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La nonviolenza e' in cammino. 1376
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1376
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 3 Aug 2006 00:35:30 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1376 del 3 agosto 2006 Sommario di questo numero: 1. Pierre Vidal-Naquet 2. Nouhad Moawad: Un messaggio nella notte 3. Enrico Peyretti: Guerre e silenzi 4. Uri Avnery: Il risultato 5. Giulio Vittorangeli: Bologna, 2 agosto 1980 6. Giovani d'mpegno missionario: Un appello 7. "Beati i costruttori di pace": Le elezioni in Congo 8. Angela Pascucci presenta "Il nuovo ordine cinese" di Wang Hui 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. LUTTI. PIERRE VIDAL-NAQUET Ci ha lasciato un maestro. Di comprensione dell'umano. Di resistenza contro l'inumano. 2. TESTIMONIANZE. NOUHAD MOAWAD: UN MESSAGGIO NELLA NOTTE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente testo. Nouhad Moawad, laureanda traduttrice all'Universita' di Beirut, dal 2 luglio e fino al prossimo 5 settembre lavora a New York in un progetto seminariale di "We News"] Ieri notte sono stata svegliata dal suono del mio cellulare. Ero ancora semiaddormentata quando ho letto il messaggio mandatomi dalla mia amica studentessa in psicologia all'Universita' di Beirut e di mestiere clown. Aveva scritto: "Bambini, bambini, bambini... E' incredibile cio' che sta accadendo. Cosa avevano fatto di male?". Non capivo a cosa si riferisse. Avrei voluto tornare a dormire, ma invece sono andata al computer per scoprire cosa stava accadendo. Sono rimasta sconvolta quando ho letto dell'attacco aereo israeliano su Cana, che ha ucciso 57 civili, fra cui 37 bimbi, sebbene alcune stime siano piu' basse. Io non potevo credere che stesse succedendo di nuovo. Dieci anni fa, quando io avevo 11 anni, gli israeliani attaccarono Cana con l'artiglieria, uccidendo un centinaio di civili, incluse le donne e i bambini. I miei genitori non mi lasciarono guardare le notizie in televisione, quella sera. Mandarono me e mia sorella in un'altra stanza, affinche' non vedessimo. Ma gli altri ragazzini a scuola avevano visto i telegiornali, e mi raccontarono ogni orribile dettaglio della vicenda. Ora, questa storia tremenda si ripete. Sta accadendo nel XXI secolo, in un mondo che dice di combattere "per la democrazia, la liberta' e i diritti umani". Per un po' mi sono sentita come se il tempo si fosse fermato, e si stesse riavvolgendo all'indietro, verso la barbarie di migliaia di anni orsono. Non riuscivo ad alzarmi dalla sedia. Sono rimasta li' per mezz'ora... Ho cominciato a chiedermi come si sara' sentito il pilota che ha sganciato la bomba. Era contento? Soddisfatto? Riuscira' a dormire la notte, senza vedere innocenti morti nei suoi sogni? Pensava ai suoi, di bambini, quando lo ha fatto? E cosa avevano fatto i bambini di Cana ad Israele? Lanciavano missili oltre i confini? Non credo proprio. Non sapevano neppure cosa stesse succedendo. Piu' tardi, sentendomi sul punto di esplodere, ho telefonato all'amica che mi aveva mandato il messaggio. Le ho chiesto come stava. Ha risposto: "Oh, sono viva! Tutto il resto va male. Non c'e' piu' carburante. Presto l'elettricita' se ne andra' del tutto. Il cibo comincia a non esserci piu'". Siamo rimaste entrambe in silenzio per un attimo. Poi le ho chiesto se pensava di lasciare il paese. Mi ha detto: "Abbiamo tentato con gli Usa, visto che ci vivono i miei nonni, ma l'ambasciata statunitense e' chiusa e non rilasciano visti d'ingresso. L'ambasciata canadese rilascia visti per chi ha parenti in Canada, cosi' come l'ambasciata francese. Noi potremmo tentare con la Danimarca, dove vive mio cugino". Qui e' caduta la linea. E' inumano, cio' che sta accadendo al mio paese, al Libano. La reazione della comunita' internazionale mi rende ancora piu' triste. Dicono di rigettare questa guerra e nessuno fa nulla per fermarla. 3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: GUERRE E SILENZI [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario] Nuove guerre, nuove stragi atroci, nuova impotenza della legge, nuova incertezza o vilta' di chi deve imporla. No, non nuove. Nuove sono soltanto le vittime, fino a ieri vive. Nuove le vittime, anche perche' sono nuovi bambini che la vita aveva appena donato al mondo, affidato a noi. Antiche sono la guerra, la violenza, l'uccisione. Antiche come l'abisso oscuro, come il caos prima del sole, della luna e della terra. Ma antica e nuova come le colline, uscite dal caos, e' la nonviolenza, il lungo sottile cammino umano per costruire la vita nella giustizia e nella pace. Ora, oggi, si uccide e si distrugge: le case, che hanno braccia, occhi e cuore, che sono il corpo vivo di una famiglia; le strade e i ponti, che sono le vene vive di un popolo nella sua terra; le centrali di elettricita' e telefoni, che sono la bocca, le orecchie, l'energia di un popolo che vive la sua vita umana. Si uccidono i corpi personali, la carne e le membra, i volti unici di ognuno: volti amati, belli, difficili, attesi, interpellati, volti che ridono, che osservano, che piangono nelle tante vicende delle vite umane. Si colpiscono dal cielo, come fulmini di una malvagia divinita', nemica della vita. Si uccide da una parte, si uccide dall'altra. Uccide l'uno perche' l'altro ha ucciso. Fare i conti degli uccisi di qua e degli uccisi di la' serve un poco ad analizzare, ma non a risolvere. Il solo numero che conta e' la somma delle vittime, che si ritrovano insieme, di la' dalla guerra. Il numero che conta sono le onde circolari di dolore, di offesa, di memoria e di odio che ogni uccisione diffonde attorno, sulla terra e sul tempo. Ogni parte si giustifica accusando. La catena di ferro delle colpe va indietro all'infinito, affonda in quel caos, da cui la natura e la storia hanno il primario compito di uscire. Unico merito e vittoria sarebbero di chi smette, di chi posa l'arma e invita alla parola. Non si ha pace senza dare pace. * La potenza armata e' ubriaca di se'. E' fatta cieca dalla morte che impugna come strumento, dalla morte che e' buio dilagante, sulla terra e sulle menti superbe. La mano armata e l'occhio che la dirige sono resi folli dalla propria potenza, che li ha schiavizzati, al servizio della grande morte. I nemici sono nemici tra loro e identici gemelli nella follia. Buia follia, fede nel buio caos del nulla, che purificherebbe il mondo dal male. E il male e' sempre l'altro. Proprio questa e' la fede apocalittica degli armati. Intendono apocalisse come distruzione del male, e ignorano che significa paziente rivelazione del bene. Proprio questa e' la loro maledetta religione. Gli uni dicono: "Vinceremo noi, perche' l'Occidente cerca la vita e noi la morte". Gli altri dicono. "Noi siamo il forte Marte, voi, vecchia Europa, la molle Venere. E voi, mondo diverso, il puro male". Religione apocalittica degli uni e degli altri, tradimento e bestemmia di due grandi religioni della vita. Con cuore nero e occhio nero, vedono entrambi il mondo come male. Male da purificare con la morte inflitta all'altro. Inflitta all'altro, ma in fondo anche a se'. Il sui-omicida ha l'arma assoluta, e' lui stesso l'arma che nessuna minaccia puo' fermare. O gli parli, o lo incontri come essere umano, che possa liberarsi dalla sua ossessione, che non trovi altri motivi nei fatti, oppure uccidera'. Infallibilmente. O gli diciamo che ben conosciamo la storia dell'inquita', e che insieme cerchiamo una nuova storia di giustizia, oppure uccidera'. Non giustificato, uccidera', ma condannato dalle colpe di tutti. E' cosi' anche l'arma atomica, totale: chi la usa, o anche solo la minaccia, o anche solo la possiede, o anche solo la fabbrica, o anche solo la pensa, costui e' suicida nell'uccidere. Credono, i folli nemici-complici, che per rifare il mondo si debba distruggerlo. Pensano entrambi, uccidendo, di rendere un culto a Dio (Giovanni, 16, 2). Pensano di aiutarlo sradicando dal suo campo la zizzania, e non vogliono ricordare l'avvertimento. Pensano di difendere il dono divino della terra calpestando il diritto divino della vita. * Noi guardiamo, certamente spaventati, certamente orripilati. Balbettiamo parole, ma piu' vero e' il silenzio. Non il silenzio assente, che chiude gli occhi per ignorare, che si distrae per campare. Il silenzio, invece, che tutto abbraccia dentro di se', il male come il bene, la vittima come il carnefice. Il silenzio che, prima di ogni giudizio - presto necessario -, prende su di se' il dolore e la colpa. Come tacque il Condannato davanti a Pilato. Un vivo silenzio, quando la verita' e' messa a tacere. Noi resistiamo a pensare che un piccolo fiore sul monte, un fiore comparso sul prato, nutriti dalla luce come una madre, dicono, in forte silenzio, la verita': la vita, la fragile vita, questa imperfetta umanita', ogni persona cosi' com'e', la preziosa natura brulicante di vite, tutto cio' vale, tutto cio' va amato, perdonato e difeso. Oggi non abbiamo altro da sapere, non altro da dire. 4. RIFLESSIONE. URI AVNERY: IL RISULTATO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2006. Uri Avnery e' nato ad Hannover nel 1924, ed e' emigrato in Palestina all'avvento del nazismo; gia' militante dell'Haganah e combattente nella guerra del 1948; piu' volte parlamentare, giornalista, impegnato nell'opposizione democratica e nel dialogo col popolo palestinese; e' tra le voci più vive del movimento pacifista israeliano. Opere di Uri Avnery: Israele senza sionisti, Laterza, Bari 1970; Mio fratello, il nemico, Diffusioni 84, Milano 1988] "Sembra che Nasrallah sia sopravvissuto", hanno annunciato i giornali israeliani, dopo che 23 tonnellate di bombe sono state scaricate nel sito di Beirut dove si riteneva fosse il bunker del leader hezbollah. Alcune ore dopo il bombardamento, Nasrallah rilasciava un'intervista ad al-Jazeera. Ma i nostri ministri hanno deciso che questo e' l'obiettivo. Non che ci sia gran novita' in questo: diversi governi israeliani hanno usato questa tattica di uccidere leaders di gruppi avversari. Il nostro esercito ha gia' ucciso, fra gli altri, il leader hezballah Abbas Mussawi, il numero due dell'Olp Abu Jihad, come anche Sheikh Ahmad Yassin ed altri capi di Hamas. Quasi tutti i palestinesi, e non soltanto loro, sono convinti che persino Yasser Arafat sia stato assassinato. E i risultati? Il posto di Mussawi e' stato preso da Nasrallah, ben piu' abile. Lo sceicco Yassin e' stato sostituito da leaders ben piu' radicali. Al posto di Arafat ora abbiamo Hamas. Come per altre questioni politiche, una mentalita' triviale governa questi ragionamenti. E' vero che siamo una democrazia. L'esercito e' interamente soggetto all'estabilishment civile. Secondo la legge, il primo ministro e' il comandante supremo dell'esercito (che in Israele include marina ed aviazione). Ma in pratica ultimamente e' il piu' alto militare in grado a decidere di qualsiasi questione militare o politica. Quando il generale Dan Halutz dice ai ministri che il comando militare ha deciso questa o quella operazione, non ci sono ministri che osino opporsi. Tantomeno i ministri laburisti. Ehud Olmert si presenta come l'erede di Churchill ("lacrime, sudore e sangue"). Il che e' abbastanza patetico. Poi ecco Amir Peretz che gonfia il petto e strilla minacce in tutte le direzioni: il che, se possibile, e' ancora piu' patetico. * Non e' piu' un segreto che questa guerra e' stata pianificata a lungo. I corrispondenti militari hanno dichiarato orgogliosi questa settimana che l'esercito si e' preparato per questa guerra per anni nei minimi dettagli, mentre i politici e i generali proclamavano che "mai piu' entreremo nel pantano libanese, mai piu' invieremo forze terrestri laggiu'". Adesso ci siamo, nel pantano, e ingenti forze terrestri operano laggiu'. Anche sul lato opposto di sono preparati per anni a questa guerra. Non soltanto si ammassavano migliaia di missili, ma hanno anche messo a punto un elaborato sistema di bunkers, tunnel e caverne alla maniera vietnamita. Adesso i nostri soldati si scontrano contro questo sitema e ne pagano l'alto prezzo. Come al solito, il nostro esercito ha trattato gli arabi con sufficienza sottovalutandone le capacita' militari. E' uno dei problemi della mentalita' militare. Non sbagliava chi diceva che "la guerra e' un affare troppo serio per lasciarlo nelle amni dei generali". La mentalita' dei generali, per professione ed educazione, e' per sua natura orientata alla forza, semplicistica, unidimensionale, per non dire triviale. Si basa sulla convinzione che i problemi si possano risolvere con la forza. E se non funziona, con piu' forza. Tutto cio' e' ben illustrato da come e' stata pianificata e condotta questa guerra. Si sono basati sull'assunto che se noi imponiamo sofferenze terribili alla popolazione libanese, questa insorgera' chiedendo l'espulsione di Hezbollah. Una cognizione minima della psicologia di massa suggerirebbe il contrario. L'uccisione di centinaia di civili libanesi, appartenenti a tutte le comunita' etnico-religiose, l'aver fatto della vita altrui un inferno, la distruzione delle infrastrutture civili libanesi, sollevera' tempeste di furia ed odio, ma contro Israele, non certo contro gli eroi, come vengono visti, che sacrificano le loro vite in difesa del paese. Il risultato sara' il rafforzamento di Hezbollah, non soltanto oggi, ma per gli anni a venire. Forse sara' il principale risultato di questa guerra, piu' importante di qualsiasi vittoria militare, se ve ne saranno. E non soltanto in Libano, ma in tutto il mondo arabo e musulmano. Di fronte agli orrori mostrati in tv e tramite internet, anche l'opinione pubblica sta cambiando. Cio' che veniva visto come l'inizio di una risposta giustificata dalla cattura di due soldati adesso sembra l'azione barbarica di una macchina da guerra fra le piu' brutali. Migliaia di mailing lists hanno messo in circolo una orribile serie di foto di bambini mutilati. In coda, una macabra foto: allegri bimbetti israeliani che scrivono "saluti" sui missili in procinto di essere lanciati. Poi compare un messaggio: "grazie ai bambini israeliani per questo bel regalo; e grazie al mondo, che non fa niente. Firmato: i bambini di Libano e Palestina". * In generale, quando sono gli ufficiali di un esercito a determinare la politica di un paese, seri problemi morali insorgono. In guerra, un comandante e' obbligato a prendere dure decisioni. Indurisce il proprio cuore. Come disse il generale Amos Yaron dopo il massacro di Sabra e Chatila: "I nostri sensi sono stati intorpiditi". Anni di occupazione militare nei Territori palestinesi hanno causato un estremo intorpidimento nei confronti delle vite umane. L'uccisione di dieci o venti palestinesi al giorno, e fra questi donne e bambini, come accade in questi giorni a Gaza, non scuote nessuno. Non fa neanche notizia. Gradualmente, non si sentono piu' neanche le espressioni piu' trite, come ´Ci dispiace... non volevamo... siamo l'esercito piu' morale al mondo...", e cosi' via. Questo intorpidimento si rivela anche in Libano. Ufficiali dell'aviazione, sereni e tranquilli, siedono di fronte alle cineprese e parlano di "gruppi di bersagli" come se non si trattasse neanche piu' di esseri viventi. Ultimamente, la parola piu' in voga fra i generali e' "polverizzare": li stiamo polverizzando, i palazzi vengono polverizzati, la gente viene polverizzata. Persino il lancio di missili contro le nostre citta' non giustifica questa ignoranza di qualsiasi considerazione morale nel combattere una guerra. ci sarebbero stati altri modi di rispondere alle provocazioni degli hezbollah, senza bisogno di "polverizzare" il Libano. L'intorpidimento morale si trasformera' in un grave danno politico. Soltanto uno stupido puo' ignorare la morale, perche', alla fine, essa si prendera' sempre la sua rivincita. * E' persino banale dire che e' piu' facile cominciare una guerra che finirla. Non si sa mai come finira'. Abbiamo cominciato una guerra di qualche giorno. L'abbiamo resa una guerra di qualche settimana. Adesso parlano di mesi. Il nostro esercito ha iniziato con una "azione chirurgica" dell'aviazione, dopodiche' ha mandato qualche unita' in Libano, e adesso ci sono interi battaglioni che combattono la', ed i riservisti continuano ad essere chiamati per un'invasione di larga scala nello stile di quella del 1982. E c'e' gia' chi prevede uno sconfinamento del conflitto verso la Siria. Finora gli Stati Uniti hanno fatto tutto cio' che e' in loro potere per impedire il cessate il fuoco. Tutto fa pensare che stiano spingendo Israele verso la Siria, un paese dotato di armi biologiche e testate nucleari. C'e' soltanto una cosa certa di questa guerra: non ne verra' niente di buono. Se c'erano speranze nel passato che il Libano arrivasse un giorno a stabilizzarsi, privando hezbollah del proprio pretesto alla militarizzazione, ecco che adesso abbiamo fornito al "Partito di Dio" [e' la traduzione di Hezbollah - ndr] la giustificazione perfetta: Israele distrugge il Libano e soltanto Hezbollah sta difendendo il paese. E non importa quanto durera' ancora questa guerra e con quali risultati: il fatto che qualche migliaio di guerriglieri hanno tenuto testa all'esercito israeliano per due settimane restera' fermamente impresso nella coscienza di milioni di arabi e musulmani. Non verra' mai niente di buono da questa guerra, non per Israele, ne' per il Libano, ne' per la Palestina. E il "nuovo Medio Oriente" che ne verra' sara' il peggior posto in cui vivere. 5. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: BOLOGNA, 2 AGOSTO 1980 [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"] Gli attentati, le stragi, sono una cosa seria, tremendamente seria. Per i piu' giovani, i giovanissimi, la memoria inizia con l'11 settembre 2001: l'attentato alle Torri Gemelle di New York. Ha scritto Ida Dominijanni: "L'attacco al simbolo del potere americano nell'era globale, che servira' a legittimare l'era del contrattacco americano 'preventivo', fu in realta' un attacco al sogno cosmopolita, alla globalizzazione dal basso incarnata da quella mescolanza di lingue, colori e culture incenerita nelle Torri". Perche' quello che piu' facilmente si dimentica, e' che le 2.823 vittime dell'attentato appartenevano a piu' di sessanta popoli e etnie. Per altri, la memoria degli attentati, delle stragi, e' sostanzialmente rappresentata dai kamikaze che si fanno saltare in aria in Israele. * Noi, in Italia, sembra che siamo immuni da questa tragedia. Forse per uno strano effetto della memoria, o piu' realisticamente di una smemoratezza tutta nostrana. Personalmente, quando vado a Bologna non posso impedirmi di passare almeno per un attimo nella sala d'aspetto della stazione ferroviaria. Lo squarcio rimasto nel muro dopo la bomba del 2 agosto del 1980, 85 morti e 177 feriti, e' il simbolo della ferite insanabili che fanno parte della nostra storia. Eppure e' sempre piu' difficile conservare memoria di quelle stragi, definite come "stragi di stato", legati alla "strategia della tensione", e che sostanzialmente, ad oggi, hanno lasciato le vittime senza verita' e giustizia. Forse sara' perche' il tutto e' iniziato nel lontano 1947, con il primo maggio a Portella della Ginestra, in Sicilia. In quella localita' dal 1894 convengono ogni anno, con donne e bambini, i braccianti e i contadini di San Giuseppe Jato, di San Cipirrello, di Piana degli Albanesi, spingendo biciclette e muli bardati gaiamente e caricati di fisarmoniche, pietanze, dolci e vini. Chitarre, fisarmoniche, zufoli sono pronti a far festa, una gran festa agreste accanto al cippo del medico di Corleone Nicola Barbato, che fu uno degli animatori del movimento contadino nella Sicilia occidentale. Nel primo pomeriggio l'allegria dilaga; e constatato che gli oratori che dovevano arrivare da Palermo tardavano, il segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato, Giuseppe Schiro', si avvicina al microfono per pronunciare il discorso di rito. Ma neanche inizia il discorso che dalle due alture che sovrastano la localita' del raduno la banda di Salvatore Giuliano rovescia piombo sulla folla festosa. Gli uomini, le donne, i bambini cadono stroncati, i muli imbizzarriscono senza sfuggire alla morte. Alla fine sul pianoro giacciono undici morti e cinquantasei feriti. E' una rappresaglia contro l'affermazione del blocco del popolo alle elezioni regionali del 20 aprile 1947 in cui le sinistre hanno appena ottenuto un successo clamoroso: 567.000 voti e la percentuale del 29,13 contro i 399.000 voti e la percentuale del 20,52 ottenuta dalla Democrazia Cristiana. Il ministro degli interni Scelba, quello che ogni mattina esce a caccia di comunisti, parlando all'assemblea del 2 maggio, esclude il movente dell'orrendo crimine: "Questo non e' un delitto politico e non puo' essere un delitto politico perche' nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a se' la manifestazione e la sua organizzazione"... * In quindici anni, tra il 1969 (il 12 dicembre una bomba viene fatta esplodere nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura, in piazza Fontana a Milano), e il 1984 (23 dicembre: una bomba sul treno 904 uccide 16 persone e ne ferisce 131), in Italia sono avvenute otto stragi politiche, con 150 morti e oltre 600 feriti. E' la cruda applicazione di una concezione della politica nella quale la lotta al comunismo ha rappresentato la giustificazione (e talvolta l'alibi) per ogni tipo di intervento. In America Latina, per esempio, vorra' dire l'appoggio incondizionato per decenni da parte degli Stati Uniti a regimi dittatoriali. In conclusione, le commissioni italiane sulle stragi, alla fine, hanno chiaramente indicato (sulla base di un'imponente documentazione) le responsabilita' atlantiche (Cia) e nostrane (servizi segreti deviati) nella "strategia della tensione": creare disordine per ristabilire "l'ordine". Ma non e' successo nulla. Certo, in Italia, fortunatamente (e nonostante vari tentativi) non c'e' stato un colpo di Stato, ne' l'instaurazione di un regime sanguinario lontanamente paragonabile a quelli dell'America Latina. Si veda, per tutti, il Cile di Pinochet dell'11 settembre 1973. Ma ci sono stati molti morti innocenti che viaggiavano in treno. O si trovavano in fila in una banca o a manifestare in piazza contro la violenza fascista. Loro e i loro parenti meritano la verita'. 6. APPELLI. GIOVANI D'IMPEGNO MISSIONARIO: UN APPELLO [Da:Barbara Grimaudo (per contatti: barbaragrimaudo at hotmail.com) riceviamo e diffondiamo il seguente comunicato a firma dei ragazzi che stanno svolgendo il campo di lavoro organizzato da missionarie e missionari comboniani a Licata] E' con orrore e rabbia che ieri abbiamo appreso la notizia della tragica morte per fame di tredici africani che con altri quattordici compagni di sventura avevano tentato la traversata del canale di Sicilia. Erano partiti venti giorni prima dalle coste libiche in una barca di 4 metri. Sono rimasti, con il motore fuori uso, senza cibo e senza acqua in balia del mare, sotto un sole implacabile. I sopravvissuti hanno dovuto buttare a mare i cadaveri dei loro fratelli. Oggi, solo 24 ore dopo, un'altra tragedia: diciassette africani sono morti di stenti in un altro barcone che dalla Libia si dirigeva verso le nostre coste. Tra questi morti, due neonati e cinque fratelli con meno di 10 anni. Questi drammi si stanno consumando sotto i nostri occhi, in questo "mare nostrum", dove l'Unione Europea afferma siano perite oltre 3.000 persone in questi ultimi anni. E' un'immensa tragedia che continua sotto i nostri occhi, sotto gli occhi di milioni di italiani, comodamente distesi a prendere il sole su queste stesse spiagge. Noi, una ventina di giovani provenienti da tutta Italia e partecipanti ad un campo di lavoro a Licata (Agrigento) promosso dai missionarie e missionari comboniani, siamo impietriti davanti a questi fatti, che avvengono sotto i nostri occhi e nella quasi totale indifferenza degli italiani. Abbiamo riflettuto a lungo su questo, anche con l'aiuto del regista Montalbano, che ci ha presentato il suo documentario "Hurrya" (liberta'), incentrato sull'arrivo e sulla permanenza degli immigrati nei Cpt [i "Centri di permanenza temporanea", veri e propri campi di concentramento istituiti nel 1998 dall'allora governo Prodi - ndr] siciliani. Da queste spiagge del canale di Sicilia vogliamo far sentire la nostra protesta di giovani. Non possiamo tacere, davanti a misfatti cosi' gravi che avvengono soprattutto a giovani immigrati, nostri coetanei. Non possiamo accettare la reazione davanti a questi fatti che ha avuto il nostro Ministro dell'interno, che si e' limitato semplicemente a chiedere piu' sicurezza al commissario italiano dell'Unione Europea: a) una missione urgente del Frontex, che gestisce la cooperazione alle frontiere esterne; b) l'attivazione dell'Operazione Jason 1 (un satellite con il compito di scrutare i mari dall'alto). Non ci saremo aspettati questo dal ministro e dal governo. Ci rendiamo conto che nonostante le belle promesse fatte dal ministro dell'interno in questi due mesi, non si e' ancora avuta una svolta su questo tema nel governo. * Per questo noi giovani chiediamo al governo: 1. pressione sull'Unione Europea, perche' adotti una politica piu' umana che sappia accogliere e rispettare gli immigrati; 2. l'abrogazione della legge Bossi-Fini che consideriamo incostituzionale e immorale; 3. la soppressione dei Cpt (autentici campi di concentramento) su tutto il territorio nazionale; 4. il varo di una nuova legge quadro per l'immigrazione che introduca in Italia il permesso di soggiorno per la ricerca di lavoro; 5. in sintonia con la nostra Costituzione, il varo di una legge sul diritto di asilo politico per i profughi; 6. la rivelazione delle clausole del trattato Italia-Libia, sottoscritto dal governo Berlusconi; 7. la rivelazione di quanti Cpt siano stati costruiti in Libia con i soldi italiani; 8. la rivelazione di quanti voli siano stati pagati dall'Italia per trasportare nei loro paesi d'origine i profughi africani deportati dall'Italia in Libia; 9. l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta su come vengono trattati i braccianti immigrati che lavorano nelle nostre campagne e su che fine fanno i minori immigrati che arrivano nel nostro paese; 10. il varo di una politica estera italiana seria verso l'Africa, sempre piu' prostrata, perche' possa rimettersi in piedi. Ed infine come giovani cristiani ci sentiamo di rivolgerci ai nostri vescovi, perche' collettivamente (soprattutto nel prossimo convegno ecclesiale di Verona), dicano una parola forte su questo tema scottante, che rivela sia il nostro grado di civilta' come la qualita' del nostro cristianesimo. * I giovani d'impegno missionario (in sigla: Gim) del campo di lavoro a Licata: Maria Cucciante, Alessandra Colina, Anna Maria Allocca, Sara Stenti, Giuditta Risi, Giuseppe Zuccarello, Cristiana Calabro', Rosaria Santoro, Maciek Zielinski, Vincenzo Salvucci, Rosa Berloco, Francesca Faramondi, Giovanna Grieco, Francesca Pisani, Maria Giovanna Di Noto, Antonino Giarratana, Giovanni Malfa, Gaia Pallecchi, Agnese Coniglio, Giuseppe Patragnone. E con loro padre Alex Zanotelli, suor Tarcisia Ciavarella, padre Gaspare Di Vincenzo, suor Massimina, suor Mari Carmen Garcia, Barbara Grimaudo. 7. MONDO. "BEATI I COSTRUTTORI DI PACE": LE ELEZIONI IN CONGO [Da Mariagrazia Bonollo, dell'ufficio stampa dei "Beati i costruttori di pace" (per contatti: salbega at interfree.it) riceviamo e volentieri diffondiamo alcuni altri comunicati e testimonianze degli osservatori elettorali della societa' civile italiana nella Repubblica democratica del Congo] Bukavu, 30 luglio 2007 Giornata storica, oggi, per la Repubblica democratica del Congo. Per la prima volta dopo 46 anni il Paese si reca alle urne per eleggere presidente e parlamento con elezioni libere e multipartitiche. Qui nell'est del Congo, tutto si sta svolgendo in maniera esemplare. Dalle 6 di questa mattina i centres de vote sono aperti, ma gia' dalle quattro qualcuno si e' messo in fila per votare. Le attese sono state lunghe e ordinate, davanti a ogni bureau de vote. All'interno, si e' seguita diligentemente la complicata procedura, che la gente quasi sempre ha dimostrato di conoscere bene: prima l'identificazione e la verifica che il votante sia effettivamente registrato e non abbia gia' votato (l'inchiostro indelebile viola marca il pollice sinistro di chi ha gia' esercitato il suo diritto), poi si riceve la prima scheda, quella per scegliere il Presidente della Repubblica fra trentatre' candidati. Riposta la scheda nella prima urna, se ne riceve una seconda, ben piu' grande, su cui scegliere il proprio candidato al parlamento. Si vota e si depone la seconda scheda in un'altra urna. Assistono al voto i rappresentanti di partito e gli osservatori nazionali e internazionali. Di tanto in tanto, nella cabina (un parallelepipedo di cartone preformato, di due metri per sessanta centimetri) entrano in due. Nulla di strano, la legge lo prevede: e' la procedura per il voto degli analfabeti, che possono avvalersi del supporto di una persona da loro scelta. A mezzogiorno, nei centres de vote di Bukavu, un rapido calcolo diceva che avevano gia' votato circa la meta' degli aventi diritto. L'affluenza e' stata altissima, in questa regione del Congo, la piu' martoriata dalla guerra. Il giorno tanto atteso e' finalmente arrivato e per le strade la gente mostra orgogliosa ed esultante il pollice marcato di viola. Anche dai villaggi delle province del Nord e Sud Kivu le notizie sono incoraggianti: gli osservatori italiani che stanno monitorando il voto segnalano la grande partecipazione e la regolarita' e calma che stanno caratterizzando il voto. Qualche piccola irregolarita' procedurale qua e la' e' l'unica segnalazione ricevuta, ma se si pensa che il Paese organizza per la prima volta delle elezioni e che la gente non ha mai votato, i risultati sono strabilianti. Alle 17, ora prevista per la chiusura, quasi tutti i seggi da cui abbiamo notizie hanno terminato e si apprestano allo spoglio. Si temeva che potessero ripetersi le lunghe code che si erano verificate lo scorso 18 dicembre, per il referendum costituzionale, quando l'altissimo afflusso e la scarsa organizzazione dell'evento avevano costretto all'ultimo minuto a prolungare di un giorno il voto. Ora invece, almeno qui nel Kivu, la meticol osa preparazione ha dato i suoi frutti e i seggi hanno chiuso all'ora prevista. Qualunque sara' il risultato che uscira' dalle urne, l'importante era giungere al traguardo delle elezioni: una svolta storica per il Paese, una meta che la gente vive come la realizzazione di un sogno. Rimandate piu' volte nei mesi scorsi, nonostante i tentativi di boicottaggio di alcuni politici e le aspre critiche delle ultime settimane, alla fine il giorno del voto e' arrivato e il sorprendente senso civico della popolazione ha permesso che tutto si svolgesse senza problemi. Giusy Baioni * Bukavu, 31 luglio 2006 Il giorno dopo lo storico voto, la Repubblica democratica del Congo respira e si gode la buona riuscita della giornata di ieri. Fin dall'alba di ieri, lunghe e ordinate code di gente al bureau de vote, in attesa del proprio turno per votare. Gia' dalle 4 di mattina, alcuni congolesi erano in fila in attesa che alle 6 aprissero i seggi. E' stato per questo che le operazioni di voto si sono svolte quasi ovunque entro i tempi previsti: alle 17, ora decisa per la chiusura dei centres de vote, le code erano smaltite. Addirittura - segnalano alcuni degli osservatori della societa' civile italiana - qualche seggio ha potuto chiudere prima del previsto perche' era gia' stato raggiunto il 100% dei votanti. Gli unici limitati ritardi si sono avuti nelle zone rurali, dove l'alta percentuale di analfabeti ha rallentato le procedure di voto. Gli osservatori italiani hanno trascorso la notte nei bureau de vote, seguendo le operazioni di spoglio. Nella maggior parte dei casi si e' svolto tutto correttamente. Sono stati segnalati alcuni episodi curiosi, come le difficolta' di effettuare lo spoglio notturno nelle tante zone in cui non c'e' corrente elettrica: il kit elettorale aveva in dotazione una lampada, che pero' non faceva abbastanza luce e aveva una durata troppo limitata e dunque ci si e' arrangiati con l'uso di candele. Qualche lamentela in alcuni centri da parte dei poliziotti che hanno vigilato sulle operazioni di voto, perche' non avevano ancora ricevuto la paga promessa, e da parte degli scrutatori, rimasti senza cibo tutto il giorno. Ma per il resto nessuna grossa irregolarita'. "E' stata la manifestazione della dignita' di un popolo - commenta Lisa Clark, di "Beati i costruttori di pace" -, commovente e straordinaria. Avevamo mille dubbi sulla possibilita' di svolgere le operazioni di voto in sole undici ore, con regole complicate come quelle adottate, ma i congolesi ci hanno stupito". Alcuni osservatori internazionali con una lunga esperienza nel settore hanno confermato questa impressione, dicendo di non aver mai visto nulla di cosi' corretto e riuscito. "E' stato un esempio per il mondo - commenta entusiasta Eugenio Melandri, gia' parlamentare europeo e coordinatore nazionale dell'associazione "Chiama l'Africa" -, se si pensa che fino a due anni fa il Congo non aveva nemmeno un'anagrafe". Giusy Baioni 8. LIBRI. ANGELA PASCUCCI PRESENTA "IL NUOVO ORDINE CINESE" DI WANG HUI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 luglio 2006. Angela Pascucci, giornalista, e' caporedattrice esteri del quotidiano "Il manifesto". Wang Hui, intellettuale critico cinesi, dirige la rivista "Dushu" a Pechino ed e' stato visiting professor all'universita' di Washington; dopo aver partecipato al movimento di Tien An Men, ha pubblicato numerosi studi in Cina e all'estero sui temi della modernizzazione e del conflitto sociale] Un'occhiata agli scaffali delle librerie rende evidente un paradosso in quello che viene pubblicato in Italia riguardo alla Cina: i romanzi e le raccolte di racconti di autori cinesi, piu' o meno degni del legno distrutto per produrli, abbondano, mentre scarseggia, o non riesce a valicare i confini delle pubblicazioni specialistiche, la produzione saggistica, di analisi e narrazione teorica della straordinaria mutazione in atto in Cina oggi, firmata da autori cinesi. Certo, arrivano in vetta alle classifiche le vulgate e le analisi di giornalisti e accademici italiani, a dimostrazione che l'interesse per un tema epocale di questa portata c'e', ma sembra proprio che quanto pensino i cinesi medesimi riguardo a quel che accade loro poco o nulla interessi gli editori italiani, magari convinti che la Cina sia una tabula rasa, sconvolta dalle turbolenze della propria storia passata e imbavagliata dal presente. Il primo merito de Il nuovo ordine cinese. Societa', politica ed economia in transizione di Wang Hui (Manifestolibri, prefazione di Edoarda Masi, pp. 192, 18 euro) e' allora quello di cominciare a riempire una voragine, presentando in due lunghi saggi il dispiegarsi del dibattito intellettuale in Cina, dall'inizio effettivo della politica di riforme, primi anni '80, fino ai primi anni del nuovo millennio. Oltre due decenni nei quali viene esplicitamente posta come punto di svolta dirimente la strage di Tien Anmen, scatenata dalla leadership cinese nella notte fra il 3 e il 4 giugno 1989. Il secondo merito e' quello di presentare ai lettori italiani una delle menti piu' anticonformiste e brillanti del panorama intellettuale cinese contemporaneo. Wang Hui, che ha poco piu' di 40 anni, e' innanzitutto un letterato, un eminente studioso di Lu Xun e di altre personalita' di fine Ottocento - inizio Novecento, che insegna all'Universita' Tsinghua di Pechino ed e' condirettore della rivista "Dushu" (Letture) che dopo il suo arrivo ha avuto un boom editoriale arrivando a vendere oltre 100.000 copie. E' uno degli esponenti piu' in vista della "nuova sinistra" cinese, e come tale bersagliato da tutto l'establishment neoliberista, cinese e internazionale. Di fatto, l'etichetta non e' stata scelta da lui, che preferisce invece definirsi "intellettuale critico". Il percorso politico-teorico di Wang Hui e' strettamente intrecciato alla sua storia personale. All'alba del 4 giugno fuggiva da piazza Tien Anmen, dove il massacro degli studenti era in corso, per rifugiarsi, "pieno di rabbia e di disperazione" come racconta lui stesso, sulle montagne Qinling, nella Cina centrale. La', in un mondo completamente diverso da quello cittadino e colto finora conosciuto, rimane per buona parte del 1990, vivendo un'esperienza che lascera' su di lui un segno indelebile e lo spingera' da quel momento a creare un legame fra universi cosi' lontani, "a ricostruire la relazione fra il mondo degli intellettuali e il mondo esterno". * E' questa intenzione il cardine de Il nuovo ordine cinese nel quale il letterato Wang si trasforma in penetrante, e complesso, analizzatore delle teorie politiche elaborate negli ultimi due decenni in Cina e riesce a decostruire e svelare il nuovo discorso ideologico e i nuovi miti indotti dalla trasformazione epocale del paese, da quello della "transizione" (che considera necessarie le ineguaglianze attuali in nome di un ideale ultimo da raggiungere) a quello della "modernita'" e dello "sviluppo". La franchezza critica senza precedenti con cui Wang Hui, in un saggio del 1997 riprodotto nel libro, ha scandagliato l'universo intellettuale a lui prossimo ha fatto scalpore nell'intellighenzia, suscitando polemiche e alzate di scudi. Porre come punto di svolta, nell'evoluzione e nel cambiamento della teoria politica, la strage di Tien Anmen, evento epocale che resta un tabu' cristallizzato dall'interpretazione ufficiale di "controrivoluzione", ha ulteriormente inasprito i termini della discussione. Wang rilegge tutta la trasformazione cinese alla luce del trauma dell'89, che in Cina come nel mondo "inauguro' la struttura politica ed economica con cui il neoliberismo arrivo' a dominare il mondo". Tien Anmen, afferma Wang, non segno' una discontinuita' nel processo di riforma radicale in atto nel suo paese ma rivelo' definitivamente il marchio di violenza che gli era insito e che prevalse, nel momento in cui tutte le illusioni e le speranze di diversita' alimentate dal precedente decennio di cambiamento furono spazzate via con la violenza. Le proteste non avvennero solo sulla piazza, ricorda Wang Hui, ma in tutta la Cina, e protagonisti non furono solo gli studenti, ma un movimento piu' vasto portatore di richieste di cambiamento che non vertevano solo sulla democrazia formale del suffragio universale, come riferivano le cronache occidentali, ma su un concetto sostanziale di democrazia sociale, tradito dal discorso ideologico dello stato-partito. Quel che segui' alla repressione fu "il nuovo ordine" neoliberista garantito dalla violenza dello stato, rilanciato nel '92 da Deng Xiaoping durante il suo viaggio al Sud. Alla luce di quanto avvenne, e avviene, e' dunque ipocrita chiedere al Leviatano di ritirarsi per consentire il libero dispiegarsi delle forze di mercato perche', come il 4 giugno '89 ha dimostrato, sono il controllo e la violenza dello stato gli unici garanti di interessi che ormai si sono fatti dominanti. Il discorso e' legato agli eventi cinesi ma Wang Hui ne esplicita un'universalita' che fa della Cina l'avamposto della globalizzazione neoliberista e della ribellione cinese dell'89 il primo vero precursore del movimento che si manifestera' a Seattle nel '99. * Pur avendo accettato l'etichetta di "nuova sinistra" Wang Hui ci tiene a dire che non e' un nostalgico dei tempi che furono, ha sempre sostenuto la politica di riforme e non e' affatto contrario al mercato. Nel suo discorso non e' tuttavia chiaro come sia possibile tornare a forme di mercato non capitalistiche, tanto piu' nella Cina di oggi. Una difficolta' aggiuntiva dell'analisi di Wang Hui, come rileva Edoarda Masi, e' il contesto ambiguo in cui il suo pensiero si esercita. Se in Occidente siamo abituati a ragionare sui "fronti", politici e sociali, per quanto sfumati la realta' li abbia resi oggi, in Cina cio' non accade "perche' il terreno di contesa rimane, sia pur artificialmente, chiuso all'interno del socialismo. Il pensiero totalitario, cosi', continua oggi come se permanesse la stessa unita' e non ci fosse stato un capovolgimento dei contenuti". Su questo sfondo opaco restano cosi' inesplicitati sia gli elementi di rottura che quelli di continuita' dell'attuale regime politico rispetto al passato. Imporre una nuova modalita' di cambiamento appare dunque difficilissimo, tanto piu' se ogni tentativo di ribellione viene etichettato come "radicalismo", termine che, richiamando la rivoluzione culturale, condanna alla demonizzazione chiunque se lo veda attribuire. Ma cambiare sara' necessario. Tutti gli elementi di corruzione, disparita', ineguaglianza, ingiustizia sociale che portarono alla ribellione di Tien Anmen si ripresentano oggi, aggravati, e l'insofferenza dei cinesi esclusi o vittime sta crescendo. Come rivelano anche le statistiche ufficiali sugli "episodi di massa" (definizione che comprende sit-in, manifestazioni e vere e proprie rivolte) che nel 2005 sono stati oltre 80.000, e aumentano costantemente al ritmo di crescita del Pil. Il pragmatismo denghista aveva coniato la formula "attraversare il fiume avanzando su una pietra alla volta". Fu universalmente accettato che c'era un fiume da attraversare e una riva, quella del passato, da lasciare. Ma ancora non si discerne come sara' l'altra sponda, quella dove i cinesi, nella loro foga, stanno conducendo anche il resto del mondo. Neppure Wang Hui sa descrivere la riva del futuro, tuttavia avverte lucidamente che i sassi su cui si e' scelto di poggiare il piede non sono inanimati strumenti a disposizione di tutti. Ma se ne rende conto chi e' gia' scivolato ed e' stato travolto dai flutti. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1376 del 3 agosto 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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