli omicidi lo stesso omicidio. Vi e' una sola umanita'. 2. RIFLESSIONE. GIULIANA SGRENA: OMBRE ITALIANE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 agosto 2006. Giuliana Sgrena, giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005] Se la visita a Kabul della delegazione delle commissioni difesa di camera e senato doveva servire a manifestare il sostegno del parlamento alle nostre truppe, ha invece contribuito soprattutto a far sorgere nuovi fondati dubbi sulla nostra presenza militare in Afghanistan. Enduring freedom, uscita dalla porta di palazzo Madama, potrebbe rientrare dalla finestra di via XX settembre. Nonostante l'eccesso di zelo del ministro della difesa afghano Abdul Rahim Wardak, soddisfatto perche' "le forze italiane prenderanno parte alla missione nel sud dell'Afghanistan", sia stato subito smentito dai presidenti delle commissioni difesa, Roberta Pinotti e Sergio De Gregorio, tornano ad emergere molte delle preoccupazioni che avevano preceduto, a fine luglio, il voto sul rifinanziamento della missione militare. Alimentate anche dalle dichiarazioni del generale Fabrizio Castagnetti, comandante del Comando operativo del vertice interforze, confermate dal ministro della difesa Arturo Parisi. Se per ora infatti i nostri soldati resteranno a Kabul e a Herat - "il nostro contingente e' infatti impegnato e autorizzato ad operare negli stessi limiti geografici e operativi che hanno definito il suo ambito di intervento" - nel caso dovessero presentarsi situazioni straordinarie l'Isaf potrebbe chiedere un intervento italiano anche a sud. La richiesta, non improbabile visto che anche Karzai ha detto ieri di contare sull'impegno italiano nella lotta contro i taleban e i terroristi (che si trovano a sud) dovrebbe essere sottoposta al governo italiano, con l'accordo che la risposta deve arrivare entro 72 ore. Difficile immaginare che la parola possa tornare al parlamento in poche ore, visto il tormentone che ha caratterizzato il voto di luglio, quindi la discrezionalita' della decisione sarebbe rimessa esclusivamente nelle mani del governo. Discrezionalita' o ambiguita'? E le assicurazioni fatte ai parlamentari pacifisti? Occorre anche aggiungere - come ha ricordato il generale Castagnetti - che sono state rafforzate le regole di ingaggio: i militari potranno neutralizzare un gruppo ostile alla coalizione prima che spari e intervenire contro chi impedisce lo svolgimento di un'azione del contingente della Nato. Si tratta di una poco camuffata licenza di uccidere che mette a ulteriore rischio i soldati italiani anche se resteranno a Kabul e a Herat, prima ancora o senza che si dislochino a sud per combattere il terrorismo. Di livello di rischio "significativo" parla infatti un rapporto dell'intelligence italiana, che prevede una "possibile intensificazione dell'attivita' terroristica nei confronti di personale ed interessi della coalizione internazionale dell'Isaf, con conseguente maggiore esposizione anche del contingente italiano". Una recrudescenza determinata dall'espansione a sud dell'Isaf e dall'estendersi dell'effetto Iraq in Afghanistan. Sottovalutare o ignorare tali avvertimenti potrebbe essere catastrofico, come e' stato in Iraq. E intanto il governo italiano e' del tutto assente su un altro scenario di guerra, dove potrebbe cercare di giocare un ruolo positivo per fermare il massacro e la distruzione del Libano da parte di Israele. Per non parlare dei palestinesi che consumano la loro tragedia senza nemmeno godere piu' dell'attenzione dei media. 3. RIFLESSIONE. LA PAROLA DISONESTA Dal punto di vista della responsabilita' per l'uccisione degli afgani il fatto che la componente italiana dell'Isaf (che sotto comando Nato sta facendo la guerra per conto degli invasori americani, del governo di criminali di Kabul e dei narcotrafficanti contro i talebani, i quali beninteso sono non meno - ma neanche piu' - terroristi dei signori della guerra al governo e del neoimperialismo americano) se ne resti acquattata nelle retrovie mentre i soldati di altri paesi della medesima coalizione vanno ad uccidere e a farsi ammazzare al fronte, non e' un merito, ma solo una ulteriore ipocrisia e pusillanimita'. Dal punto di vista della minore esposizione degli italiani alla risposta armata afgana, certo, le retrovie sono preferibili al fronte. Ma a questo siamo giunti? Che l'Italia fa la guerra e poi spera che muoiano solo gli altri, e una volta garantito che i "nostri ragazzi" sono un po' meno esposti, allora tutti contenti? Ci rifiutiamo di credere che siamo diventati delle simili belve. Ma ci rifiutiamo anche di credere che i mille parlamentari che hanno sostenuto la guerra siano degli idioti. E allora, ahinoi, delle due l'una: o si rendevano conto di quel che votavano, ed hanno ugualmente deciso di votare per la guerra e le stragi; o sono degli insipienti nelle mani di burattinai senza scrupoli, americani e italiani, che possono manipolarli a piacimento. Scelgano loro come dobbiamo considerarli. In un caso e nell'altro la decisione governativa e parlamentare di rifinanziare la partecipazione italiana alla guerra afgana e' un crimine e un'infamia. Una violazione della Costituzione e un delitto in se'. Ne proviamo una vergogna, un disgusto, un dolore che nulla puo' estinguere. 4. RIFLESSIONE. PARLIAMO D'ALTRO E' calato in Italia il silenzio sull'Iraq, come se non ci riguardasse piu', come se non fossimo ancora li', come se non ci fossimo mai stati, come se anche in quella guerra l'Italia non fosse coinvolta. La guerra? Quale guerra? L'unica guerra in corso nel mondo e' quella in Libano, ci ripetono ossessivi tutti i mass-media, tutti i politicanti, tutti i galoppini. E certo la guerra intrapresa da Israele teoricamente contro le basi missilistiche e terroristiche Hezbollah, e di fatto contro il Libano e il suo popolo tutto, e' una follia e un crimine. Ma sono follia e crimine anche le altre guerre. E ne' l'una ne' le altre sconfiggeranno il terrorismo, poiche' sono esse stesse terrorismo e alimentatrici di terrorismo. Ma per i mass-media e gli araldi addetti alla propaganda di regime oggi c'e' solo la fornace libanese. E i morti in Iraq non sono piu' nulla. Non sono piu' nulla i morti in Afghanistan. Piu' nulla. Resta quasi solo Cindy Sheehan a serbarne memoria, a denunciare la prosecuzione delle stragi. Ecco da cosa riconosci i complici di tutte - tutte - le stragi: dall'uso spregiudicato che fanno di una guerra per nascondere le altre, di un cumulo di atrocita' altrui per occultare il cumulo delle proprie. Tutti i guerrieri, tutti i terroristi conducono la stessa guerra: contro l'umanita' intera. 5. RIFLESSIONE. URI AVNERY: SCEGLIERE LA PACE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 agosto 2006. Uri Avnery e' nato ad Hannover nel 1924, ed e' emigrato in Palestina all'avvento del nazismo; gia' militante dell'Haganah e combattente nella guerra del 1948; piu' volte parlamentare, giornalista, impegnato nell'opposizione democratica e nel dialogo col popolo palestinese; e' tra le voci più vive del movimento pacifista israeliano. Opere di Uri Avnery: Israele senza sionisti, Laterza, Bari 1970; Mio fratello, il nemico, Diffusioni 84, Milano 1988] Appena finira' la guerra verra' il giorno dei lunghi coltelli. Tutti, politici e militari, daranno la colpa a qualcun altro. I politici si daranno la colpa a vicenda. I generali lo stesso. I politici daranno la colpa ai generali. E, soprattutto, i generali daranno la colpa ai politici. Dopo ogni guerra, quando i generali falliscono, comincia a circolare la leggenda della "pugnalata alle spalle": se soltanto i politici non avessero fermato l'esercito proprio quando era sul punto di realizzare la sua gloriosa, storica, devastante vittoria... E' quel che successe in Germania dopo la prima guerra mondiale, e dalla leggenda nacque il movimento nazionalsocialista. E' quel che successe in America dopo il Vietnam. E' quel che succedera' qui: e' gia' nell'aria. La verita' e' che, finora, al ventinovesimo giorno di guerra, sul piano militare non e' stato raggiunto un solo obiettivo. Lo stesso esercito che impiego' sei giorni per mettere al tappeto tre grossi eserciti arabi nel 1967 non ce l'ha fatta a sgominare un piccola organizzazione "terrorista" in un lasso di tempo ormai piu' lungo di quello della guerra dello Yom Kippur. Allora, l'esercito ci mise venti giorni a trasformare una sconfitta senza precedenti in una sonora, indimenticabile vittoria militare. Sperando di dare l'idea di un qualche successo militare, i portavoce dell'esercito ci dicono che "abbiamo ucciso 200 (o 300, o 400, chi tiene piu' il conto?) dei mille guerriglieri Hezbollah". L'affermazione che l'intero terribile esercito Hezbollah consti soltanto di un migliaio di combattenti parla da sola. Stando ai corrispondenti, il presidente Bush e' frustrato. L'esercito israeliano non gli e' stato molto utile. Bush li ha mandati alla guerra credendo che il piu' potente degli eserciti, equipaggiato con le piu' potenti fra le armi americane, avrebbe finito il lavoro in qualche giorno, eliminando Hezbollah, consegnando il Libano alle redini americane, indebolendo l'Iran e magari facendo pure strada ad un cambio di regime in Siria. Ovvio che ora Bush sia arrabbiato. Ehud Olmert e' anche piu' arrabbiato. E' andato alla guerra di gran carriera ed a cuor leggero, perche' i generali dell'aviazione gli avevano promesso di distruggere Hezbollah e i loro razzi in pochi giorni. Adesso e' impantanato e senza prospettive di vittoria. Come al solito, al termine dei combattimenti (ma forse anche prima), comincera' la guerra dei generali. Gia' ne emergono le prime linee. I comandanti delle forze terrestri gia' incolpano il comandante in capo e tutta l'aviazione che, intossicata dal potere, aveva giurato di vincere tutto con le proprie forze: di bombardare, distruggere ponti, strade, quartieri residenziali, villaggi e... finito! I seguaci del comandante in capo e dell'aviazione incolperanno le forze terrestri, soprattutto il Comando nord. I loro portavoce nei media gia' dichiarano che e' un comando zeppo di ufficiali inetti, sbattuti lassu' soltanto perche' al nord si stava tranquilli mentre tutta la vera azione era al sud (Gaza) ed al centro (Cisgiordania). Gia' circolano le prime insinuazioni sul capo del Comando nord, Udi Adam, che sarebbe stato nominato soltanto perche' suo padre, Kuti Adam, venne ucciso durante la prima guerra libanese. Piu' o meno tutte queste accuse sono fondate: questa guerra e' fatta di fallimenti militari - per cielo, per terra e per mare. Sono fallimenti radicati nella tremenda arroganza nella quale siamo stati cresciuti, ormai nostro carattere dominante. Caratteristica delle nostre forze armate, raggiunge l'apice nell'aviazione. Per anni ci siamo detti che abbiamo l'esercito piu'-piu'-piu' del mondo intero. E non soltanto ci siamo convinti fra di noi, ma anche Bush ed il resto del mondo. Uno degli obiettivi dichiarati di questa guerra doveva essere proprio quello di riabilitare il potere deterrente dell'esercito israeliano. L'abbiamo proprio mancato. Perche', cosa e' successo? Il problema e' che l'altro aspetto della nostra arroganza e' costituito dal disprezzo nei confronti degli arabi. Adesso i nostri soldati stanno imparando a loro spese che i "terroristi" sono combattenti duri ed assai motivati, non un branco di drogati persi a sognare le loro vergini in paradiso. * Ma al di la' dell'arroganza, c'e' un problema militare di fondo: e' semplicemente impossibile vincere una guerra contro la guerriglia. L'abbiamo gia' visto restando per 18 anni in Libano. Poi ci siamo inevitabilmente arresi al ritiro. Adesso, dio solo sa cosa ha dato a questi generali l'infondata sicurezza nel ritenersi in grado di riuscire dove i loro predecessori hanno fallito. E soprattutto: nemmeno il miglior esercito al mondo potrebbe vincere una guerra priva di precisi obiettivi. Karl Von Clausewitz, guru della scienza militare, disse che "La guerra non e' altro che il proseguimento della politica con altri mezzi". Olmert e Peretz, due totali dilettanti, hanno rigirato il tutto: "la guerra non e' altro che la continuazione dell'assenza di politica con altri mezzi". Chiaramente e' un problema di leadership politica. Quindi le colpe principali verranno deposte ai piedi dei due gemelli siamesi, Olmert e Peretz. Hanno ceduto alla tentazione del momento trascinando tutto il paese in guerra - una decisione intempestiva, sconsiderata e priva di scrupoli. Come ha gia' scritto Nehemia Strassler in "Haaretz": si sarebbero potuti fermare dopo due o tre giorni, quando tutto il mondo asseriva che la provocazione di Hezbollah giustificava la risposta israeliana e nessuno ancora dubitava della potenza del nostro esercito. L'intera operazione sarebbe apparsa sensata, sobria e proporzionata. Ma Olmert e Peretz non sono riusciti a fermarsi. Come due babbei, non si sono resi conto che delle millanterie dei generali non ci si puo' fidare, che neanche i piu' brillanti piani militari sono degni della carta sulla quale sono scritti, che in guerra l'imprevedibile va previsto, che niente e' piu' effimero delle glorie di guerra. Intossicati dalla fama di guerra, istigati da un gregge di giornalisti scodinzolanti, la gloria di condottieri ha dato loro alla testa. Olmert si e' eccitato coi suoi stessi discorsi cosi' incredibilmente kitsch, provati e riprovati di fronte ai suoi tirapiedi. Quanto a Peretz, sembra quasi si sia messo di fronte allo specchio a rimirarsi gia' come fosse il prossimo primo ministro, il prossimo Mister security, un nuovo Ben Gurion. Cosi', come i due idioti del villaggio, si sono messi alla testa di questo carnevale di folli, diritti verso il fallimento politico e militare. Ne pagheranno il prezzo un volta finita la guerra. * Come andra' a finire questo disastro? All'inizio della guerra il governo ha furiosamente respinto qualsiasi ipotesi di dispiegamento di forze internazionali al confine. L'esercito riteneva che una simile forza avrebbe ostacolato le sue operazione e neanche sarebbe bastata per proteggere Israele. Adesso, improvvisamente, il dispiegamento di una simile forza e' diventato uno dei motivi principali di questa guerra. Il che costituisce, naturalmente, una scusa un po' triste; qualsiasi forza internazionale potra' essere dispiegata soltanto previo accordo con Hezbollah. Nessun paese spedirebbe i propri uomini a combattere contro la popolazione locale. E dappertutto, al confine, gli sciiti faranno ritorno ai propri villaggi - compresi i guerriglieri Hezbollah. Quindi, la forza di peacekeeping sara' totalmente subordinata agli accordi con Hezbollah. Altrimenti, bastera' l'esplosione di una bomba sotto un bus pieno di francesi,ed ecco levarsi l'urlo da Parigi: "Riportate a casa i nostri ragazzi!". Come e' successo quando vennero bombardati a Beirut i marines americani. I tedeschi, poi, che hanno scioccato il mondo opponendosi al cessate-il-fuoco, figuriamoci se manderanno i soldati al confine con Israele. Ma, ancora piu' importante: niente impedira' ad Hezbollah di lanciare i propri razzi sopra le teste della forza internazionale, come e quando vorranno. E allora, che fara' la forza di peacekeeping? Conquistera' tutta l'area fino a Beirut? Ed Israele che fara'? Olmert vuole che la forza internazionale si occupi di controllare anche il confine siro-libanese. Il che e', ovviamente, illusorio, trattandosi di un confine che si estende per l'intero nord-est del Libano: chiunque voglia infiltrare armi dovra' soltanto tenersi lontano dai principali raccordi stradali, che poi saranno gli unici ad essere pattugliati. Dopodiche' ci saranno centinaia di stradine percorribili. Con la dovuta tangente, tutto e' fattibile in Libano. Dunque, alla fine di questa guerra, ci ritroveremo piu' o meno allo stesso punto di prima quando ancora non erano stati uccisi un migliaio di libanesi e molti israeliani, prima dello sfratto di un milione di esseri umani dalle proprie case, prima della distruzione di migliaia e migliaia di case fra Libano ed Israele. Dopo la guerra, l'entusiasmo scemera', gli abitanti del nord torneranno alle loro case leccandosi le ferite, l'esercito aprira' un'inchiesta sui propri fallimenti. Tutti sosterranno di esser stati contrari a questa guerra fin dall'inizio. L'unica soluzione che si profila dunque e': cacciar via Olmert, far fare le valigie a Peretz e licenziare Halutz. E finalmente imbarcarsi in un nuovo corso politico, l'unico che possa veramente risolvere tutti i problemi: negoziare con i palestinesi, con i libanesi e con i siriani. E con Hamas ed Hezbollah. Perche' la pace la si fa soltanto con i nemici. 6. RIFLESSIONE. MONI OVADIA: YAD VASHEM [Dal sito www.peacereporter.net riprendiamo questo intervento gia' apparso sul quotidiano "L'Unita'" del 5 agosto 2006. Moni Ovadia e' nato a Plovdid in Bulgaria nel 1946, ricercatore, musicista, regista teatrale e interprete, ha dato uno straordinario contributo alla conoscenza nel nostro paese della cultura yiddish. Autore di vari libri, segnaliamo in particolare Oylem Goylem, Mondadori, Milano 1998] Yad Vashem e' il museo dell'Olocausto di Gerusalemme, il sacrario della Shoa', ma per gli israeliani e' ben altro che questo. Quel luogo e' per molti aspetti, il topos del senso stesso dell'esistenza di Israele come stato ebraico. Ogni cittadino, ogni fanciullo, ogni soldato, si reca in pellegrinaggio in quel luogo per assumere il pieno statuto identitario di ebreo israeliano. Ogni persona, dal semplice turista o viaggiatore, al piu' illustre politico in visita in Israele, quale che sia la ragione della sua presenza, sa che ha il dovere di rendere omaggio alle vittime dello sterminio nazista recandosi a Yad Vashem. Con quel solenne pellegrinaggio, il visitatore riconosce il suggello con cui lo stato d'Israele assume su di se' un'intera eredita'. Per un grandissimo numero di ebrei che si riconoscono nelle istituzioni ufficiali, Israele diviene acriticamente e senza mediazioni, passato, presente e futuro. Per essi la diaspora perde significato in se' per divenire appendice di un ritorno in pectore anche se procrastinato sine die. Di fatto, essi si sentono israeliani in standby. Le recenti drammatiche vicende mediorientali, richiedono una rimessa in questione di questi assetti israelo-ebraici e delle dinamiche psicologico-culturali che vi sottostanno. Il movimento sionista ha avuto fra i suoi obiettivi primari quello di normalizzare gli ebrei, collocandoli in una terra con la quale avevano un antico legame e facendone un popolo come gli altri. Quando il primo ebreo fu arrestato per furto e messo in prigione nella neonata entita' statuale ebraica, il padre fondatore e primo capo del governo, David Ben Gurion, esulto': "Siamo un paese normale". Mai affermazione fu piu' rovinosamente scentrata. Israele e' tutto fuorche' un paese "normale". La sua collocazione geografica e' in Medio Oriente ma in questo momento la sua vocazione e' occidentale. Per certi aspetti potrebbe essere uno stato degli Stati Uniti, anche se piu' di meta' della sua popolazione viene da stati arabi e il 17% di essa e' arabo-palestinese. La sua politica, in grande misura coincide con quella delle amministrazioni americane. E' stato fondato da scampati alle persecuzioni antisemite zariste e degli stati autoritari centro-orientali e da sopravvissuti alla Shoa', ha dunque piena titolarita' a quella eredita', ma gli ebrei sterminati dai nazisti erano quanto c'e' di piu' lontano da quello che e' oggi l'ebreo israeliano. Quelli parlavano lo yiddish ed erano a proprio agio in molte altre lingue, vivevano a cavallo dei confini, erano cosmopoliti, ubiqui, inquieti, refrattari alle logiche militari, poco interessati, quando non ostili ai nazionalismi, erano smunti, fragili, dediti allo studio, alle professioni liberali, intellettuali, al piccolo o grande commercio, appartenevano alla categoria dei paria perseguitati emarginati, erano dalla parte degli sconfitti. L'israeliano delle nuove generazioni si esprime in ebraico moderno, una lingua costruita desantificando l'ebraico biblico e piegandolo alle esigenze di una nazione e la sua seconda lingua e' l'inglese. L'israeliano sta con i vincitori, e' forte, determinato, orgogliosamente nazionale, militarmente molto preparato, capace di essere agricoltore e soldato quanto intellettuale e tecnico, ma anche taxista, ingegnere, negoziante o impiegato, operaio e persino occupante e poliziotto di un altro popolo, cosa inconcepibile per un ebreo della diaspora che subi' lo sterminio. Oggi, che nuovamente un leader fanatico di un paese islamico chiede la cancellazione dello stato sionista dalla carta geografica, in Israele e nella diaspora, si evoca il legame con la Shoa' in modo univoco e schematico quasi a volere stabilire un parallelo inaccettabile con il ghetto di Varsavia. Ma ancorche' Israele viva in stato di grande difficolta' e subisca il terrorismo e l'aggressione di Hezbollah sulla carne della propria gente, pensare di rappresentare la tragica eredita' dello sterminio solo con un modello rigido per giustificare l'uso indiscriminato della propria soverchia forza militare e radere al suolo intere citta' provocando quasi esclusivamente morti civili, e' scambiare etica per propaganda. Se Israele vuole assumere l'eredita' di quell'ebraismo ridotto in cenere, deve assumerne la piena eredita' morale, cessare di vessare ed imprigionare un altro popolo, diventare piu' piccolo, molto piu' democratico, abbandonare la mistica della potenza, diventare leader del processo di pace ed assumere la funzione di ponte fra occidente e medio oriente. 7. INCONTRI. BIA SARASINI: JULIA KRISTEVA, TRE DONNE DI GENIO NEL NOVECENTO, CONTRO IL "FEMMINISMO DI MASSA" [Dal sito "DeA donne e altri" (www.donnealtri.it) riprendiamo il seguente articolo di Bia Sarasini del 13 aprile 2006. Bia Sarasini, prestigiosa giornalista, intellettuale femminista, ha diretto "Noi donne" ed e' cofondatrice del sito "DeA". Julia Kristeva e' nata a Sofia in Bulgaria nel 1941, si trasferisce a Parigi nel 1965; studi di linguistica con Benveniste; intensa collaborazione con Sollers e la rivista "Tel Quel"; impegnata nel movimento delle donne, psicoanalista, ha dedicato una particolare attenzione alla pratica della scrittura ed alla figura della madre; e' docente all'Universita' di Paris VII. Opere di Julia Kristeva: tra quelle tradotte in italiano segnaliamo particolarmente: Semeiotike', Feltrinelli, Milano; Donne cinesi, Feltrinelli, Milano; La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia; In principio era l'amore, Il Mulino, Bologna; Sole nero, Feltrinelli, Milano; Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano; I samurai, Einaudi, Torino; Colette, Donzelli, Roma; Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli, Roma. In francese: presso Seuil: Semeiotike', 1969, 1978; La revolution du langage poetique, 1974, 1985; (AA. VV.), La traversee des signes, 1975; Polylogue, 1977; (AA. VV.), Folle verite', 1979; Pouvoirs de l'horreur, 1980, 1983; Le langage, cet inconnu, 1969, 1981; presso Fayard: Etrangers a nous-memes, 1988; Les samourais, 1990; Le vieil homme et les loups, 1991; Les nouvelles maladies de l'ame, 1993; Possessions, 1996; Sens et non-sens de la revolte, 1996; La revolte intime, 1997; presso Gallimard, Soleil noir, 1987; Le temps sensible, 1994; presso Denoel: Histoires d'amour, 1983; presso Mouton, Le texte du roman, 1970; presso le Editions des femmes, Des Chinoises, 1974; presso Hachette: Au commencement etait l'amour, 1985. Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (www.emsf.rai.it) riprendiamo la seguente scheda: "Julia Kristeva e' nata il 24 giugno 1941 a Silven, Bulgaria. Nel 1963 si diploma in filologia romanza all'Universita' di Sofia, Bulgaria. Nel 1964 prepara un dottorato in letteratura comparata all'Accademia delle Scienze di Sofia; nel 1965 ottiene una borsa di studio nel quadro di accordi franco-bulgari e dopo il 1965 prosegue gli studi e il lavoro di ricerca in Francia all'Ecole Pratique des Hautes Etudes. Nel 1968 consegue il dottorato sotto la direzione di Lucien Goldmann (con Roland Barthes e J. Dubois). Sempre nel 1968 e' eletta segretario generale dell'Association internationale de semiologie ed entra nel comitato di redazione del suo organo, la rivista 'Semiotica'. Nel 1973 consegue il dottorato di stato in lettere sotto la direzione di J. C. Chevalier. Dal 1967 al 1973 e' ricercatrice al Cnrs di linguistica e letteratura francese, al Laboratoire d'anthropologie sociale, al College de France e all'Ecole des Hautes Etudes en sciences sociales. Nel 1972 tiene un corso di linguistica e semiologia all'Ufr di Letteratura, scienze dei testi e documenti dell'Universita' Paris VII 'Denis Diderot'. E' nominata direttore del Dea di Etudes Litteraires. Nel 1974 viene eletta Permanent visiting professor al Dipartimento di letteratura francese della Columbia University, New York. Nel 1988 e' responsabile del Draps (Diplome de recherches approfondies en psycopathologie et semiologie). Nel 1992 e' nominata direttore della Scuola di dottorato "Langues, litteratures et civilisations, recherches transculturelles: monde anglophone - monde francophone", all'Universita' di Paris VII 'Denis Diderot' e Permanent Visiting Professor al Dipartimento di Letteratura comparata dell'Universita' di Toronto, Canada. Nel 1993 e' nominata membro del comitato scientifico, che affianca il ministro dell'educazione nazionale. Attualmente e' professoressa all'Universita' Paris VII 'Denis Diderot'. Dal 1978 dopo una psicoanalisi personale e una analisi didattica presso l'Institut de psychanalyse, esercita come psicoanalista. Gli interessi scientifici di Julia Kristeva vanno dalla linguistica alla semiologia, alla psicoanalisi, alla letteratura del XIX secolo. Esponente di spicco della corrente strutturalista francese e in particolare del gruppo di 'Tel Quel', che ha sviluppato in Francia le ricerche iniziate dai formalisti russi negli anni Venti e continuate dal Circolo linguistico di Praga e da Jakobson, Julia Kristeva ritiene che la semiotica sia la scienza pilota nel campo delle cosiddette 'scienze umane'. Pervenuta oggi a un'estrema formalizzazione, in cui la nozione stessa di segno si dissolve, la semiotica si deve rivolgere alla psicoanalisi per rimettere in questione il soggetto senza di cui la lingua come sistema formale non si realizza nell'atto di parola, indagare la diversita' dei modi della significazione e le loro trasformazioni storiche, e costituirsi infine come teoria generale della significazione, intesa non come semplice estensione del modello linguistico allo studio di ogni oggetto fornito di senso, ma come una critica del concetto stesso di semiosi. Opere di Julia Kristeva: Semeiotike'. Recherches pour une semanalyse, Seuil, Paris 1969; Le texte du roman, Mouton, La Haye 197l; La revolution du language poetique. L'avant-garde a' la fin du XIX siecle: Lautreamont et Mallarme', Seuil, Paris 1974; Des chinoises, Editions des femmes, Paris l974; Polylogue, Seuil, Paris 1977; Pouvoirs de l'horreur. Essai sur l'abjection, Seuil, Paris 1980; Le language, cet inconnu. Une initiation a' la linguistique, Seuil, Paris 198l; Soleil noir. Depression et melancolie, Gallimard, Paris 1987; Les Samourais, Fayard, Paris 1990; Le temps sensible. Proust et l'experience litteraire, Gallimard, Paris l994. Numerosi articoli di Julia Kristeva sono apparsi sulle riviste 'Tel Quel', 'Languages', 'Critique', 'L'Infini', 'Revue francaise de psychanalyse', 'Partisan Review', 'Critical Inquiry' e molte altre. Tra le opere della Kristeva tradotte in italiano, ricordiamo: Semeiotike'. Ricerche per una semanalisi, Feltrinelli, Milano 1978; La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia 1979; Storia d'amore, Editori Riuniti, Roma 1985; Sole nero. Depressione e melanconia, Feltrinelli, Milano 1986; In principio era l'amore. Psicoanalisi e fede, Il Mulino, Bologna 1987; Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano; Poteri dell'orrore, Spirali/Vel, Venezia; I samurai, Einaudi, Torino 1991; La donna decapitata, Sellerio, Palermo 1997". Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l 'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen (1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e' apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2. 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita' e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 2005. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000. Sidonie-Gabrielle Colette (1873-1954) e' stata la piu' apprezzata scrittrice francese della prima meta' del Novecento. Melanie Klein, illustre psicoanalista (Vienna 1882 - Londra, 1960). Opere di Melanie Klein: Scritti (1921-1958), Boringhieri, Torino 1978; La psicoanalisi dei bambini, Martinelli, Firenze 1970; Nuove vie della psicoanalisi, Il Saggiatore, Milano 1982; Il nostro mondo adulto ed altri saggi, Martinelli, Firenze 1972; Invidia e gratitudine, Martinelli, Firenze 1969; Analisi di un bambino, Boringhieri, Torino 1961. Opere su Melanie Klein: Hanna Segal, Introduzione all'opera di Melanie Klein, Martinelli, Firenze 1968; Hanna Segal, Melanie Klein, Bollati Boringhieri, Torino 1981, 1994; Franco Fornari (a cura di), Fantasmi, gioco e societa', Il Saggiatore, Milano 1976] E' stato un incontro appassionante quello che si e' avuto a Roma con Julia Kristeva, festeggiata per la traduzione della sua trilogia dedicata al genio femminile. Si tratta di tre libri dedicati rispettivamente a Hannah Arendt, Melanie Klein, Colette, pubblicati in Italia da Donzelli che per questa opera in corso di completamento (manca ancora all'appello il volume dedicato a Melanie Klein), ha ottenuto il premio Amelia Rosselli 2005, destinato dall'assessorato alle pari opportunita' del Comune di Roma alle case editrici che valorizzano la creativita' femminile. "Per presentarmi" ha detto Julia Kristeva, un'intellettuale speciale, di quelle che non si limitano a un unico terreno di studio, "devo dire che sono cresciuta in Bulgaria, sono francese e ho la cittadinanza europea, ma un pezzo della mia esistenza e' radicato in America". Una nomade, dunque, della vita e del pensiero, che in un percorso singolare, dallo studio della letteratura a talento riconosciuto della semiotica, di cui ha studiato con Roland Barthes, l'ha portata verso la psicoanalisi. Per cui dalla fine degli anni Settanta accanto all'insegnamento all'Universita' Paris VII esercita come psicoanalista. Sole nero. Depressione e melanconia (Feltrinelli), In principio era l'amore. Psicoanalisi e fede (Il Mulino), Stranieri a se stessi (Feltrinelli) sono alcuni dei libri pubblicati in italiano, oltre i romanzi I samurai (Einaudi) e La donna decapitata (Sellerio), titoli che testimoniamo della pluralita' dei suoi interessi, con un filo rosso a legarli: la passione per il legame che si crea tra la vita, i sentimenti, le persone, la parola. Come avviene soprattutto nelle donne. "E' nell'affermazione di un io inseparabile dai legami, siano questi politici, psichici, sensoriali, amorosi, scritti, che sono tentata di leggere una costante della psicosessualita' femminile", ha detto nella sala affollata non solo di donne a Roma. "Anche quando si ribella agli impedimenti, alle costrizioni, alle prigioni, e a tutte le altre forme di concentrazione sociale che ci banalizzano", ha continuato, "la donna si dedica senza sosta, in legame con l'oggetto, a reinventare costantemente le condizioni necessarie per la liberta' psichica e politica". Un discorso alto e difficile, dunque, testimonianza di un pensiero originale, anche nelle premesse. "Non ho mai amato il femminismo di massa, che punta a liberare tutte le donne. C'e' un elemento di totalitarismo, come nel Terrore, che voleva liberare tutti i borghesi, o l'Ottobre, con i proletari". Per questo ha scritto del genio femminile: "Una provocazione, per mettere a fuoco la singolarita', l'opera di alcune donne straordinarie che attraverso la loro vita e la loro opera hanno segnato la storia di questo secolo. In questo modo faccio appello alla singolarita' di ciascuna". A cominciare dallo studio su Hannah Arendt, di cui e' appena uscita l'edizione italiana (Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli, 296 pagine, 23 euro). Arendt, la filosofa che "preoccupata di difendere la singolarita' dalla minaccia del totalitarismo, non si rifugia nell'incanto solipsistico. E contro l'isolamento dei filosofi di cui deride la tribu' malinconica e contro le folle anonime, invoca una vita politica capace di garantire la liberta' di ciascuno nel legame della memoria e del racconto rivolto agli altri". E ancora, ha proseguito, proprio perche' ha diagnosticato nel totalitarismo un male radicale che ha osato dichiarare la superfluita' della vita umana "Arendt ha difeso la vita a condizione che la vita abbia un senso. La vita non come zoe', ma come bios, aperto a una biografia che si faccia memoria della citta'". Per questo ha potuto vedere in Eichmann la banalita' del male, ha spiegato Julia Kristeva, perche' ha visto in lui l'incapacita' di pensare. Mentre lei, Arendt, "ha fatto della sua lotta politica una battaglia filosofica per il pensiero: non il pensiero che calcola, ma il pensiero che domanda, gusta, perdona". La liberazione delle donne, che le ha portate all'interno della polis, ha posto "il tema dell'eguaglianza o differenza dagli uomini. Questa e' stata la grande domanda del ventesimo secolo. Il terzo millennio sara' quello delle sfide individuali". Allora esiste un genio femminile? "E' questa inquietudine sul femminile che ha permesso alla nostra civilta' di svelare, in un cammino comune, che il genio e' incommensurabile e si manifesta solo nel mettere a rischio pensiero linguaggio, tempo e ogni identita' che vi si adagi". 8. INCONTRI. BIA SARASINI: NADINE GORDIMER, LA VERITA' NEL ROMANZO, LA SPERANZA NELLA VITA QUOTIDIANA [Dal sito "DeA donne e altri" (www.donnealtri.it) riprendiamo il seguente articolo di Bia Sarasini del 5 giugno 2006. Nadine Gordimer e' una delle piu' grandi scrittrici contemporanee, sudafricana, impegnata contro l' apartheid, Premio Nobel per la letteratura. Opere di Nadine Gordimer: oltre i suoi numerosi volumi di racconti e romanzi (tra cui: Un mondo di stranieri, Occasione d'amore, Il mondo tardoborghese, Un ospite d'onore, La figlia di Burger, Luglio, Qualcosa la' fuori, Storia di mio figlio, L'aggancio, Sveglia, tutti presso Feltrinelli; Il bacio del soldato, presso La Tartaruga) segnaliamo Vivere nell'interregno, Feltrinelli, Milano 1990; Scrivere ed essere, Feltrinelli, Milano 1996. Opere su Nadine Gordimer: AA. VV., Nadine Gordimer: a bibliography of primary and secondary sources, 1937-1992, Hans Zell, London 1994] Bisogna saperlo che ha 82 anni, Nadine Gordimer, a vederla camminare dritta come un fuso, elegante e sobria nella giacca nera di foggia orientale portata sui larghi pantaloni chiari, i capelli non del tutto bianchi raccolti dietro, il bel viso appena segnato, donna di un fascino speciale, severo eppure sorridente. "Non sono una pop-star" dice ai fotografi per farli smettere, "tutto quello che c'e' da sapere di uno scrittore si trova nei suoi libri, il contatto personale e' un di piu' per nulla necessario". E per rafforzare i suoi argomenti racconta di quando era una scrittrice alle prime armi, e ando' per la prima volta a New York, invitata dal suo editore di allora. "Mi trovai a pranzare con una scrittrice famosa, che amavo moltissimo. Fu un vero disastro, perche' si presento' ubriaca, per tutto il pranzo si ostino' a mangiare nel piatto di mio marito. Se questo e' essere famosa, pensai, non voglio mai diventarlo". La scrittrice sudafricana, premio Nobel della letteratura nel 1991, e' stata a Roma per il Festival delle letterature, nello spazio suggestivo della Basilica di Massenzio ha letto "Una donna frivola", racconto dedicato a una donna immigrata in Sud Africa dalla Germania nazista, testo secondo lei molto adatto al tema scelto quest'anno dal festival, naturale/artificiale. Come adatto e' il suo ultimo romanzo, Sveglia (Feltrinelli, 176 pagine, 16 euro), storia di Paul Bannerman, un ambientalista impegnato nella salvaguardia della natura, dalle acque alle foreste, che si ammala di cancro alla tiroide, e in seguito alle cure diventa radioattivo, cioe' del tutto artificiale: "E' vero, c'e' un conflitto molto ironico al centro di questo romanzo. Un uomo dedito a salvare la natura, che pero' viene travolto dalla malattia". E che per salvarsi, ha bisogno della forza delle donne intorno a lui, che credono nella vita, a cominciare dalla moglie: "Se vuoi un altro figlio dovrai trovarti un altro uomo", le aveva detto, quando era tornato a casa, ma lei aveva continuato, ostinata, a non prendere precauzioni, fino a mettere la mondo la creatura in cui lui non aveva creduto. "Questa e' la piccola verita' che racconto oggi, quello che penso vada detto" dice Gordimer, sempre convinta, come ha gia' detto in passato che "la verita' si trova nel romanzo. Quando scrivo saggi, o anche quando parlo in pubblico, c'e' sempre qualche preoccupazione, anche solo di farsi capire bene. Questo in qualche modo e' gia' un'autocensura. Mentre nel romanzo sei libero. E' stato Goethe a dire che lo scrittore va verso la verita' quando chiude gli occhi e affonda le mani nella societa' in cui e' immerso. Se e' vero che nel passato ho aiutato a far emergere un po' di verita' sull'apartheid, anche ora ci sono mille situazioni che mi lasciano scontenta". Il che non significa che non sia felice del cambiamento avvenuto nel suo paese: "La caduta dell'apartheid e' qualcosa per cui tutti abbiamo lavorato, che tutti abbiamo sognato, eppure nessuno pensava di poterne un giorno vedere la fine". Il presente pero' non manca di problemi: "Siamo come dopo la caduta del muro di Berlino. C'e' stata una grande euforia, ci sono stati canti, balli, bevute. Poi cosa succede dopo una notte di euforia? La mattina dopo ci si sveglia con una gran mal di testa. In Sud Africa poi abbiamo problemi maggiori. L'aids, naturalmente. E grandi differenze nel paese. Nell'istruzione, nella situazione degli alloggi". Per questo Nadine Gordimer e' critica: "Non credo sia sufficiente fare interventi uguali per tutti. Le scuole dei bianchi erano quelle dotate di aule, infrastrutture come piscine o campi da gioco. Ora rischia di rimanere tutto come prima. Per non parlare delle abitazioni. Prima c'era la segregazione, ma anche nelle citta' del Sud Africa democratico sorgono le bidonville, case fatte coi materiali piu' improbabili, dove abitano solo i neri". E neanche e' soddisfatta di quanto si fa per l'aids: "Il ministro della salute e' una donna, ma questo non significa che non debba criticarla. Non si fa abbastanza. Il numero dei morti e soprattutto dei sieropositivi e' spaventoso. Si ha ancora paura di parlarne". Ma non mancano motivi di speranza: "Il miracolo, un miracolo totalmente umano, e' stato riuscire a evitare la guerra civile. Un miracolo che non sarebbe avvenuto, se non ci fosse stato Nelson Mandela. E una forma di riconoscimento va anche ai leader bianchi, che alla fine hanno ceduto, forse spinti dalla consapevolezza che le sanzioni economiche internazionali avrebbero distrutto la ricchezza del paese". Non tutti i paesi africani hanno avuto la saggezza del Sudafrica, a proposito di riconciliazione e perdono, ammette Gordimer: "Pero' vedo che il nostro presidente Thabo Mbeki e' invitato a testimoniare, per esempio in Costa díAvorio, o in Zimbawe. Mi sembra segno della volonta' di evitare la guerra civile". Per Nadine Gordimer i piu' forti motivi di speranza vengono dalla vita quotidiana: "Vicino a casa mia c'e' una scuola elementare. In passato era frequentata solo da bambini bianchi. Oggi li vedo quando escono. Prima i maschietti: si chiamano, si spingono, si rincorrono, fanno chiasso, bianchi e neri, tutti insieme. Poi le femminucce, bianche e nere. Chiacchierano fitto fitto, ridacchiano, si confidano segreti, come tutte le bambine del mondo. E' una meraviglia vederli crescere fianco a fianco. Questa per me e' la speranza. Perche' e' chiaro che c'e' ancora del razzismo, soprattutto tra gli anziani. Ma questi bambini bianchi e neri crescono insieme. Il loro sara' un paese diverso". 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1384 dell'11 agosto 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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