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Nonviolenza. Femminile plurale. 66
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 66
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 1 Jun 2006 11:42:24 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 66 del primo giugno 2006 In questo numero: 1. Natasha Walker: Donne in Iraq 2. Giuliana Sgrena: Un popolo assediato alla ricerca di un futuro 3. Edoarda Masi: Rivoluzione culturale, un'utopia attuale 4. Saverio Aversa intervista Judith Malina 5. Rossana Rossanda presenta "La marcia su Roma" di Giulia Albanese 1. MONDO. NATASHA WALKER: DONNE IN IRAQ [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Natasha Walker, apparso sul quotidiano "The Guardian" dell'8 maggio 2006. Natasha Walker, prestigiosa intellettuale femminista, e' editorialista del "Guardian"] Le donne in Iraq stanno vivendo un incubo nascosto all'occidente. Una di esse e' diventata regista proprio per aprire a noi una finestra su cio' che le donne sopportano. Rayya Osseilly, ad esempio, e' una medica irachena che si prende cura delle altre donne nell'assediata citta' di Qaim. Non e' sorprendente che la sua testimonianza non sia felice. "Non provo mai la sensazione che l'oggi sia migliore di ieri", dice nel filmato. Guardando ai resti bombardati dell'ospedale in cui lavora, e' chiaro contro quali difficolta' stia lottando. Non e' usuale che sia dia uno sguardo piu' da vicino a cosa accade alle donne in citta' come Qaim, che ha subito un pesante attacco dalle truppe americane l'anno scorso. L'accesso ai media occidentali e' severamente ristretto. Ora, tuttavia, abbiamo uno squarcio di questa realta' grazie ad una donna irachena che ha viaggiato per l'intero paese e ha parlato con vedove e bambine, dottoresse e studentesse, cercando la verita' delle vite delle sue connazionali. * La regista vive a Baghdad e vuole mantenere segreta la propria identita' per timore di ritorsioni, percio' la chiamero' Zeina. Quando le ho parlato al telefono, la prima cosa che le ho chiesto era proprio perche' sentiva il bisogno di nascondere il suo nome, e nella sua risposta non ha fatto alcuna distinzione fra il governo e gli 'insorgenti', nel modo in cui noi la facciamo. "Temo il governo e le milizie settarie", ha detto, "I pericoli in Iraq vengono dagli statunitensi, dalle milizie settarie, e naturalmente anche dai criminali, le gang, i rapitori". Zeina ha deciso di realizzare questo film perche' le cose che lei vede ogni giorno non sono viste dal resto del mondo. "Nessuno si accorge di cosa stiamo passando. Tutti gli iracheni sono psicologicamente traumatizzati da cio' che sta accadendo. Conosco bambini che cominciano a tremare se solo sentono il suono di un aeroplano o vedono un soldato. Ho visto intere famiglie smembrate. Ho visto donne costrette a prostituirsi a causa della miseria delle loro famiglie". Zeina non era una sostenitrice del regime di Saddam Hussein. Durante quel periodo, lavorava come giornalista e traduttrice di critica letteraria. "A livello politico, prima della guerra, non ero contenta. Molte cose erano ingiuste. Non avevamo liberta' di parola o di espressione. Ma non avrei mai immaginato che le cose cambiassero in peggio in questo modo. Non avevo mai immaginato una situazione del genere". Sin dall'inizio delle riprese, la cinquantenne regista sapeva che si sarebbe assunta dei rischi. "Viaggiavo in compagnia di altre due o tre persone, in un'automobile modesta. Quando viaggiavamo verso Qaim dovemmo attraversare il deserto, perche' gli americani avevano bloccato la strada. Era buio quando arrivammo a destinazione, e proprio di fronte a noi si gonfiava una nuvola di polvere attraversata da lampi. Stavamo andando giusto incontro ai fucili. La guidatrice si butto' fuori dalla strada cosi' in fretta che per poco non ci rovesciammo. Poi, mentre stavamo filmando l'ospedale bombardato ed eravamo saliti sul tetto, gli statunitensi cominciarono a spararci. Penso che non volessero ucciderci, ma solo spaventarci. Volevamo mostrarci chi comandava". Le riprese del gruppo che trova rifugio dalle fucilate in un ospedale distrutto sono nel film. Invero, il film che e' il risultato del viaggio di Zeina non e' un prodotto ripulito, ma piuttosto una serie di sguardi parlanti che entrano in profondita' nelle vite delle donne. Spesso lo spettatore si sente frustrato, desideroso di maggiori spiegazioni di quel che succede, ma data la situazione in cui sono costretti i giornalisti, e che ha reso la maggior parte dell'Iraq invisibile, si perdonano volentieri alla pellicola tutti i suoi limiti. Il film e' particolarmente efficace nel catturare la struttura della vita familiare in condizioni di totale insicurezza, ed una delle sezioni si concentra sulla storia di una bambina di otto anni, sopravvissuta all'attacco dell'automobile in cui viaggiava con suo padre, sua madre ed altri iracheni. Fu trasportata a un ospedale militare, e per tre mesi se ne perdettero le tracce. La sua famiglia non fu informata di dove si trovasse, e nel frattempo la bambina subiva interrogatori in cui le mostravano fotografie di cadaveri chiedendole di identificarli. Il nonno riusci' infine a rintracciarla a Baghdad, e quando nel film la vediamo singhiozzare in grembo all'uomo, sentiamo quasi fisicamente la frustrazione della famiglia: non vi e' un'autorita' che risponda di cio' che e' accaduto, e che possa dar risposta alla loro rabbia. * Zeina mostra anche, e in un modo che sicuramente dovrebbe suscitare una pausa di riflessione anche in coloro che qui in Gran Bretagna sostengono la guerra, come le vite delle donne siano state colpite dalla crescita dei fondamentalismi religiosi che hanno preso piede nel vuoto di potere imperante. "Alla tv e sui giornali c'e' una propaganda continua sulle donne", racconta Zeina, "E' disgustosa, e non ha nulla a che fare con l'Islam, ma solo con il rinchiudere le donne nelle case e privarle dei loro diritti". Per mostrare gli effetti negativi di questi sviluppi, Zeina ha viaggiato sino a Bassora. Per chi ha seguito l'evolversi della situazione nel sud dell'Iraq, il fatto che le donne vi vengano costrette ad indossare l'hijab e si impedisca loro di vivere liberamente le loro vite, non e' una novita'. Ma il significato di questo stato di cose lo capisci veramente quando vedi giovani donne e i loro familiari narrare di minacce di morte e di pallottole inviate a scopo intimidatorio perche' una ragazza faceva sport, o non indossava la sciarpa in testa. Come Zeina sottolinea, questo tipo di esperienza e' nuovo per la maggioranza delle donne irachene, che hanno goduto maggior liberta' economica e sociale prima dell'occupazione. "Qualche tempo fa stavo riguardando le foto di mia zia al college, negli anni '60. Indossa calzoncini corti e canottiera, e fa sport nei campi della scuola. E poi ho guardato le foto delle studentesse di oggi, nello stesso college, coperte di nero dalla testa ai piedi, con le facce nascoste". Zeina non ha dubbi nel ritenere l'occupazione la maggior responsabile di queste situazioni: essa ha dato ai settarismi l'opportunita' di fiorire. Ride, semplicemente, quando le chiedo se si sente grata per la democrazia irachena. "Democrazia? Quale? Non abbiamo democrazia, qui. La democrazia di cui parla Bush e' una struttura completamente vuota, che ha le sue basi su interessi settari ed etnici. Che democrazia hai quando temi che la tua vita sia in pericolo, o che tuo marito venga ucciso, se solo esprimi te stessa liberamente? Questa democrazia e' una brutta barzelletta". Rispetto all'occupazione, i pareri delle donne irachene sono divisi quanto quelli degli uomini, e nell'Iraq occidentale ho sentito io stessa donne inneggiare alla guerra statunitense. Ma e' difficile resistere alla forza e alla passione con cui Zeina descrive il caos in cui la guerra ha precipitato l'Iraq. E desidera molto continuare a documentare la situazione in cui si trovano le donne, nonostante gli strettissimi limiti in cui e' costretta a lavorare. "Mi sento molto impedita. Voglio davvero raccontare delle intere famiglie arrestate, dei corpi trovati, delle torture. Ma se non sei un giornalista che lavora con gli americani, con il loro permesso, la tua vita e' in serio pericolo quando dai testimonianza su questi fatti". Nonostante i pericoli, Zeina e' ansiosa di comunicare la realta' che vede, e vorrebbe che noi la ascoltassimo: "Vorrei che le persone in Gran Bretagna capissero che l'occupazione dell'Iraq non fa gli interessi ne' del loro paese ne' del nostro. I vostri soldati muoiono, e nulla migliora per il popolo iracheno. Al contrario, la situazione sta andando di male in peggio, in special modo per le donne". 2. MONDO. GIULIANA SGRENA: UN POPOLO ASSEDIATO ALLA RICERCA DI UN FUTURO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 maggio 2006 riprendiamo il seguente articolo parte di un piu' ampio reportage da Ramallah. Giuliana Sgrena, giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005] La dignita' di un popolo si coglie nei piccoli gesti. Come quando, al termine di una visita all'Hisham's palace, le rovine del palazzo dedicato al califfo Omayyade a Jerico, la guida che ci illustra con dovizie di particolari il sito archeologico e che non prende lo stipendio da almeno due mesi rifiuta persino un piccolo contributo per il suo prezioso lavoro. Di fronte al boicottaggio internazionale, la frustrazione maggiore dei palestinesi e' quella di dover dipendere sostanzialmente dagli aiuti esterni. "Dobbiamo trovare il modo di renderci indipendenti, solo cosi' ci potremo sentire veramente liberi", sostiene Fatemah Botmeh, incaricata della formazione presso il ministero delle donne. La sua aspirazione e' condivisa da molti palestinesi. Ma la sua realizzazione non e' semplice. "Non ci sara' uno sviluppo in Palestina finche' ci sara' l'occupazione", sostiene Suad Amiry, scrittrice e architetta che dirige l'ong Riwaq impegnata nel recupero e la salvaguardia dei beni architettonici palestinesi. "Con tutta la produzione di ortaggi e frutta che abbiamo, quando vado al mercato a fare la spesa trovo solo prodotti israeliani e non e' facile boicottarli e sostituirli con quelli palestinesi. Che peraltro non possono essere esportati perche' devono passare attraverso Israele, cosi' come le importazioni. Siamo tutti rinchiusi in un grande campo profughi", conclude Suad Amiry. Del resto, e' l'israeliano Benvenisti a sostenere che "Israele ha bisogno di occupare i territori palestinesi per continuare a confiscare le terre", conclude Suad. * La Palestina e' un mercato israeliano Non solo. "I territori palestinesi costituiscono per Israele un mercato acquisito al quale non rinuncera' facilmente: l'unica fabbrica di latticini palestinese di Hebron e' costretta ad importare il latte da Israele" afferma Suhil Khader, responsabile internazionale del Palestine general federation of trade unions, il sindacato palestinese. "Prima, almeno 150.000 lavoratori (50.000 da Gaza e 100.000 dalla West bank) potevano andare a lavorare in Israele, ma dall'inizio della seconda Intifada le frontiere sono state chiuse". "Ieri la radio ha annunciato, aggiunge Mohammed Barakat, ex sindacalista e vecchio compagno di lotte di Suhil, che il governo israeliano permettera' l'ingresso in Israele di 8.000 lavoratori palestinesi, ma dovranno appartenere a particolari fasce di eta' e soprattutto subire un controllo minuzioso del loro passato". Il resto della manodopera viene ormai importata da altri paesi (dall'Europa dell'est, soprattutto Romania, e dalla Turchia per le costruzioni, mentre dalla Thailandia provengono i lavoratori impegnati nell'agricoltura). Una soluzione non vantaggiosa per Israele, perche' mentre i palestinesi pagavano molte tasse e non godevano dei servizi visto che la sera tornavano a casa, i nuovi immigrati vivono in Israele e quindi hanno bisogno di case e assistenza. E soprattutto, cosa fara' Israele quando non gli serviranno piu'? "Non potra' certo chiudere i check point come fa con i palestinesi", sostiene Mohammed. * Disoccupazione alle stelle "Con la chiusura di Israele la disoccupazione a Gaza ha raggiunto il 75 per cento, nella West bank il 47 per cento", precisa Suhil Khader. In Palestina non ci sono fabbriche e quelle poche (a Nablus e Hebron) sono a conduzione familiare. Le costruzioni in mancanza di soldi sono sostanzialmente bloccate - si vedono gli scheletri di grandi edifici abbandonati - e i negozi sono quasi tutti chiusi, nell'agricoltura sono impegnate in gran parte donne. Un lavoro, quello agricolo, abbandonato dai maschi quando avevano la possibilita' di andare a lavorare in Israele o altrove. Lavorare la terra e' poco redditizio e sempre piu' difficile, con le continue confische operate dagli israeliani che con la costruzione del muro si sono annessi un'altra fetta della Cisgiordania (il 22 per cento del territorio, l'80 per cento erano terre coltivabili). Il muro spesso ha anche separato le case dei proprietari dai loro terreni costringendoli a percorrere chilometri per arrivare al loro appezzamento da coltivare o, se non ce la fanno, ad abbandonare la terra. Tuttavia, la situazione sempre piu' drammatica, con famiglie ridotte letteralmente alla fame, rende qualsiasi fazzoletto di terra prezioso. E altrettanto prezioso diventa il lavoro avviato gia' dal 2002 dalla Rural women's development society (Rwds), una ong che si occupa delle donne che vivono nelle zone rurali, i cui problemi si sono accentuati con il deterioramento della situazione causato dall'impossibilita' di muoversi a causa dei check point, del muro, etc. La sede principale della ong si trova a Ramallah, dove e' ospitata nel piano sotterraneo del grande edificio dei Parc (Palestinian agricultural relief committees), ai quali e' affiliata. In questi anni l'organizzazione si e' allargata a macchia d'olio: sono 12.000 le donne entrate a far parte di circoli sparsi in tutta la Palestina, Gaza compresa. "Le donne sono molto interessate ad organizzarsi perche', pur essendo il 60 per cento delle lavoratrici agricole, il loro lavoro non e' riconosciuto visto che oltre a coltivare i campi sono costrette a sbrigare anche i lavori di casa e a prendersi cura dei figli: un doppio lavoro invisibile", sostiene Wafa abu Zaid, coordinatrice dei progetti. * I bisogni di base E come nascono i progetti? "Prima individuiamo le necessita' e poi realizziamo i progetti", risponde. Se l'obiettivo e' "migliorare la conoscenza e l'abilita' delle donne rurali", le prime necessita' espresse riguardavano i bisogni di base come la nutrizione, la creazione di posti di lavoro e la possibilita' di guadagni per le giovani generazioni. Per questo, spiega Wafa, "abbiamo concentrato i primi fondi ricevuti dai donatori (cooperazione spagnola e francese, ong Usa, etc.) sui progetti di emergenza (a cominciare dalla distribuzione di cibo) e per la coltivazione degli orti di casa, fornendo strumenti e sementi, oltre a organizzare forme di microcredito". Questo non e' l'unico obiettivo dell'organizzazione: occorre dare alle donne l'opportunita' di giocare un ruolo nella loro comunita'. E siccome molte donne non hanno avuto la possibilita' di studiare o hanno dovuto interrompere gli studi, la Rwds organizza corsi di alfabetizzazione per insegnare a leggere e scrivere e corsi di insegnamento a un livello piu' elevato per permettere l'accesso all'universita'. Accanto a questo, c'e' un lavoro di empowerment che ha permesso alle donne che vivono in ambienti rurali di partecipare alle elezioni e di essere elette nelle amministrazioni locali. Due donne dell'associazione erano anche candidate alle legislative ma non sono state elette. Soprattutto, sostiene Wafa, e' importante dare alle donne la consapevolezza dei propri diritti e individuare i mezzi per ottenerne il riconoscimento. * Il club del microcredito A Jerico abbiamo incontrato alcune donne di un club della Rwds impegnate soprattutto nell'area del microcredito. Una di loro si lamentava per la mole di lavoro domestico dovuto soprattutto al numero dei figli: "E' Fatah che ci ha imposto di fare tanti figli, per questo ho votato Hamas", dice. Quando le facciamo notare che su questo punto forse non c'e' differenza tra i due rivali, lei taglia corto: "vuol dire che la prossima volta cambiero' ancora". E' un lavoro, quello della Rural Women's development society (e di molti altri centri di donne), a stretto contatto con i bisogni delle comunita', un impegno che invece e' stato abbandonato dai partiti di sinistra che anche per questo sono stati penalizzati nelle ultime elezioni. "Non hanno piu' contatto con le comunita', non fanno piu' il lavoro che facevamo noi comunisti negli anni Ottanta, quando eravamo ancora clandestini", dice Mohammad Barakat. Abbiamo girato l'accusa a uno dei due deputati eletti dalla lista Badil, il comunista Bassam al Salhi. "Purtroppo e' vero, molti errori sono stati commessi dalla sinistra che aveva gia' subito il contraccolpo del collasso dell'Urss. Poi, dopo gli accordi di Oslo, si e' concentrata sull'Anp, e non ha piu' svolto un un lavoro continuativo con la base. Inoltre, la sinistra non ha saputo contrastare il sistema basato sulla corruzione e il clientelismo. La sinistra si e' dedicata piu' ad agitare slogan che non a lavorare, invece, sulle questioni sociali e della democrazia", ammette il deputato. * Autostima e speranza "Dobbiamo tornare ad avere fiducia in noi stessi, nei nostri mezzi, nelle nostre comunita' e non dipendere solo dall'esterno. Se si perde la speranza ci si affida a Dio e poi si vota Hamas", sostiene Fadwa Khader, candidata cristiana di Gerusalemme che pero' non e' stata eletta e, dopo la campagna elettorale, e' tornata a dirigere l'associazione delle donne rurali. Per ora gli islamisti non hanno una presenza in campo rurale, limitano la loro attivita' alle moschee e se si occupano di donne e' solo per insegnare loro come diventare brave mogli. Approfittando della distrazione di Fatah, impegnata a dimostrare la propria fede con la costruzione di moschee invece che di scuole e ospedali, gli islamisti hanno occupato un settore strategico per fare proselitismo, quello dell'istruzione. "La maggior parte degli insegnanti sono militanti di Hamas", sostiene Um Qais che lavora al ministero dell'educazione a Ramallah. Insegnanti molto attivi che attraverso gli studenti cercano di raggiungere anche le loro famiglie. E in questo caso il discorso si fa aggressivo. Nelle scuole di Hebron gli insegnanti hanno cominciato a minacciare gli studenti che ascoltano la musica, guardano la televisione o leggono riviste che non rientrano nell'ordine islamico. E per essere piu' convincenti hanno distribuito Cd da mostrare anche ai genitori in cui vengono illustrate le pene dell'inferno per i trasgressori. "Mio nipote e' terrorizzato, non vuole piu' andare a scuola", ci racconta Sara, una sindacalista che incontriamo in un centro di donne a Hebron dove e' in corso una riunione per decidere come far fronte alle minacce ricevute dai gruppi islamisti. * Lo spettro algerino La Palestina non sara' l'Algeria, come dicono molti palestinesi, ma spesso il pensiero torna ai ricordi delle esperienze vissute ad Algeri negli anni Novanta. Um Qais e' d'accordo e aggiunge che Hamas, come il Fis, usa le moschee per la propaganda piu' violenta: "Venerdi' scorso ho sentito il sermone del presidente del parlamento, il 'moderato' Aziz Dweik, che dalla vicina moschea prometteva ai fedeli l'istituzione di un califfato in Palestina". Le premesse non sono certo di buon auspicio. 3. RIFLESSIONE. EDOARDA MASI: RIVOLUZIONE CULTURALE, UN'UTOPIA ATTUALE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 maggio 2006. Edoarda Masi e' nata a Roma nel 1927, intellettuale della sinistra critica, di straordinaria lucidita', bibliotecaria nelle biblioteche nazionali di Firenze, Roma e Milano, ha insegnato letteratura cinese nell'Istituto Universitario Orientale di Napoli; ha vissuto a Pechino e a Shangai, dove ha insegnato lingua italiana all'Istituto Universitario di Lingue Straniere. Ha collaborato a numerose riviste, italiane e straniere, tra cui "Quaderni rossi", "Quaderni piacentini", "Kursbuch", "Les temps modernes". Tra le opere di Edoarda Masi: La contestazione cinese, Einaudi, Torino 1968; Per la Cina, Mondadori, Milano 1978; Breve storia della Cina contemporanea, Laterza, Bari 1979; Il libro da nascondere, Marietti, Casale Monferrato 1985; Cento trame di capolavori della letteratura cinese, Rizzoli, Milano 1991. Tra le sue traduzioni dal cinese in italiano: Cao Xuequin, Il sogno della camera rossa, Utet, Torino 1964; una raccolta di saggi di Lu Xun, La falsa liberta', Einaudi, Torino 1968; e Confucio, I dialoghi, Rizzoli, Milano 1989. Non sara' inutile qui segnalare che la riflessione della Masi e' l'opposto dell'apologetica e della reticenza di coloro che a suo tempo furono complici di crimini immani da parte dei regimi del cosiddetto socialismo reale ed oggi con un semplice rovesciamento di giacchetta si son fatti parimenti complici dei crimini immani del capitalismo trionfante; detto questo, della rivoluzione culturale cinese non si dimentichino le violenze e i crimini e le vittime: solo chi si colloca sempre e comunque dalla parte delle vittime ha voce in capitolo su questo foglio (p. s.)] Sono passati quarant'anni dall'inizio della rivoluzione culturale in Cina, o meglio, da quando il movimento sfuggi' dalle mani della burocrazia, dopo il dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966: per breve tempo, giacche' nel corso del 1968 (febbraio o dicembre, secondo le varie interpretazioni) era virtualmente conclusa. Esporre nelle linee essenziali le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i motivi della sua eccezionale importanza nella storia mondiale, le ragioni della sua sconfitta e, ad un tempo, della sua attualita', risulta impossibile. Infatti il pubblico al quale ci si rivolge ha subito trent'anni di lavaggio del cervello, piu' che mai intenso e distruttore nell'ultimo decennio, a proposito non tanto o non solo delle questioni cinesi, quanto della conoscenza e dell'interpretazione della storia degli ultimi due secoli, delle origini e dello sviluppo del movimento operaio internazionale, degli attacchi violenti e ininterrotti ai paesi socialisti (che hanno contribuito a deformarne irrimediabilmente il carattere); per non parlare dei contenuti del pensiero socialista nelle sue diverse correnti, del marxismo critico e antistalinista, della lunga lotta dei popoli asiatici e africani, nel secondo dopoguerra, per formare un fronte di "terzo mondo" disimpegnato dai due blocchi di potenza (distrutto al prezzo di un milione di morti in Indonesia fra il 1965 e il 1966, ad opera dei servizi segreti Usa). Sbaglia chi lamenta l'assenza di valori nella societa' di oggi, che in realta' assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista e' stata interdetta, ma si e' disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, liberta'... come le "menzogne viventi" di cui scriveva Sartre nel '62, lanciate dalle citta' d'Europa in Africa, in Asia: ´"artenone! Fraternita'!", risuonano vuote oggi fino nel centro delle metropoli. Hanno la stessa funzione dei "variopinti legami" della societa' feudale di cui dice il Manifesto del partito comunista. Li ha spazzati via, divorando la stessa borghesia, un padrone anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente, che chiamano "mercato" per non usare il termine "capitale", che sarebbe piu' corretto. Il padrone anonimo domina oggi nel mondo, semina degrado dolore e distruzione anche nei paesi che avevano cercato la via socialista; anche in Cina, dopo che, con la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong, ebbero fine le lunghe lotte con cui prima, durante e dopo la rivoluzione culturale, si era tentato disperatamente di bloccarne l'ingresso. Si era arrivati, da parte dei rivoluzionari cinesi, a riconoscere il dominio effettivo del capitale anche nell'Unione Sovietica staliniana e brezneviana (le stesse conclusioni alle quali, per altra via, e' giunto Istvan Meszaros); e ad attaccare quanti, nel Pcc, intendevano seguirne la strada: quelli che oggi sono al potere. Come gia' da un pezzo e ripetutamente e' stato dimostrato, il degrado e la distruzione, l'allargamento oltremisura della forbice che divide i ricchi dai poveri, la stratificazione sociale sempre piu' rigida, la perdita di ogni reale cittadinanza da parte dei poveri - la stragrande maggioranza - non sono fenomeni marginali, difetti ai quali porre un rimedio, ne' residui di un passato di "arretratezza" da superare, ma il risultato del meccanismo universale in atto e la condizione stessa della sua esistenza. Rapidamente avanzano dalla periferia verso il cuore delle metropoli: chiunque non sia del tutto cieco ne fa esperienza quotidiana. Piu' si aggrava l'infelicita' della vita senza scopo, del lavoro idiota, del lavoro con pericolo di morte e del non lavoro, dell'assenza di umanita', della solidarieta' ridotta a beneficenza, anche nelle felici metropoli, dove il nemico da combattere ha perduto anche i connotati culturali positivi della borghesia, piu' diventa indispensabile per quest'ultimo che la massa degli infelici sia accecata: che sia cancellata la nozione stessa di un'alternativa possibile, e la storia di quelli che per essa sono morti, a milioni nel corso di due secoli. Le figure piu' grandi delle rivoluzioni borghese e socialista e dei movimenti anticolonialisti vengono dipinte come quelle di pazzi e di criminali (Robespierre, Lenin, Mao) o di sognatori (Gandhi, Ho Chi Min), con l'aggiunta magari di qualche pettegolezzo da rotocalco sulla loro vita sessuale. Non solo, ma si arriva ad attribuire ai dirigenti rivoluzionari la responsabilita' dei guasti provocati dalle politiche attuali contro le quali si erano battuti. Quel che importa e' eliminare la possibilita' che si arrivi a credere in qualcosa, che si scopra che esistono verita' piu' vere dei "variopinti legami" ai quali per convenzione e conformismo si deve fingere di credere - solo fingere. Come raccontare allora che i giovani cinesi in rivolta gia' in quegli anni lontani avevano sollevato questi problemi, tentato di fare un passo oltre, verso una dimensione comunista dei rapporti umani (economici e sociali); che avevano posto con grande liberta' le questioni del rapporto fra dirigenti e diretti, fra partito e popolo, fra stato e individuo, fra colti e incolti, fra le esigenze della produzione e quelle del benessere immediato di chi lavora. Nelle grandi citta' industriali e nei loro hinterland sperimentando forme audaci di organizzazione "orizzontale", di gestione decentrata del territorio, di imprese miste agricolo-industriali; in alcune comuni, realizzando forme inedite di gestione dal basso. Il punto d'approdo di oltre un secolo di movimento dei lavoratori, e anche il momento che ne ha segnato per ora la sconfitta (assai piu' del crollo del muro di Berlino, rilevante per la politica delle potenze: il socialismo di Urss e satelliti era in coma da molto tempo). Tutta ideologia, ti diranno gli apologeti del presente, i cinici ideologi del "mercato". La sola cosa possibile, allora, e' di consigliare a qualche volenteroso di ricercare i vecchi documenti, ricominciare a studiarli: anche per vedere se alla fine non possano essere di qualche utilita' qui e ora. 4. ESPERIENZE. SAVERIO AVERSA INTERVISTA JUDITH MALINA [Dal quotidiano "Liberazione" del 27 maggio 2006. Saverio Aversa vive a Roma dove lavora come educatore in un centro per disabili, attivista del movimento glbt e per i diritti umani, giornalista culturale, si occupa di culture delle differenze. Judith Malina, straordinaria artista, intellettuale, attivista nonviolenta e libertaria, con Julian Beck - scomparso nel 1985 - anima del Living Theatre, che insieme avevano fondato nel 1947. Opere su Judith Malina: Cristina Valenti (a cura di), Conversazioni con Judith Malina, Eleuthera, Milano 1995] La citta' di Chieti e il teatro Marruccino hanno ospitato nei giorni scorsi Judith Malina e Hanon Reznikov, direttori dello storico Living Teatre di New York, un gruppo teatrale anarchico e pacifista che ha lasciato un segno profondo nella cultura occidentale del secolo scorso. Il Living e' stato protagonista di grandi battaglie politiche e sociali come quella contro l'intervento americano in Vietnam. "Love and politics" e' la serata di poesia e di testi teatrali proposta ai teatini, uno spettacolo simbolo dell'impegno del gruppo, intensa espressione di una particolare estetica visionaria. Amore e politica, temi svolti attraverso brani di opere del repertorio del Living come Utopia e Metodo zero. Malina e Reznikov hanno anche tenuto un laboratorio di cinque giorni sulle tecniche e sulle pratiche di creazione teatrale che ha consentito ai partecipanti di costruire un breve spettacolo intitolato Una giornata nella vita della citta': un esperimento di vita quotidiana applicato ai vari luoghi urbani. I partecipanti, oltre al lavoro sul corpo, sulla gestualita', sulla voce e l'improvvisazione, hanno studiato la storia dei 59 anni del Living attraverso la visione di alcuni documentari. Tutto inizia nel 1947 a New York quando Julian Beck e Judith Malina, marito e moglie, entrambi ebrei tedeschi scappati negli Stati Uniti durante il nazismo, frequentano gli stage teatrali del loro connazionale Erwin Piscator, regista e teorico della ricerca di un'arte legata ai bisogni vitali. Qualche mese dopo Beck e Malina fondano il Living Theatre che gia' con i primi spettacoli suscita reazioni scandalizzate. Il Living si oppone radicalmente a Broadway e a tutto cio' che rappresenta, apre nuove possibilita' alla rappresentazione teatrale e fornisce argomenti e ispirazione ai teatranti anticonformisti di tutto il mondo. Julian Beck, morto nel 1985, e' stato attore, regista e scenografo. Inizio' come pittore legato all'espressionismo astratto e infatti firmo' le scene di quasi tutti gli spettacoli del Living, dirigendone buona parte e facendo anche l'attore. E' stato interprete cinematografico di film come l'Edipo Re di Pasolini e Cotton Club di Coppola. Dopo la sua scomparsa Reznikov affianca Malina nella vita e nella direzione del gruppo. Abbiamo incontrato la coppia proprio in un camerino del Teatro Marruccino. Judith Malina ha risposto ad alcune domande con qualche intervento di Hanon Reznikov. * - Saverio Aversa: Quali sono gli obiettivi principali del laboratorio di Chieti? - Judith Malina: Sicuramente la creazione collettiva alla quale si giunge con degli esercizi che noi insegnamo ai partecipanti che pero' discutono fra di loro sul soggetto da mettere in scena. Vogliamo che costruiscano lo spettacolo che e' per loro importante. Naturalmente noi abbiamo i nostri punti di vista ma non imponiamo la nostra ideologia: vogliamo che loro si impossessino del potere, dell'autodeterminazione e quindi della capacita' di essere decisivi. Noi mettiamo le nostre esperienze teatrali al servizio delle loro idee. Li aiutiamo materialmente a scrivere il testo e a pensare alle scene attraverso le tecniche dei surrealisti francesi. * - Saverio Aversa: Ha un valore aggiunto questo vostro impegno in una piccola citta'? - Judith Malina: Da almeno trent'anni portiamo il nostro teatro in Italia e sosteniamo il decentramento culturale perche' conosciamo il vostro paese molto bene, in tutti i suoi aspetti. Soprattutto i giovani sono molto interessati e coinvolti dal nostro modo di fare teatro e sono stimolati dalla possibilita' creativa istantanea, spontanea e di gruppo. Nello specifico di questo workshop sono stati scelti sei temi: follia-normalita', diversita'-collettivita', potere-capitalismo, comunicazione, le paure, l'integrazione spirituale. * - Saverio Aversa: I giovani quindi sono una grande risorsa per un futuro migliore? - Judith Malina: Ne siamo convinti. Dopo la "rivoluzione" del 1968 il privato ha prevalso sul pubblico, si e' perso un certo ottimismo poiche' le cose non sono andate come speravamo, la sinistra e' rimasta schiacciata da una grande delusione. I giovani oggi hanno di nuovo la volonta' di cambiare la societa' come allora. Li abbiamo visti anche al G8 di Genova dove abbiamo realizzato, insieme a molti di loro, una serie di performance di teatro di strada. I ragazzi del duemila possono essere ancora piu' radicali e rivoluzionari di quelli di quaranta anni fa. * - Saverio Aversa: Le recenti proteste degli studenti e dei giovani lavoratori francesi ne sono una dimostrazione? - Judith Malina: Sono straordinari, forse perche' sono i discendenti dei protagonisti della rivoluzione del 1789. Sono riusciti a far cambiare una legge del governo. E intanto altri governanti giocano con le armi come fossero bambini inconsapevoli, fanno le guerre piu' sanguinarie. * - Saverio Aversa: L'arte, il teatro, sono in grado di far scomparire le guerre? - Judith Malina: Attraverso un discorso educativo si puo' raggiungere questo scopo. L'unico metodo e' entrare nell'animo delle persone e cambiarne i comportamenti. Soprattutto questo puo' essere utile, meno incisiva si e' dimostrata la politica. Due settimane fa a New York abbiamo debuttato con uno spettacolo contro la guerra. Siamo sempre stati antimilitaristi e a Times Square, davanti ad un ufficio di reclutamento di soldati da mandare in Iraq, in risposta ad uno spot pubblicitario dell'esercito trasmesso da un grande schermo interagiamo con un'azione teatrale che si intitola "No, sir!". 5. LIBRI. ROSSANA ROSSANDA PRESENTA "LA MARCIA SU ROMA" DI GIULIA ALBANESE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 maggio 2006. Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Tra le opere di Rossana Rossanda: L'anno degli studenti, De Donato, Bari 1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996; La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste. Giulia Albanese (Venezia, 1975), storica, si e' laureata in storia all'Universita' di Venezia nel 1999 e ha successivamente conseguito il dottorato di ricerca al dipartimento di Storia e civilta' dell'Istituto Universitario Europeo nel 2004. Nel 2003-4 e' stata borsista dell'Istituto italiano per gli studi storici e nel 2005 ha collaborato per alcuni mesi come research assistant ad un progetto di ricerca dell'Istituto Europeo. Attualmente ha una borsa di post-dottorato presso l'Universita' di Padova. E' nella redazione degli Annali della Societa' italiana per lo studio della storia contemporanea dal 2001 ed e' consigliera del direttivo dell'Istituto veneziano per la storia della Resistenza. Si occupa in particolare di crisi del liberalismo e violenza politica negli anni '20, finora con particolare riferimento all'Italia. Si e' occupata anche di Resistenza e ha collaborato ad una ricerca sul primo maggio in Europa. Tra le opere di Giulia Albanese: Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia, 1919-1922, Il Poligrafo, Padova 2001; Pietro Marsich, Cierre, Padova 2003; (a cura di, con Marco Borghi), Nella Resistenza. Vecchi e giovani a Venezia sessant'anni dopo, Nuovadimensione, Portogruaro 2004; (a cura di, con Marco Borghi), Memoria resistente. La lotta partigiana a Venezia e provincia nel ricordo dei protagonisti, Nuovadimensione, Portogruaro 2005; La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006] Come e' successo che la Marcia su Roma sia rimasta nella memoria piu' come una passeggiata cialtronesca che come il culmine di quei tre anni di agitazioni e violenza squadrista? Non che Mussolini lo nascondesse: la esalto' come una salutare frustata al paese infiacchito, ne irrise il parlamento. Quella che era avvenuta non era una crisi di governo, era una rivoluzione in senso pieno. E pero' garantita nella continuita' simbolica della nazione dall'accordo della monarchia e dall'essere state le istituzioni stesse a chiamare Mussolini come capo del governo. Meno di dieci anni dopo questa era la versione che trovavo nelle scuole dalle elementari all'universita'. Degli anni torbidi, appena alle spalle, poco si parlava, e come d'un pericolo sovversivo dal quale la saggezza del re e la determinazione di Mussolini ci avevano scampato. La violenza ando' sullo sfondo, in ogni caso apparve una sana reazione a una pessima violenza dei rossi, che retrospettivamente non andava enfatizzata a ogni buon conto neanche quella, e quindi un dato secondario. Si era fatto qualche falo' di associazioni perente, gazzette inesistenti. Nelle antologie restava un episodio crudele, un giovane fascista fiorentino, Berta, che si aggrappava con le mani sul bordo e i sovversivi gli pestavano le dita fino a farlo precipitare. Qualcuno, ma non i testi, ricordava l'olio di ricino, piu' umiliante che tremendo. Questa banalizzazione e' la prima cosa che colpisce chi ha la mia eta' leggendo l'appena uscito La marcia su Roma di Giulia Albanese (Laterza, pp. 293, euro 18), che esamina la violenza fascista dal 1919 al 1923, e segnala come essa sia stata, e perfino teorizzata, un ingrediente inseparabile dell'avanzata del regime. La giovane storica, allieva di Mario Isnenghi e studiosa dell'Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della societa' contemporanea, se ne era gia' occupata, ma in questo volume ne traccia l'intero quadro e il contesto. * Contesto che muta: e' nella tarda primavera del 1919 che si sa del complotto di palazzo Braschi, vagheggiato dalla destra interventista e nazionalista con sicure complicita' nell'esercito e del duca d'Aosta. E' ancora questa destra a rilanciare propositi di riscatto di Fiume - impresa gloriosa di Gabriele D'Annunzio e, questa si', a lungo celebrata - e di altre terre, fino a un delirio di marcia su Vienna, che offrira' a Mussolini il destro per dire: Ma perche' luoghi cosi' lontani mentre c'e' Roma su cui marciare? Poco dopo l'acutizzarsi della crisi postbellica chiarisce e in parte muta la fisionomia dello scontro, fra destra proprietaria e sinistra del lavoro, dei sindacati, delle amministrazioni socialiste: quando le elezioni del 1921 le confermano, le squadre fasciste le attaccano e le prefetture, invece che proteggerle, le commissariano con il pretesto dell'ordine pubblico. La classe dirigente liberale prima ha taciuto, poi minimizzato, poi approvato la violenza fascista come reazione al pericolo di sovversione rossa, poi la finanzia e la aiuta. Ancora sorprende la sordita' delle dirigenze politiche e imprenditoriali. Alla Camera il solo a cogliere la gravita' del pericolo e' Nitti che chiamera' a resistere, facendo appello anche ai finora temuti lavoratori e alle loro organizzazioni. Ma sara' accusato lui di incitare alla sovversione, mentre le camere del lavoro bruciano, i giornali sono occupati, le tipografie devastate, e dopo Trieste e Venezia, gli scontri e gli assassinii si moltiplicano in Emilia - Bologna, Ferrara, Piacenza, poi Rovigo ne sono le piu' colpite: invasione di prefetture, bastonature e omicidi, assalti a gruppi o a singoli, urla e minacce. Giulia Albanese non ha scoperto nulla di segreto, la documentazione e' fitta e agli atti, sta nei rapporti della polizia e delle prefetture, nelle discussioni alla Camera, nelle relazioni degli ambasciatori. Perche' viene cosi' facilmente obliterata? E' vero che l'aura di bonomia che circonda il fascismo e' un'operazione del dopoguerra, che lo ha volentieri confrontato con il nazismo, traendo la conclusione che il fascismo, si', e' nato da noi, vero prodotto nazionale, ma non e' in Italia che sono stati sterminati sei milioni di ebrei, polacchi, russi, comunisti, non siamo noi che in Francia abbiamo messo a ferro e a fuoco Oradour. Del nostro comportamento in Abissinia si occupano in pochi (Del Boca) e di quello in Grecia, soprattutto nei Balcani, ancora meno. * Ma la verita' cui Giulia Albanese ci mette davanti in queste sue pagine compatte perfino fredde, tanto raramente lascia trasparire lo sgomento che l'ha presa nella ricerca, e' che la banalizzazione della violenza si e' costruita fin dagli inizi: Mussolini persegui' e impose una cesura totale nella legalita' ma con la copertura delle istituzioni, la monarchia e il governo Facta. E chi la subi' pensava o diceva che era gia' tanto che l'esercito non si schierasse sanguinosamente dalla parte del fascismo. Le prefetture occupate finsero di non esserlo perche' dialogarono subito con le squadracce che le invadevano, solo i giornali protestarono quando non furono del tutto chiusi, perfino il sindacato, e non solo d'Aragona, pensarono che fosse meglio conciliare. Nella corrispondenza di Anna Kuliscioff con Turati e' lei che percepisce per prima il pericolo. Benedetto Croce neppur vi pone attenzione. Non sono molti quelli che, come Gaetano Salvemini o Luigi Albertini sul "Corriere", non si ingannano. Ma anche chi vede, perlopiu' pensa che un appeasement sia il meno peggio. Lo stato d'emergenza dichiarato da Facta e' derisorio: viene ritirato subito. Tanto che, appena Mussolini e' chiamato al governo, il suo problema e' come gestire i bollori delle sue truppe, e lo fara' istituendo le sue Milizie a fianco dell'esercito, che non apre bocca come non la apre il re. Occorrera' che l'establishment si trovi addosso il cadavere mutilato di Giacomo Matteotti perche' ci sia un sussulto, ma siamo gia' nel 1924, e' tardi, Mussolini puo' giocare la sua carta piu' azzardata e rivendicarne la responsabilita'. Poi saranno le leggi eccezionali. Per Gramsci nel 1926 e' il carcere, per Turati l'esilio. Il libro di Giulia Albanese si ferma al 1923, anniversario della Marcia su Roma, anno primo dell'Era Fascista. * Il fascismo in Italia s'e' insediato cosi', scavandosi con la violenza e molte complicita' uno spazio che diventera' presto anche di rappresentanza formale con trentacinque deputati. I quali tenteranno di impedire l'ingresso al deputato comunista Misiano. E vi consumeranno enormita' verbali che sgomentano, Mussolini ottenendo di regola il voto finale. Il fascismo in Italia e' cresciuto cosi'. Anche il nazismo matura non illegalmente nella Repubblica di Weimar, dove giungera' a un certo punto a vincere le elezioni per poi tosto abolirle. C'e' in quegli anni - e su questo tema di una ulteriore ricerca si chiude il lavoro di Giulia Albanese - una destra sovversiva in Europa che tira fuori la testa dovunque. Proprio mentre matura il complotto di palazzo Braschi viene sconfitto in Germania quello del generale Kapp. Sconfitto - si consolano una torpida borghesia e una Camera che si scopre, leggendo i resoconti parlamentari, a trovarsi davvero sorda e grigia. Piu' Mussolini la prende a schiaffi e piu' si inchina. In verita', alla luce della storia che segue, i tentativi di colpi di stato appaiono goffe accelerazioni; quando la democrazia era sufficientemente fradicia da potersi liquidare senza strappi. Non e' Francisco Franco che fa la regola, nel 1936 fara' l'eccezione e seguira' una lunga guerra civile. Da noi e' seguito, salvo fra pochissimi, un blando oblio. * Questa e' la conclusione piu' tragica. Sul "Corriere della sera" dello scorso 8 aprile, Aurelio Lepre si lascia andare a una invettiva scomposta contro Giulia Albanese: perfido libro! Non che quel che scrive sia falso, ma perche' ricordare quelle violenze opportunamente dimenticate? Per fini politici dell'oggi? Per polemica, o peggio, ignoranza del definitivo sigillo storico posto da Renzo de Felice con la prova che il fascismo ebbe il consenso della maggioranza degli italiani? Certo che lo ebbe, e se non di tutti, di molti. Lo ebbero anche le sue violenze. E' qui che la faccenda brucia. Lo ebbero per l'inclinazione all'illegalita' di gran parte della classe dirigente liberale e per la debolezza endemica della sinistra. Giulia Albanese parla di ottanta anni fa, ma chi legge riconosce con allarme piu' di una eco di oggi, o almeno degli ultimi venti anni. Un solo appunto a questo prezioso lavoro: e' stata cosi' grande e determinata la rimozione del secolo scorso, che gioverebbe alla lettura, e non solo dei piu' giovani, una breve tavola cronologica. Chi prova a citare agli amici il complotto di Kapp o, peggio, le giornate di Cremona incontra il buio piu' assoluto. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 66 del primo giugno 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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