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La nonviolenza e' in cammino. 1370
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1370
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 28 Jul 2006 00:27:29 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1370 del 28 luglio 2006 Sommario di questo numero: 1. Tutti i fuochi, il fuoco 2. Peppe Sini: La guerra e chi la approva 3. Maria G. Di Rienzo: Costruendo il futuro con la nonviolenza 4. Eduardo Galeano: Fino a quando? 5. Maria G. Di Rienzo: Il caffe' delle donne 6. Marina Forti intervista Akbar Ganji 7. Maria G. Di Rienzo: Un bellissimo venerdi' 8. Homi K. Bhabha: Connessi. A cosa? 9. Maria G. Di Rienzo: Parihaka 10. La "Carta" del Movimento Nonviolento 11. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. TUTTI I FUOCHI, IL FUOCO Tutti i fuochi, il fuoco. Tutte le stragi, una stessa strage. Tutte le guerra, contro l'umanita' intera. Cessate il fuoco. 2. EDITORIALE. PEPPE SINI: LA GUERRA E CHI LA APPROVA Tutte le chiacchiere di questo mondo non mutano il fatto che la guerra sia un crimine che consiste nell'uccisione di esseri umani, e chi vota in suo favore se ne fa corresponsabile. Niente ipocrisie per favore: nessun obiettivo politico puo' giustificare la commissione di omicidi. * Tutte le chiacchiere di questo momento non mutano il fatto che la partecipazione militare italiana alla guerra afgana e' illegale e criminale, che e' un atto di violazione della legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico, la Costituzione della Repubblica Italiana che all'articolo 11 e' inequivocabile: ripudia la guerra, sia come strumento di offesa alla liberta' degli altri popoli, sia come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Niente ipocrisie per favore: se la Costituzione e' in vigore, il voto a favore della guerra e' un atto criminale, il piu' scellerato che un parlamento possa commettere. * La trovata - da machiavellismo degli stenterelli - del voto di fiducia al senato rivela solo a quale abisso di infamia e di irresponsabilita' si sia giunti: il governo in carica attesta che la scelta della guerra e' una scelta cosi' intrinseca alla sua azione complessiva da giocarsi su essa l'intera sua credibilita'. Siamo al cuore dell'assurdo e dell'orrore. * Nessuno creda di potersi far scudo di penosi giochi di parole, di squallidi trucchi da ciarlatani. Chi vota per la guerra vota per la guerra. E chi in queste settimane si e' arruolato al servizio della scelta della guerra si e' arruolato al servizio della scelta della guerra. Certe decisioni sono irreversibili. Ciascuno ne rispondera' alla sua coscienza, e dinanzi alle vittime. * La nonviolenza si oppone alla guerra. La Costituzione si oppone alla guerra. Il senso di umanita' si oppone alla guerra. Chi vota per la guerra, e chi lo favoreggia, non speri nella nostra complicita', non speri nel nostro silenzio. E non speri neppure in un futuro perdono: poiche' il perdono e' un privilegio delle sole vittime - solo la vittima di un male, non altri, puo' perdonare chi quel male le ha inflitto: ma le vittime della guerra vengono uccise, ed essendo state uccise non possono piu' perdonare, e quindi il crimine della guerra resta imperdonabile per sempre. 3. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: COSTRUENDO IL FUTURO CON LA NONVIOLENZA [Da "Azione nonviolenta" di marzo 2006 (disponibile anche nel sito: www.nonviolenti:org). Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] Ayed Morrar, palestinese, e Jonathan Pollak, israeliano, sono amici. E' raro vedere immagini in cui i due non sorridano, o non si sorridano l'un l'altro. Forse i loro nomi non vi dicono molto, ma sono fra i maggiori attivisti della lotta nonviolenta contro l'occupazione israeliana dei Territori. Largamente ignorato dai media, il loro lavoro ha compreso l'organizzazione di una grande campagna di resistenza alla costruzione del famoso (o infame, dichiarato illegale nel 2004 dal Tribunale internazionale di giustizia) "muro", che ha coinvolto a livello di base migliaia di israeliani e di palestinesi: agricoltori, lavoratori, madri, studenti, volontari internazionali hanno sfidato i gas lacrimogeni, le percosse e le pallottole in oltre cinquanta marce di protesta ed hanno spesso bloccato la costruzione del muro con i loro corpi. Wafaa Shaheen e' un altro nome poco noto. E' una donna palestinese, cofondatrice di "Al Zahraa", e vive in Israele. Un quinto della popolazione israeliana lo e', ed il 70% di essi vivono in zone rurali. Wafaa lavora con le donne, in tali zone, per insegnare ed imparare a sconfiggere la violenza. Il suo gruppo organizza incontri e seminari sin nei piu' sperduti villaggi, dopo di che le donne generalmente danno vita ad organizzazioni autonome nelle loro comunita'. Il 98% delle donne che vengono in contatto con "Al Zahraa" sono madri povere (la maggior parte e' sposata ed ha figli prima dei vent'anni), vivono esistenze difficili in luoghi isolati e non hanno contatto con le organizzazioni internazionali. "Il primo incontro e' spesso molto commovente. Per molte donne si tratta della prima occasione nella loro vita di parlare di se stesse. La violenza, domestica e non, e la partecipazione sociale sono due istanze ricorrenti. Quando le donne possono definire i propri bisogni ed organizzarsi l'impatto sulla comunita' e' positivo ed immediato", dice Wafaa. Lo sa bene il villaggio di Bana Al Zjedet, dove le donne, dopo l'incontro con "Al Zahraa", hanno organizzato una manifestazione contro la violenza domestica. Si tratto' della prima azione politica femminile mai compiuta nel villaggio, e vi presero parte 1.500 donne su una popolazione di 6.000 persone. Nel 2002 "Al Zahraa" organizzo' il primo "8 marzo" per le donne palestinesi in Israele. Con grande sorpresa delle organizzatrici, oltre 1.700 donne da tutto il paese gradirono l'idea e parteciparono. Lo stesso anno, spronate dal successo, le donne del gruppo organizzarono una conferenza nazionale in cui, a parlare del proprio desiderio di pace e dei metodi per ottenerla nelle proprie esistenze, vennero donne druse, beduine, musulmane e cristiane. "Alcuni uomini ci fanno visita per lamentarsi", racconta Wafaa Shaheen, "Dicono che le loro mogli sono diverse. Ecco un vero segno di cambiamento: adesso le loro mogli vogliono essere ascoltate". E ride, perche' anche nella situazione piu' buia e dolorosa, com'e' spesso quella del conflitto israeliano-palestinese, i volti di Ayed, Jonathan e Wafaa sanno dare luce e speranza. Sorridono, si', al futuro che stanno costruendo. 4. RIFLESSIONE. EDUARDO GALEANO: FINO A QUANDO? [Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 luglio 2006. In questo testo alcune espressioni possono essere inadeguate o unilaterali, alcuni dati imprecisi o errati, ed alcune sottovalutazioni o omissioni finanche inaccettabili, ma chi legge sapra' cogliere cio' che conta e che vale, e relativizzare e criticare o anche ove occorra tout court rifiutare il resto (p. s.). Eduardo Galeano e' nato nel 1940 a Montevideo (Uruguay); giornalista e scrittore, nel 1973 in seguito al colpo di stato militare e' stato imprigionato e poi espulso dal suo paese; ha vissuto lungamente in esilio fino alla caduta della dittatura. Dotato di una scrittura nitida, pungente, vivacissima, e' un intellettuale fortemente impegnato nella lotta per i diritti umani e dei popoli. Tra le sue opere, fondamentali sono: Le vene aperte dell'America Latina, recentemente ripubblicato da Sperling & Kupfer, Milano; Memoria del fuoco, Sansoni, Firenze; e i recenti A testa in giu', Sperling & Kupfer, Milano, e Le labbra del tempo, Sperling & Kupfer, Milano. Tra gli altri suoi libri editi in italiano: Guatemala, una rivoluzione in lingua maya, Laterza, Bari; Voci da un mondo in rivolta, Dedalo, Bari; La conquista che non scopri' l'America, Manifestolibri, Roma; Las palabras andantes, Mondadori, Milano] Un paese ne bombarda due. L'impunita' potrebbe meravigliare se non fosse costume normale. Qualche timida protesta in cui si dice di errori. Fino a quando gli orrori continueranno a chiamarsi errori? Questo macello di civili si e' scatenato a partire dal sequestro di un soldato. Fino a quando il sequestro di un soldato israeliano potra' giustificare il sequestro della sovranita' palestinese? Fino a quando il sequestro di due soldati israeliani potra' giustificare il sequestro del Libano intero? La caccia all'ebreo e' stata, per secoli, lo sport preferito degli europei. Sbocco' ad Auschwitz un vecchio fiume di terrori, che aveva attraversato tutta Europa. Fino a quando i palestinesi e altri arabi continueranno a pagare per delitti che non hanno commesso? Quando Israele spiano' il Libano nelle sue precedenti invasioni, Hezbollah non esisteva. Fino a quando continueremo a credere alla favola dell'aggressore aggredito, che pratica il terrorismo perche' ha diritto a difendersi dal terrorismo? * Iraq, Afghanistan, Palestina, Libano... Fino a quando si potra' continuare a sterminare paesi impunemente? Le torture di Abu Ghraib, che hanno sollevato un qual certo malessere universale, non sono niente di nuovo per noi latinoamericani. I nostri militari hanno appreso quelle tecniche di interrogatorio nella School of Americas, che oggi ha perso il nome ma non il vizio. Fino a quando continueremo ad accettare che la tortura continui a legittimarsi, come ha fatto la corte suprema di Israele, in nome della legittima difesa della patria? Israele ha ignorato quarantasei raccomandazioni dell'Assemblea generale e di altri organismi delle Nazioni Unite. Fino a quando il governo israeliano continuera' a esercitare il privilegio di essere sordo? Le Nazioni Unite raccomandano, pero' non decidono. Quando decidono, la Casa Bianca impedisce che decidano, perche' ha diritto di veto. La Casa Bianca ha posto il veto, nel Consiglio di sicurezza, a quaranta risoluzioni che condannavano Israele. Fino a quando le Nazioni Unite continueranno a comportarsi come se fossero uno pseudonimo degli Stati Uniti? Da quando i palestinesi sono stati cacciati dalle loro case e spogliati della loro terra, e' corso molto sangue. Fino a quando continuera' a correre il sangue perche' la forza giustifica cio' che il diritto nega? La storia si ripete, giorno dopo giorno, anno dopo anno, e muore un israeliano ogni dieci arabi morti. Fino a quando la vita di ogni israeliano continuera' a valere dieci volte di piu'? * In proporzione alla popolazione, i cinquantamila civili, in maggioranza donne e bambini, morti in Iraq equivalgono a ottocentomila statunitensi. Fino a quando accetteremo, come se fosse normale, la mattanza degli iracheni in una guerra cieca che ha ormai dimenticato i suoi pretesti? Fino a quando continuera' ad essere normale che i vivi e i morti siano di prima, seconda, terza o quarta categoria? * L'Iran sta sviluppando l'energia nucleare. Fino a quando continueremo a credere che cio' basta a provare che un paese e' un pericolo per l'umanita'? La cosiddetta comunita' internazionale non e' per nulla angustiata dal fatto che Israele possieda 250 bombe atomiche, nonostante sia un paese che vive sull'orlo di una crisi di nervi. Chi gestisce il pericolosimetro universale? Sara' stato l'Iran il paese che butto' le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki? * Nell'era della globalizzazione, il diritto di pressione e' piu' forte di quello di espressione. Per giustificare l'occupazione illegale di terre palestinesi, la guerra viene chiamata pace. Gli israeliani sono patrioti e i palestinesi terroristi, e i terroristi seminano allarme universale. Fino a quando i mezzi di comunicazione continueranno a seminare paura? Questa mattanza, che non e' la prima e temo non sara' l'ultima, accade in silenzio. Il mondo e' diventato muto? Fino a quando le voci dell'indignazione continueranno a suonare come campane di legno? Questi bombardamenti uccidono bambini: piu' di un terzo delle vittime, non meno della meta'. Chi si azzarda a denunciarlo e' accusato di antisemitismo. Fino a quando continueremo ad essere antisemiti, noi che critichiamo il terrorismo di stato? Fino a quando accetteremo questa estorsione? Sono antisemiti gli ebrei che inorridiscono per quanto viene fatto in loro nome? Sono antisemiti gli arabi, tanto semiti quanto gli ebrei? Per caso non ci sono voci arabe che difendono la patria palestinese e ripudiano il manicomio fondamentalista? * I terroristi si somigliano tra loro: i terroristi di stato, rispettabili uomini di governo, e i terroristi privati, che sono matti singoli e matti organizzati dai tempi della guerra fredda al totalitarismo comunista. E tutti agiscono in nome di dio, si chiami Dio, Allah o Jahve'. Fino a quando continueremo a ignorare che tutti i terrorismi disprezzano la vita umana e che tutti si alimentano tra loro? Non e' evidente che in questa guerra tra Israele e Hezbollah sono i civili - libanesi, palestinesi, israeliani - quelli che ci mettono i morti? Non e' evidente che le guerre di Afghanistan e Iraq e le invasioni di Gaza e del Libano sono incubatrici di odio, fabbriche di fanatici in serie? Siamo l'unica specie animale specializzata nello sterminio reciproco. Destiniamo duemila e cinquecento milioni di dollari, ogni giorno, alle spese militari. La miseria e la guerra sono figlie dello stesso padre: come qualche dio crudele, mangia i vivi e anche i morti. Fino a quando continueremo ad accettare che questo mondo innamorato della morte sia il nostro unico mondo possibile? 5. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: IL CAFFE' DELLE DONNE [Da "Azione nonviolenta" di aprile 2006 (disponibile anche nel sito: www.nonviolenti:org)] Le mani di Rosa Catalina Sanchez si muovono metodicamente lungo il ramo, mentre raccoglie le rosse bacche di caffe' nel cesto che porta attorno al collo. Notando la destrezza e la forza che mette nel proprio lavoro, nessuno direbbe che Rosa ha 66 anni. Glades Valencia, quattordicenne, sta facendo la stessa cosa, e passa le mani fra i rami come se stesse pettinando dei capelli. Rosa e Glades rappresentano il lavoro di una vita, la vita dei coltivatori di caffe' nel Peru' del nord. Molti agricoltori della regione hanno ottenuto la certificazione per il commercio equo, tuttavia i loro guadagni restano sempre al di sotto della media annua pro capite. 68.600 famiglie povere producono circa il 49% del caffe' peruviano (quasi totalmente esportato). Nelle societa' rurali a dominio maschile l'alto livello di poverta' si traduce in problemi specifici per le giovani donne, che sono piu' spesso dei giovani maschi mandate sui campi anziche' a scuola, e che vengono date in spose gia' a dodici anni per alleviare il disagio economico familiare. Rosa ha lavorato per anni dalle dieci alle dodici ore al giorno durante la stagione del raccolto, e per anni ha ricevuto come compenso cio' che il marito decideva di darle quando il caffe' era venduto. Le cooperative che fanno riferimento al commercio equo sono state spesso un mondo di uomini sostenuto dal sudore delle donne, ma le cose stanno cambiando in Peru', per Rosa e Glades e per centinaia di donne come loro. Nel 2003 oltre quattrocento coltivatrici decisero di lavorare insieme ad una speciale varieta' di caffe'. La chiamarono "Caffe' femmina", perche' attraverso di essa avrebbero suscitato consapevolezza internazionale sulla cruda disparita' che affrontavano nelle loro vite quotidiane. Trovarono l'aiuto di Isabel Uriarte Latorre, una donna peruviana che da molto tempo assieme al marito sostiene le comunita' agrarie aiutandole ad organizzarsi in cooperative e ad ottenere miglioramenti nelle infrastrutture comunitarie. Ora sessanta importatori di caffe' del Canada, dell'Australia e degli Usa pagano volentieri quei due centesimi in piu' alla libbra che andranno alla Fondazione Caffe' Femmina, che produce miglioramenti economici nelle vite delle donne. Nel contratto che devono firmare, infatti, c'e' la clausola che essi pagheranno questi due centesimi alla Fondazione oppure li devolveranno al Centro antiviolenza piu' vicino alla loro residenza. "Le donne in Peru' sono viste tradizionalmente come lavoratrici e madri, non come proprietarie della terra o come coloro che prendono decisioni", racconta Isabel Latorre, "Si suppone che servano principalmente a fare bambini. Le donne delle comunita' piu' povere raggiunte dal progetto "Caffe' femmina' hanno in media sette figli". Per entrare nella cooperativa, una donna deve dimostrare che il suo nome e' sui documenti di proprieta' della terra che lavora, e poiche' tramite la cooperativa i guadagni sono piu' alti, padri e mariti hanno trovato conveniente avere le donne al loro fianco come proprietarie. Oggi queste donne si incontrano regolarmente al tramonto, in cerchi di dialogo provvisti di una facilitatrice e gli uomini non glielo stanno impedendo. Isabel Latorre dice che la diminuzione della violenza nei rapporti fra i generi si nota a vista d'occhio: "Gli uomini hanno molto piu' rispetto per loro. E ora le donne stanno parlando di frequentare le scuole, di capire meglio l'andamento dei mercati, di organizzare seminari sui metodi di coltivazione organica e sui loro diritti umani". A Nuevo York, in Amazzonia, le donne della cooperativa si incontrano tutte una volta all'anno. Appendono ovunque palloncini colorati, e le orchestrine suonano musica da ballo. Attorno al cerchio di dialogo, quest'anno, c'erano alcuni uomini in piedi con le braccia conserte, che mostravano un certo cipiglio. Le donne sorridevano, come la bella e giovanissima Glades: "Vogliamo che gli uomini beneficino del nostro progetto e ne siano coinvolti. Ma dev'essere chiaro che per noi stesse le decisioni siamo noi a prenderle". Andate a trovarle, almeno virtualmente: www.cafefemeninofoundation.org 6. IRAN. MARINA FORTI INTERVISTA AKBAR GANJI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 luglio 2006. Marina Forti, giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione, scrive per il quotidiano "Il manifesto" sempre acuti articoli e reportages sui temi dell'ecologia globale e delle lotte delle persone e dei popoli del sud del mondo per sopravvivere e far sopravvivere il mondo e l'umanita' intera. Opere di Marina Forti: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004. Akbar Ganji, giornalista iraniano, attivista nonviolento per i diritti umani e la democrazia, e' stato lungamente perseguitato e detenuto nelle carceri del regime] In Italia avremmo usato le parole "strage di stato" e "controinformazione". Con una serie di articoli apparsi alla fine degli anni '90, un paio di giornalisti iraniani indagava su alcuni misteriosi omicidi che si erano susseguiti a meta' del decennio: erano chiamati i serial killings, casi sempre archiviati come opera di ignoti. Le vittime erano scrittori e intellettuali dissidenti. In un caso, nel 1998, erano stati uccisi marito e moglie: Darius e Parvaneh Fohuar, e il loro funerale era diventato una sorta di manifestazione di massa. Anche perche' in Iran quella era epoca di cambiamenti: l'anno prima era stato eletto presidente Mohammad Khatami, un religioso che parlava di liberta', di societa' civile e di riforme, e aveva suscitato grandi aspettative. Uno dei primi effetti era stato il fiorire di giornali indipendenti. Spesso chiudevano, per ordine della magistratura in mano a correnti conservatrici del sistema (capo del tribunale per la stampa era Saed Mortazavi, oggi Procuratore generale dello stato), ma poi ne aprivano altri. Era sui giornali che si esercitava la critica: cosi' sono diventati terreno dello scontro politico tra i "riformisti" che sostenevano Khatami e i "conservatori" ai vertici dello stato. Con i nuovi giornali circolavano piu' liberamente fatti e idee, e anche le denunce sui serial killings. Uno dei protagonisti di quel periodo e' Akbar Ganji. Negli articoli sui Fohuar parlava di mandanti altolocati e chiamava in causa gli apparati di sicurezza. Niente nomi e cognomi, ma i lettori riconoscevano nel "maestro delle chiavi" l'ex ministro dei servizi segreti Ali Fallahian, nel "signore dalla veste rossa" l'ex presidente Hashemi Rafsanjani, predecessore di Khatami. Raccolti poi in un libro (L'eminenza rossa e l'eminenza grigia), davano un quadro inquietante del potere nella Repubblica islamica. Le rivelazioni erano tali che l'anno dopo, al processo per l'uccisione dei Fouhar, il tribunale di Teheran ha finito per condannare il braccio destro dell'ex ministro Fallahian (Said Emami, poi misteriosamente suicidato in carcere). Non era mai successo in Iran: il sistema aveva dovuto ammettere che uomini degli apparati di sicurezza erano responsabili di omicidi politici (in Italia avremmo detto "elementi deviati dei servizi"?). Gran parte dei giornalisti, studenti, editori, avvocati protagonisti di quel periodo hanno pagato con la galera. Akbar Ganji, arrestato nella primavera del 2000, e' stato scarcerato solo alla fine di marzo scorso. Nei sei anni trascorsi in carcere ha continuato a dare battaglia, tra l'altro scrivendo un "manifesto repubblicano" (e altri scritti regolarmente circolati). L'estate scorsa ha effettuato due lunghi mesi di sciopero della fame in carcere che lo hanno ridotto in fin di vita. Ancora magrissimo, Akbar Ganji era in Italia il mese scorso, su invito del Comune di Firenze e dell'Associazione per la liberta' d'espressione in Iran: e' stata l'occasione per incontrarlo. Era entrato in carcere mentre l'Iran era in piena "primavera" riformista: oggi il presidente e' Mahmoud Ahmadi Nejad, espressione della corrente piu' fondamentalista dello stato; il parlamento e' dominato dai conservatori, e un giornale indipendente resiste a patto di non sfidare troppo la censura. "Allora incarceravano intellettuali e giornalisti perche' i vertici del sistema erano spaventati, sentivano minacciata la loro autorita'", risponde Ganji: "Ora i conservatori occupano il potere e non ci sono mass media dove esercitare la critica. C'e' internet, certo, ma non e' la stessa cosa". Il regime, fa notare Ganji, "parla del programma nucleare come di una questione nazionale e lascia intendere che ci sia un consenso unanime. Ma non e' cosi': nella societa' e perfino nell'elite politica c'e' un forte dissenso". L'impressione di unanimita' e' "propaganda ideologica", dice il giornalista. A Teheran certo tutti sono convinti del buon diritto dell'Iran a costruire le sue centrali nucleari civili, e anche ad arricchire uranio per scopi civili e sotto il controllo dell'Onu. Ma poi molti si chiedono: le centrali nucleari sono davvero una priorita' per l'Iran? Anche figure interne all'establishment come l'ex presidente Rafsanjani, capo del Consiglio per il discernimento delle scelte, criticano la strategia del governo sul nucleare. "Solo una minoranza nel regime vuole andare avanti a ogni costo, e in particolare la Guida suprema", avverte Ganji: "In effetti, quando parla il presidente sappiate che sta parlando il Leader". Il regime, spiega Ganji, continua a evocare il "nemico" per zittire la dissidenza: chi critica il regime si fa strumento di potenze esterne, i giornalisti sono agenti del nemico e minacciano la "sicurezza nazionale". Un anno fa il giornalista, ancora in carcere, faceva appello a non votare argomentando che il sistema non e' riformabile dall'interno. Oggi insiste: "Le vie per la democrazia in Iran sono chiuse. I riformisti hanno commesso l'errore di pensare che liberta', democrazia, diritti sono cose che si ottengono col voto. Bisogna lottare per conquistarle, e pagarne il prezzo: Khatami e i suoi non l'hanno fatto. Quali strade restano? Qualcuno chiede un referendum sulla repubblica islamica: ma quasi tutto il potere e' in mano alla Guida suprema e alle istituzioni che lui controlla, e' impensabile che permettano quel referendum. Dobbiamo continuare con gesti di disobbedienza civile, lotte di massa e nonviolente. Il regime potra' rispondere con la violenza e la repressione: ma e' il prezzo da pagare". Dopo la sconfitta pero' l'opposizione e' fragile. "In Iran c'e' una forte opinione riformista: pero' sono tanti rivoli, mancano una dirigenza e una struttura organizzata. I gesti di critica collettivi e organizzati attirano una repressione violenta. E poi e' un movimento in cui convivono sinistra e destra, religiosi e laici: servirebbe un fronte ampio con una direzione collegiale. Prima o poi sara' la forza della realta' a unire l'opposizione". Ganji pero' non vede cambiamenti a breve. "Nessuna dittatura apre spazi senza pressione. E siamo noi, in Iran, che dobbiamo fare questa pressione. In fondo, l'elezione di Khatami era il risultato di anni di battaglie su tanti fronti: parlo di lavoro culturale, satira, cinema, insegnamento, tasselli di un lavoro contro il modello unico voluto dal regime". 7. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: UN BELLISSIMO VENERDI' [Da "Azione nonviolenta" di maggio 2006 (disponibile anche nel sito: www.nonviolenti:org)] Il 24 ottobre 1975, il 90% delle donne islandesi si rifiuto' di lavorare, cucinare o badare ai bambini. Il 1975 era stato proclamato "Anno delle donne" dalle Nazioni Unite, ed un comitato formato da rappresentanti delle piu' grandi organizzazioni femminili islandesi era incaricato di organizzare eventi celebrativi. Durante una riunione del comitato, una donna chiese: "Perche' non scioperiamo, semplicemente?". L'azione sarebbe stata un modo forte di ricordare alla societa' il ruolo che le donne giocano nel sostenerla con il lavoro in casa e fuori casa. L'idea fu dibattuta, ed alla fine l'intero comitato acconsenti': solo, la parola "sciopero" venne sostituita con "giorno di pausa". Le donne pensarono che messa cosi' la questione sarebbe risultata meno disturbante per l'opinione pubblica e che i datori di lavoro, che avrebbero potuto licenziare le donne per aver scioperato, avrebbero avuto piu' problemi nel negare loro un giorno di pausa. Nei giorni precedenti lo sciopero erano visibili ovunque gruppetti o capannelli di donne, al caffe' o per la strada, che discutevano animatamente. A Reykjavik, il 24 ottobre, si radunarono piu' di 25.000 donne: un numero notevole, se si pensa che l'intera popolazione islandese ammontava allora a circa 220.000 persone. Ad ascoltare gli interventi, dibattere istanze e cantare c'erano donne di tutte le eta', di ogni professione, di ogni classe sociale. Alcune vennero indossando i loro abiti da lavoro, altre si vestirono a festa per l'occasione. Scuole, negozi, fattorie, pescherie e asili dovettero chiudere, o cercare di provvedere i consueti servizi con meta' del personale. Coloro che parteciparono a questo giorno speciale oggi ricordano soprattutto il senso di appartenenza e comunita', la tranquilla determinazione che pervadeva le partecipanti. Gerdur Steinthorsdottir, allora trentunenne e fra le organizzatrici dell'evento dice che la risposta delle donne fu cosi' alta perche' durante la preparazione esse erano state capaci di lavorare insieme, a qualsiasi partito politico, organizzazione o sindacato aderissero. Leggere oggi l'intervento di Adalheidur Bjarnfredsdottir, delegata del Sokn (il sindacato che riuniva le donne dal reddito piu' basso) alla riunione del 1975, trasmette un brivido nella schiena: "Gli uomini hanno governato questo mondo da tempi immemorabili, e che cos'e' oggi questo mondo?". Rispondendo alla propria domanda, la sindacalista descrive un pianeta annegato nel sangue, una terra inquinata e sfruttata sino a livelli irreparabili. Una descrizione che sembra piu' vera che mai. Nel frattempo gli uomini cercavano di venire a capo dalla confusa situazione in cui si erano trovati: preoccupati non piu' di tanto per la sparizione delle colleghe o delle mogli, dovevano pero' provvedere a bambini scatenati che volevano accompagnare i padri al lavoro, ai piu' piccoli che non si poteva lasciare da soli, e cosi' via. Ci fu un acquisto massiccio di matite colorate, caramelle e salsicce gia' cotte dagli esercizi che erano ancora aperti, e molti padri pagarono i figli piu' grandi perche' badassero ai fratelli minori. Anche gli uomini islandesi ricordano benissimo quel giorno che li lascio' esausti per carico di lavoro: fra di loro, lo chiamano ancora "Il lungo venerdi'" o "Il venerdi' che non finiva mai". L'azione, costruendo solidarieta' e consapevolezza fra le donne, apri' la via cinque anni piu' tardi all'elezione della prima presidente eletta in uno stato democratico, Vigdis Finnbogadottir: "Dopo il 24 ottobre", ricorda oggi Vigdis, "le donne pensarono che era venuto il momento di una presidente donna. Mi offrirono questa opportunita', ed io accettai di impegnarmi". Trenta anni dopo lo storico sciopero, le donne islandesi riconoscono i risultati raggiunti, ma provano anche un senso di amarezza per le troppe cose che non sono cambiate. I loro salari, ad esempio, ammontano mediamente solo al 64,15% di quelli degli uomini, a parita' di orario e qualifica. Ma dall'esperienza hanno imparato molto: il 24 ottobre 2005 un gran numero di esse ha ripetuto lo sciopero, lasciando il lavoro alle ore 2,08 del pomeriggio, ovvero al momento in cui guadagnerebbero il 64,15% della paga se avessero gli stessi stipendi degli uomini. Dalle cucine si sono portate dietro padelle e pentole e per farsi ascoltare dalle autorita' e hanno eseguito con esse un chiassoso e allegro concerto per le strade d'Islanda. 8. RIFLESSIONE. HOMI K. BHABHA: CONNESSI. A COSA? [Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 maggio 2006 riprendiamo l'anticipazione del testo dell'intervento di Homi K. Bhabha al Festival di filosofia di Roma del giorno successivo. Dalla stessa fonte riprendiamo la seguente notizia su Homi K. Bhabha: "Homi K. Bhabha e' nato a Mumbay nel 1949. Dopo la laurea a Mumbay, il dottorato a Oxford, ha insegnato all'universita' di Londra e in diverse universita' americane. Attualmente e' professore di lingua e letteratura inglese e americana alla Harvard University. Homi Bhabha e' senza dubbio una delle voci piu' importanti nell'ambito degli studi postcoloniali. Nei suoi saggi critica il "progresso" come "unica misura del mondo" che registra il duro divario tra il sovrasviluppato e il sottosviluppato, gli stereotipi occidentali sulle culture altre, l'imposizione della lingua imperiale sui colonizzati. Convinto che la lingua e' il punto critico dei conflitti e degli squilibri legati al potere. Come Said, Spivak, Gilroy, Appadurai, Homi Bhabha offre una visione dell'alterita', dei rapporti tra Oriente e Occidente e scardina gli stereotipi razziali sedimentati dal colonialismo. In Nation and Narration (Nazione e narrazione, Meltemi '97) sfida a trattare le nazioni del terzo mondo come fossero un blocco omogeneo. Di Location of culture (I luoghi della cultura, Meltemi 2001) Toni Morrison ha scritto: 'Bhabha appartiene a quel piccolo gruppo di intellettuali che occupa le posizioni piu' avanzate dell'indagine teorica sul rapporto tra letteratura e cultura. Qualunque seria riflessione sulla ricerca postcoloniale/postmoderna non puo' oggi prescindere da un confronto con il suo pensiero'"] Ovunque viviamo, chiunque siamo, quando lo schermo del nostro televisore o computer si illumina ci immergiamo nel mondo delle comunicazioni globali. Siamo connessi. Ma connessi a cosa? La relazione tra connettivita' tecnologica e connessione culturale e', sotto molti aspetti, il nodo cruciale, il dilemma che definisce lo spazio problematico della cultura nel mondo globale di oggi. Con i nostri I-Pod, i Blackberry e i telefoni mobili che portiamo attaccati come tante protesi, entriamo in una rete connettiva con persone che possono parlare lingue diverse e abitare in posti diversi, ma con cui abbiamo in comune la stessa forma di comunicazione tecnologica. L'icona del Mac Apple - il frutto perfetto a cui e' stato dato un gran morso - e' il simbolo paradossale della nostra esistenza che ci ricorda la nostra espulsione dal paradiso terrestre. La mela mangiata a meta' e' un segno della stupefacente creativita' degli esseri umani, ma suggerisce anche la fine dell'illusione di un'eta' di innocenza e perfettibilita'. Avendo assaggiato il frutto proibito, abbiamo perso i miti rassicuranti di societa' "faccia a faccia", comunita' omogenee, municipi dove possa svolgersi la vita civica, che per lungo tempo hanno rappresentato il sogno delle culture nazionali e degli stati sovrani. Se, come sostiene il giurista Larry Lessig, oggi viviamo in "giurisdizioni multiple e disgiuntive", come dobbiamo misurarci con questa incertezza sociale e indeterminatezza etica? Che significa essere locali e globali allo stesso tempo? * Coloro che celebrano la rivoluzione della Information Technology e si entusiasmano per il soft power dei mercati globali, annunciano che "la terra e' piatta", e il campo da gioco e' piu' spianato che mai. Allo stesso tempo, i "realisti" globali sostengono che il mondo e' entrato in un insolito e terrificante "scontro di civilta'", causato da convincimenti incompatibili e da valori contraddittori. I terroristi kamikaze che devono prepararsi per le loro missioni spazzando via ogni traccia dell'Occidente dalle loro vite, usano ancora le tecnologie occidentali per registrare il loro cammino verso il martirio, e in una certo qual modo raggiungono la vita eterna perche' le loro testimonianze sono ampiamente presenti sulla rete. I liberal progressisti e aperti invocano i principi universali di liberta' prescrivendo allo stesso tempo la democrazia delle cannoniere in tutto il mondo. Quando i fautori del libero mercato e i terroristi si siedono gli uni di fronte agli altri nella metropolitana di Londra - ed e' impossibile distinguerli - ci troviamo davanti a un senso di incertezza e insicurezza globale che getta un'ombra sull'ordine globale. Se stiamo assistendo a una nuova alba, dobbiamo ricordarci che il crepuscolo non e' poi cosi' lontano. Se la globalizzazione e' una trasformazione del mondo cosi' come lo conosciamo, essa e' anche uno stato di transizione che scompagina i nostri modi di conoscere il mondo in cui viviamo. I toni fortemente razzisti associati al dibattito sul velo (hijab) in Francia sono pervasi da un livello di indignazione e di ansia tale da far pensare che le invasioni barbariche siano arrivate alla porta della democrazia. Questo avviene perche' non sappiamo con certezza se il "diritto" di indossare il velo in istituzioni pubbliche e finanziate dallo stato violerebbe il logoro principio della cittadinanza che collega il singolo individuo allo stato. Nessuna discussione su cosa significhi indossare il velo nel suo contesto sociale d'origine ci aiuterebbe in questo caso. Perche' la questione e' come il significato di questi simboli e' traslato o trasformato quando essi divengono parte della vita quotidiana in un'aula scolastica francese. Come sarebbe ridisegnata la linea, importante eppure enigmatica, che divide la sfera della vita pubblica da quella della vita privata? Quand'e' che il rituale religioso diventa un costume culturale per trasformarsi poi in una rivendicazione politica? In quali modi il libero arbitrio dell'individuo deve essere influenzato dai diritti dei gruppi e dalle sensibilita' collettive tra le minoranze o le popolazioni svantaggiate? * Le lingue della riforma costituzionale e del razionalismo politico sono prive di un vocabolario che affronti le questioni che toccano la vita emotiva dei cittadini - i loro sentimenti di ansia, di ambivalenza, di incertezza, di indecisione - nel momento in cui valutano scelte sociali e politiche. Queste sono passioni difficili, scomode, della vita politica che non sono facilmente classificabili come virtu' pubbliche. E tuttavia, sono queste reazioni emotive a generare un senso di contingenza e confusione tra i cittadini che non sentono semplicemente di vivere tra stranieri nei mondi locali-globali in cui conviviamo, quanto piuttosto di essere divenuti stranieri a se stessi: alcune volte, stranieri esultanti rapiti dalla scoperta della diversita'; altre volte, destabilizzati e privati di una casa. Molto spesso, entrambe le cose contemporaneamente. Un rinnovato senso di appartenenza civica in una eta' globalizzata richiede una lingua di interpretazione interculturale oltre che la prosa orientata dalle politiche dell'integrazione sociale. Dev'essere una lingua ricca di potenza immaginativa e metaforica; una lingua che lentamente si evolva verso un senso di consenso o comunita' - nazionale, regionale, globale - riuscendo a sostenere la rappresentazione pubblica dei conflitti sociali e delle contraddizioni politiche. Ma deve anche essere una lingua capace di rappresentare (e interpretare) le emozioni piu' oscure dell'esclusione, dell'umiliazione, della vergogna, della perdita; e deve essere una lingua capace di interpretare e spiegare le ambivalenze emotive che le persone sperimentano quando sono soggette ai processi disorientanti della transizione globale. * Per agire nell'interesse nazionale, da una prospettiva globale, bisogna essere aperti a tradurre le culture e le storie in modi che rendano possibile riconsiderare e rivedere le storie che ci sono piu' familiari, le storie della nostra gente e del nostro paese d'origine, dal punto di vista di coloro che possono non essere nostri compatrioti, ma fanno parte della popolazione di un mondo che sara' trasformato attraverso quegli atti con cui lottiamo per ottenere la nostra cittadinanza. E' la scoperta delle passioni transnazionali - per la pace, per la giustizia, per i diritti, per l'eguaglianza - a renderci capaci di rapportarci a un mondo che e' soggetto esso stesso a un processo rapido di transizione culturale e tecnologica. Questo ci impone di tradurre le nostre idee e convinzioni piu' care - le cose di cui viviamo, i sogni per cui moriamo - nella lingua di un nuovo ordine globale. * E' pero' dal pieno della turbolenza delle guerre, delle occupazioni, delle segregazioni, degli sfratti, che io parlo oggi. E tuttavia oso sperare che da una simile distruzione, da una simile dislocazione possa emergere alla fine un progetto per vivere con frontiere condivise e storie incrociate. Se l'oppressione e la distruzione possono far cadere i muri e distruggere le frontiere, perche' in tempo di pace quei cancelli non possono restare aperti, quegli spazi essere ripopolati? E', temo, la tragedia dei nostri tempi che l'ostilita' ci faccia approssimare ai nostri vicini - in un abbraccio mortale -, piu' di quanto non sembri fare l'ospitalita'. La porta della storia non e' ne' aperta ne' chiusa; e' nostra comune responsabilita' varcare questa soglia per dare vita a un'era di sicurezza globale e solidarieta' umana. 9. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: PARIHAKA [Da "Azione nonviolenta" di giugno 2006 (disponibile anche nel sito: www.nonviolenti:org)] C'e' un villaggio, in Nuova Zelanda, che si chiama Parihaka. Ogni anno vi si tiene un Festival internazionale della pace. Parihaka si e' formato artificialmente, per cosi' dire, in seguito alle confische delle terre abitate precedentemente dai Maori ed alla loro conseguente migrazione interna. Nel 1870, Parihaka era il villaggio maori piu' grande del paese ed era divenuto il rifugio principale per i profughi e gli spossessati di qualsiasi genere. Dieci anni dopo, fu il teatro di una delle peggiori violazioni dei diritti umani subite da questo popolo, il culmine di una campagna di repressione che aveva gia' condotto ai lavori forzati, indefinitamente e senza processo, centinaia di persone. Il 5 novembre 1881, una milizia armata di 1.500 uomini, affiancata da irregolari assoldati dai proprietari terrieri europei, invase Parihaka. Due eminenti figure, due uomini esplicitamente dediti all'azione nonviolenta, i cui nomi erano Te Whiti o Rongomai e Tohu Kakahi guidarono la resistenza. Entrambi volevano instaurare buone relazioni fra i due gruppi, sostenuti dai loro convincimenti spirituali che derivavano sia dalle tradizioni ancestrali, sia dai piu' recenti insegnamenti cristiani. Da tempo i Maori avevano deciso che l'uso delle armi e della violenza non avrebbero portato alcuna soluzione, ed avevano chiamato il governo coloniale a rispondere sul piano giuridico, proclamando l'illegalita' delle guerre, della confisca delle terre, delle politiche punitive a cui erano soggetti. Il giorno dell'invasione, piu' di duemila abitanti del villaggio sedettero quietamente mentre i bambini andavano a salutare l'esercito. Al popolo di Parihaka fu letto l'atto governativo contro le sommosse, ed un'ora piu' tardi Te Whiti e Tohu furono condotti ad un processo farsa, ed incarcerati. La distruzione del villaggio comincio' immediatamente: ci vollero due settimane per abbattere tutte le case, e due mesi per estirpare le coltivazioni. Migliaia di capi di bestiame vennero uccisi e confiscati. Donne e ragazze Maori vennero sistematicamente stuprate, dando inizio ad un'epidemia di sifilide nella comunita'. Al posto del villaggio sorse un fortino che ospitava un'ottantina di soldati: l'occupazione militare di Parihaka, che duro' cinque anni, era cominciata. Ma la gente di Parihaka continuo' a fare cio' che aveva fatto in precedenza, ovvero a chiamare al dialogo i propri oppressori. Il villaggio aveva infatti stabilito una data ricorrente (il diciottesimo giorno di ogni mese, in una sorta di rovesciamento della memoria del 18 marzo 1860, data di inizio della prima guerra nel loro territorio) in cui invitava i coloni europei a sedere nel proprio cerchio di dialogo. Con il ritorno di Te Whiti o Rongomai e Tohu Kakahi dal carcere, nel 1883, questi incontri ripresero con regolarita', mentre lentamente e testardamente gli abitanti del villaggio ricostruivano tutto: case, stalle, coltivazioni. Te Whiti fu arrestato di nuovo nel 1886, e rilasciato due anni dopo. Parihaka aveva adottato il suo convincimento che la tecnologia europea, se adottata insieme a quella Maori, poteva essere usata per arrivare alla stabilita' ed alla pace, ed alla costruzione di una nuova grande societa': nel 1890, i Maori avevano fatto di Parihaka l'insediamento urbano piu' avanzato del paese, con case in cui vi era acqua corrente calda e fredda, illuminazione stradale, bonifica dei terreni. E il 18 di ogni mese continuavano a sedere insieme, e a parlare con i soldati. La resistenza nonviolenta del villaggio era fonte di imbarazzo per l'intero paese, eccetto che per coloro che vi appartenevano. Nel 1898 l'ultimo dei deportati di Parihaka fece ritorno a casa. Nel 1907, sia Te Whiti che Tohu morirono. Le violazioni contro i Maori non cessarono nel secolo successivo, deprivandoli di ogni acro di terreno coltivabile, eppure Parihaka continuava ad esistere, a vivere, a riunirsi pacificamente e ad invitare chiunque lo volesse a discutere insieme. Gandhi e King visitarono Parihaka e riconobbero i due leader, Te Whiti e Tohu, come "padri dell'azione nonviolenta". Parihaka e' ancora oggi il luogo in cui al diciottesimo giorno di ogni mese la comunita' si riunisce, condivide cio' che ha appreso, trasmette la tradizioni maori, pratica l'armonia con la terra e fra esseri umani. Un luogo in cui, come scrisse Te Whiti o Rongomai ne L'eredita' di Parihaka, ognuno e' "il frutto di uno sforzo verso la giustizia, e un'erba che guarisce". 10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 11. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1370 del 28 luglio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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