La domenica della nonviolenza. 77



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 77 dell'11 giugno 2006

In questo numero:
1. Marco Deriu presenta "Il libro nero della guerra" di Gabriel Kolko
2. Stefano Petrucciani presenta "La pensabilita' del mondo" di Sebastiano
Maffettone
3. Riletture: Eleonora Missana, L'etica nel pensiero contemporaneo

1. LIBRI. MARCO DERIU PRESENTA "IL LIBRO NERO DELLA GUERRA" DI GABRIEL KOLKO
[Dalla bella rivista diretta da Goffredo Fofi "Lo straniero", n. 71 del
maggio 2006 (sito: www.lostraniero.net), riprendiamo la seguente recensione
Marco Deriu, sociologo e saggista, docente universitario, e' stato direttore
della rivista "Alfazeta" dal 1996 al 1999; consulente culturale per diversi
enti pubblici e privati, segue in particolare la progettazione e le
attivita' del "Laboratorio per la cultura della pace" dell'assessorato ai
servizi sociali della Provincia di Parma. Tra le opere di Marco Deriu: (a
cura di), Gregory Bateson, Bruno Mondadori, Milano 2000; (a cura di),
L'illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della
solidarieta' internazionale, Emi, Bologna 2001; (a cura di, con Pietro
Montanari e Claudio Bazzocchi), Guerre private, Il ponte, Bologna 2004; La
fragilita' dei padri. Il disordine simbolico paterno e il confronto con i
figli adolescenti, Unicopli, Milano 2004; Dizionario critico delle nuove
guerre, Emi, Bologna 2005.
Gabriel Kolko (1932), storcioe  docente universitario statunitense, e'
autore di una quindicina di libri tradotti in diciannove lingue; ha
insegnato nelle universita' di Pennsylvania, Buffalo e York (Canada);
attualmente risiede ad Amsterdam. Tra le opere di Gabriel Kolko pubblicate
in Italia: Ricchezza e potere in America, Einaudi, Torino 1964; Le radici
economiche della politica americana, Einaudi, Torino 1970; (con Joyce
Kolko), I limiti della potenza americana. Gli Stati Uniti nel mondo dal 1945
al 1954, Einaudi, Torino 1975; Il libro nero della guerra, Fazi, Roma 2005]

La lettura del libro di Gabriel Kolko, uno dei piu' importanti storici
americani e uno dei maggiori studiosi delle guerre moderne, mi ha fatto
tornare in mente un celebre aforisma di Karl Kraus: "Come viene governato il
mondo e com'e' che viene condotto in guerra? Dei diplomatici ingannano dei
giornalisti e ci credono quando poi leggono il giornale" (1). L'aforisma
corrosivo di Kraus si rivela, alla luce della monumentale analisi di Kolko
sulle guerre dell'ultimo secolo, piuttosto centrato e assai prossimo alla
realta' dei fatti.
Il lavoro di Kolko, Century of War. Politics, Conflicts, and Society since
1914, tradotto in Italiano da Massimiliano Manganelli per Fazi Editore col
titolo Il libro nero della guerra. Politica, conflitti e societa' dal 1914
al nuovo millennio, rappresenta un tentativo ambizioso e fuori del comune di
interpretare la natura stessa della guerra nella modernita'. In particolare
la prospettiva relativamente originale scelta dallo storico americano e'
quella di approfondire esplicitamente l'analisi della guerra come processo
sociale piu' che come evento politico-militare. In altre parole non si
tratta di guardare semplicemente il teatro del conflitto tra nazioni, ma di
osservare le dinamiche e gli avvenimenti sociali, economici e politici che
si scatenano con le guerre proiettandosi nel futuro e segnando lo sviluppo
dei diversi paesi coinvolti a distanza di diversi decenni.
Prendendo in esame alcune guerre - la prima e la seconda guerra mondiale, la
guerra di Corea, la guerra del Vietnam, la guerra civile nelle Filippine e
in Grecia fino all'episodio piu' recente dell'Iraq - Kolko analizza gli
effetti sui civili e sulla societa' mostrando come questi siano stati molto
piu' ampi di quanto non fosse stato messo in conto, e come abbiano prodotto
conseguenze profonde e radicali sull'assetto sociale e politico del
Novecento.
Tra questi effetti ci sono quelli psicologici sugli uomini mobilitati per
combattere, quelli economici sulle societa' coinvolte, come i fenomeni di
inflazione con le relative conseguenze sul ceto medio e sulla classe
operaia; quindi i traumi provocati dagli eserciti invasori, lo sradicamento
e le migrazioni forzate che hanno ridefinito la composizione della
popolazione in Europa, i processi di urbanizzazione, la crescita della
disoccupazione, i conflitti sociali che ne conseguono, la carestia, la
rovina o la distruzione di alcune classi sociali anche privilegiate, la
concentrazione delle ricchezze e la spinta nella costituzione di grandi
movimenti rivoluzionari, socialisti e fascisti non concepibili in tempo di
pace, fino all'avvento dei regimi comunisti in Europa e in Estremo Oriente,
piu' in generale la trasformazione del modo di vita della popolazione: "Dal
momento che hanno trasformato la realta' umana e sociale, nel Novecento le
guerre hanno ampiamente modellato il tempo e le dinamiche sociali. Hanno
spesso spazzato via, o addirittura distrutto, vasti settori delle classi
economicamente privilegiate e hanno influenzato operai e contadini in
numerosi paesi, costringendoli a pensare e agire in modi inimmaginabili in
tempo di pace" (2).
Ma viste tali conseguenze, la questione da discutere - suggerisce Kolko - e'
il divario eccezionale tra le aspettative dei politici e degli strateghi,
ovvero delle elites responsabili delle guerre, e la realta' storica
effettiva che poi realmente si e' prodotta. Qualunque fossero i paesi, le
forze politiche e i piani strategici da essi predisposti le guerre - questo
il principale tratto comune emergente - non hanno mai corrisposto alle loro
previsioni. Le attese sono andate sempre deluse.
*
La logica della credibilita'
Da qui si sviluppa l'analisi della guerra proposta dal lavoro di Kolko: "Il
Novecento ebbe inizio con una profonda fiducia in se stesso. Quali che
fossero gli obiettivi, tutti quelli che immaginavano il futuro condividevano
un ottimismo e una fiducia nel fatto che avrebbero raggiunto i loro scopi"
(3). Questo ottimismo affonda le radici in parte nell'illuminismo, nella
fede nella possibilita' di una valutazione trasparente delle realta', in
parte nella sicurezza del potere e nell'incapacita' di ipotizzare che le
decisioni dei governanti si dimostrassero alla lunga cosi' inesatte e
negative da nuocere alle societa' cui appartenevano e da ultimo anche a se
stessi. Nell'ambito delle guerre, in effetti, l'ampiezza dei cambiamenti ha
sempre trasceso le capacita' di analisi e di calcolo dei principali attori e
smentito radicalmente le loro aspettative. In tutti i conflitti analizzati i
piani non sono andati come previsto.
In questo modo Kolko suggerisce anche di distinguere le motivazioni e le
cause delle guerre dalle dinamiche reali e dichiara il proprio interesse
verso i processi piuttosto che verso le origini dei grandi conflitti.
D'altra parte forse una delle origini delle guerre andrebbe ricercata
proprio nella reiterata pretesa di prevedere e controllare le forme e le
dinamiche della violenza e della guerra, e nell'incapacita' di apprendere
dalle smentite della storia: "Fu l'ingiustificato ottimismo di innumerevoli
esponenti politici, convinti che sarebbero stati liberi dalle pressioni
interne, a far si' che essi si imbarcassero nelle guerre per ragioni
effimere e simboliche, le cui conseguenze si sarebbero rivelate devastanti
per decine di milioni di persone" (4).
Tra gli aspetti dei ragionamenti e delle valutazioni che ritornano con
maggiore costanza nelle elites dirigenti, indipendentemente dalle idee
politiche, c'e' quella che Kolko chiama "la logica della credibilita'".
Nelle decisioni assunte che hanno condotto nazioni e popoli alla guerra, la
presunta necessita' di salvaguardare un'immagine di forza, prestigio e
credibilita' internazionale ha avuto sempre un ruolo fondamentale. I capi di
Stato si sono mossi per esempio con l'idea che se non si fossero riaffermati
con i propri comportamenti e le proprie scelte i sistemi storici di alleanze
politiche fra paesi con i doveri che esse implicavano si sarebbe messa in
pericolo la condizione di equilibrio e stabilita' del mondo.
Piu' in generale la logica della credibilita' sembrava rendere necessario
mostrare la disponibilita' all'uso della forza da parte di un paese anche
quando altre valutazioni lo avrebbero sconsigliato, pur di riconfermare
simbolicamente il proprio ruolo politico e militare e incutere un senso di
rispetto e di timore alle altre nazioni. Gli stessi interventi militari in
zone non direttamente strategiche o in occasioni di non grande importanza
dovevano servire a testimoniare il proprio vigore e la propria volonta' di
mantenere un certo ordine di cose. Insomma dietro certe scelte catastrofiche
sul piano delle perdite umane, ambientali e sociali va registrata la
volonta' di mantenere anzitutto una propria immagine di fronte agli altri.
Le questioni simboliche, legate all'immagine e al prestigio, dunque non
sarebbero affatto secondarie, per esempio rispetto a motivazioni economiche
o strategiche, ma al contrario sarebbero cruciali e fondanti.
Da questo punto di vista, dietro certe decisioni, sottolinea Kolko, ci
sarebbe tutt'altro che un'analisi ponderata e razionale dei fattori in campo
e delle conseguenze probabili. Nelle guerre del secolo scorso i diversi
leader non avevano in realta' che idee assai scarse delle conseguenze degli
eventi bellici per il loro popolo, per gli assetti sociali e politici e per
loro stessi; soprattutto non avevano nozioni adeguate del tributo di sangue
e dolori che le loro avventure militari avrebbero generato. Con pochissime
eccezioni (una sola nei casi esaminati da Kolko), le elites politiche dei
diversi paesi, sia democratici che dittatoriali, hanno dato inizio alle
guerre con un carico impressionante di ignoranza, di illusioni e di
aspettative inconsistenti.
Questa notevole miopia e sottovalutazione della realta' e l'incapacita' di
prevedere le conseguenze - sostanzialmente negative anche per loro stessi -
e' frutto in gran parte di un percorso decisionale in cui contano
soprattutto gli interessi politici interni e le ambizioni personali. Questi
interessi diventano dei filtri in ogni fase del processo di acquisizione e
valutazione delle informazioni e delle costruzioni delle priorita'
strategiche nelle decisioni.
Kolko cita da questo punto di vista una messe di esempi - dalle guerre
mondiali a quelle piu' recenti - in cui i preconcetti e pregiudizi
ideologici delle classi di governo furono anteposti a qualsiasi analisi e
valutazione realistica nelle decisioni da prendere di fronte alla guerra
imminente o gia' in corso. L'atteggiamento di Hitler nella seconda guerra
mondiale, in particolare nella campagna di Russia, per esempio, o
l'atteggiamento dei governi statunitensi di fronte alla guerra del Vietnam,
rivelano da questo punto di vista la medesima propensione a disconoscere
l'esistenza di una realta' spiacevole: "la guerra dell'America contro l'Iraq
del marzo 2003 - nota Kolko - rappresenta soltanto l'ultimo esempio di un
simbolismo che definisce le strategie e del rifiuto di accettare la realta',
fattori che ne hanno guidato la politica estera per generazioni" (5).
Da questo punto di vista la messa a disposizione di un'ingente mole di dati
da parte dei moderni servizi segreti non sembra migliorare la situazione,
anzi la semplice quantita' di informazione prodotta garantisce il fatto che
questa sara' verosimilmente trascurata quasi tutta: l'eccesso di
informazione si traduce in un'incapacita' di selezionare ed estrarre le
(poche) informazioni rilevanti.
A questo proposito vale la pena confrontare le osservazioni di Kolko sul
conflitto del Vietnam, dove gli americani vollero testare l'efficacia della
guerra limitata e la credibilita' della potenza americana, e di cui Kolko
descrive accuratamente l'impasse spionistica e il divario tra realta' e
politica, con le analisi che Hannah Arendt fece dei cosiddetti "Pentagon
Papers" (6).
I Pentagon Papers sono i quarantasette volumi della storia del processo
decisionale americano sulla politica in Vietnam, realizzati su commissione
del segretario alla Difesa Robert McNamara tra il 1967 e il 1968 e resi
pubblici dal "New York Times" nel 1971. Dall'analisi dei "Pentagon Papers"
emerge il ruolo nella conduzione della politica estera americana in Asia,
dei cosiddetti "problem-solvers", professionisti - esperti di "games
theories", modelli simulati, analisi dei sistemi - che erano stati chiamati
dal governo per risolvere le difficolta' dell'intervento americano. Cio' che
e' interessante notare e' che il fallimento disastroso dell'impresa asiatica
come emerge dai "Pentagon Papers" non puo' essere ricondotto semplicemente a
degli sbagli, a errori di calcolo, a errate valutazioni. Dai documenti si
percepisce invece l'importanza della dimensione di menzogna, falsita',
dissimulazione, creata dallo staff tecnico dei governi Usa nell'intera
gestione politica di contro alla straordinaria accuratezza dei continui
rapporti redatti dai servizi segreti sulla situazione reale. Come nota
Hannah Arendt, la politica della menzogna non era utilizzata solamente e
nemmeno principalmente nei confronti del nemico, piuttosto veniva utilizzata
nella propaganda interna rivolta a ingannare il Congresso e l'opinione
pubblica.
Un secondo aspetto notato da Hannah Arendt fu il fatto che gli obiettivi e
di conseguenza le decisioni tattiche mutavano continuamente. Gli obiettivi
ufficiali furono in successione "l'autodeterminazione del Vietnam del sud",
"l'apporto contro il complotto comunista", "il contenimento della Cina",
"evitare l'effetto domino", "la reputazione dell'America nella lotta contro
la sovversione". Quando dopo il 1965 le possibilita' di vittoria vennero
meno, gli obiettivi diventarono "convincere il nemico che non puo' vincere",
"evitare un'umiliante sconfitta", infine "far vedere al mondo fino a che
punto gli Stati Uniti sono capaci di impegnarsi per un governo amico" e
"tener fede agli impegni". Su tutto dominava la paura delle conseguenze
sulla reputazione degli Stati Uniti e del loro Presidente. Dai "Pentagon
Papers" emerge in definitiva che l'unico scopo permanente fin dall'inizio
nell'impresa americana in Vietnam era quello di "comportarsi come la piu'
grande potenza del mondo" per convincere il mondo di questo fatto. Come
commenta Hannah Arendt, "lo scopo ultimo non era ne' il potere ne' il
profitto. Non era neppure quello di esercitare un'influenza sul mondo per
poter servire specifici, concreti interessi per salvaguardare il prestigio
della 'piu' grande potenza della terra'. Lo scopo a questo punto era
l'immagine stessa, co'm'e' evidente nel linguaggio stesso adoperato dai
'problem-solvers', con i loro 'scenari' e i loro 'pubblici', presi a
prestito dal teatro. Per raggiungere questo fine ultimo, tutte le politiche
divennero mezzi intercambiabili a breve termine, finche' quando tutti i
segni stavano a indicare che ci si avvicinava alla sconfitta in una guerra
di logoramento, l'obiettivo non fu piu' quello di evitare una sconfitta
umiliante ma di trovare i modi e i mezzi per evitare di ammetterla e
'salvare la faccia'" (7).
Per quanto incredibile possa sembrare, cio' che ha giustificato una guerra
lunga e sanguinosa e la sua prosecuzione anche senza reali prospettive di
vittoria, con tutto quello che ha significato in termini di vite umane, di
sofferenza, di distruzione sociale e ambientale, di ripercussioni
internazionali e interne, non fu altro che una questione di "immagine".
Ma non sorprende di meno lo sforzo continuo e inesausto di quei
"problem-solvers", nel calcolare probabilita', immaginare scenari,
pianificare delle strategie, costruire delle immagini, senza tenere conto
della realta' dei fatti su cui i servizi di informazione fornivano dati
dettagliati. Tra gli esperti della sicurezza nazionale americani, nelle alte
burocrazie del potere, non hanno giocato alcun ruolo una valutazione pacata
o il semplice buon senso. Piuttosto il deliberato disprezzo per tutti i
fatti storici, politici, geografici, un totale distacco dalla realta', una
proiezione in un mondo defattualizzato, immaginario, virtuale. Hannah Arendt
nota come in tutto il processo decisionale si e' avuta una "micidiale
combinazione di arroganza del potere - il perseguimento di una mera immagine
di onnipotenza - con l'arroganza della mente, una fiducia assolutamente
irrazionale nella possibilita' di calcolare la realta'" (8).
*
Fisionomia delle elites
Il Vietnam e' solamente il caso piu' eclatante, ma se osserviamo quello che
sta avvenendo in Iraq possiamo renderci facilmente conto che la storia non
ha insegnato nulla. Le elites politiche sembrano leggere la realta' con
lenti deformanti, mostrandosi incapaci di prendere atto degli errori di
valutazione e delle contraddizioni prodotte.
Secondo Kolko ci sarebbe una connessione tra processi di selezione delle
elites dirigenti e le performance politiche da esse prodotte: "Per intendere
a fondo la causa dell'endemica e sistematica miopia delle classi dirigenti
e' decisivo sottolineare la somiglianza dei metodi formali e informali
attraverso i quali in tutti gli Stati vengono selezionati e plasmati gli
uomini di potere, indipendentemente dai sistemi politici. Tali processi di
integrazione sociale non si fondano mai su una razionalita' astratta e
oggettiva oppure su norme di merito, ma sopprimono inesorabilmente sul
nascere la carriera di quegli individui che, con tutta probabilita',
trattano l'informazione come un mezzo neutrale e razionale per chiarire e
contribuire a formulare politiche che devono ancora essere nettamente
definite, per porre pertanto domande critiche e scomode su questioni
fondamentali che interferiscono con i presupposti, gli obiettivi e gli
interessi predeterminati di un sistema di classe e degli uomini che lo
gestiscono" (9). In sostanza secondo Kolko, "in ogni Stato moderno, il
processo di integrazione sociale dei leader e' fedele in maniera monolitica
a quel consenso di fondo che al contempo definisce e vincola la sua classe
dominante e, che sia o no spietato, e' sempre altamente efficace" (10).
In altre parole sarebbero i fattori del carrierismo e dell'ambizione
personale a generare il consenso monolitico tra le elites dirigenti. Questi
uomini si rapportano soltanto tra di loro, in un atteggiamento di fedelta' e
di reverenza funzionale alla loro carriera politica e non tengono conto del
resto. In questo modo le stesse informazioni disponibili, anche quando sono
ampie e documentate, vengono spesso snobbate, censurate o addirittura
manipolate. Vengono selezionate quelle che potrebbero confermare o
giustificare la prospettiva gia' assunta, vengono nascoste quelle contrarie
e vengono spesso anche create ad hoc informazioni false e tendenziose per
supportare la propria linea politica autonomamente assunta. Si registrerebbe
dunque, da questo punto di vista, una miscela particolarmente esplosiva di
autoreferenzialita', di conformismo e di atteggiamento manipolatorio
ricorrente nelle elites al potere.
Nella sostanza, nota Kolko, "alla guida degli interessi di una nazione non
e' mai esistita, ne' mai comparira' in futuro, una razionalita'
'intellettuale' obiettiva e disinteressata" come quella presupposta dai
teorici weberiani, anzi i criteri tecnici astratti "diventano infinitamente
meno importanti del carrierismo e dell'ambizione, i quali rappresentano la
peculiarita' decisiva che proietta le persone verso il potere" (11).
Contraddicendo frontalmente alcuni degli assunti del pensiero politico
"realista", lo storico americano sottolinea che nell'ultimo secolo "le
guerre sono state il prodotto non soltanto del retaggio di forze strutturali
economiche o geopolitiche e del nazionalismo, ma anche delle strategie
militari e degli assunti dei governanti riguardo alla natura, alla
conduzione e ai rischi del conflitto armato in contesti istituzionali e
storici eccessivamente complessi" (12).
Si potrebbe sottolineare, incrociando ancora l'analisi di Kolko a quella
della Arendt, come il ricorso eccessivo al segreto, alla menzogna, alla
propaganda, all'immagine artefatta, non coinvolge solamente i cittadini e i
loro rappresentanti ma coinvolge gli stessi protagonisti, le stesse elites.
I politici, profondamente convinti di poter manipolare la realta' e le
persone a loro piacimento, allontanata sempre piu' la realta' da se',
diventano infine incapaci di distinguere il vero dal falso, fino a rimanere
ingannati dai loro stessi inganni. Si arriva cosi' a  un certo punto oltre
il quale le menzogne non sono piu' una scelta o una strategia, ma sono
dettate da una logica e una coerenza interna e divengono necessarie per la
propria stessa sopravvivenza politica. A quel punto, quando la menzogna non
e' piu' uno strumento, ma e' il mondo di fantasia da cui si dipende, si
finisce col credere alla propria menzogna, a credere secondo quanto si e'
fatto e si e' detto. Proprio come diceva Karl Kraus nel suo acuto aforisma.
D'altro canto, come ho cercato di sottolineare altrove (13), la questione
dell'autoinganno non riguarda solamente i politici e il tema classico della
propaganda e della manipolazione politica non basta a spiegare gli
atteggiamenti dell'opinione pubblica verso le guerre nelle societa'
contemporanee.
Basta ricordare le motivazioni sulle quali si e' motivata e condotta la
guerra contro l'Iraq nel 2003, ovvero l'attribuzione a Saddam Hussein di una
qualche connessione con Bin Laden e il terrorismo internazionale e il
possesso da parte delle forze irachene di armi di distruzione di massa che
minacciavano la sicurezza internazionale. A guerra finita entrambe queste
motivazioni sono state ampliamente smentite da piu' fonti e dagli stessi
protagonisti, ma non erano solo i servizi segreti di questi paesi a sapere
che entrambe le accuse erano infondate. Solo per fare un esempio, le
dichiarazioni dell'ex ispettore dell'Onu Scott Ritter o quella del direttore
dell'Unmovic Hans Blix mostravano piuttosto chiaramente che non c'erano
minacce reali dovute ad armi di distruzione di massa nell'arsenale iracheno
(14).
Dunque, perche' una parte consistente della popolazione americana ed europea
ha creduto a queste motivazioni platealmente artefatte? Non e' solo
questione di manipolazione. Se ci sono molte persone che hanno preferito
negare la realta' della situazione e credere che Saddam Hussein possedesse
nuove armi di distruzione di massa, o che avesse intrattenuto rapporti con
al Qaida, significa molto semplicemente che esse hanno avuto bisogno di
crederci. C'e' stata cioe' un'adesione volontaria a una visione delle cose
perche' e' piu' tranquillizzante guardare le cose in quella prospettiva. Il
non crederci comportava un costo emotivo e cognitivo pesante perche' avrebbe
costretto a fare i conti con le responsabilita' del proprio paese. A questo
proposito val la pena ricordare l'analisi del tema del "diniego" proposta
dal sociologo Stanley Cohen nel suo libro Stati di negazione (15).
L'atteggiamento del diniego di fronte a una realta' dolorosa e umiliante e
percio' difficile da riconoscere e affrontare non e' una specialita' delle
classi dirigenti, ne' tantomeno dei soli dittatori, ma e' un fenomeno
piuttosto diffuso anche nella cosiddetta societa' civile dei paesi
democratici.
*
Cecita' sistematica delle classi dirigenti
Il punto dunque non e' semplicemente la tendenza a guardare e interpretare
la realta' in maniera selettiva e autoconfermante. La dimensione drammatica
nasce invece dal fatto che con gli Stati moderni un numero limitato di
persone sono chiamate a pronunciarsi su processi e problemi di sempre
maggior ampiezza e complessita' proprio nel momento storico in cui l'impatto
delle tecnologie di produzione e distruzione sugli ambienti sociali e
naturali ha assunto una dimensione inconcepibile rispetto al passato.
Nei fatti i problemi sarebbero due e tra loro intrecciati. Uno
socio-politico che riguarda i sistemi politici, le caratteristiche dei
processi decisionali, le caratteristiche dei soggetti che sono chiamati ad
assumerle, la complessita' dei processi in campo, l'ampiezza e le dimensioni
delle decisioni assumibili e anche i limiti di sicurezza che da questo punto
di vista si possono porre. Il secondo socio-tecnico, ovvero la divaricazione
tra la capacita' di impatto delle moderne tecnologie di produzione e
distruzione e i limiti cognitivi ed emotivi degli esseri umani.
Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, oggi l'evoluzione delle tecnologie
militari e delle armi di distruzione ci pongono in maniera ancora piu' forte
che in passato di fronte a questo limite nella comprensione dei disastri che
gli esseri umani stessi possono causare.
Il pensatore che forse ha colto di piu' la drammaticita' della situazione in
cui ci troviamo rimane ancora oggi Guenther Anders. Questo autore aveva
colto meglio di chiunque altro l'esistenza di uno scarto, di un "dislivello
prometeico" tra le nostre possibilita' tecniche e la nostra capacita' di
concepire e comprendere gli effetti delle nostre azioni. In qualche modo la
nostra capacita' di immaginare e' inferiore alla ampiezza dei disastri e
delle distruzioni che possiamo causare. Gli effetti provocati dai nostri
strumenti sono cosi' enormi che ci mancano gli strumenti per poter
concepirli veramente. Questo facilita una rimozione della gravita' e della
propria responsabilita' nell'evento. In questo senso possiamo "non sapere"
esattamente quello che stiamo facendo, nel senso che l'effetto reale della
nostra azione non trova posto veramente nella nostra psiche e nella nostra
emotivita'. Secondo Anders, "quanto piu' grande e' l'effetto possibile
dell'agire, e tanto piu' e' difficile concepirlo, sentirlo e poterne
rispondere; quanto piu' e' grande lo 'scarto' tanto piu' debole il
meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premendo un tasto, e'
infinitamente piu' facile che ammazzare una sola persona (16).
Sempre Anders in un'altra occasione ha notato: "la strage in massa trascende
di gran lunga la sfera di quelle azioni che siamo in grado di rappresentarci
concretamente e a cui possiamo reagire sentimentalmente; e la cui esecuzione
potrebbe essere inibita dall'immaginazione o dai sentimenti" (17). Di fronte
alle armi moderne, alle armi di distruzione di massa, e' limitata anche la
nostra capacita' di provare angoscia. E' difficile pensare alle conseguenze
di queste armi sia in termini di estensione spaziale e numerica delle
vittime, che in termini di estensione temporale dei loro effetti. E'
difficile pensare alle conseguenze - per esempio - che gli effetti
dell'inquinamento radioattivo dovuto ad armi nucleari o a proiettili
all'uranio impoverito creeranno non solo al momento ma anche sui bambini che
nasceranno a distanza di molto tempo e sulle generazioni future.
Da questo punto di vista il compito della nostra civilta' e' riconoscere
questo scarto. In parte possiamo forse ridurlo, allargando e sostenendo la
nostra fantasia morale, il nostro sguardo sul mondo in cui viviamo. Ma
d'altra parte dobbiamo fare i conti con i nostri limiti umani e  assumere di
fronte a questo scarto un atteggiamento etico e politico di maggiore
umilta'.
A questo aspetto si collega anche l'altra questione, quella socio-politica.
Il modo in cui la pone Kolko e' interessante ma insufficiente e per certi
versi contraddittorio. Il punto di forza della sua analisi e' la
sottolineatura che "quasi ogni guerra del Novecento ha al contempo sorpreso
e deluso tutti i governanti, indipendentemente dalla loro nazionalita'.
Considerati gli elementi di carattere politico, sociale e umano implicati in
ogni conflitto, nonche' la quasi certezza che questi ingredienti si
combineranno provocando effetti imprevisti, i governi che valutano l'esito
delle guerre in termini di eventi militari essenzialmente prevedibili sono
immancabilmente condannati alla delusione. La teoria e la realta' effettiva
della guerra contrastano fortemente fra loro, giacche' i risultati di un
conflitto non si possono mai conoscere in anticipo. Uomini e donne segnati
dalla cecita' sono stati il motore della storia moderna, oltre che fonte di
sofferenze e distruzioni infinite" (18). Le classi dirigenti, ossessionate
dalla potenza e della forza, hanno dimostrato in tutti i tempi una "cecita'
sistemica" verso le conseguenze e i processi scatenati con le guerre.
Il paradosso sembra dunque cosi' riassumibile: le elites dirigenti spingono
il proprio paese alla guerra sulla base delle proprie aspettative, poiche'
credono di poter controllare e condurre gli eventi a loro favore; allo
stesso tempo l'insegnamento fondamentale delle guerre novecentesche e' che
le guerre sono eventi complessi che tradiscono sempre le aspettative di chi
le scatena e spesso travolgono le stesse elites che le hanno volute. Questo
paradosso segnala a mio avviso un problema epistemologico che e' implicito
nel lavoro di Kolko ma non e' ben messo a fuoco, in parte perche' l'autore
stesso non vuole rinnegare la fiducia in una razionalita' illuministica che
risolva la complessita' del reale.
Egli infatti per un verso punta la sua attenzione sui criteri di
reclutamento degli individui nella classe dirigente come spiegazione
dell'atteggiamento manipolatorio e irrazionale delle elites di fronte a
eventi di tale portata. Per quanto questo aspetto senz'altro puo'
contribuire a esacerbare un certo tipo di comportamento c'e' tuttavia una
questione piu' ampia da sottolineare. In fin dei conti c'e' un qualcosa di
problematico in quelle strutture cosi' verticistiche su cui si fondano tutti
gli stati moderni indipendentemente dai regimi corrispondenti. Non si tratta
semplicemente di selezionare individui migliori e piu' razionali in base
alla fiducia che le persone giuste al posto giusto possano dirigere
adeguatamente le vite e le speranze di milioni di altre persone, ma al
contrario di ripensare i sistemi e le istituzioni politiche in modo tale che
le singole persone non possano assumere decisioni di tale importanza da sole
o in ristretti consessi senza passare attraverso processi decisionali
aperti, partecipativi, che possano in qualche modo mettere in campo dei
processi decisionali piu' collettivi, riflessivi, problematici e
sostanzialmente piu' cauti.
Da questo punto di vista l'acquisizione per certi versi sorprendente degli
ultimi decenni e' che i regimi democratici non sembrano mostrare nessun
elemento di contenimento e di moderazione particolare rispetto alle
propensioni belliciste di una qualsivoglia classe dirigente.
Ora per tornare al punto fondamentale suggerito da Kolko - "chi inizia la
guerra immancabilmente perde il controllo dei suoi aspetti decisivi" (19) -
le possibili letture sono differenti.
In effetti io credo che la guerra sia espressione della convinzione radicata
negli esseri umani che la violenza sia controllabile o quanto meno
indirizzabile. Gli uomini fanno la guerra perche' sono convinti di poter
gestire e dominare la violenza. Cio' che caratterizza il ricorso alla guerra
e' proprio la convinzione che la violenza possa rimanere mezzo, strumento,
ovvero che non prenda il sopravvento e che non si ritorca contro se stessi.
Sono pochi quelli che affermano apertamente che la guerra e' una buona cosa.
La maggioranza deplora questo strumento e tuttavia ritiene che "in certe
circostanze..., a certe condizioni..., entro certi limiti..., esercitando
una certa responsabilita'...", sia legittima e inevitabile. Insomma
l'epistemologia che sta alla base dei sostenitori della guerra e' quella per
cui la violenza se misurata e controllata puo' essere "funzionale" o
"accettabile". Alla base di ogni guerra c'e' l'illusione dell'autocontrollo
rispetto alla violenza. Si crede che si esercitera' soltanto la violenza
"necessaria", la violenza "legittima", ovvero la violenza razionale,
proporzionata al fine. Naturalmente non e' mai cosi'. Nella guerra la
violenza segue dei meccanismi propri che tendono all'assuefazione,
all'escalation, allo scatenamento. Ogni guerra dimostra che la violenza, una
volta scatenata, non e' affatto controllabile.
Spesso si crede che nel riconoscimento e nell'accettazione della violenza vi
sia un elemento di realismo, di pragmatismo politico. Da questo punto di
vista il lavoro di Kolko contribuisce a mostrare come nella realta' le cose
siano piuttosto diverse. Le guerre rappresentano sorprese incontrollabili
per chi le avvia. Quanto al realismo, la guerra non ne rappresenta l'essenza
ma la sua antitesi. D'altra parte non e' chiaro fino a che punto Kolko
voglia mettere in discussione gli assunti antropologici e politici degli
attori che egli vuole criticare di fronte alle aspettative di pianificazione
e controllo. L'idea cioe' che sia possibile un processo piu' razionale,
oggettivo, impersonale di valutazione che avrebbe permesso di evitare almeno
in parte questi disastri. Nella parte finale del libro, soprattutto, Kolko
sembra rimettere nuovamente le speranze di superare la tragedia della guerra
nell'avvento di una civilta' razionale e trasparente. Egli torna a guardare
alla tradizione razionalista, internazionalista, umanitaria e radicale,
contro la minaccia dell'insorgenza di forze politiche irrazionali e
reazionarie, distruttive sul piano materiale (20). Auspica l'avvento di un
socialismo rinnovato come proposta di una nuova organizzazione economica,
capace di favorire un'equa distribuzione del reddito e della ricchezza come
condizione preliminare della stabilita' sociale e della pace tra gli Stati.
E' curioso che Kolko proprio nelle conclusioni rischi di ricadere nella
stessa illusione di ordinare la realta' e di controllare gli eventi che ha
mietuto tante vittime nel Novecento, riproponendo senza alcuna cautela e
mediazione critica il progetto di un regime superiore - "di gran lunga la
migliore delle alternative date" - capace di imporsi sulla complessita' e le
contraddizioni del reale.
Non si puo' evitare di domandare cosa fonda in Kolko la fiducia che un
progetto complessivo di questo genere - ancora riproposto nei termini di uno
scenario trasparente, di un'alternativa economica razionale ed equa, che si
potrebbe definire semplicemente sulla valutazione di mezzi e fini adeguati,
ovvero di un soggetto politico razionale che crede di poter trasformare il
mondo - non vada incontro alle stesse delusioni che egli ha cosi' finemente
analizzato nei processi bellici e politici del Novecento.
Per Kolko la questione piu' ardua sarebbe semplicemente quella del
"controllo della leadership e del ceto politico": "occorre cioe' imporre
alle persone e alle istituzioni di governo meccanismi di verifica
infallibili, tali da impedire il ripetersi dell'opportunismo, della
doppiezza, dell'egoismo e di tanti altri atteggiamenti negativi... solo in
tal modo e' possibile vigilare sui rappresentanti del popolo e impedirne il
tradimento del potere e della fiducia di chi ha conferito loro una tale
responsabilita'" (21). In altre parole nella visione di Kolko non viene
messa in discussione l'idea di un soggetto politico razionale e presente a
se stesso e di un mondo trasparente che puo' essere ordinato se solo ci si
mettesse di buona volonta'.
Dietro ogni guerra ci sono persone che credono con piani e scenari di
controllare la vita e la morte, eserciti e obiettivi, bombardamenti e
soccorsi, perdite e profughi, missili intelligenti, accordi possibili,
rischi calcolati, persone "expendable", prezzi da pagare. Ma a questa
illusione controllista non se ne puo' opporre semplicemente una simmetrica e
di segno opposto.
Da questo punto di vista la conclusione di Kolko e' carente proprio sul
piano epistemologico. Attacca il disprezzo per la realta' e l'atteggiamento
manipolatorio dei politici ma non rinuncia all'illusione illuminista di
poter con le migliori intenzioni coscienti controllare e prevedere questa
realta', financo di fronte a fenomeni politici altamente complessi.
Quello che va messo in causa invece sono proprio le pretese di un paradigma
razionalista e meccanicista nel modo di guardare alla guerra e ai processi
politici in generale: la pretesa di un soggetto buono e razionale che crede
di agire oggettivamente su una realta' esterna disconoscendo le infinite
connessioni che legano ogni essere e ogni societa' alla realta' che pretende
di plasmare. Dunque la pretesa di un soggetto razionale di controllare e
dirigere fenomeni cosi' ampi e radicali quali le guerre moderne o i grandi
processi politici. La via della pace al contrario non puo' che essere quella
di una diminuzione della hybris politica, di una rinuncia a plasmare il
mondo secondo i propri progetti, di una prassi politica in cui l'obiettivo
non sia definito a priori ma nasca dal coinvolgimento, dal confronto e dalla
interazione di una pluralita' di esseri umani. Da questo punto di vista,
come ha ben argomentato Tzvetan Todorov, bisogna guardarsi anche dalla
"tentazione del bene", dal desiderio di imporre il bene agli esseri umani,
anziche' cercarlo assieme a loro (22).
*
Note
1. Karl Kraus, Detti e contraddetti, Adelphi, Milano 1994, p. 322.
2. Gabriel Kolko, Il libro nero della guerra, Fazi Editore, Roma 2005, p. 6.
3. Kolko, op. cit., p. 3.
4. Kolko, op. cit., p. 25.
5. Kolko, op. cit., p. 54.
6. Hannah Arendt, "La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers"
in Eadem, Politica e menzogna (1969), SugarCo, Milano 1985.
7. Arendt, op. cit., p. 98.
8. Arendt, op. cit., p. 114.
9. Kolko, op. cit., p. 49.
10. Idem.
11. Kolko, op. cit., p. 50.
12. Kolko, op. cit., pp. 54-55.
13. Marco Deriu, Dizionario critico delle nuove guerre, Emi, Bologna 2006,
pp. 146-148.
14. Cfr. in proposito l'intervista di William Pitt Rivers a Scott Ritter,
Guerra all'Iraq. Tutto quello che Bush non vuole far sapere al mondo svelato
dall'ispettore Onu Scott Ritter, Fazi, Roma 2003, e l'intervento di Hans
Blix al Consiglio di Sicurezza dell'Onu del 14 febbraio 2003,
www.un.org/Depts/unmovic/blix14Febasdel.htm
15. Stanley Cohen, Stati di negazione, Carocci, Roma 2002.
16. Guenther Anders, Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki,
Linea d'ombra, Milano 1995, p. 241.
17. Guenther Anders, Claude Eatherly, Il pilota di Hiroshima, ovvero la
coscienza al bando, Linea dí'ombra, Milano 1992, p. 40.
18. Kolko, op. cit., p. 672.
19. Kolko, op. cit., p. 653.
20. Kolko, op. cit., pp. 669, 670, 671.
21. Kolko, op. cit., p. 671.
22. Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un
secolo tragico, Garzanti, Milano 2001.

2. LIBRI. STEFANO PETRUCCIANI PRESENTA "LA PENSABILITA' DEL MONDO" DI
SEBASTIANO MAFFETTONE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 giugno 2006.
Stefano Petrucciani (Roma, 1953) acuto studioso di filosofia, docente
universitario e saggista di forte impegno civile. Opere di Stefano
Petrucciani: Ragione e dominio. L'autocritica della razionalita' occidentale
in Adorno e Horkheimer, Salerno, Roma 1984; Etica dell'argomentazione.
Ragione, scienza e prassi nel pensiero di Karl-Otto Apel, Marietti, Genova
1988; (con F. S. Trincia), Marx in America, Editori Riuniti, Roma 1992; Marx
al tramonto del secolo, Manifestolibri, Roma 1995; Introduzione a Habermas,
Laterza, Roma-Bari 2000.
Sebastiano Maffettone (Napoli 1948) e' docente di filosofia politica alla
Luiss di Roma, "Visiting Professor" presso la New York University, Harvard
University, e Tufts University, membro di numerosi comitati scientifici, tra
cui la Fondazione Olivetti e la Fondazione Einaudi, presidente della
Societa' italiana di filosofia politica, dirige due collane editoriali
presso Liguori e il Saggiatore e la rivista "Filosofia e questioni
pubbliche". Trale opere di Sebastiano Maffettone: Valori comuni, Il
Saggiatore, Milano 1989; Le ragioni degli altri, Il Saggiatore, Milano 1992;
(con Ronald Dworkin), Fondamenti del liberalismo, Laterza, Roma -Bari 1996;
Il valore della vita, Mondadori, Milano 1998; Etica pubblica, Il Saggiatore,
Milano 2001; La pensabilita' del mondo, Il Saggiatore, Milano 2006]

Tra impero e cosmopolis, sono molti i modelli teorici che hanno cercato di
dar conto delle nuove forme che il sistema-mondo e' venuto assumendo dopo la
crisi dell'ordine novecentesco. Il libro piu' recente di Sebastiano
Maffettone, La pensabilita' del mondo, che esce in questi giorni per i tipi
del Saggiatore (pp. 320, euro 19,50), si misura proprio con questi temi. Li
affronta, pero', non tanto da un punto di vista descrittivo o analitico,
quanto piuttosto in un'ottica che diremmo prevalentemente propositiva o
normativa. Quello che interessa a Maffettone e' infatti mostrare con quali
strumenti un pensiero liberal (nel quale l'autore, da sempre molto vicino
alla cultura statunitense, si riconosce pienamente) puo' rapportarsi alle
sfide della complicata e conflittuale societa' globale. In altre parole,
l'ambizioso tentativo del libro e' quello di individuare non tanto delle
indicazioni concrete, quanto delle preliminari condizioni di pensabilita'
per una "governanza globale", ovvero per un approccio sensato e propositivo
ai problemi e alle crisi della societa' mondializzata.
L'analisi assume quindi prevalentemente un punto di vista filosofico o etico
ma, a partire da qui, si misura con uno spettro amplissimo di questioni:
diritti e identita', democrazia e diversita' culturale, capitalismo e
sviluppo sostenibile, teoria della guerra giusta e valutazione
dell'intervento Usa in Iraq.
*
Diritti messi a fuoco
Nell'ampio panorama delle questioni toccate o discusse nel volume, emergono
alcuni ben precisi orientamenti di fondo, alcune tesi sulle quali Maffettone
torna piu' volte anche perche' identificano la peculiarita' e la
specificita' del suo punto di vista. Una prima tesi ha carattere, per cosi'
dire, diagnostico: per Maffettone i conflitti, le instabilita', le
ingiustizie dell'assetto globale presente (di cui il nuovo terrorismo e'
indice - l'11 settembre e' un passaggio che nel volume viene spesso
richiamato) ci devono portare a mettere a fuoco tre questioni distinte ma
anche connesse, con le quali ogni politica di governanza globale dovrebbe
fare i conti. Si possono rubricare sotto le tre parole chiave: diritti,
giustizia, identita'.
In breve, la tesi di Maffettone su questo gruppo di questioni e' che, in una
prospettiva di governanza globale, esse non si possono affrontare
separatamente. C'e' una grande questione di diritti negati, di liberta'
delle persone (innanzitutto delle donne) che in molti paesi autoritari o
teocratici sono brutalmente conculcate; c'e' il tema enorme della
ingiustizia degli assetti globali di distribuzione della ricchezza; ma, non
separabile da questi temi ineludibili per l'agenda di una politica globale
ispirata a principi liberali ed egualitari, c'e' la grande questione delle
identita': delle identita' negate, prive di riconoscimento, incomunicabili.
Questo, per Maffettone, non e' l'ultimo, ma forse il primo terreno di
conflitto, e dunque il punto da cui si deve partire se si vuole ragionare
sulle condizioni di "pensabilita'" di un diverso assetto globale. Il recente
terrorismo, scrive Maffettone, va letto in primo luogo "come esito e causa
di una fondamentale rottura semantica, e quindi come evidenza e base per una
radicale impossibilita' comunicativa".
Proprio perche' la questione delle identita' e' cosi' rilevante risultano
del tutto insufficienti, secondo Maffettone, quegli approcci
filosofico-politici alle questioni dell'eta' globale che non fanno i conti
con essa, rimanendo interni all'orizzonte di un universalismo cosmopolitico
di ascendenza kantiana: la critica si indirizza percio' tanto contro i
teorici della cosiddetta "democrazia cosmopolitica" (a cominciare da David
Held) quanto contro gli esponenti di quella "sinistra rawlsiana" (come
Thomas Pogge) che hanno elaborato negli ultimi anni l'idea di una "giustizia
globale". Le intenzioni sono ottime, ma questi approcci, secondo Maffettone,
non sono in grado di rispondere realmente alle sfide del pluralismo
culturale, conflittuale e identitario, perche' costituiscono semplicemente
la proiezione, sul piano globale, di una concettualita' politica che
appartiene a una parte (l'Occidente, soprattutto quello anglosassone) e che
dunque non puo' fornire un quadro adeguato di "pensabilita' del mondo".
L'indicazione che Maffettone avanza e' diversa: secondo lui bisognerebbe
lavorare alla prospettiva che egli definisce, con una formula che torna
spesso nel libro, "integrazione pluralistica dal basso". In sostanza,
operare per la costruzione di un dialogo e di un consenso sui diritti e la
democrazia a partire dall'idea (molto consonante con il punto di vista
sostenuto da Amartya Sen) che democrazia e diritti di liberta' non sono un
monopolio occidentale, ma possono e devono essere declinati in molti modi:
partendo anche dall'interno delle tradizioni culturali e religiose "altre",
valorizzando la presenza anche in esse di correnti pluralistiche e laiche, e
rinunciando percio' a qualsiasi idea di diritti pret-a-porter.
*
Legittimita' perduta
In un capitolo molto interessante e complesso, Maffettone si misura anche
con il tema, rilanciato da Michael Walzer, della "guerra giusta". Si tratta,
per l'autore, di un punto che va preso in seria considerazione: nel mondo
globalizzato, interventi militari per fermare genocidi, tirannidi spietate,
attentati su larga scala ai diritti umani, sembrano a Maffettone, in linea
di principio, avere una loro giustificazione. Egli pero' propone di
distinguere attentamente tra giustificazione e legittimazione: quest'ultima,
che non deve essere confusa con la prima, richiede che un intervento sia
appunto legittimato da procedure certe, imparziali, garantite dalla
comunita' internazionale.
Alla luce di questa distinzione Maffettone conclude che "una guerra contro
l'Iraq di Saddam era forse giustificata, ma gli Stati Uniti non erano
legittimati a condurla" e percio' in ultima istanza "la guerra americana in
Iraq non e' difendibile da un punto di vista etico-politico". Per quanto mi
riguarda, pur condividendo questa conclusione, penso che Maffettone conceda
forse un po' troppo all'idea, sia pure teorica, di un intervento militare
mirato a contrastare regimi che attentano in modo grave e sistematico ai
diritti umani. O meglio, penso che su questo punto si debbano tracciare
delle ferme distinzioni: da un lato e' assolutamente vero che, se esistesse
una "buona" comunita' internazionale, essa non potrebbe restare inerte di
fronte ad atti incontrovertibili di genocidio, commessi da governi o da
forze militari (ragioni morali imporrebbero di soccorrere le vittime). Ma al
di la' di questo caso limite molto chiaro, vale secondo me il principio che
diritti e democrazia devono essere conquistati e non possono essere imposti.
Per infinite ragioni: non sarebbe democrazia quella imposta a chi non la
vuole (sarebbe sudditanza); e soprattutto, l'idea che una ipotetica
comunita' internazionale impegnata a difendere i diritti, invece di
limitarsi a un'azione politica, faccia uso della forza militare, mi sembra
contraddire proprio quello spirito del dialogo e del pluralismo che in tante
pagine del suo libro Maffettone convintamente difende.

3. RILETTURE. ELEONORA MISSANA: L'ETICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO
Eleonora Missana, L'etica nel pensiero contemporaneo, Paravia - Bruno
Mondadori, Torino-Milano 2000, pp. 212, lire 19.000. Un'introduzione alla
riflessione morale contemporanea, con testi di Emmanuel Levinas, Theodor W.
Adorno e Max Horkheimer, Hannah Arendt, Hans Jonas, Juergen Habermas, Karl
Otto Apel, Hans Georg Gadamer, Ruediger Bubner, John Rawls, Robert Nozick,
Alasdair MacIntyre, Gianni Vattimo, Virginia Held, Carol Gilligan, Rosi
Braidotti, Enrique Dussel.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 77 dell'11 giugno 2006

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