Per la Costituzione



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PER LA COSTITUZIONE
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Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" n. 1335 del 23 giugno 2006

In questo numero:
1. Peppe Sini: La grazia del diritto, la ragione
2. Valerio Onida: Per una sana democrazia costituzionale (2005)
3. Riletture: Hannah Arendt, Vita activa

1. EDITORIALE. PEPPE SINI: LA GRAZIA DEL DIRITTO, LA RAGIONE

Si giunge al voto piu' importante della storia dell'Italia repubblicana in
una diffusa ignoranza di cio' che e' in gioco; in una lungamente,
astutamente, protervamente coltivata vile abulia, stolta disattenzione,
servile e infame infingardaggine di massa.
*
La gran parte del ceto politico e' complice del progetto golpista
berlusconiano.
Non solo le truppe d'assalto del partito neofascista, del razzismo
squadrista, dei gruppi legati ai poteri occulti e criminali, del regime
della corruzione e dell'ideologia della rapacita', le forze che si sono
coalizzate nel blocco sociale, ideologico e politico del cosiddetto
centrodestra.
A favorire il progetto golpista berlusconiano ha decisivamente concorso
anche la complicita' del cosiddetto centrosinistra: con la pluridecennale
condivisione della sciagurata retorica autoritaria del "maggioritario" e
della "governabilita'" a scapito della rappresentanza, della partecipazione
e della democrazia; con la condivisa legiferazione delle stolide e
protofascistiche "elezioni dirette" di sindaci, presidenti delle Province e
delle Regioni; con la collusa bicamerale dalemiana; e soprattutto con la
scellerata riforma del titolo V della Costituzione approvata con un colpo di
mano e per un pugno di voti nel 2001.
Non stupisce la debolezza reticente e la fumosa ambiguita' dell'impegno per
il "no" al referendum dei partiti tutti del centrosinistra; non stupisce la
loro scandalosa reiterata apertura di credito ai golpisti.
La cosiddetta opinione pubblica e' frastornata, manipolata e ingannata da un
apparato ideologico espressione e strumento del potere dominante. Un sistema
dei mass-media per il quale le partite di pallone contano piu' della
democrazia rappresentativa, dello stato di diritto, della liberta' di un
intero popolo.
E per dirla tutta: quanto a certi autoproclamati rappresentanti della
societa' civile, e a certe burocrazie in formazione e in carriera che si
spacciano per "i movimenti" (qualunque cosa cio' voglia dire), non si sono
neppure accorti che la casa brucia; cianciano di tutto, e sostanzialmente
tacciono su cio' che piu' conta: la difesa della legalita', della democrazia
e dei diritti umani messi in pericolo hic et nunc dal tentativo della destra
eversiva di demolire la Costituzione della Repubblica.
Quale immensa tristezza.
*
Quasi solo le giuriste e i giuristi hanno capito quale sia la posta in gioco
ed hanno lanciato per tempo l'allarme. Ma chi li ha davvero ascoltati?
Un appello drammatico e' stato sottoscritto dalla quasi totalita' dei piu'
autorevoli rappresentanti istituzionali e accademici della cultura giuridica
italiana: ma chi lo ha letto e meditato?
Del resto sono anni che non solo la cultura giuridica accademica, ma anche e
innanzitutto la quasi totalita' della magistratura italiana denuncia la
continua e crescente aggressione berlusconiana allo stato di diritto, alla
separazione dei poteri, ai controlli di legalita'; denuncia la criminale
aggressione dall'alto al governo delle leggi, al principio dell'uguaglianza
di fronte alle leggi; denuncia il tentativo di imporre il dominio della
violenza, di imporre la mafia come metodo e come sistema, denuncia il
selvaggio barbaro assalto che cerca di annientare l'isonomia, la politeia,
la convivenza fondata sulla verita' e la giustizia, sulla solidarieta' e la
responsabilita'. Ma chi ha davvero ascoltato la denuncia dei magistrati?
*
Leggendo in questi mesi la pubblicistica del fronte golpista e quella
dell'area democratica colpiscono da un lato l'aggressivita' e la
spudoraggine con cui i golpisti distolgono l'attenzione da cio' che piu'
conta con un sofistico argomentare capzioso e truffaldino; dall'altro la
pusillanimita' e l'ambiguita' di gran parte dell'area democratica,
preoccupata piu' di preparare un futuro accordo coi golpisti che non di
impegnarsi senza esitazioni e senza riserve in difesa dello stato di
diritto, della democrazia, della legalita' costituzionale.
Quanto profondamente ha scavato la tabe.
*
Il 25 e 26 giugno si vota su questo: si vota per acconsentire al colpo di
stato, o per opporsi ad esso.
Nello stravolgimento dell'intera seconda parte della Costituzione occorre
saper vedere il disegno coerente e unitario che i golpisti perseguono: la
demolizione dell'impianto istituzionale della Costituzione del '48; la fine
della separazione dei poteri e l'mposizione di una svolta autoritaria,
antiparlamentare, plebiscitaria; il trionfo di ideologie e prassi
antiegualitarie, antisolidaristiche, antidemocratiche; l'imposizione di un
contesto anomico che paralizzi le istituzioni cosi' da favorire
l'affermazione del primato della forza sul diritto, il principio del kratos
che annienta quello dell'ethos.
Sono cose che nella storia d'Italia e d'Europa conosciamo per dolorosa,
tragica esperienza: sono i disastri e gli orrori per impedire il ritorno dei
quali fu scritta la Costituzione della Repubblica Italiana in vigore dal
1948.
*
Si vota tra due giorni, e si percepisce l'insufficienza dell'informazione,
del dibattito, della coscientizzazione, della partecipazione, della passione
civile.
Anche chi redige questo notiziario soffre di non aver saputo fare di piu' e
di meglio.
Ma per quanto inadeguato e insufficiente anche il nostro impegno sia stato,
sappia chi ci legge fare ugualmente la cosa giusta: votare "no" al colpo di
stato per salvare la Costituzione e la Res Publica.

2. RIFLESSIONE. VALERIO ONIDA: PER UNA SANA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE (2005)
[Dal sito dell'associazione "Namaste" di Ostiglia (www.namaste-ostiglia.it)
riprendiamo la seguente relazione di Valerio Onida presentata al Convegno di
studi "Citta' dell'Uomo" svoltosi a Milano nel giugno 2005.
Valerio Onida, illustre giurista, e' presidente emerito della Corte
costituzionale.
Giuseppe Dossetti, una delle figure piu' vive della cultura della pace e
della dignita' umana, e' nato a Genova nel 1913 ed e' scomparso nel 1996.
Giurista e canonista, dirigente della lotta partigiana, deputato alla
Costituente e alla Camera, vicesegretario della DC, lascia la politica nel
1952. Si dedica alla ricerca storico-teologica e da' vita ad una comunita'
monastica. Ordinato sacerdote nel 1959, stretto collaboratore del cardinal
Lercaro al Concilio Vaticano II. Nel 1994 e' stato il promotore dei Comitati
per la difesa della Costituzione. Opere di Giuseppe Dossetti: segnaliamo
almeno Scritti politici, Marietti, Genova 1995; La parola e il silenzio, Il
Mulino, Bologna 1998; La ricerca costituente, Il Mulino, Bologna 1994; Con
Dio e con la storia, Marietti, Genova 1986. Opere su Giuseppe Dossetti:
Giuseppe Trotta, Giuseppe Dossetti, Camunia, Firenze 1996]

A dieci anni di distanza dall'allarme lanciato, anche proprio qui a Milano,
da Giuseppe Dossetti, da poco uscito dal silenzio monastico per chiamare
alla difesa della Costituzione di fronte alla (allora in atto) "denigrazione
aprioristica e molto confusa del nostro Patto fondamentale", qual e' la
situazione in cui ci troviamo dal punto di vista dell'assetto costituzionale
e del dibattito sulle riforme costituzionali?
In questi dieci anni, dopo la precoce fine del primo Governo Berlusconi e
dei propositi riformistici espressi dal comitato Speroni, abbiamo assistito,
nell'ordine: al confronto elettorale del 1996, in cui il tema costituzionale
ebbe un certo spazio; alla parabola dell'ultima commissione bicamerale,
quella presieduta da D'Alema, che per la prima volta tento' l'avventura
della riscrittura dell'intera seconda parte della Costituzione, arenatasi
infine soprattutto a seguito dei dissensi politici in tema di giustizia;
all'avvio della complessa opera di riforma amministrativa e di decentramento
di funzioni con le cosiddette leggi Bassanini; al varo, consensuale, della
riforma dell'organizzazione delle Regioni con la legge costituzionale n. 1
del 1999, poi completata con la legge costituzionale n. 2 del 200l, che ha
aperto la strada a una nuova stagione di elaborazione statutaria da parte
delle Regioni, peraltro portata avanti con grande lentezza e fatica, e
ancora oggi lungi dall'essere compiuta in tutto il paese; all'approvazione,
in scadenza di legislatura, e col voto finale solo dell'allora maggioranza
di centrosinistra, della riforma del titolo V di cui alla legge
costituzionale n. 3 del 2001, perfezionatasi con il referendum dell'ottobre
2001, in un clima non particolarmente fervido di dibattito e di
partecipazione, e che ha costituito un precedente pericoloso di importante
revisione costituzionale varata, alla fine, a "colpi di maggioranza";
all'avvio, con la nuova legislatura, di un progetto governativo di riforma,
questa volta della subentrata maggioranza di centrodestra, sfociato infine
nell'approvazione, in prima lettura, di un testo in cui nuove modifiche del
titolo V si assommano con una revisione profonda dell'assetto costituzionale
di vertice, che tocca Governo, Parlamento, Capo dello Stato, e non lascia
indenni nemmeno gli organi di garanzia, Consiglio superiore della
magistratura e Corte costituzionale.
Un progetto, quest'ultimo, che e' riuscito a raccogliere critiche e dissensi
larghissimi, se non quasi unanimi, fra gli specialisti, anche se talora con
motivazioni in parte diverse e contraddittorie, ma ha continuato e
apparentemente continua e godere sostegno politico sull'onda della ampia
maggioranza parlamentare di cui il gode il Governo: e del quale quindi solo
le accresciute difficolta' della situazione economica e politica e i
dissensi manifestatisi nella maggioranza - o in alternativa l'esito
auspicabile di un voto referendario, che non potrebbe non essere richiesto -
sembrano oggi in grado di scongiurare la definitiva approvazione e l'entrata
in vigore.
Siamo cosi' alle conseguenze piu' recenti e tuttora attuali di una
discussione sulle riforme costituzionali che, come si sa, viene da lontano,
almeno dagli anni Ottanta.
L'esperienza di questi anni, se da un lato sembra aver registrato un certo
"raffreddamento" del tema nell'opinione pubblica e forse qualche
ripensamento da parte di taluno dei protagonisti, dall'altro lato non solo
non ha offerto risultati persuasivi quanto agli esiti legislativi,
soprattutto quelli annunciati o preconizzati, ma ha contribuito, per qualche
verso, ad oscurare ulteriormente l'orizzonte: cosi' che l'allarme lanciato
dieci anni fa deve, credo, essere oggi ripreso e ripetuto.
Il "nuovismo confuso e contraddittorio" in campo costituzionale, che
Dossetti denunciava a Bari e a Napoli nel maggio 1995, ma di cui molti
gruppi politici, e non solo all'interno dell'attuale maggioranza, non
sembrano essersi ancora liberati, e' andato producendo il cattivo risultato
di un indebolimento dell'idea stessa di Costituzione. Non so quanto le piu'
giovani generazioni, assistendo ai dibattiti e agli scontri di questi anni,
possano aver conservato una chiara visione di cos'e' l'oggetto della cui
sorte si discute, se non, forse, in virtu' dei richiami che periodicamente e
meritoriamente provengono dalla piu' alta istituzione della Repubblica.
A questo pericoloso risultato ha certamente contribuito il fatto che, nel
cambiamento radicale subito dal nostro sistema politico nell'ultimo
decennio, sono andate, se non scomparendo, certo affievolendosi proprio
quelle culture politiche che avevano, nell'epoca precedente, maggiormente
concorso a sorreggere e radicare il senso e la funzione storica della
Costituzione del 1947. Restaurare e rafforzare un'adeguata cultura
politico-costituzionale e' forse oggi il compito piu' urgente, partendo
dalle idee fondamentali.
*
La Costituzione non e' una legge qualsiasi, chiamata a dare risposte
contingenti e problemi contingenti, e che quindi possa essere pensata e
manipolata con lo sguardo limitato all'oggi. Il suo ruolo, al contrario, e'
di fissare e garantire cio' che e' destinato a restare stabile, proprio per
consentire che cambiamenti, evoluzioni, alternarsi di indirizzi avvengano
salvaguardando i valori di fondo della vita collettiva. Ecco perche' non ha
senso la polemica sulla Costituzione "vecchia", e non ha senso l'accusa di
"conservatorismo" mossa a chi si preoccupa di salvaguardare quei valori e si
oppone alla faciloneria di un "riformismo" costituzionale senza radici
profonde.
Ancora, la Costituzione non e' un prodotto politico contingente, che possa
ricondursi al prevalere occasionale di una forza o di uno schieramento, ed
essere trattata come un normale oggetto di programmi elettorali o
governativi, su cui la maggioranza del momento decide in nome della forza
parlamentare di cui dispone, o come oggetto di negoziato in vista di
obiettivi politici contingenti. Essa rappresenta piuttosto il quadro di
riferimento valido per tutti, che precede e condiziona la dialettica fra
maggioranze e minoranze, assicurando la salvaguardia degli interessi ad esse
comuni e dei limiti conseguenti. Fare della Costituzione un prodotto di
maggioranza o disponibile da parte della maggioranza sarebbe tradire l'idea
stessa di Costituzione.
L'obiezione, che ogni tanto riaffiora, fondata sulla invocazione della
sovranita' popolare, e che riecheggia l'antico mito giacobino secondo cui
una generazione non puo' pretendere di vincolare le generazioni successive
al rispetto della "propria" Costituzione, fa parte dell'obnubilamento della
cultura costituzionale di cui s'e' detto. Dimentica che la concezione
"costituzionale" della democrazia si fonda non sul riconoscimento al popolo
della stessa sovranita' illimitata che era propria del Sovrano nell'antico
regime, ma sull'attribuzione di poteri che si esercitano "nelle forme e nei
limiti della Costituzione", di una Costituzione che, proprio per la sua
funzione storica, "non conosce sovrano" (come scriveva il giudice Coke della
Magna Charta).
*
La Costituzione italiana del 1947 ha avuto ed ha questa funzione. Occorre
liberarsi definitivamente della visione distorta e antistorica che vede in
essa il prodotto "autarchico" di un sistema politico ormai superato.
Essa - per riprendere le parole di Dossetti - non e' "un fiore pungente nato
quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti postbellici e da
risentimenti faziosi volti al passato", ma e' nata dal "crogiolo ardente e
universale" degli eventi epocali della seconda guerra mondiale, "piu' che
dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo: piu' che del
confronto-scontro di tre ideologie datate, essa porta l'impronta di uno
spirito universale e in certo modo transtemporale".
E' lo spirito del costituzionalismo: quello che soffia nelle Costituzioni
nazionali e nelle esperienze ancor giovani ma destinate a crescere di quel
"costituzionalismo mondiale" che la nostra Carta evoca, con sguardo
antiveggente, attraverso la "finestra" (cosi' la defini' Calamandrei)
dell'articolo 11.
Ecco perche' penso che sia oggi essenziale rivendicare l'idea di
Costituzione e il valore attuale della Costituzione vigente, e perche' ne
discende una valutazione fortemente negativa del progetto di revisione in
discussione. Solo dopo, in un diverso clima e su diverse premesse di metodo
e di contenuto, sara' possibile affrontare costruttivamente l'ipotesi di
revisioni "mirate" del testo costituzionale su singoli argomenti.
*
Il tentativo di riforma che l'attuale maggioranza sta portando avanti,
infatti, al di la' di macroscopici difetti di contenuto, appare segnato
dall'equivoco culturale che ha caratterizzato gran parte del dibattito di
questi anni. Se l'elaborazione dell'ultima commissione bicamerale (la
commissione D'Alema) si e' collocata forse al culmine dell'ondata di
"nuovismo" costituzionale che ha attraversato molte delle forze politiche
dei due schieramenti, con la pretesa di riscrivere l'intera seconda parte
della Costituzione, il progetto attuale compie ulteriori passi in avanti
nella direzione sbagliata.
Anch'esso indulge all'idea della riscrittura integrale della seconda parte
della Carta, anche la' dove non propone modifiche di contenuti, quasi a
voler dar vita ad una nuova Costituzione, ma una Costituzione ad immagine
della attuale maggioranza di governo.
Per la prima volta un progetto di legge di revisione - e quale revisione! -
e' stato introdotto ad iniziativa del Presidente del Consiglio (disegno di
legge costituzionale n. 2544, presentato al Senato il 17 ottobre 2003), come
parte di un programma di governo. Conseguenti sono state le modalita'
dell'esame parlamentare: con la messa a punto della riforma affidata a tre o
quattro esponenti (nemmeno di primo piano) dei partiti della maggioranza, e
l'approvazione nelle Camere con i voti di questi, sulla base di un'insistita
invocazione del diritto della maggioranza vittoriosa alle elezioni di dare
seguito alle proprie proposte di revisione, quasi si trattasse di uno dei
tanti settori in cui l'indirizzo di maggioranza fisiologicamente si esprime
in Parlamento.
Se queste sono le obiezioni di metodo, nel merito il progetto appare frutto,
da un lato, di istanze legate ad esigenze di immagine di questa o quella
forza politica, nemmeno calate e mediate in una visione costituzionalmente
organica e nitida (ed e' la parte sulla cosiddetta devoluzione, e per alcuni
aspetti sul nuovo bicameralismo), dall'altro lato di un disegno non nuovo ma
assai pericoloso di concentrazione del potere politico e di alterazione
degli equilibri costituzionali (ed e' la parte su Governo, Parlamento e Capo
dello Stato): con in piu' singole previsioni su Consiglio superiore della
magistratura e Corte costituzionale, in se' a loro volta espressione di
tendenze pericolose, e che potrebbero apparire come i prodromi di ancor piu'
incisive future alterazioni.
Senza entrare nel dettaglio (del resto ormai vi sono numerosissimi scritti
che se ne occupano), si deve rilevare anzitutto il carattere "posticcio" e
rozzo delle disposizioni sulla cosiddetta devoluzione. Non viene rimesso in
discussione l'impianto del titolo V modificato nel 200l; si portano solo
alcune correzioni, anche ragionevoli, agli elenchi di materie, ma poi si
inserisce - in un contesto invariato di riparto di competenze - il comma
sulle cosiddette competenze esclusive delle Regioni in tema di
organizzazione sanitaria e scolastica e di polizia amministrativa.
Quel che ne risulterebbe e' quanto mai oscuro e contraddittorio.
L'esperienza di questi anni di applicazione del nuovo titolo V, e specie di
contenzioso costituzionale, ha messo in luce le difficolta', le ambiguita' e
le contraddizioni di un riparto di competenze non accompagnato da una
opportuna legislazione ordinaria di attuazione.
Basti pensare a come il tanto sbandierato principio di sussidiarieta'
"verticale", finora, e' servito soprattutto non a promuovere decentramento
di competenze verso il basso, ma piuttosto a giustificare attrazioni di
competenze verso l'alto. Piu' in generale, non ci si interroga abbastanza,
dopo le rilevanti modifiche introdotte nel 2001, su quale sia il livello di
regionalizzazione di compiti e di risorse effettivamente sopportabile dal
nostro paese, senza compromettere essenziali interessi unitari. Invece di
dedicarsi a questa necessaria opera di approfondimento e di attuazione
(oltre che alle opportune correzioni del testo del 2001), si introduce qui
un ulteriore elemento di oscurita' e di incertezza nel riparto delle
competenze, sotto la bandiera della devoluzione, e, quasi a compensazione
(ma in realta' aumentando le incertezze), si reintroduce un meccanismo
farraginoso di controllo parlamentare sul rispetto dell'interesse nazionale,
che era previsto dalla Costituzione del 1947 ma che in trent'anni di
regionalismo non ha mai funzionato.
Per altro verso, sul cruciale aspetto della finanza regionale e locale le
disposizioni del 200l vengono lasciate intatte. Ma, mentre sul piano della
legislazione ordinaria lo Stato centrale continua a tenere stretto il
cordone della borsa, in una singolare e rivelatrice disposizione finale del
progetto (art. 57) si promette l'attuazione del nuovo sistema finanziario e
fiscale (gia' previsto dalla Costituzione in vigore) entro tre anni, ma
aggiungendo che "in nessun caso l'attribuzione dell'autonomia impositiva"
agli enti locali e regionali "puo' determinare un incremento della pressione
fiscale complessiva". Cioe' si nega con una mano quello che si fa mostra di
voler dare con l'altra: l'ideologia anti-fisco prevale sull'idea
dell'autonomia e della perequazione.
In definitiva, invece che attuare in modo equilibrato, con le correzioni
opportune, i nuovi criteri di riparto di competenze introdotti nel 2001, o
eventualmente tornare indietro la' dove questi si fossero rivelati
inadeguati, si verrebbe a complicare ulteriormente il sistema introducendo
nuovi elementi di tensione e di conflittualita', sotto la bandiera di un
preteso "federalismo" dietro alla quale, se c'e' qualche sostanza, potrebbe
esserci solo quella di un indebolimento della solidarieta' nazionale.
Non dissimili effetti di confusione deriverebbero dalla nuova disciplina del
bicameralismo. Scartata la creazione di una vera "Camera delle Regioni" o
delle autonomie, chiamata a concorrere alla legislazione statale di
interesse regionale, si battezza "federale" un Senato eletto, come
l'attuale, a suffragio diretto dai cittadini e quindi rappresentativo
dell'intera collettivita' nazionale (rinviando per di piu' di ben dieci anni
l'attuazione della regola delle elezione contemporanea dei senatori e dei
consigli regionali, unica parvenza di collegamento delle due istituzioni),
ma si persegue una complicatissima ripartizione della competenza legislativa
fra Camera e Senato che darebbe luogo solo a continui dubbi e conflitti, e
si differenziano i poteri del Governo sulla legislazione statale a seconda
che ci si trovi di fronte all'una o all'altra Camera.
Le novita' piu' significative e pericolose riguardano pero' la forma di
governo. Qui l'intento e' chiaro: costruire una figura di Premier elettivo
dotato una sua legittimazione distinta e preminente rispetto alla stessa
maggioranza parlamentare, e di tutti i poteri necessari per condizionarne la
volonta', contemporaneamente abolendo o indebolendo il ruolo equilibratore
del Presidente della Repubblica.
Abbandonando il prudente orientamento della Costituzione vigente, che non
regola i sistemi elettorali (e che in tal modo ha consentito, senza
modifiche costituzionali, il passaggio del 1993 da sistemi proporzionali a
sistemi prevalentemente maggioritari), si  prevede che il Primo Ministro sia
designato direttamente dagli elettori (null'altro significa infatti la
previsione di candidature alla carica di Primo Ministro: art. 92), e si
impone l'adozione di una legge elettorale per la Camera che "favorisca" la
formazione di una maggioranza collegata al Primo Ministro eletto. Questi poi
e' dotato di molti strumenti per ottenere che la sua maggioranza ne approvi
(anche controvoglia) le proposte, fino a disporre largamente del potere di
scioglimento anticipato della Camera, sostanzialmente estraniando da esso il
Presidente della Repubblica.
Rispetto al sistema parlamentare disegnato dalla Costituzione vigente, che
tende a realizzare il coordinamento fra Governo e maggioranza parlamentare,
ma senza attribuire loro legittimazione separata, e che presenta caratteri
di grande flessibilita', cosi' che il suo funzionamento puo' adattarsi alle
diverse contingenze e all'evoluzione del sistema politico, si tende ad
introdurre un sistema massimamente rigido, nell'illusione di risolvere per
via di ingegneria costituzionale i problemi politici di coesione e di
efficienza della maggioranza. Non avremmo nemmeno piu' una maggioranza che
esprime un suo leader, ma un leader immediatamente investito del potere e
che controlla e domina la "sua" maggioranza. L'esito sarebbe un sistema di
massima concentrazione del potere politico, in cui la scelta degli elettori
tenderebbe a ridursi essenzialmente ad una delega quinquennale a favore di
una sola persona. In tal modo si esalterebbero quelle tendenze alla
personalizzazione estrema e alla ipersemplificazione dei circuiti
decisionali, che l'esperienza recente mostra gia' pericolosamente in atto,
impoverendo la democrazia e compromettendo l'equilibrio del sistema di
governo.
*
Tutto cio', si badi - ed questa la prima e fondamentale critica da muovere a
mio giudizio al progetto - come se, da quindici o venti anni a questa parte,
la realta' politica del paese non si fosse cosi' profondamente trasformata,
da presentare oggi caratteri e anche difetti opposti rispetto a quella cui
guardavano i primi aspiranti riformatori.
Si parlava, allora, di un esecutivo debole, da rafforzare rispetto ad un
Parlamento considerato troppo forte, nel quale si denunciava un eccesso di
negoziazione fra maggioranza e opposizione (il cosiddetto consociativismo) e
il manifestarsi di troppi poteri di veto o ostruzionistici, e rispetto a
strutture partitiche tendenti a sostituirsi al Governo in decisioni anche
quotidiane (la cosiddetta partitocrazia); si parlava di un esecutivo
irretito nelle maglie di una legislazione minuta, controllata dal Parlamento
(le cosiddette leggine). Non e' difficile accorgersi che oggi i problemi
sono casomai di segno opposto: che e' il Parlamento che stenta a mantenere
il suo ruolo di fronte ad un esecutivo che, a colpi di maxi-emendamenti
presentati a breve distanza dal voto e di voti di fiducia, ottiene
l'approvazione in blocco delle sue proposte; che fra maggioranza e
opposizione vige la piu' netta e feroce contrapposizione; che i tempi dei
lavori parlamentari sono strettamente regolati; che alla legislazione di
origine parlamentare si sostituisce sempre piu' una legislazione governativa
sulla base di deleghe talora amplissime e di una fortemente accresciuta
potesta' regolamentare (la cosiddetta delegificazione); che i partiti, come
li conoscevamo, quasi non esistono piu' come sedi di elaborazione di
politiche, di dibattito interno, di selezione delle classi dirigenti,
largamente trasformati in macchine per la raccolta del consenso. Quanto di
questi cambiamenti sia da ricondurre alla modifica dei sistemi elettorali e
quanto a fattori schiettamente storico-politici, e' oggetto di dibattito, ma
cio' non muta il quadro. Progetti, come quello in discussione, che mirano a
concentrare il potere esecutivo e legislativo in un unico leader
direttamente investito di un potere monocratico, danno, a tacer d'altro, una
risposta vecchia a problemi che non sono piu' quelli di ieri.
Del resto, rispetto ai problemi veri e ancora attuali, l'elasticita' del
nostro sistema parlamentare offre ampio spazio di risposta. Un esempio per
tutti: si vorrebbe sancire il potere del Premier di revocare i ministri. Ma
gia' oggi la Costituzione, attribuendo al  Presidente del Consiglio il
compito di "dirigere" la politica generale del Governo (non di
"determinarla" come invece e' detto nel progetto), essendone responsabile,
gli consente con l'appoggio della maggioranza del Consiglio dei Ministri
(cioe' del Governo al quale il Parlamento ha concesso la fiducia), di
ricondurre l'eventuale Ministro dissenziente all'osservanza dell'indirizzo
del Governo, e se necessario di sostituirlo (com'e' accaduto nel 1995 col
caso Mancuso). Quando cio' non accade, non e' per vincoli costituzionali, ma
per condizionamenti politici.
Non giustificati, e dunque pericolosi, sono anche i cambiamenti, solo
apparentemente marginali, che si vorrebbero introdurre in organi di
garanzia, Csm e Corte costituzionale. Per accennare solo a quest'ultima,
l'aumento da cinque a sette dei giudici di designazione parlamentare, con
contestuale riduzione di quelli di nomina del Capo dello Stato e delle
magistrature, non ha e non puo' avere il senso di introdurre le istituzioni
regionali fra le fonti di nomina, poiche' il Parlamento che elegge i giudici
continuerebbe ad essere composto di due Camere entrambe elettive e dunque
espressive del sistema politico nazionale. Avrebbe solo il senso di rompere
il delicato equilibrio realizzato dal Costituente del 1947 fra designazioni
politiche e non politiche, che nell'esperienza ormai cinquantennale della
Corte si e' tradotto in una felice fusione di culture e attitudini diverse,
scongiurando l'ipotesi nefasta di una Corte di partiti.
La posta in gioco sul terreno costituzionale e' pero' ancora piu' alta. Non
possiamo farei ingannare dal fatto che, fino ad oggi, le proposte di riforma
portate avanti riguardano solo la seconda parte della Costituzione, non la
prima parte sui diritti e i doveri, ne' i principi fondamentali. Gli
equilibri costituzionali della seconda parte sono infatti necessari per
salvaguardare i valori costituzionali; l'assetto degli organi di governo e
degli organi di garanzia non e' un problema di semplice ingegneria
istituzionale, ma e' esso stesso una garanzia essenziale, come ben sapevano
i costituenti francesi del 1789, secondo i quali, per avere una
Costituzione, un popolo non deve solo riconoscere i diritti, ma anche
attuare la divisione dei poteri.
Ma c'e' di piu'. L'indebolimento o lo snervamento, che si e' sopra
denunciato, dell'idea di Costituzione quale ci viene dalla tradizione del
costituzionalismo contemporaneo, complice la caduta di antichi ancoraggi
ideologici, rischia sempre piu' di aprire la strada a nuove ideologie che si
dovrebbero definire propriamente anticostituzionali.
*
Il costituzionalismo non si regge su concezioni formali della Costituzione,
ma presuppone dei contenuti precisi: la dignita' suprema della persona; il
riconoscimento e la garanzia effettiva dei diritti, civili, politici e
sociali; l'eguaglianza delle persone in dignita' e diritti; il
riconoscimento delle autonomie sociali; l'affermazione dei doveri di
solidarieta', e dunque di un ruolo dello Stato e della politica che non puo'
essere di pura amministrazione degli egoismi, neanche di quelli collettivi e
di massa; il superamento dell'idea di una sovranita' illimitata dello Stato,
sia all'interno che all'esterno, con la ricerca di un ordine internazionale
di collaborazione, di pace, di giustizia e di rispetto universale dei
diritti umani.
La Costituzione del 1947, che ha condotto l'Italia nella famiglia delle
nazioni democratiche, esprime e traduce in modo mirabile questi contenuti.
Di fronte a talune derive ideologiche e pratiche che si manifestano, e'
lecito il timore che all'indebolimento della coscienza costituzionale si
accompagni, magari in modo insensibile, un indebolimento delle radici di
queste convinzioni nella societa'.
Qualche esempio?
Fa parte della Costituzione il dovere di tutti di "concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva", nell'ambito di un
sistema tributario "informato a criteri di progressivita'" (art. 53). Quando
si vede diffondersi l'idea che il prelievo fiscale non sia lo strumento
necessario per provvedere alle necessita' collettive e realizzare un minimo
di giustizia distributiva, da disciplinare con equita' e rigore,
concentrando le energie collettive nello sforzo di combattere parassitismi e
sprechi di denaro pubblico, ma sia un noioso inconveniente da ridurre
comunque al minimo perche' sottrae risorse che ogni individuo dovrebbe poter
utilizzare per se'; quando dunque l'ideologia del "meno tasse" sembra
dominare tutte o quasi tutte le forze politiche, e si vagheggia addirittura
di copiare modelli di flat tax, cioe' di tassazione minima per tutti, dai
super-ricchi ai meno benestanti, non si sta forse andando oltre ogni
legittima discussione di politica economica, sociale e tributaria, per
allontanarsi dall'idea costituzionale del dovere di solidarieta' fiscale?
Ancora: gli articoli 7, 8 e 19 della Costituzione fondano, secondo la
lettura datane dalla Corte costituzionale gia' negli anni '80, il principio
supremo di laicita' dello Stato, intesa non come indifferenza nei confronti
del fenomeno religioso, ma come neutralita' dello Stato rispetto alle scelte
religiose dei singoli e distinzione degli ambiti fra Stato e confessioni
religiose. Quando oggi vediamo talvolta affiorare o riaffiorare tendenze a
confondere o identificare lo Stato o la nazionalita' con la religione o a
strumentalizzare l'appartenenza religiosa a fini di affermazione di una
identita' civile, non si tratta ancora una volta di una forma di
allontanamento dal terreno costituzionale?
Terzo esempio: quando rispetto ai nuovi problemi che si pongono nella
comunita' internazionale assistiamo all'affievolirsi dell'idea europea e al
manifestarsi di nuove forme di chiusura nazionalistica e di sfiducia negli
strumenti, pur imperfetti, dell'ordine giuridico internazionale, ancora una
volta vi e' ragione di temere arretramenti rispetto agli ideali
universalistici del costituzionalismo espressi nell'articolo 11 della nostra
Carta.
E dove sono finite la passione e la progettualita' politica per combattere
le piu' clamorose disuguaglianze a livello mondiale, mentre si riduce a
infime quote la percentuale di ricchezza nazionale dedicata agli aiuti ai
paesi piu' poveri, e magari ci preoccupiamo perche' in Italia (notizia di
ieri) il numero degli individui il cui patrimonio supera un milione di
dollari e' aumentato, in un anno, "solo" del 3,7 per cento?
*
Puo' apparire paradossale il fatto che proprio in un tempo in cui sono
venute meno le grandi contrapposizioni ideologiche e programmatiche
dell'epoca costituente e del mondo diviso in blocchi, le quali pure non
impedirono allora di trovare il terreno comune della Costituzione, e quando
anche forze minoritarie rimaste estranee ed ostili al processo costituente
hanno compiuto il percorso che le ha condotte ad accettare il quadro
costituzionale, sembrano manifestarsi nella societa' nuove spinte
ideologiche che rischiano di contraddire i valori di fondo del
costituzionalismo.
Certo, il mondo e' cambiato, e nuove formidabili sfide fronteggiano gli
uomini di oggi e le loro politiche, anche su terreni che potevano sembrare
storicamente esauriti, come quando si assiste nuovamente all'utilizzo o alla
strumentalizzazione della religione per promuovere esasperate spinte
nazionalistiche, aggressioni terroristiche o "scontri di civilta'". Tanto
piu' essenziale, allora, e' conservare e sviluppare quei valori e costruire
su di essi.
In Italia le generazioni che hanno fatto la Costituzione e che hanno vissuto
gli eventi epocali da cui essa e' nata sono scomparse o stanno per
scomparire dalla scena. Vi e' da domandarsi perche' e come sia potuto o
possa accadere che il patrimonio prezioso dei valori costituzionali rischi
di non essere trasmesso, o di essere dilapidato o snaturato; e su questo le
culture politiche e le forze politiche organizzate dovrebbero interrogarsi.
Il "patriottismo costituzionale" di cui parlava Dossetti vive e si consolida
se le idee-forza della Costituzione sono radicate nello spirito collettivo e
nella cultura diffusa del paese. Difendere la Costituzione vuol dire prima
di tutto e soprattutto lavorare per questo.

3. RILETTURE. HANNAH ARENDT: VITA ACTIVA
Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964,
1994, pp. XXXIV + 286, lire 13.000. Uno dei capolavori della riflessione
politica.

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Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" n. 1335 del 23 giugno 2006
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