La nonviolenza e' in cammino. 1382



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1382 del 9 agosto 2006

Sommario di questo numero:
1. Cindy Sheehan: La connessione dei cuori
2. Robi Damelin: Non ci sono vincitori, solo cuori spezzati
3. Barbara Spinelli: Il sonno dogmatico
4. Da una lettera di Sinide Corinzio all'amica sua Eleuteria
5. Zia Jaffrey: Una storia vera a Johannesburg
6. Rosa Luxemburg: La cosa piu' fatale
7. Agnes Heller: Quattro massime
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: LA CONNESSIONE DEI CUORI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di
Cindy Sheehan al trentaquattresimo giorno di digiuno contro la guerra.
Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il
mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George
Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per
chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e alla
sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento
contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro Not One More
Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel sito
www.koabooks.com
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]

Giusto un anno fa, il 7 agosto, in cento sfilammo lungo la Prairie Chapel
Road, nel terribile calore texano, ed entrammo nella storia. Oggi, notati
assai meno, abbiamo marciato lungo la stessa strada, ottenendo il medesimo
risultato: il cowboy codardo, detto anche "vorrei essere il capo", non ci
incontrera'.
Dall'inizio di Camp Casey nell'agosto dello scorso anno, ho viaggiato per
migliaia di miglia in tutto il mondo. Sono stata in undici paesi stranieri e
in piu' della meta' degli stati americani. Ho incontrato capi di stato e
parlamentari, ho parlato in centinaia di conferenze e ho sfilato con
centinaia di migliaia di pacifisti in tutto il mondo. Ho ricevuto chiavi di
citta', riconoscimenti ufficiali, onorificenze parlamentari e una nomination
al premio Nobel per la pace.
Ho coronato quest'anno con una visita ad Amman, in Giordania, dove l'altro
giorno abbiamo incontrato parlamentari iracheni ed attivisti per i diritti
umani che ci hanno parlato del loro paese e delle loro richieste di pace.
Ogni singolo iracheno che abbiamo incontrato e' stato terribilmente ferito
dall'invasione statunitense e dall'occupazione dell'Iraq. Uno sceicco che
abbiamo incontrato ha avuto la porta di casa sfondata ed e' stato trascinato
in prigione mentre i soldati stupravano sua moglie. Nel frattempo, il loro
figlio adolescente era costretto a guardare. Lo sceicco e' stato torturato
in modo tale da non essersi ancora ripreso a tutt'oggi dalle ferite.
Io mi sono scusata con lui, in nome degli esseri umani che aborrono la
tortura e l'abuso di un essere umano da parte di un altro, e lui ci ha
raccontato il seguito orrendo della storia: il sogno di suo figlio e' di
comprarsi un fucile estremamente potente e di uccidere piu' americani
possibile prima di essere ucciso lui stesso. Ma dopo aver parlato con noi,
ha aggiunto, e' sicuro di riuscire a convincere suo figlio ad abbandonare
questo proposito, perche' potra' assicurargli che vi sono statunitensi a cui
tutto cio' importa. Io penso che se mio figlio avesse visto suo padre
torturato e sua madre abusata sessualmente da una forza di occupazione,
avrebbe avuto probabilmente la stessa reazione. Vi assicuro, dopo aver
parlato con tanti iracheni ed altri che vivono in Medio Oriente, che non
abbiamo affatto conquistato ne' i loro cuori ne' le loro menti.
*
All'aeroporto Queen Alia di Amman, verso le 20 ore di aereo necessarie per
giungere a Crawford, sono arrivata con il taxi di Abu Salem. Abu Salem e' un
palestinese che vive ad Amman da oltre vent'anni, ed e' un attivista per i
diritti umani. La sua famiglia e' stata abbastanza fortunata da fuggire
dall'oppressione e riparare in Giordania, dove vivono oltre un milione di
palestinesi. Abu Salem aveva le lacrime agli occhi mentre mi raccontava
quanto la Palestina gli manchi. Abbiamo parlato di come noi si sia tutti
simili dentro, non importa che colore abbiamo, che religione professiamo,
che lingua parliamo, o dentro quali confini artificiali siamo
accidentalmente nati. Abbiamo tutti gli stessi cuori. E tutti i nostri cuori
sono connessi.
Quando, pur con difficolta', ho detto ad Abu Salem che persino il cuore di
George Bush era connesso ai nostri, ho pensato che sfasciasse il taxi contro
qualcosa. Ha urlato: "Al diavolo Bush! Quell'uomo non ha cuore, e' un
demonio!". Ho replicato sommessamente, mentre io stessa capivo qualcosa di
nuovo: "No, Abu Salem, il suo cuore e' connesso ai nostri. Il suo cuore lo
ha solo dimenticato".
Non ha importanza quanto io lotti con questo fatto, ma anche George Bush e'
un essere umano. Non ha importanza quanto si sia allontanato dalla sua
stessa umanita', e quanto sembri sguazzare insensibilmente nel massacro di
esseri umani innocenti e nella distruzione di un paese che non era una
minaccia per noi: lo stesso creatore dell'universo che ci ha creati, ha
creato anche lui. Lo stesso creatore che ha creato bambini in Palestina,
Libano, Iraq, Afghanistan e Israele, ha creato George. Lo stesso creatore
che ha fatto il mio caro, fedele e dolce figlio Casey, ha creato George. Per
quanto possa non piacerci, e' fondamentalmente vero.
*
Percio', ecco la missione di Camp Casey per quest'anno: ricordare a George e
al resto della sua amministrazione che i loro cuori sono connessi ai nostri
e a quelli delle persone innocenti che in tutto il mondo vengono uccise
dalla loro insensata avidita'. Fa parte della nostra missione anche
ricordare alla gente che negli Usa ancora sostiene la carneficina, che i
loro cuori sono connessi a quelli dei bambini che vengono uccisi senza
pensarci. Io capii dall'inizio della guerra contro l'Iraq che George stava
uccidendo persone connesse al mio cuore. Capisco ora che sta uccidendo i
miei fratelli e le mie sorelle del cuore, ed io non posso accettarlo. La
gente dell'Iraq vuole che gli americani se ne vadano. Scrivero' un rapporto
su cio' che vogliono gli iracheni, mentre staro' seduta davanti al ranch di
George, domani, per ricordargli che ha ucciso una larga parte del mio cuore
e del suo il 4 aprile 2004 (data in cui Casey Sheehan, figlio di Cindy,
mori' in Iraq - ndt) e che sta uccidendo altri figli nostri ogni giorno.
George sta facendo il suo cuore a pezzi pericolosamente piccoli. Io so che
non vorrei incontrare il mio creatore con tante morti inutili sul cuore. In
piedi o seduta, chiedero' per tutto questo mese a George di smettere di
uccidere il cuore della mia famiglia, di mettere se stesso e la sua
amministrazione al lavoro per la pace, e di smettere di uccidere per
giustificare le uccisioni precedenti.
*
Fa caldo, qui. Ma in Iraq e' piu' caldo. Ho fame. Ma ho la possibilita' di
smettere il digiuno quando voglio, mentre gli iracheni vengono fatti saltare
in aria se solo vanno al mercato. Casey mi manca terribilmente, ma ci sono
persone che hanno perso la propria famiglia per intero, e le cui case sono
state distrutte.
Le condizioni a Crawford possono essere ostili, tanto che uno dei miei nuovi
vicini di casa ha affisso un cartello sulla sua siepe che recita: "Perche'
digiunare? Muori di fame!" (non penso sia un segno di buon vicinato, che ne
dite?), ma le condizioni in Medio Oriente non hanno paragone. Lavorare per
la pace non e' cosa da deboli. La forza viene attraverso la pace.
Unitevi a noi per la pace.

2. TESTIMONIANZE. ROBI DAMELIN: NON CI SONO VINCITORI, SOLO CUORI SPEZZATI
[Dalla mailing list femminista e pacifista "Lisistrata" (per contatti:
lisistrata at yahoogroups.com) riprendiamo il seguente appello di Robi Damelin
diffuso anche dal movimento pacifista israeliano "Gush Shalom" e pubblicato
sul sito di "Haaretz" (www.haaretz.com), tradotto in italiano da Floriana
Lipparini (per contatti: effe.elle at fastwebnet.it ).
Robi Damelin e' la madre di David Damelin, che e' stato ucciso nel marzo
2002; fa parte di "Parents Circe Families Forum. Bereaved Israeli and
Palestinian Families supporting Peace, Reconciliation and Tolerance".
Floriana Lipparini, giornalista (tra l'altro ha lavorato per il mensile
"Guerre e Pace", che per qualche tempo ha anche diretto, occupandosi
soprattutto della guerra nella ex Jugoslavia), impegnata nel movimento delle
donne (Collettivo della Libreria Utopia, Donne per la pace, Genere e
politica, Associazione Rosa Luxemburg), ha coordinato negli anni del
conflitto jugoslavo il Laboratorio pacifista delle donne di Rijeka,
un'esperienza di condivisione e relazione nel segno del femminile, del
pacifismo, dell'interculturalita', dell'opposizione nonviolenta attiva alla
guerra, da cui e' lentamente nato un libro, Per altre vie. Donne fra guerre
e nazionalismi, edito in Croazia da Shura publications, in edizione
bilingue, italiana e croata]

La retorica su questa guerra mi fa pensare a una gara sportiva. Noi battiamo
loro di tanti punti, oppure loro battono noi di tanti punti. Ma non e' di
punti che stiamo parlando e non c'e' un premio. I punti sono esseri umani
con famiglie che tentano di fuggire a volte riuscendovi e a volte no. Che
parte prenderemo nella gara? Dopo tutto, ci sentiamo molto bene con noi
stessi quando abbiamo una parte da prendere. Sceglieremo il verde in
Libano - loro sono i disperati - o sceglieremo il blu in Israele? Ci
sentiremmo meglio forse rispetto al blu se avessero perso piu' uomini. E'
questo il modo in cui il mondo guarda a un conflitto, come una gara
gloriosa?
In questa gara dobbiamo naturalmente avere un vincitore, altrimenti come
potremo mai sederci e parlarci l'un l'altro? Percio' il verde e il blu
andranno avanti rivendicando la vittoria fino all'ultimissimo uomo, o fino a
quando si renderanno conto che nessuno vince? E poi cosa? Abbandoneremo la
battaglia per leccarci le ferite? Torneremo a vivere? Per alcuni, la vita
dopo non sara' piu' la stessa.
E i nostri cari che non vedremo mai piu'? Per cosa hanno perso la vita? Un
altro status quo? Una vita di incertezza, una roulette di sopravvivenza? Il
mio cuore duole per ogni immagine di vittime che vedo sui giornali. So cosa
aspetta la madre, il padre, la famiglia e tutti gli amici. Conosco l'attesa,
la pena e gli occhi costantemente colmi di lacrime, ansia e sofferenza.
Non c'e' vincitore, solo una smisurata collezione di cuori spezzati.
*
Madri d'Israele, Libano e Palestina: quante altre tombe prima di gridare
basta? Quanti altri pianti collettivi prima di gridare basta? Guardiamoci
negli occhi e riconosciamo il dolore di ognuno con empatia; guardiamo gli
esseri umani oltre il verde e il blu. Obblighiamo tutti a parlare intorno a
un tavolo e non intorno a una tomba.
Quanti altri nostri figli devono morire prima di renderci conto che non c'e'
vendetta per un bambino perduto?
Non possiamo lasciare che portino via i nostri figli senza dire una parola.
Dov'e' la nostra voce in tutta questa follia?
Madri d'Israele, Libano e Palestina, dobbiamo unirci nel sentimento della
comprensione, e gridare: basta uccidere, basta uccidere. Per molti anni
abbiamo risposto alla gara di violenza, e' tempo di cercare un'altra via,
non piu' la retorica della vittoria ma piuttosto la via del dialogo verso la
riconciliazione, la scelta di vedere l'essere umano oltre lo schema - in
altre parole, riconoscere il nostro dolore comune.
A coloro in Libano che hanno perso i propri cari nel conflitto: vi invitiamo
a mettervi in contatto con i membri israeliani e palestinesi del Parents
Circle Families Forum.
Vi invitiamo a lavorare con noi per un dialogo a lungo termine che punti
alla riconciliazione.
Noi che abbiamo pagato il prezzo piu' alto comprendiamo le conseguenze di
un'infinita retorica della vittoria.
Vi invitiamo a guardare a un futuro di qualche speranza per i figli della
nostra aerea. Un futuro libero dalla violenza, dalla paura.
Possiamo forse appellarci al mondo e dire: smettete di prendere parte alla
gara, non state aiutando. Gli israeliani non scompariranno in un soffio di
fumo, nemmeno i palestinesi e neanche i libanesi. Non state aiutando
nessuno. Forse e' tempo per tutti voi di sostenere il dialogo verso un lungo
processo di riconciliazione.
Rinunciamo al verde e al blu e creiamo un colore comune.

3. RIFLESSIONE. BARBARA SPINELLI: IL SONNO DOGMATICO
[Dal quotidiano "La stampa" del 6 agosto 2006 riprendiamo il seguente
articolo (disponibile anche nel sito www.lastampa.it). Barbara Spinelli e'
una prestigiosa giornalista e saggista; tra le sue opere segnaliamo
particolarmente Il sonno della memoria, Mondadori, Milano 2001, 2004; una
selezione di suoi articoli e' in una sezione personale del sito del
quotidiano (www.lastampa.it)]

Gli israeliani lo sperimentano sulla propria pelle ogni giorno, da quando il
12 luglio si son trovati nell'obbligo di rispondere a un attacco hezbollah
che non ha piu' come scusa i territori occupati, ma e' un'aggressione che
minaccia esistenzialmente Israele ed e' al contempo laboratorio di uno
scontro Iran-Usa: in questa guerra libanese sono in realta' soli, nonostante
le attestazioni solidali che vengono da Bush e Blair. Non si sentono
rassicurati neppure dall'accordo, ambiguo, che si delinea fra Parigi e
Washington al Consiglio di sicurezza Onu. Quella congerie di stati cui viene
dato il nome falso di comunita' internazionale si agita, domanda la "piena
cessazione delle ostilita'", ma non osa chiedere che essa sia "immediata" e
simultanea. Nell'immediato devono cessare gli attacchi hezbollah e le
operazioni offensive israeliane: una formula che consente a Israele di
restare in Libano per operazioni difensive, ma che non gli risparmiera'
aggressioni. Difficilmente infatti Hezbollah - non sconfitto - accettera' la
tregua. Alcuni governi europei son pronti a schierare soldati per aiutare
l'esercito libanese a conquistare il monopolio della violenza ai confini
meridionali, ma e' improbabile che intervengano finche' la tregua sara'
ambigua: un'ambiguita' cui l'amministrazione Usa non sembra rinunciare.
Quel che Bush desidera e' la continuazione della guerra contro Hezbollah,
fatta da Israele o da altri: gli strumenti impiegati possono cambiare ma non
l'obiettivo, e l'obiettivo e' una guerra-test con l'Iran, con la Siria, per
interposte persone. E' come se l'amministrazione volesse proprio quello che
sta accadendo: lo stato d'Israele sprofondato in un conflitto che sta
perdendo, il Libano che e' stato scardinato e offeso, l'Iran e la Siria che
manovrando Hezbollah son divenuti attori di primo piano in Medio Oriente e
nell'Islam, e in quanto tali vengono messi in guardia e minacciati. Poi c'e'
il conflitto in Iraq, da cui l'odierna catastrofe discende e che il Libano
ha oscurato: anche qui, e' forte l'impressione di un voluto ampliamento dei
disastri. Ogni giorno muoiono cento civili in Iraq, ma e' la guerra in
Libano che occupa le prime pagine dei giornali. In America, lo spazio
televisivo dedicato a Baghdad e' caduto del 60% fra il 2003 e questa
primavera. Una manna, per il governo americano: fin quando dura la piaga
libanese, Washington non dovra' rispondere del caos suscitato - tramite
l'Iraq - in Medio Oriente e nel mondo.
Non son pochi gli israeliani che cominciano a intuire il terribile
ingranaggio in cui rischiano di restar impigliati: un ingranaggio che fa del
loro Paese il tassello della strategia Usa di esportazione della democrazia
e di guerra mondiale antiterrorista, e che ha finito col debilitare Israele
anziche' proteggerlo. Una strategia che ha tutta l'aria di trattare Israele
come un mezzo, non un fine come Bush pretendeva. Lo storico Tom Segev
s'indigna sulle colonne di "Haaretz", denunciando una politica americana che
lascia solo Israele, che lo aizza in guerre perdenti, che ha perduto ogni
autorita' nel mondo. Daniel Levy che ha partecipato a numerosi negoziati di
pace (Oslo, Taba, accordi di Ginevra) scrive che Israele non puo' continuare
a subire una linea dettata fin dal '96 da neoconservatori come Richard Perle
e Douglas Feith ("Haaretz" del 4 agosto 2006). E ricostruisce quella linea,
che i neocon suggerirono all'allora premier Netanyahu e che aveva come scopo
la fine delle trattative di pace e una rivoluzione nei rapporti tra Israele
e Usa. Oggi, essi adoperano la guerra libanese per rifarsi della bancarotta
irachena.
*
Molti (Tom Segev, Avi Schlaim sull'"Herald Tribune") sostengono che
l'America non aiuta piu' Israele, dal momento che l'aizza invece di
disciplinarlo: "Mai nella nostra storia e' accaduto che Washington ci
spronasse cosi' poco all'autocontrollo", scrive Schlaim, ed e' il motivo per
cui gli Stati Uniti "sono ormai parte del problema e non della sua
soluzione". Segev sospetta che le modalita' della guerra libanese nascano da
un coordinamento con Washington e ricalchino il modello Iraq, con effetti
perniciosi: anche questa guerra sembrava facilissima, anch'essa era un
tassello d'una vasta lotta contro "l'asse del male", e la degenerazione
insidia anche lei. Uscire dall'Asse del Bene, ritrovare la realta' di
questioni e guerre che hanno origini locali: e' questa l'opportunita', per i
critici dell'America in Israele, di uscire dal sonno dogmatico che
l'alleanza esclusiva con Washington impone agli israeliani.
Il sonno dogmatico sacrifica l'esperienza, sull'altare di concetti generali
e globalizzanti; non vede il particolare, dunque il reale. Secondo Levy,
questo e' il vizio dei neoconservatori che da un decennio propugnano un
Nuovo Medio Oriente, una rottura netta con le passate politiche israeliane
(cosi' s'intitola il documento del '96, A Clean Break). Il loro obiettivo:
spingere i governi israeliani ad abbandonare la strategia di restituzione
dei territori; incitarli a regolare i conti con Siria, Iran, Autorita'
palestinese; convincerli a cercare un'autosufficienza che spezzi le pratiche
del contenimento e della cooperazione internazionale tornando ai vecchi
equilibri di potenza. La cosa piu' esiziale e' stata quando questa visione
si e' intrecciata con quella degli evangelicali, in cui Bush si riconosce.
Gli evangelicali americani sono filo-israeliani solo in apparenza. Nei loro
affreschi messianici la nazione ebraica deve disporre di territori
possibilmente vasti, per poter accogliere il secondo avvento di Cristo. Un
avvento non promettente per gli ebrei: nei Tempi Finali Israele sara'
convertito, distrutto. Anche per gli evangelicali Israele e' un mezzo, non
un fine. Chi aspira all'uscita dal sonno dogmatico chiede passi politici
sostanziali anche se scabrosi, per il Libano. Chiede che si negozi col
nemico (fu Rabin a dirlo, dopo gli accordi di Oslo nel '93: "Con chi
dobbiamo negoziare, se non con il nemico? La pace non si fa con gli
amici!"). Chiede il ritorno alla diplomazia, alla restituzione delle terre,
e se la guerra e' necessaria: che sia la continuazione di una politica, non
di una non-politica. L'uso americano d'Israele e' un male che puo' rivelarsi
grande, ed e' la ragione per cui Segev e altri sperano disperatamente
nell'Europa: "La spinta su Israele perche' eserciti autocontrollo non viene
piu' da Washington, ma dagli europei". Il senso delle realta' locali sono
gli europei ad averlo. Bisogna negoziare con l'Iran, con la Siria: gli
europei ne sono convinti e sapranno farlo. La maniera in cui Israele viene
adoperato (come non-persona) e' utile a tutti coloro che si sentono orfani
di lotte ideologiche fra bene e male, fra destra e sinistra. Israele e'
pedina dispensabile, in quest'ordine del giorno interamente occidentale.
*
"Anche se 'íAmerica conquistasse l'Iran, a Israele restera' pur sempre
l'obbligo di vivere accanto ai palestinesi", spiega Segev. Il che vuol dire:
Israele deve capire di cosa e' fatto l'odio hezbollah in Libano, deve
distinguerlo da quello di Hamas nelle terre occupate, deve tener conto che
la Siria reclama con ragione la restituzione delle alture del Golan.
Hezbollah e' una malattia difficilmente estirpabile perche' non e' solo una
cellula terrorista: in Libano e' al governo e ha un'agenda politica, si
occupa di sanita' e scuola in regioni povere, e' profondamente scontento per
come gli sciiti sono emarginati, nonostante l'alta loro forza demografica
(40-50% della popolazione. Gli equilibri attuali si basano sul censimento
del 1932, che premiava sunniti e cristiani).
Secondo Robert Pape, studioso di terrorismo a Chicago, il "Partito di Dio"
e' proteiforme, raccoglie tutti coloro che hanno combattuto i 18 anni
d'occupazione israeliana. Nel suo libro sul terrorismo, ha studiato da
vicino il profilo di 38 hezbollah kamikaze: "Ho scoperto che solo 8 erano
fondamentalisti islamici. 27 appartenevano a gruppi di sinistra (Partito
comunista, Unione socialista araba), 3 erano cristiani, tutti erano
libanesi" ("New York Times" del 3 agosto 2006. Il libro s'intitola: Dying to
Win - Morire per vincere, Usa 2005):
Studiare piu' da vicino e non da lontano: uscire dai sonni dogmatici
comincia cosi', aiutando davvero Israele. Ed e' significativo che a mostrare
la strada siano studiosi di terrorismo come Pappe. O come Jessica Stern, che
suggerisce di non mescolare Iraq e Libano, guerra globale anti-terrore e
guerre locali: "Gli errori fatti su un fronte guastano l'efficacia
nell'altro, anche perche' gli eventi (Guantanamo, Abu Ghraib, Cana) vengono
filmati, confermando l'idea che l'Occidente stia combattendo una guerra
contro l'Islam" ("The Boston Globe" del primo agosto 2006). Da questo punto
di vista, scrive Stern, i terroristi hanno vinto. Il Gihad e' divenuto una
"moda globale", non diversa dai violenti ritmi del gangsta rap: si nutre di
bambini morti, di risentimento, pervadendo le zone di conflitto come le
citta' d'Occidente. Ignorare questi pericoli e' sonno dogmatico.
Lo dice Thomas Friedman, che approvo' la guerra in Iraq e ora invita a
riconoscerne il fiasco. Essa ha moltiplicato il terrorismo, ha irrobustito
l'Iran suscitando negli sciiti una sete di rivincita mondiale, e ha lasciato
solo Israele. Dunque oggi non resta che trattare con l'Iran oltre che con la
Siria, "cosi' come la Casa Bianca tratto' nel 2003 con la Libia" ("New York
Times" del 2 agosto 2006). Non si puo' ottenere da Ahmadinejad la rinuncia
all'atomica, e al tempo stesso tenere l'Iran sotto tiro. Bisogna dargli
precise garanzie di sicurezza, simili a quelle date a Gheddafi. Bisogna
instaurare con Teheran una guerra fredda, fondata sul suo contenimento
anziche' sul suo arretramento forzato (roll-back). Si dira' che il comunismo
sovietico non colpiva come oggi vengono colpiti Israele e Occidente. Ma
l'Urss non aggrediva alla maniera di Hezbollah perche' contenimento e
dissuasione avevano funzionato, non perche' esistessero buone condotte da
premiare. E' questa dissuasione che oggi non funziona e per questo
Washington barcolla come un ubriaco, fra la brama di abbattere regimi
avversari e il desiderio - limitato ma piu' praticabile - di modificare i
loro comportamenti.

4. CARTEGGI. DA UNA LETTERA DI SINIDE CORINZIO ALL'AMICA SUA ELEUTERIA
[Ringraziamo il nostro vecchio amico esercente dalle parti dell'istmo di
Corinto nel ramo dei tributi e del legname per averci messo a disposizione
questa sua lettera]

Carissima Eleuteria,
solo una banale osservazione: si puo' benissimo sedere in parlamento e
votare no alla guerra. La sinistra italiana, con tutti i suoi limiti e
difetti, lo ha fatto per tanti anni.
La tesi secondo cui le persone impegnate per la pace non possono stare in
parlamento senza rinunciare a un impegno limpido e intransigente per la pace
implica che la cosa pubblica possa e debba essere governata solo dagli
assassini e dai loro complici, che a fare le leggi siano abilitati solo i
bellicosi, che la rappresentanza democratica escluda chi e' contrario ai
massacri.
E' vero l'esatto contrario: la Costituzione fa obbligo a ministri e
parlamentari di opporsi a una guerra come quella afgana (e ad ogni guerra
che non sia strettamente difensiva del territorio, della popolazione e
dell'ordinamento giuridico del nostro paese).
Non c'e' bisogno di ricordare quell'aurea opinione di Hannah Arendt ("Si
puo' sempre dire un si' o un no") per sapere che alla guerra occorre votare
no. Quattro parlamentari lo hanno fatto, tutti gli altri si sono accodati a
Berlusconi, che la partecipazione militare italiana alla guerra afgana ha
voluto (e naturalmente ne ha votato l'ennesimo rifinanziamento). Amen.

5. STORIE. ZIA JAFFREY: UNA STORIA VERA A JOHANNESBURG
[Dal quotisiano "Il manifesto" del 6 agosto 2006 riprendiamo il seguente
racconto di Zia Jaffrey, nella traduzione di Maria Antonietta Saracino.
Zia Jaffrey e' una giornalista e scrittrice americana. Dalla medesima fonte
riprendiamo anche la seguente scheda sull'autrice: "Autrice di racconti,
saggi e articoli, Zia Jaffrey e' nota negli Stati Uniti soprattutto per un
libro singolare, in bilico fra narrativa e reportage, The Invisibles. A Tale
of the Eunuchs in India, uscito per Vintage nel 1996: attraverso
testimonianze dirette raccolte nel corso di una ricerca svolta sul campo, il
libro ricostruisce la storia e le storie degli 'hijiras', una comunita'
folta quanto elusiva, da molti considerata una subcultura, che ha tuttavia
una tradizione antica e complessa. La scrittrice e' nata a New York da
genitori indiani di religione hindu immigrati in America per lavorare nel
cinema, ha trascorso alcuni anni in India presso parenti, ma ancora bambina
e' tornata a vivere stabilmente a New York, dove si e' laureata in
letteratura inglese, alla Columbia University. Dopo un'esperienza come
redattrice per la casa editrice Simon & Schuster, e poi per la rivista "The
Nation", ha avviato una serie di collaborazioni per diverse testate (fra
l'altro i quotidiani "New York Times" e "Washington Post" e le riviste
"Elle", "Vogue" e "Marie Claire") scrivendo numerosi reportages dal
Medioriente, dal Pakistan, dal Sudafrica. Attualmente Zia Jaffrey, che
insegna letteratura contemporanea alla New School University di New York,
sta lavorando a un libro di racconti (da cui e' tratto il testo inedito che
presentiamo in questa pagina) in cui rielabora una serie di storie sull'aids
in Sudafrica raccolte dalla viva voce dei protagonisti.
Maria Antonietta Saracino, anglista, insegna all'Universita' di Roma "La
Sapienza"; si occupa di letterature anglofone di Africa, Caraibi, India e di
multiculturalismo. Ha curato numerosi testi, tra cui Altri lati del mondo
(Roma, 1994), ha tradotto e curato testi di Bessie Head (Sudafrica), Miriam
Makeba (Sudafrica), la narrativa africana di Doris Lessing e Joseph Conrad,
testi di Edward Said, di poeti africani contemporanei, di Aphra Behn; ha
curato Africapoesia, all'interno del festival Romapoesia del 1999; ha
pubblicato saggi sulle principali aree delle letterature post-coloniali
anglofone, collabora regolarmente con le pagine culturali de "Il manifesto"
e con i programmi culturali di Radio3]

All'ingresso dell'edificio nel quale ha sede il Tribunale per i diritti di
famiglia, proprio al centro di Johannesburg, mi hanno perquisito, volevano
accertarsi che non avessi armi, poi mi hanno detto di andare al secondo
piano. Lassu', ad attendermi sul pianerottolo in cima alle scale, ho trovato
Cynthia Molefe, una donna prossima alla quarantina, alta, che portava una
sciarpa di seta e numerosi bracciali al polso. Cynthia lavora come
interprete presso il tribunale. Mi ha guidato verso una rotonda, un posto,
mi ha detto, dove avremmo potuto sederci e parlare con tranquillita'.
Questa e' la storia che mi ha raccontato.
Era un mercoledi', la fine di una normale giornata di lavoro, quando il
maggiore dei suoi figli, Sishle, che l'aveva raggiunta in ufficio con i
fratellini, le aveva chiesto di andare al gabinetto. Sishle aveva undici
anni e portava ancora indosso la divisa della scuola. Cynthia aveva appena
chiuso a chiave la porta dell'ufficio e non vedeva l'ora di tornare a casa.
"Non ce la fai proprio ad aspettare?", aveva domandato al bambino. "No,
mamma, ti prego", aveva risposto lui. "Allora vai, ma fa' presto", aveva
ribattuto la donna.
A pochi metri di distanza da quell'ufficio sorgeva la famigerata stazione di
polizia di John Vorster Square, l'edificio nel quale, ai tempi
dell'apartheid, attivisti neri e indiani erano stati torturati con scariche
elettriche, costretti a strisciare sul pavimento con le mani spezzate o
scaraventati giu' dalle finestre del decimo piano, ancora vivi. Orrori che
le audizioni del Tribunale per la Verita' e la Riconciliazione avevano
portato alla luce ponendoli dinanzi agli occhi distratti della popolazione
bianca del Sudafrica. Gli altri, coloro che erano stati costretti a
soggiornare per tempi anche brevi in quei locali, al solo sentir nominare
John Vorster Square si sentivano percorrere il corpo da brividi gelati.
L'ombra di quel passato incombeva ancora sul presente. Ma erano passati otto
anni, il Sudafrica adesso era un paese libero e Sishle, il figlio di
Cynthia, voleva semplicemente andare al gabinetto.
*
Si era fatto tardi, erano passate le sei del pomeriggio, e Sishle percorse
correndo il corridoio per raggiungere il bagno degli uomini, accanto al
ballatoio su cui si affacciavano le scale. Il bambino entro'. Lo investi' un
tanfo insopportabile. Era un locale piccolo, senza finestra, con un
lavandino e un gabinetto. Quando Sishle apri' la porta, quello che vide lo
blocco' di colpo. Ritorno' indietro di corsa, urlando: "Mamma, vieni,
presto, nel gabinetto c'e' un bambino appena nato!". "Non dire sciocchezze -
rispose Cynthia - avrai disturbato qualcuno; sicuramente la madre del
bambino e' ancora in bagno...". Sishle pero' insisteva: "No, mamma, il
bambino e' li' da solo, ed e' tutto nudo". La donna si precipito' allora
verso il bagno, e quando vide quello che suo figlio - poveretto - aveva
dovuto vedere, anche lei si spavento' a morte.
Buon Dio, il neonato c'era davvero, ed era per terra. Era stato abbandonato
la', accanto alla tazza del gabinetto. Il cordone ombelicale ancora umido,
tagliato di fresco. Attorno a una caviglia c'era la fascetta di un ospedale,
ma i dati erano stati cancellati. Chi mai aveva potuto infilare nella
minuscola bocca del proprio bambino due palline di carta igienica arrotolate
con cura lasciandolo li', a morire? A terra, senza una coperta, un
pannolino, niente di niente!
Il piccolo respirava ancora, ma il corpo era gelato. La donna aveva persino
paura a prenderlo in braccio. In preda al panico ordino' a Sishle di correre
al piano di sopra a chiamare sua sorella che lavorava nell'infermeria,
perche' portasse in fretta una coperta. Insieme, le due donne corsero al
quinto piano, dove c'era la cucina, accesero la stufa e vi si accostarono,
per dare al piccolo un po' di calore. Con il cellulare, Cynthia chiamo'
immediatamente la sorveglianza del palazzo, e subito dopo telefono' alla
polizia, nell'edificio di John Vorster Square. L'addetto della sorveglianza
in servizio quel pomeriggio, un giovanotto che si chiamava Polite, a sua
volta si mise in contatto con il suo capo, un giovanotto bianco di nome
Stols.
Cynthia attese la polizia a lungo, molto a lungo, ma non arrivo' nessuno.
Apparve invece Mr Stols, insieme a un'amica. Decisero che sarebbe stato lui,
con la sua macchina, a portare il neonato in ospedale. Nel frattempo il
piccolo non aveva mai aperto gli occhi. Per non vedere quanto male c'e' a
questo mondo, pensava Cynthia. Era un maschietto dai lineamenti delicati, un
piccolo africano dalla pelle piuttosto chiara. Doveva avere all'incirca due
giorni.
Si era fatta sera. Prima di lasciare l'edificio Cynthia decise di telefonare
ai giornali. Era furiosa nei confronti della polizia, al solo pensiero di
essere stata lasciata sola, con un neonato in quelle condizioni. Il
comportamento dei poliziotti non le era davvero andato giu'. Telefono' al
"Sowetan". Racconto' tutto quello che era accaduto e sottolineo': "E'
passata un'ora, ormai, e qui non si e' ancora fatto vedere nessuno. Quando
li ho chiamati per insistere, ho parlato con un poliziotto molto maleducato,
mi ha ripetuto piu' volte che sarebbero arrivati, mi ha detto che non stava
a me ricordargli che e' loro dovere intervenire".
Con il poliziotto il tono della donna era stato sarcastico: "Siete a John
Vorster Square, a pochi minuti a piedi da questo ufficio: cosa c'e'? vi
serve forse un visto apposito, per arrivare fin qui?", e aveva interrotto la
comunicazione. "Questa cosa deve uscire sulla stampa - Cynthia disse al
giornalista del "Sowetan" - bisogna scriverlo, che la polizia si comporta
cosi'. E che noi non abbiamo nessuna fiducia". Il giornalista le domando' se
era d'accordo che pubblicassero il suo nome. No, rispose lei, preferiva
conservare l'anonimato.
Cynthia torno' a casa. Si sentiva a pezzi. Perche' aveva consegnato ad altri
quel bambino? In fin dei conti avrebbe potuto portarlo a casa con se'. Ma
sapeva che era sbagliato. Era furiosa e disgustata. Non riusciva a
immaginare come qualcuno avesse potuto abbandonare quel piccino in un
gabinetto. Pensava, come e' possibile fare una cosa del genere a un bambino
appena nato, oggigiorno ci sono assistenti sociali, e tante persone che
avrebbero potuto rendersi utili, proprio in quello stesso edificio. Pensava:
il neonato e' innocente, non e' stato lui a chiedere di venire al mondo,
perche' deve soffrire in questo modo? Immagina, si chiedeva, che cosa
sarebbe successo se qualcuno, entrando in quel gabinetto, avesse trovato il
piccolo gia' morto? Immagina.
*
L'indomani Cynthia stava ancora peggio. Si sentiva morire. Ormai fra lei e
quel bambino si era creato un legame. Mio Dio, devo assolutamente
ritrovarlo, pensava. E cosi' comincio' a telefonare, uno dopo l'altro, a
tutti gli ospedali della zona. Ma tutti le rispondevano che no, di quel
neonato non sapevano proprio niente. Cynthia riflette', perche' continuo a
chiamare gli ospedali? e' quel Mr Stols che devo cercare. Chiamo' la
sorveglianza e si fece dare il numero. L'uomo le racconto' che aveva tentato
di far accettare il piccolo in ospedale: "Ma nessuno ha voluto prendersene
cura, alla fine l'ho portato al Cotlands Baby Sanctuary, un istituto per
bambini abbandonati". Mr Stols aggiunse che era riuscito a rintracciare quel
ricovero solo intorno a mezzanotte. E che, una volta la', gli avevano
chiesto di dare un nome al piccolo. Cosi' lo aveva chiamato Mark.
Di nuovo Cynthia si arrabbio'. Il bambino, pensava, avrebbe dovuto chiamarsi
Victor, il vincitore. Una vittoria che si era guadagnata. Oppure Blessing,
Benedetto. Era stato suo figlio, Sishle, a suggerirglielo la sera prima,
quando aveva detto: "Mamma, questo bambino per noi e' una benedizione, una
benedizione che ci arriva dal cielo".
*
Il giorno dopo sul "Sowetan" usci' un articolo, e un altro anche su "Beeld",
un quotidiano di lingua afrikaans, e questo per merito di Mr Stols. Fu solo
allora che Cynthia venne a sapere con precisione quanto era accaduto quella
sera all'uomo. Dopo che ebbe lasciato l'edificio del tribunale, Mr Stols era
andato al Coronationville Hospital dove era riuscito con grande fatica a
fare in modo che il neonato venisse visitato. Ma il medico gli aveva detto
che l'ospedale non poteva ricoverare un bambino abbandonato. Uscito di la',
mentre correva sull'autostrada alla ricerca di un altro ospedale - nel
frattempo il piccolo si era svegliato e urlava per la fame - Mr Stols era
stato fermato dalla polizia che lo aveva multato per eccesso di velocita',
nonostante i suoi tentativi di spiegare la situazione. Era stato pero'
proprio il poliziotto a suggerirgli di andare alla stazione di polizia di
Brixton dove, aveva detto, c'era uno speciale ufficio che si occupava
dell'infanzia abbandonata.
Arrivato sul posto, pero', l'uomo era stato informato che quell'ufficio non
esisteva piu'. E che doveva rivolgersi al comando centrale di polizia di
John Vorster Square. Che doveva tornare al posto da cui era partito. E una
volta la' la polizia gli aveva comunicato che avrebbe dovuto sporgere una
denuncia. Gli avevano dato dei moduli da riempire, ma l'uomo era esploso:
"Non e' mio compito, aprire una pratica, - aveva gridato schiumando di
rabbia - questo e' compito vostro, della polizia di John Vorster Square!".
Era calata la notte. Per fortuna, mentre Mr Stols discuteva con i
poliziotti, la sua amica, Nicolette Parry, aveva saputo per telefono dalla
sorella dell'esistenza del Cotlands Baby Sanctuary. E cosi' i due ci erano
andati, ancora furibondi: "Per tutto il tempo in cui abbiamo avuto a che
fare con la polizia, sembrava che il piccolo fosse un animale, o qualcosa
del genere", avrebbe detto piu' tardi Nicolette Parry.
*
Fu allora che il sovrintendente della stazione di polizia di John Vorster
Square chiamo' Cynthia al cellulare. Come avesse fatto a procurarsi il suo
numero, lo sapeva il cielo. La donna aveva la sensazione che, per coprire il
fatto che la polizia non era intervenuta al momento giusto, quell'uomo
cercasse di insinuare qualcosa sul suo operato. Si aspettava forse che lei
lo aiutasse a dare della vicenda la versione che gli faceva comodo? A un
certo punto, il poliziotto disse addirittura: "Eravate a pochi metri di
distanza da John Vorster Square, perche' non siete venuti voi stessi,
velocemente, al distretto di polizia?". Ma Cynthia fu svelta a ribattere:
"In che modo, con quel bambino, nudo e gelato, che avrebbe potuto morirmi
tra le braccia? Voi davvero avreste preteso che io arrivassi correndo fino a
John Vorster Square?". Si', la donna era davvero molto arrabbiata con quel
poliziotto.
Qualche giorno dopo Cynthia chiamo' il Cotlands Baby Sanctuary. La sua
decisione era presa. Era una madre di tre figli che allevava da sola,
spiego'. Ma doveva assolutamente continuare a rivedere il piccolo Mark (o
Victor, o Blessing). La sua richiesta fu accolta. Anche Nicolette Parry e Mr
Stols chiesero di poter mantenere un contatto con il bambino. E anche a loro
fu risposto di si'.
*
Marzo 2002. A pochi chilometri di distanza dall'edificio del tribunale, a
Rosebank, una zona elegante della citta', su un muro di mattoni, qualcuno ha
dipinto a grandi lettere a stampatello la frase: "Madri, vi preghiamo, non
abbandonate i vostri figli a causa dell'aids".
Una giovane donna africana, dritta come un fuso, se ne sta li' davanti,
completamente immobile, ferma a un incrocio, con le macchine che le
sfrecciano accanto. Pare uscita da un dipinto di Monet. Indossa una
camicetta bianca in stile vittoriano, colletto alto e maniche lunghe, e una
gonna bianca di cotone che le arriva alle caviglie. Con una mano tiene un
quadrato di cartone su cui c'e' scritto, "Sono disoccupata. Vi prego,
aiutatemi. Che Dio vi benedica". Con l'altra regge un parasole aperto sulla
testa, sostenendolo per il manico sottile, leggermente piegato per fare
ombra al suo bambino che porta legato sulla schiena con una stoffa di colore
giallo luminoso, e ripararlo dal sole.

6. MAESTRE. ROSA LUXEMBURG: LA COSA PIU' FATALE
[Da Rosa Luxemburg, Lettere 1893-1919, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 189.
E' un passo da una lettera del dicembre 1914 alla redazione del "Labour
Leader". Rosa Luxemburg, 1871-1919, e' una delle piu' limpide figure del
movimento dei lavoratori e dell'impegno contro la guerra e contro
l'autoritarismo. Assassinata, il suo cadavere fu gettato in un canale e
ripescato solo mesi dopo; ci sono due epitaffi per lei scritti da Bertolt
Brecht, che suonano cosi': Epitaffio (1919): "Ora e' sparita anche la Rosa
rossa, / non si sa dov'e' sepolta. / Siccome ai poveri ha detto la verita' /
i ricchi l'hanno spedita nell'aldila'"; Epitaffio per Rosa Luxemburg (1948):
"Qui giace sepolta / Rosa Luxemburg / Un'ebrea polacca / Che combatte' in
difesa dei lavoratori tedeschi, / Uccisa / Dagli oppressori tedeschi.
Oppressi, / Seppellite la vostra discordia". Opere di Rosa Luxemburg:
segnaliamo almeno due fondamentali raccolte di scritti in italiano: Scritti
scelti, Einaudi, Torino 1975, 1976; Scritti politici, Editori Riuniti, Roma
1967, 1976 (con una ampia, fondamentale introduzione di Lelio Basso). Opere
su Rosa Luxemburg: Lelio Basso (a cura di), Per conoscere Rosa Luxemburg,
Mondadori, Milano 1977; Paul Froelich, Rosa Luxemburg, Rizzoli, Milano 1987;
P. J. Nettl, Rosa Luxemburg, Il Saggiatore 1970; Daniel Guerin, Rosa
Luxemburg e la spontaneita' rivoluzionaria, Mursia, Milano 1974; AA. VV.,
Rosa Luxemburg e lo sviluppo del pensiero marxista, Mazzotta, Milano 1977]

La cosa piu' fatale per il futuro del socialismo sarebbe che i partiti
operai dei diversi paesi decidessero di accettare pienamente la teoria e la
prassi borghesi, per le quali e' naturale ed inevitabile che i proletari
delle diverse nazioni in guerra si sgozzino reciprocamente al comando delle
loro classi dominanti, per tornare poi, dopo la guerra, a scambiarsi
abbracci fraterni, come se niente fosse successo. (...) Il terribile
reciproco macello di milioni di proletari, cui stiamo adesso assistendo con
orrore, queste orge del truce imperialismo che sotto l'ipocrita insegna
della "patria", della "cultura", della "liberta'" e del "diritto dei popoli"
distruggono paesi e citta', offendono la civilta' e calpestano il diritto
dei popoli, sono un puro tradimento del socialismo.

7. MAESTRE. AGNES HELLER: QUATTRO MASSIME
[Da Agnes Heller, Le condizioni della morale, Editori Riuniti, Roma 1985, p.
56. Agnes Heller, illustre filosofa ungherese, nata a Budapest nel 1929,
sopravvissuta alla Shoah, allieva e collaboratrice di Lukacs, allontanata
dall'Ungheria, ha poi insegnato in Australia e in America. In Italia e'
particolarmente nota per la "teoria dei bisogni" su cui si ebbe nel nostro
paese un notevole dibattito anche con riferimento ai movimenti degli anni
'70. Su posizioni democratiche radicali, e' una interlocutrice preziosa
anche laddove non se ne condividessero alcuni impianti ed esiti teorici. Dal
sito della New school for social research di New York (www.newschool.edu)
presso cui attualmente insegna traduciamo questa breve notizia biografica
essenziale aggiornata al 2000: "Nata nel 1929 a Budapest. Sopravvissuta alla
Shoah, in cui ha perso la maggior parte dei suoi familiari morti in diversi
campi di concentramento. Allieva di Gyorgy Lukacs dal 1947 e successivamente
professoressa associata nel suo dipartimento. Prima curatrice della 'Rivista
ungherese di filosofia' nel dopoguerra (1955-'56). Destituita dai suoi
incarichi accademici insieme con Lukacs per motivi politici dopo la
rivoluzione ungherese. Trascorse molti anni ad insegnare in scuole
secondarie e le fu proibita ogni pubblicazione. Nel 1968 protesto' contro
l'invasione sovietica della Cecoslovacchia, e subi' una nuova persecuzione
politica e poliziesca. Nel 1973, sulla base di un provvedimento ad personam
delle autorita' del partito, perse di nuovo tutti gli incarichi accademici.
'Disoccupata per motivi politici', tra il 1973 e il 1977 lavoro' come
traduttrice. Nel 1977 emigro' in Australia. A partire dall'enorme
cambiamento del 1989, attualmente trascorre parte dell'anno nella nativa
Ungheria dove e' stata designata membro dell'Accademia ungherese delle
scienze. Nel 1995 le sono stati conferiti il 'Szechenyi National Prize' in
Ungheria e l''Hannah Arendt Prize' a Brema; ha ricevuto la laurea ad honorem
dalla 'La Trobe University' di Melbourne nel 1996 e dall'Universita di
Buenos Aires nel 1997". Opere di Agnes Heller: nella sua vastissima ed
articolata produzione segnaliamo almeno: Per una teoria marxista del valore,
Editori Riuniti, Roma 1974; La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli,
Milano 1974, 1978; Sociologia della vita quotidiana, Editori Riuniti, Roma
1975; L'uomo del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1977; La teoria, la
prassi e i bisogni, Savelli, Roma 1978; Istinto e aggressivita'.
Introduzione a un'antropologia sociale marxista, Feltrinelli, Milano 1978;
(con Ferenc Feher), Le forme dell'uguaglianza, Edizioni aut aut, Milano
1978; Morale e rivoluzione, Savelli, Roma 1979; La filosofia radicale, il
Saggiatore, Milano 1979; Per cambiare la vita, Editori Riuniti, Roma 1980;
Teoria dei sentimenti, Editori Riuniti, Roma 1980, 1981; Teoria della
storia, Editori Riuniti, Roma 1982; (con F. Feher, G. Markus), La dittatura
sui bisogni. Analisi socio-politica della realta' est-europea, SugarCo,
Milano 1982; (con Ferenc Feher), Ungheria 1956, Sugarco, Milano 1983; Il
potere della vergogna. Saggi sulla razionalita', Editori Riuniti, Roma 1985;
Le condizioni della morale, Editori Riuniti, Roma, 1985; (con Ferenc Feher),
Apocalisse atomica. Il movimento antinucleare e il destino dell'Occidente,
Milano 1985; Oltre la giustizia, Il Mulino, Bologna, 1990; (con Ferenc
Feher), La condizione politica postmoderna, Marietti, Genova 1992; Etica
generale, Il Mulino, Bologna 1994; Filosofia morale, Il Mulino, Bologna,
1997; Dove siamo a casa. Pisan Lectures 1993-1998, Angeli, Milano 1999.
Opere su Agnes Heller: Nino Molinu, Heller e Lukacs. Amicus Plato sed magis
amica veritas: topica della moderna utopia, Montagnoli, Roma 1984; Giampiero
Stabile, Soggetti e bisogni. Saggi su Agnes Heller e la teoria dei bisogni,
La Nuova Italia, Firenze 1979; la rivista filosofica italiana "aut aut" ha
spesso ospitato e discusso la riflessione della Heller; cfr. in particolare
gli studi di Laura Boella]

1) Non scegliere norme che non possano essere rese pubbliche;
2) non scegliere norme la cui osservanza implichi - per ragioni di
principio - l'uso degli altri esseri umani come puri mezzi;
3) non scegliere norme che non possano essere scelte liberamente da tutti;
4) non scegliere norme come norme morali (norme vincolanti) la cui
osservanza non sia uno scopo in se'.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1382 del 9 agosto 2006

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