La nonviolenza e' in cammino. 1376



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1376 del 3 agosto 2006

Sommario di questo numero:
1. Pierre Vidal-Naquet
2. Nouhad Moawad: Un messaggio nella notte
3. Enrico Peyretti: Guerre e silenzi
4. Uri Avnery: Il risultato
5. Giulio Vittorangeli: Bologna, 2 agosto 1980
6. Giovani d'mpegno missionario: Un appello
7. "Beati i costruttori di pace": Le elezioni in Congo
8. Angela Pascucci presenta "Il nuovo ordine cinese" di Wang Hui
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. LUTTI. PIERRE VIDAL-NAQUET

Ci ha lasciato un maestro.
Di comprensione dell'umano.
Di resistenza contro l'inumano.

2. TESTIMONIANZE. NOUHAD MOAWAD: UN MESSAGGIO NELLA NOTTE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente testo. Nouhad
Moawad, laureanda traduttrice all'Universita' di Beirut, dal 2 luglio e fino
al prossimo 5 settembre lavora a New York in un progetto seminariale di "We
News"]

Ieri notte sono stata svegliata dal suono del mio cellulare. Ero ancora
semiaddormentata quando ho letto il messaggio mandatomi dalla mia amica
studentessa in psicologia all'Universita' di Beirut e di mestiere clown.
Aveva scritto: "Bambini, bambini, bambini... E' incredibile cio' che sta
accadendo. Cosa avevano fatto di male?".
Non capivo a cosa si riferisse. Avrei voluto tornare a dormire, ma invece
sono andata al computer per scoprire cosa stava accadendo. Sono rimasta
sconvolta quando ho letto dell'attacco aereo israeliano su Cana, che ha
ucciso 57 civili, fra cui 37 bimbi, sebbene alcune stime siano piu' basse.
Io non potevo credere che stesse succedendo di nuovo. Dieci anni fa, quando
io avevo 11 anni, gli israeliani attaccarono Cana con l'artiglieria,
uccidendo un centinaio di civili, incluse le donne e i bambini. I miei
genitori non mi lasciarono guardare le notizie in televisione, quella sera.
Mandarono me e mia sorella in un'altra stanza, affinche' non vedessimo. Ma
gli altri ragazzini a scuola avevano visto i telegiornali, e mi raccontarono
ogni orribile dettaglio della vicenda.
Ora, questa storia tremenda si ripete. Sta accadendo nel XXI secolo, in un
mondo che dice di combattere "per la democrazia, la liberta' e i diritti
umani". Per un po' mi sono sentita come se il tempo si fosse fermato, e si
stesse riavvolgendo all'indietro, verso la barbarie di migliaia di anni
orsono. Non riuscivo ad alzarmi dalla sedia. Sono rimasta li' per
mezz'ora...
Ho cominciato a chiedermi come si sara' sentito il pilota che ha sganciato
la bomba. Era contento? Soddisfatto? Riuscira' a dormire la notte, senza
vedere innocenti morti nei suoi sogni? Pensava ai suoi, di bambini, quando
lo ha fatto? E cosa avevano fatto i bambini di Cana ad Israele? Lanciavano
missili oltre i confini? Non credo proprio. Non sapevano neppure cosa stesse
succedendo.
Piu' tardi, sentendomi sul punto di esplodere, ho telefonato all'amica che
mi aveva mandato il messaggio. Le ho chiesto come stava. Ha risposto: "Oh,
sono viva! Tutto il resto va male. Non c'e' piu' carburante. Presto
l'elettricita' se ne andra' del tutto. Il cibo comincia a non esserci piu'".
Siamo rimaste entrambe in silenzio per un attimo. Poi le ho chiesto se
pensava di lasciare il paese. Mi ha detto: "Abbiamo tentato con gli Usa,
visto che ci vivono i miei nonni, ma l'ambasciata statunitense e' chiusa e
non rilasciano visti d'ingresso. L'ambasciata canadese rilascia visti per
chi ha parenti in Canada, cosi' come l'ambasciata francese. Noi potremmo
tentare con la Danimarca, dove vive mio cugino". Qui e' caduta la linea.
E' inumano, cio' che sta accadendo al mio paese, al Libano. La reazione
della comunita' internazionale mi rende ancora piu' triste. Dicono di
rigettare questa guerra e nessuno fa nulla per fermarla.

3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: GUERRE E SILENZI
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di
nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con
altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio",
che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi
"Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research
Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi
per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della
rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro
Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e
del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie
prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e
politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile
nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di
cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico
Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte
riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari
suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e
alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

Nuove guerre, nuove stragi atroci, nuova impotenza della legge, nuova
incertezza o vilta' di chi deve imporla.
No, non nuove. Nuove sono soltanto le vittime, fino a ieri vive. Nuove le
vittime, anche perche' sono nuovi bambini che la vita aveva appena donato al
mondo, affidato a noi.
Antiche sono la guerra, la violenza, l'uccisione. Antiche come l'abisso
oscuro, come il caos prima del sole, della luna e della terra. Ma antica e
nuova come le colline, uscite dal caos, e' la nonviolenza, il lungo sottile
cammino umano per costruire la vita nella giustizia e nella pace.
Ora, oggi, si uccide e si distrugge: le case, che hanno braccia, occhi e
cuore, che sono il corpo vivo di una famiglia; le strade e i ponti, che sono
le vene vive di un popolo nella sua terra; le centrali di elettricita' e
telefoni, che sono la bocca, le orecchie, l'energia di un popolo che vive la
sua vita umana.
Si uccidono i corpi personali, la carne e le membra, i volti unici di
ognuno: volti amati, belli, difficili, attesi, interpellati, volti che
ridono, che osservano, che piangono nelle tante vicende delle vite umane.
Si colpiscono dal cielo, come fulmini di una malvagia divinita', nemica
della vita.
Si uccide da una parte, si uccide dall'altra. Uccide l'uno perche' l'altro
ha ucciso. Fare i conti degli uccisi di qua e degli uccisi di la' serve un
poco ad analizzare, ma non a risolvere. Il solo numero che conta e' la somma
delle vittime, che si ritrovano insieme, di la' dalla guerra. Il numero che
conta sono le onde circolari di dolore, di offesa, di memoria e di odio che
ogni uccisione diffonde attorno, sulla terra e sul tempo.
Ogni parte si giustifica accusando. La catena di ferro delle colpe va
indietro all'infinito, affonda in quel caos, da cui la natura e la storia
hanno il primario compito di uscire. Unico merito e vittoria sarebbero di
chi smette, di chi posa l'arma e invita alla parola. Non si ha pace senza
dare pace.
*
La potenza armata e' ubriaca di se'. E' fatta cieca dalla morte che impugna
come strumento, dalla morte che e' buio dilagante, sulla terra e sulle menti
superbe. La mano armata e l'occhio che la dirige sono resi folli dalla
propria potenza, che li ha schiavizzati, al servizio della grande morte. I
nemici sono nemici tra loro e identici gemelli nella follia.
Buia follia, fede nel buio caos del nulla, che purificherebbe il mondo dal
male. E il male e' sempre l'altro. Proprio questa e' la fede apocalittica
degli armati. Intendono apocalisse come distruzione del male, e ignorano che
significa paziente rivelazione del bene. Proprio questa e' la loro maledetta
religione.
Gli uni dicono: "Vinceremo noi, perche' l'Occidente cerca la vita e noi la
morte". Gli altri dicono. "Noi siamo il forte Marte, voi, vecchia Europa, la
molle Venere. E voi, mondo diverso, il puro male". Religione apocalittica
degli uni e degli altri, tradimento e bestemmia di due grandi religioni
della vita. Con cuore nero e occhio nero, vedono entrambi il mondo come
male. Male da purificare con la morte inflitta all'altro. Inflitta
all'altro, ma in fondo anche a se'.
Il sui-omicida ha l'arma assoluta, e' lui stesso l'arma che nessuna minaccia
puo' fermare. O gli parli, o lo incontri come essere umano, che possa
liberarsi dalla sua ossessione, che non trovi altri motivi nei fatti, oppure
uccidera'. Infallibilmente. O gli diciamo che ben conosciamo la storia
dell'inquita', e che insieme cerchiamo una nuova storia di giustizia, oppure
uccidera'. Non giustificato, uccidera', ma condannato dalle colpe di tutti.
E' cosi' anche l'arma atomica, totale: chi la usa, o anche solo la minaccia,
o anche solo la possiede, o anche solo la fabbrica, o anche solo la pensa,
costui e' suicida nell'uccidere.
Credono, i folli nemici-complici, che per rifare il mondo si debba
distruggerlo. Pensano entrambi, uccidendo, di rendere un culto a Dio
(Giovanni, 16, 2). Pensano di aiutarlo sradicando dal suo campo la zizzania,
e non vogliono ricordare l'avvertimento. Pensano di difendere il dono divino
della terra calpestando il diritto divino della vita.
*
Noi guardiamo, certamente spaventati, certamente orripilati. Balbettiamo
parole, ma piu' vero e' il silenzio.
Non il silenzio assente, che chiude gli occhi per ignorare, che si distrae
per campare. Il silenzio, invece, che tutto abbraccia dentro di se', il male
come il bene, la vittima come il carnefice. Il silenzio che, prima di ogni
giudizio - presto necessario -, prende su di se' il dolore e la colpa. Come
tacque il Condannato davanti a Pilato.
Un vivo silenzio, quando la verita' e' messa a tacere.
Noi resistiamo a pensare che un piccolo fiore sul monte, un fiore comparso
sul prato, nutriti dalla luce come una madre, dicono, in forte silenzio, la
verita': la vita, la fragile vita, questa imperfetta umanita', ogni persona
cosi' com'e', la preziosa natura brulicante di vite, tutto cio' vale, tutto
cio' va amato, perdonato e difeso.
Oggi non abbiamo altro da sapere, non altro da dire.

4. RIFLESSIONE. URI AVNERY: IL RISULTATO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2006. Uri Avnery e' nato ad
Hannover nel 1924, ed e' emigrato in Palestina all'avvento del nazismo; gia'
militante dell'Haganah e combattente nella guerra del 1948; piu' volte
parlamentare, giornalista, impegnato nell'opposizione democratica e nel
dialogo col popolo palestinese; e' tra le voci più vive del movimento
pacifista israeliano. Opere di Uri Avnery: Israele senza sionisti, Laterza,
Bari 1970; Mio fratello, il nemico, Diffusioni 84, Milano 1988]

"Sembra che Nasrallah sia sopravvissuto", hanno annunciato i giornali
israeliani, dopo che 23 tonnellate di bombe sono state scaricate nel sito di
Beirut dove si riteneva fosse il bunker del leader hezbollah. Alcune ore
dopo il bombardamento, Nasrallah rilasciava un'intervista ad al-Jazeera.
Ma i nostri ministri hanno deciso che questo e' l'obiettivo. Non che ci sia
gran novita' in questo: diversi governi israeliani hanno usato questa
tattica di uccidere leaders di gruppi avversari. Il nostro esercito ha gia'
ucciso, fra gli altri, il leader hezballah Abbas Mussawi, il numero due
dell'Olp Abu Jihad, come anche Sheikh Ahmad Yassin ed altri capi di Hamas.
Quasi tutti i palestinesi, e non soltanto loro, sono convinti che persino
Yasser Arafat sia stato assassinato.
E i risultati? Il posto di Mussawi e' stato preso da Nasrallah, ben piu'
abile. Lo sceicco Yassin e' stato sostituito da leaders ben piu' radicali.
Al posto di Arafat ora abbiamo Hamas.
Come per altre questioni politiche, una mentalita' triviale governa questi
ragionamenti.
E' vero che siamo una democrazia. L'esercito e' interamente soggetto
all'estabilishment civile. Secondo la legge, il primo ministro e' il
comandante supremo dell'esercito (che in Israele include marina ed
aviazione). Ma in pratica ultimamente e' il piu' alto militare in grado a
decidere di qualsiasi questione militare o politica. Quando il generale Dan
Halutz dice ai ministri che il comando militare ha deciso questa o quella
operazione, non ci sono ministri che osino opporsi. Tantomeno i ministri
laburisti.
Ehud Olmert si presenta come l'erede di Churchill ("lacrime, sudore e
sangue"). Il che e' abbastanza patetico. Poi ecco Amir Peretz che gonfia il
petto e strilla minacce in tutte le direzioni: il che, se possibile, e'
ancora piu' patetico.
*
Non e' piu' un segreto che questa guerra e' stata pianificata a lungo. I
corrispondenti militari hanno dichiarato orgogliosi questa settimana che
l'esercito si e' preparato per questa guerra per anni nei minimi dettagli,
mentre i politici e i generali proclamavano che "mai piu' entreremo nel
pantano libanese, mai piu' invieremo forze terrestri laggiu'". Adesso ci
siamo, nel pantano, e ingenti forze terrestri operano laggiu'.
Anche sul lato opposto di sono preparati per anni a questa guerra. Non
soltanto si ammassavano migliaia di missili, ma hanno anche messo a punto un
elaborato sistema di bunkers, tunnel e caverne alla maniera vietnamita.
Adesso i nostri soldati si scontrano contro questo sitema e ne pagano l'alto
prezzo. Come al solito, il nostro esercito ha trattato gli arabi con
sufficienza sottovalutandone le capacita' militari.
E' uno dei problemi della mentalita' militare. Non sbagliava chi diceva che
"la guerra e' un affare troppo serio per lasciarlo nelle amni dei generali".
La mentalita' dei generali, per professione ed educazione, e' per sua natura
orientata alla forza, semplicistica, unidimensionale, per non dire triviale.
Si basa sulla convinzione che i problemi si possano risolvere con la forza.
E se non funziona, con piu' forza.
Tutto cio' e' ben illustrato da come e' stata pianificata e condotta questa
guerra. Si sono basati sull'assunto che se noi imponiamo sofferenze
terribili alla popolazione libanese, questa insorgera' chiedendo
l'espulsione di Hezbollah. Una cognizione minima della psicologia di massa
suggerirebbe il contrario. L'uccisione di centinaia di civili libanesi,
appartenenti a tutte le comunita' etnico-religiose, l'aver fatto della vita
altrui un inferno, la distruzione delle infrastrutture civili libanesi,
sollevera' tempeste di furia ed odio, ma contro Israele, non certo contro
gli eroi, come vengono visti, che sacrificano le loro vite in difesa del
paese.
Il risultato sara' il rafforzamento di Hezbollah, non soltanto oggi, ma per
gli anni a venire. Forse sara' il principale risultato di questa guerra,
piu' importante di qualsiasi vittoria militare, se ve ne saranno. E non
soltanto in Libano, ma in tutto il mondo arabo e musulmano.
Di fronte agli orrori mostrati in tv e tramite internet, anche l'opinione
pubblica sta cambiando. Cio' che veniva visto come l'inizio di una risposta
giustificata dalla cattura di due soldati adesso sembra l'azione barbarica
di una macchina da guerra fra le piu' brutali.
Migliaia di mailing lists hanno messo in circolo una orribile serie di foto
di bambini mutilati. In coda, una macabra foto: allegri bimbetti israeliani
che scrivono "saluti" sui missili in procinto di essere lanciati. Poi
compare un messaggio: "grazie ai bambini israeliani per questo bel regalo; e
grazie al mondo, che non fa niente. Firmato: i bambini di Libano e
Palestina".
*
In generale, quando sono gli ufficiali di un esercito a determinare la
politica di un paese, seri problemi morali insorgono.
In guerra, un comandante e' obbligato a prendere dure decisioni. Indurisce
il proprio cuore. Come disse il generale Amos Yaron dopo il massacro di
Sabra e Chatila: "I nostri sensi sono stati intorpiditi". Anni di
occupazione militare nei Territori palestinesi hanno causato un estremo
intorpidimento nei confronti delle vite umane. L'uccisione di dieci o venti
palestinesi al giorno, e fra questi donne e bambini, come accade in questi
giorni a Gaza, non scuote nessuno. Non fa neanche notizia. Gradualmente, non
si sentono piu' neanche le espressioni piu' trite, come ´Ci dispiace... non
volevamo... siamo l'esercito piu' morale al mondo...", e cosi' via.
Questo intorpidimento si rivela anche in Libano. Ufficiali dell'aviazione,
sereni e tranquilli, siedono di fronte alle cineprese e parlano di "gruppi
di bersagli" come se non si trattasse neanche piu' di esseri viventi.
Ultimamente, la parola piu' in voga fra i generali e' "polverizzare": li
stiamo polverizzando, i palazzi vengono polverizzati, la gente viene
polverizzata.
Persino il lancio di missili contro le nostre citta' non giustifica questa
ignoranza di qualsiasi considerazione morale nel combattere una guerra. ci
sarebbero stati altri modi di rispondere alle provocazioni degli hezbollah,
senza bisogno di "polverizzare" il Libano. L'intorpidimento morale si
trasformera' in un grave danno politico. Soltanto uno stupido puo' ignorare
la morale, perche', alla fine, essa si prendera' sempre la sua rivincita.
*
E' persino banale dire che e' piu' facile cominciare una guerra che finirla.
Non si sa mai come finira'.
Abbiamo cominciato una guerra di qualche giorno. L'abbiamo resa una guerra
di qualche settimana. Adesso parlano di mesi. Il nostro esercito ha iniziato
con una "azione chirurgica" dell'aviazione, dopodiche' ha mandato qualche
unita' in Libano, e adesso ci sono interi battaglioni che combattono la', ed
i riservisti continuano ad essere chiamati per un'invasione di larga scala
nello stile di quella del 1982. E c'e' gia' chi prevede uno sconfinamento
del conflitto verso la Siria.
Finora gli Stati Uniti hanno fatto tutto cio' che e' in loro potere per
impedire il cessate il fuoco. Tutto fa pensare che stiano spingendo Israele
verso la Siria, un paese dotato di armi biologiche e testate nucleari.
C'e' soltanto una cosa certa di questa guerra: non ne verra' niente di
buono. Se c'erano speranze nel passato che il Libano arrivasse un giorno a
stabilizzarsi, privando hezbollah del proprio pretesto alla
militarizzazione, ecco che adesso abbiamo fornito al "Partito di Dio" [e' la
traduzione di Hezbollah - ndr] la giustificazione perfetta: Israele
distrugge il Libano e soltanto Hezbollah sta difendendo il paese. E non
importa quanto durera' ancora questa guerra e con quali risultati: il fatto
che qualche migliaio di guerriglieri hanno tenuto testa all'esercito
israeliano per due settimane restera' fermamente impresso nella coscienza di
milioni di arabi e musulmani.
Non verra' mai niente di buono da questa guerra, non per Israele, ne' per il
Libano, ne' per la Palestina. E il "nuovo Medio Oriente" che ne verra' sara'
il peggior posto in cui vivere.

5. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: BOLOGNA, 2 AGOSTO 1980
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Gli attentati, le stragi, sono una cosa seria, tremendamente seria.
Per i piu' giovani, i giovanissimi, la memoria inizia con l'11 settembre
2001: l'attentato alle Torri Gemelle di New York. Ha scritto Ida
Dominijanni: "L'attacco al simbolo del potere americano nell'era globale,
che servira' a legittimare l'era del contrattacco americano 'preventivo', fu
in realta' un attacco al sogno cosmopolita, alla globalizzazione dal basso
incarnata da quella mescolanza di lingue, colori e culture incenerita nelle
Torri". Perche' quello che piu' facilmente si dimentica, e' che le 2.823
vittime dell'attentato appartenevano a piu' di sessanta popoli e etnie.
Per altri, la memoria degli attentati, delle stragi, e' sostanzialmente
rappresentata dai kamikaze che si fanno saltare in aria in Israele.
*
Noi, in Italia, sembra che siamo immuni da questa tragedia. Forse per uno
strano effetto della memoria, o piu' realisticamente di una smemoratezza
tutta nostrana.
Personalmente, quando vado a Bologna non posso impedirmi di passare almeno
per un attimo nella sala d'aspetto della stazione ferroviaria. Lo squarcio
rimasto nel muro dopo la bomba del 2 agosto del 1980, 85 morti e 177 feriti,
e' il simbolo della ferite insanabili che fanno parte della nostra storia.
Eppure e' sempre piu' difficile conservare memoria di quelle stragi,
definite come "stragi di stato", legati alla "strategia della tensione", e
che sostanzialmente, ad oggi, hanno lasciato le vittime senza verita' e
giustizia.
Forse sara' perche' il tutto e' iniziato nel lontano 1947, con il primo
maggio a Portella della Ginestra, in Sicilia. In quella localita' dal 1894
convengono ogni anno, con donne e bambini, i braccianti e i contadini di San
Giuseppe Jato, di San Cipirrello, di Piana degli Albanesi, spingendo
biciclette e muli bardati gaiamente e caricati di fisarmoniche, pietanze,
dolci e vini. Chitarre, fisarmoniche, zufoli sono pronti a far festa, una
gran festa agreste accanto al cippo del medico di Corleone Nicola Barbato,
che fu uno degli animatori del movimento contadino nella Sicilia
occidentale. Nel primo pomeriggio l'allegria dilaga; e constatato che gli
oratori che dovevano arrivare da Palermo tardavano, il segretario della
sezione socialista di San Giuseppe Jato, Giuseppe Schiro', si avvicina al
microfono per pronunciare il discorso di rito. Ma neanche inizia il discorso
che dalle due alture che sovrastano la localita' del raduno la banda di
Salvatore Giuliano rovescia piombo sulla folla festosa. Gli uomini, le
donne, i bambini cadono stroncati, i muli imbizzarriscono senza sfuggire
alla morte. Alla fine sul pianoro giacciono undici morti e cinquantasei
feriti. E' una rappresaglia contro l'affermazione del blocco del popolo alle
elezioni regionali del 20 aprile 1947 in cui le sinistre hanno appena
ottenuto un successo clamoroso: 567.000 voti e la percentuale del 29,13
contro i 399.000 voti e la percentuale del 20,52 ottenuta dalla Democrazia
Cristiana. Il ministro degli interni Scelba, quello che ogni mattina esce a
caccia di comunisti, parlando all'assemblea del 2 maggio, esclude il movente
dell'orrendo crimine: "Questo non e' un delitto politico e non puo' essere
un delitto politico perche' nessuna organizzazione politica potrebbe
rivendicare a se' la manifestazione e la sua organizzazione"...
*
In quindici anni, tra il 1969 (il 12 dicembre una bomba viene fatta
esplodere nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura, in piazza
Fontana a Milano), e il 1984 (23 dicembre: una bomba sul treno 904 uccide 16
persone e ne ferisce 131), in Italia sono avvenute otto stragi politiche,
con 150 morti e oltre 600 feriti. E' la cruda applicazione di una concezione
della politica nella quale la lotta al comunismo ha rappresentato la
giustificazione (e talvolta l'alibi) per ogni tipo di intervento. In America
Latina, per esempio, vorra' dire l'appoggio incondizionato per decenni da
parte degli Stati Uniti a regimi dittatoriali.
In conclusione, le commissioni italiane sulle stragi, alla fine, hanno
chiaramente indicato (sulla base di un'imponente documentazione) le
responsabilita' atlantiche (Cia) e nostrane (servizi segreti deviati) nella
"strategia della tensione": creare disordine per ristabilire "l'ordine". Ma
non e' successo nulla.
Certo, in Italia, fortunatamente (e nonostante vari tentativi) non c'e'
stato un colpo di Stato, ne' l'instaurazione di un regime sanguinario
lontanamente paragonabile a quelli dell'America Latina. Si veda, per tutti,
il Cile di Pinochet dell'11 settembre 1973. Ma ci sono stati molti morti
innocenti che viaggiavano in treno. O si trovavano in fila in una banca o a
manifestare in piazza contro la violenza fascista.
Loro e i loro parenti meritano la verita'.

6. APPELLI. GIOVANI D'IMPEGNO MISSIONARIO: UN APPELLO
[Da:Barbara Grimaudo (per contatti: barbaragrimaudo at hotmail.com) riceviamo e
diffondiamo il seguente comunicato a firma dei ragazzi che stanno svolgendo
il campo di lavoro organizzato da missionarie e missionari comboniani a
Licata]

E' con orrore e rabbia che ieri abbiamo appreso la notizia della tragica
morte per fame di tredici africani che con altri quattordici compagni di
sventura avevano tentato la traversata del canale di Sicilia. Erano partiti
venti giorni prima dalle coste libiche in una barca di 4 metri. Sono
rimasti, con il motore fuori uso, senza cibo e senza acqua in balia del
mare, sotto un sole implacabile. I sopravvissuti hanno dovuto buttare a mare
i cadaveri dei loro fratelli.
Oggi, solo 24 ore dopo, un'altra tragedia: diciassette africani sono morti
di stenti in un altro barcone che dalla Libia si dirigeva verso le nostre
coste. Tra questi morti, due neonati e cinque fratelli con meno di 10 anni.
Questi drammi si stanno consumando sotto i nostri occhi, in questo "mare
nostrum", dove l'Unione Europea afferma siano perite oltre 3.000 persone in
questi ultimi anni. E' un'immensa tragedia che continua sotto i nostri
occhi, sotto gli occhi di milioni di italiani, comodamente distesi a
prendere il sole su queste stesse spiagge.
Noi, una ventina di giovani provenienti da tutta Italia e partecipanti ad un
campo di lavoro a Licata (Agrigento) promosso dai missionarie e missionari
comboniani, siamo impietriti davanti a questi fatti, che avvengono sotto i
nostri occhi e nella quasi totale indifferenza degli italiani.
Abbiamo riflettuto a lungo su questo, anche con l'aiuto del regista
Montalbano, che ci ha presentato il suo documentario "Hurrya" (liberta'),
incentrato sull'arrivo e sulla permanenza degli immigrati nei Cpt [i "Centri
di permanenza temporanea", veri e propri campi di concentramento istituiti
nel 1998 dall'allora governo Prodi - ndr] siciliani.
Da queste spiagge del canale di Sicilia vogliamo far sentire la nostra
protesta di giovani. Non possiamo tacere, davanti a misfatti cosi' gravi che
avvengono soprattutto a giovani immigrati, nostri coetanei. Non possiamo
accettare la reazione davanti a questi fatti che ha avuto il nostro Ministro
dell'interno, che si e' limitato semplicemente a chiedere piu' sicurezza al
commissario italiano dell'Unione Europea: a) una missione urgente del
Frontex, che gestisce la cooperazione alle frontiere esterne; b)
l'attivazione dell'Operazione Jason 1 (un satellite con il compito di
scrutare i mari dall'alto). Non ci saremo aspettati questo dal ministro e
dal governo. Ci rendiamo conto che nonostante le belle promesse fatte dal
ministro dell'interno in questi due mesi, non si e' ancora avuta una svolta
su questo tema nel governo.
*
Per questo noi giovani chiediamo al governo:
1. pressione sull'Unione Europea, perche' adotti una politica piu' umana che
sappia accogliere e rispettare gli immigrati;
2. l'abrogazione della legge Bossi-Fini che consideriamo incostituzionale e
immorale;
3. la soppressione dei Cpt (autentici campi di concentramento) su tutto il
territorio nazionale;
4. il varo di una nuova legge quadro per l'immigrazione che introduca in
Italia il permesso di soggiorno per la ricerca di lavoro;
5. in sintonia con la nostra Costituzione, il varo di una legge sul diritto
di asilo politico per i profughi;
6. la rivelazione delle clausole del trattato Italia-Libia, sottoscritto dal
governo Berlusconi;
7. la rivelazione di quanti Cpt siano stati costruiti in Libia con i soldi
italiani;
8. la rivelazione di quanti voli siano stati pagati dall'Italia per
trasportare nei loro paesi d'origine i profughi africani deportati
dall'Italia in Libia;
9. l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta su come vengono
trattati i braccianti immigrati che lavorano nelle nostre campagne e su che
fine fanno i minori immigrati che arrivano nel nostro paese;
10. il varo di una politica estera italiana seria verso l'Africa, sempre
piu' prostrata, perche' possa rimettersi in piedi.
Ed infine come giovani cristiani ci sentiamo di rivolgerci ai nostri
vescovi, perche' collettivamente (soprattutto nel prossimo convegno
ecclesiale di Verona), dicano una parola forte su questo tema scottante, che
rivela sia il nostro grado di civilta' come la qualita' del nostro
cristianesimo.
*
I giovani d'impegno missionario (in sigla: Gim) del campo di lavoro a
Licata: Maria Cucciante, Alessandra Colina, Anna Maria Allocca, Sara Stenti,
Giuditta Risi, Giuseppe Zuccarello, Cristiana Calabro', Rosaria Santoro,
Maciek Zielinski, Vincenzo Salvucci, Rosa Berloco, Francesca Faramondi,
Giovanna Grieco, Francesca Pisani, Maria Giovanna Di Noto, Antonino
Giarratana, Giovanni Malfa, Gaia Pallecchi, Agnese Coniglio, Giuseppe
Patragnone.
E con loro padre Alex Zanotelli, suor Tarcisia Ciavarella, padre Gaspare Di
Vincenzo, suor Massimina, suor Mari Carmen Garcia, Barbara Grimaudo.

7. MONDO. "BEATI I COSTRUTTORI DI PACE": LE ELEZIONI IN CONGO
[Da Mariagrazia Bonollo, dell'ufficio stampa dei "Beati i costruttori di
pace" (per contatti: salbega at interfree.it) riceviamo e volentieri
diffondiamo alcuni altri comunicati e testimonianze degli osservatori
elettorali della societa' civile italiana nella Repubblica democratica del
Congo]

Bukavu, 30 luglio 2007
Giornata storica, oggi, per la Repubblica democratica del Congo. Per la
prima volta dopo 46 anni il Paese si reca alle urne per eleggere presidente
e parlamento con elezioni libere e multipartitiche.
Qui nell'est del Congo, tutto si sta svolgendo in maniera esemplare. Dalle 6
di questa mattina i centres de vote sono aperti, ma gia' dalle quattro
qualcuno si e' messo in fila per votare. Le attese sono state lunghe e
ordinate, davanti a ogni bureau de vote. All'interno, si e' seguita
diligentemente la complicata procedura, che la gente quasi sempre ha
dimostrato di conoscere bene: prima l'identificazione e la verifica che il
votante sia effettivamente registrato e non abbia gia' votato (l'inchiostro
indelebile viola marca il pollice sinistro di chi ha gia' esercitato il suo
diritto), poi si riceve la prima scheda, quella per scegliere il Presidente
della Repubblica fra trentatre' candidati. Riposta la scheda nella prima
urna, se ne riceve una seconda, ben piu' grande, su cui scegliere il proprio
candidato al parlamento. Si vota e si depone la seconda scheda in un'altra
urna. Assistono al voto i rappresentanti di partito e gli osservatori
nazionali e internazionali. Di tanto in tanto, nella cabina (un
parallelepipedo di cartone preformato, di due metri per sessanta centimetri)
entrano in due. Nulla di strano, la legge lo prevede: e' la procedura per il
voto degli analfabeti, che possono avvalersi del supporto di una persona da
loro scelta.
A mezzogiorno, nei centres de vote di Bukavu, un rapido calcolo diceva che
avevano gia' votato circa la meta' degli aventi diritto. L'affluenza e'
stata altissima, in questa regione del Congo, la piu' martoriata dalla
guerra. Il giorno tanto atteso e' finalmente arrivato e per le strade la
gente mostra orgogliosa ed esultante il pollice marcato di viola.
Anche dai villaggi delle province del Nord e Sud Kivu le notizie sono
incoraggianti: gli osservatori italiani che stanno monitorando il voto
segnalano la grande partecipazione e la regolarita' e calma che stanno
caratterizzando il voto. Qualche piccola irregolarita' procedurale qua e la'
e' l'unica segnalazione ricevuta, ma se si pensa che il Paese organizza per
la prima volta delle elezioni e che la gente non ha mai votato, i risultati
sono strabilianti.
Alle 17, ora prevista per la chiusura, quasi tutti i seggi da cui abbiamo
notizie hanno terminato e si apprestano allo spoglio. Si temeva che
potessero ripetersi le lunghe code che si erano verificate lo scorso 18
dicembre, per il referendum costituzionale, quando l'altissimo afflusso e la
scarsa organizzazione dell'evento avevano costretto all'ultimo minuto a
prolungare di un giorno il voto. Ora invece, almeno qui nel Kivu, la meticol
osa preparazione ha dato i suoi frutti e i seggi hanno chiuso all'ora
prevista.
Qualunque sara' il risultato che uscira' dalle urne, l'importante era
giungere al traguardo delle elezioni: una svolta storica per il Paese, una
meta che la gente vive come la realizzazione di un sogno. Rimandate piu'
volte nei mesi scorsi, nonostante i tentativi di boicottaggio di alcuni
politici e le aspre critiche delle ultime settimane, alla fine il giorno del
voto e' arrivato e il sorprendente senso civico della popolazione ha
permesso che tutto si svolgesse senza problemi.
Giusy Baioni
*
Bukavu, 31 luglio 2006
Il giorno dopo lo storico voto, la Repubblica democratica del Congo respira
e si gode la buona riuscita della giornata di ieri. Fin dall'alba di ieri,
lunghe e ordinate code di gente al bureau de vote, in attesa del proprio
turno per votare. Gia' dalle 4 di mattina, alcuni congolesi erano in fila in
attesa che alle 6 aprissero i seggi. E' stato per questo che le operazioni
di voto si sono svolte quasi ovunque entro i tempi previsti: alle 17, ora
decisa per la chiusura dei centres de vote, le code erano smaltite.
Addirittura - segnalano alcuni degli osservatori della societa' civile
italiana - qualche seggio ha potuto chiudere prima del previsto perche' era
gia' stato raggiunto il 100% dei votanti. Gli unici limitati ritardi si sono
avuti nelle zone rurali, dove l'alta percentuale di analfabeti ha rallentato
le procedure di voto.
Gli osservatori italiani hanno trascorso la notte nei bureau de vote,
seguendo le operazioni di spoglio. Nella maggior parte dei casi si e' svolto
tutto correttamente. Sono stati segnalati alcuni episodi curiosi, come le
difficolta' di effettuare lo spoglio notturno nelle tante zone in cui non
c'e' corrente elettrica: il kit elettorale aveva in dotazione una lampada,
che pero' non faceva abbastanza luce e aveva una durata troppo limitata e
dunque ci si e' arrangiati con l'uso di candele. Qualche lamentela in alcuni
centri da parte dei poliziotti che hanno vigilato sulle operazioni di voto,
perche' non avevano ancora ricevuto la paga promessa, e da parte degli
scrutatori, rimasti senza cibo tutto il giorno. Ma per il resto nessuna
grossa irregolarita'.
"E' stata la manifestazione della dignita' di un popolo - commenta Lisa
Clark, di "Beati i costruttori di pace" -, commovente e straordinaria.
Avevamo mille dubbi sulla possibilita' di svolgere le operazioni di voto in
sole undici ore, con regole complicate come quelle adottate, ma i congolesi
ci hanno stupito". Alcuni osservatori internazionali con una lunga
esperienza nel settore hanno confermato questa impressione, dicendo di non
aver mai visto nulla di cosi' corretto e riuscito.
"E' stato un esempio per il mondo - commenta entusiasta Eugenio Melandri,
gia' parlamentare europeo e coordinatore nazionale dell'associazione "Chiama
l'Africa" -, se si pensa che fino a due anni fa il Congo non aveva nemmeno
un'anagrafe".
Giusy Baioni

8. LIBRI. ANGELA PASCUCCI PRESENTA "IL NUOVO ORDINE CINESE" DI WANG HUI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 luglio 2006.
Angela Pascucci, giornalista, e' caporedattrice esteri del quotidiano "Il
manifesto".
Wang Hui, intellettuale critico cinesi, dirige la rivista "Dushu" a Pechino
ed e' stato visiting professor all'universita' di Washington; dopo aver
partecipato al movimento di Tien An Men, ha pubblicato numerosi studi in
Cina e all'estero sui temi della modernizzazione e del conflitto sociale]

Un'occhiata agli scaffali delle librerie rende evidente un paradosso in
quello che viene pubblicato in Italia riguardo alla Cina: i romanzi e le
raccolte di racconti di autori cinesi, piu' o meno degni del legno distrutto
per produrli, abbondano, mentre scarseggia, o non riesce a valicare i
confini delle pubblicazioni specialistiche, la produzione saggistica, di
analisi e narrazione teorica della straordinaria mutazione in atto in Cina
oggi, firmata da autori cinesi. Certo, arrivano in vetta alle classifiche le
vulgate e le analisi di giornalisti e accademici italiani, a dimostrazione
che l'interesse per un tema epocale di questa portata c'e', ma sembra
proprio che quanto pensino i cinesi medesimi riguardo a quel che accade loro
poco o nulla interessi gli editori italiani, magari convinti che la Cina sia
una tabula rasa, sconvolta dalle turbolenze della propria storia passata e
imbavagliata dal presente.
Il primo merito de Il nuovo ordine cinese. Societa', politica ed economia in
transizione di Wang Hui (Manifestolibri, prefazione di Edoarda Masi, pp.
192, 18 euro) e' allora quello di cominciare a riempire una voragine,
presentando in due lunghi saggi il dispiegarsi del dibattito intellettuale
in Cina, dall'inizio effettivo della politica di riforme, primi anni '80,
fino ai primi anni del nuovo millennio. Oltre due decenni nei quali viene
esplicitamente posta come punto di svolta dirimente la strage di Tien Anmen,
scatenata dalla leadership cinese nella notte fra il 3 e il 4 giugno 1989.
Il secondo merito e' quello di presentare ai lettori italiani una delle
menti piu' anticonformiste e brillanti del panorama intellettuale cinese
contemporaneo. Wang Hui, che ha poco piu' di 40 anni, e' innanzitutto un
letterato, un eminente studioso di Lu Xun e di altre personalita' di fine
Ottocento - inizio Novecento, che insegna all'Universita' Tsinghua di
Pechino ed e' condirettore della rivista "Dushu" (Letture) che dopo il suo
arrivo ha avuto un boom editoriale arrivando a vendere oltre 100.000 copie.
E' uno degli esponenti piu' in vista della "nuova sinistra" cinese, e come
tale bersagliato da tutto l'establishment neoliberista, cinese e
internazionale. Di fatto, l'etichetta non e' stata scelta da lui, che
preferisce invece definirsi "intellettuale critico".
Il percorso politico-teorico di Wang Hui e' strettamente intrecciato alla
sua storia personale. All'alba del 4 giugno fuggiva da piazza Tien Anmen,
dove il massacro degli studenti era in corso, per rifugiarsi, "pieno di
rabbia e di disperazione" come racconta lui stesso, sulle montagne Qinling,
nella Cina centrale. La', in un mondo completamente diverso da quello
cittadino e colto finora conosciuto, rimane per buona parte del 1990,
vivendo un'esperienza che lascera' su di lui un segno indelebile e lo
spingera' da quel momento a creare un legame fra universi cosi' lontani, "a
ricostruire la relazione fra il mondo degli intellettuali e il mondo
esterno".
*
E' questa intenzione il cardine de Il nuovo ordine cinese nel quale il
letterato Wang si trasforma in penetrante, e complesso, analizzatore delle
teorie politiche elaborate negli ultimi due decenni in Cina e riesce a
decostruire e svelare il nuovo discorso ideologico e i nuovi miti indotti
dalla trasformazione epocale del paese, da quello della "transizione" (che
considera necessarie le ineguaglianze attuali in nome di un ideale ultimo da
raggiungere) a quello della "modernita'" e dello "sviluppo".
La franchezza critica senza precedenti con cui Wang Hui, in un saggio del
1997 riprodotto nel libro, ha scandagliato l'universo intellettuale a lui
prossimo ha fatto scalpore nell'intellighenzia, suscitando polemiche e
alzate di scudi. Porre come punto di svolta, nell'evoluzione e nel
cambiamento della teoria politica, la strage di Tien Anmen, evento epocale
che resta un tabu' cristallizzato dall'interpretazione ufficiale di
"controrivoluzione", ha ulteriormente inasprito i termini della discussione.
Wang rilegge tutta la trasformazione cinese alla luce del trauma dell'89,
che in Cina come nel mondo "inauguro' la struttura politica ed economica con
cui il neoliberismo arrivo' a dominare il mondo".
Tien Anmen, afferma Wang, non segno' una discontinuita' nel processo di
riforma radicale in atto nel suo paese ma rivelo' definitivamente il marchio
di violenza che gli era insito e che prevalse, nel momento in cui tutte le
illusioni e le speranze di diversita' alimentate dal precedente decennio di
cambiamento furono spazzate via con la violenza. Le proteste non avvennero
solo sulla piazza, ricorda Wang Hui, ma in tutta la Cina, e protagonisti non
furono solo gli studenti, ma un movimento piu' vasto portatore di richieste
di cambiamento che non vertevano solo sulla democrazia formale del suffragio
universale, come riferivano le cronache occidentali, ma su un concetto
sostanziale di democrazia sociale, tradito dal discorso ideologico dello
stato-partito.
Quel che segui' alla repressione fu "il nuovo ordine" neoliberista garantito
dalla violenza dello stato, rilanciato nel '92 da Deng Xiaoping durante il
suo viaggio al Sud. Alla luce di quanto avvenne, e avviene, e' dunque
ipocrita chiedere al Leviatano di ritirarsi per consentire il libero
dispiegarsi delle forze di mercato perche', come il 4 giugno '89 ha
dimostrato, sono il controllo e la violenza dello stato gli unici garanti di
interessi che ormai si sono fatti dominanti. Il discorso e' legato agli
eventi cinesi ma Wang Hui ne esplicita un'universalita' che fa della Cina
l'avamposto della globalizzazione neoliberista e della ribellione cinese
dell'89 il primo vero precursore del movimento che si manifestera' a Seattle
nel '99.
*
Pur avendo accettato l'etichetta di "nuova sinistra" Wang Hui ci tiene a
dire che non e' un nostalgico dei tempi che furono, ha sempre sostenuto la
politica di riforme e non e' affatto contrario al mercato. Nel suo discorso
non e' tuttavia chiaro come sia possibile tornare a forme di mercato non
capitalistiche, tanto piu' nella Cina di oggi. Una difficolta' aggiuntiva
dell'analisi di Wang Hui, come rileva Edoarda Masi, e' il contesto ambiguo
in cui il suo pensiero si esercita. Se in Occidente siamo abituati a
ragionare sui "fronti", politici e sociali, per quanto sfumati la realta' li
abbia resi oggi, in Cina cio' non accade "perche' il terreno di contesa
rimane, sia pur artificialmente, chiuso all'interno del socialismo. Il
pensiero totalitario, cosi', continua oggi come se permanesse la stessa
unita' e non ci fosse stato un capovolgimento dei contenuti". Su questo
sfondo opaco restano cosi' inesplicitati sia gli elementi di rottura che
quelli di continuita' dell'attuale regime politico rispetto al passato.
Imporre una nuova modalita' di cambiamento appare dunque difficilissimo,
tanto piu' se ogni tentativo di ribellione viene etichettato come
"radicalismo", termine che, richiamando la rivoluzione culturale, condanna
alla demonizzazione chiunque se lo veda attribuire. Ma cambiare sara'
necessario. Tutti gli elementi di corruzione, disparita', ineguaglianza,
ingiustizia sociale che portarono alla ribellione di Tien Anmen si
ripresentano oggi, aggravati, e l'insofferenza dei cinesi esclusi o vittime
sta crescendo. Come rivelano anche le statistiche ufficiali sugli "episodi
di massa" (definizione che comprende sit-in, manifestazioni e vere e proprie
rivolte) che nel 2005 sono stati oltre 80.000, e aumentano costantemente al
ritmo di crescita del Pil.
Il pragmatismo denghista aveva coniato la formula "attraversare il fiume
avanzando su una pietra alla volta". Fu universalmente accettato che c'era
un fiume da attraversare e una riva, quella del passato, da lasciare. Ma
ancora non si discerne come sara' l'altra sponda, quella dove i cinesi,
nella loro foga, stanno conducendo anche il resto del mondo. Neppure Wang
Hui sa descrivere la riva del futuro, tuttavia avverte lucidamente che i
sassi su cui si e' scelto di poggiare il piede non sono inanimati strumenti
a disposizione di tutti. Ma se ne rende conto chi e' gia' scivolato ed e'
stato travolto dai flutti.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1376 del 3 agosto 2006

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