[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Nonviolenza. Femminile plurale. 60
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 60
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 20 Apr 2006 11:42:42 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 60 del 20 aprile 2006 In questo numero: 1. Vita Cosentino: Odile Sankara, prima di tutto la vita 2. Un appello per il 50% di donne nelle cariche istituzionali e di governo 3. Fatema Mernissi: Il primo capitolo de "La terrazza proibita" 1. ESPERIENZE. VITA COSENTINO: ODILE SANKARA, PRIMA DI TUTTO LA VITA [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso su "DWF", n. 68, ottobre-dicembre 2005. Vita Cosentino e' un'autorevolissima intellettuale femminista. Odile Sankara, nata nel 1964, anno dell'indipendenza del suo paese, il Burkina Faso, e sorella del presidente Thomas Sankara (ucciso il 15 ottobre 1987), e' artista di teatro e di cinema, promotrice di cultura, operatrice sociale, suscitatrice di consapevolezza e impegno per i diritti. Un profilo di Odile Sankara e' in "Nonviolenza. Femminile plurale" n. 29] Parlare di teatro e di politica, se si tratta di Odile Sankara, significa per me parlare di un cambiamento. Sento infatti che, nello scambio che intrattengo da alcuni anni con questa artista africana del Burkina Faso, mi si sono aperti dei varchi di comprensione, soprattutto riguardo ad alcune possibilita' politiche preziose in questo nostro tormentato presente. Una relazione non sempre semplice, per i molteplici piani che si intersecano e che chiamano prepotentemente in causa il rapporto, cosi' come si e' costituito storicamente, tra Occidente e paesi poveri africani. Per farmi intendere, raccontero' un piccolo episodio capitato durante una recente visita di Odile a Milano, quando venne invitata, nell'aprile 2005, dalla Libreria delle donne. Eravamo andate, insieme a Luisa Muraro, a tenere un incontro in una scuola e un ragazzo, incuriosito, le chiese che sogno avesse da bambina. "Quando ero molto piccola non avevo un sogno" rispose, "perche' sono stata educata secondo la tradizione della mia etnia Mossi, che privilegia la comunita' rispetto all'individuo; poi, quando sono andata a scuola, che in Burkina e' francese per via della colonizzazione, allora si', avevo un sogno, ed era quello di diventare una grande cantante francese, come Edith Piaf. Crescendo, pero', ho capito che si trattava di un inganno, e solo all'universita' ho incontrato la mia strada". In quell'occasione, Odile ha chiuso l'incontro con una sorprendente considerazione che mi ha fatto pensare: "Quello che io e il mio paese possiamo dare al mondo globalizzato di oggi e' un contributo alla spiritualita'". Quest'ultima affermazione illumina, a mio modo di vedere, tutto il suo percorso umano e teatrale. * Mi occorreranno molte piu' parole scambiate per rendere comprensibile il suo percorso, come mi e' occorso molto tempo per i lenti avvicinamenti successivi. E tante domande. Soprattutto un pomeriggio, a casa mia, trascorso a cercare di capire qualcosa di quello che mi stava dicendo. Come facciamo noi occidentali - e questo Odile lo apprezza molto - mi sono aiutata con i libri, in particolare due. Il primo e' stato L'Afrique au secours de l'Occident, per ora disponibile solo in francese, scritto da Anne-Cecile Robert, che insegna all'universita' di Parigi 8 e collabora a "Le Monde Diplomatique". La sua tesi di fondo e' che il preteso "ritardo" dell'Africa potrebbe essere l'espressione di una formidabile resistenza culturale a un modello economico devastante. Sarebbe piuttosto l'Occidente ad aver bisogno di aiuto, e il patrimonio culturale africano potrebbe venirgli in soccorso. Odile mi ha poi consigliato di leggere A quando l'Africa? di Joseph Ki Zerbo, un intellettuale, uno storico e un uomo d'azione del Burkina che da quaranta anni si batte per lo "sviluppo endogeno". Dice un proverbio africano citato nel libro, "non si puo' pettinare qualcuno in sua assenza". "Non dovrebbero essere gli Europei a spingere per la crescita dell'Africa" - spiega Odile - "Quest'esigenza dovrebbe partire da noi africani, dalla nostra volonta' e capacita' di tracciare la nostra strada nel mondo senza che siano altri a indicarcela". La consapevolezza che lo sviluppo del suo paese non puo' e non deve avvenire a imitazione del modello occidentale ha profondamente a che fare con il suo impegno nel teatro. Il perche' lo ha spiegato, con la consueta capacita' di ricorrere a immagini semplici e incisive, durante un incontro in Libreria, raccontando che le e' capitato di vedere, in villaggi dispersi nella savana, bambini che indossavano vestiti con i colori della bandiera americana. "Di fatto, esiste un contrasto fra i due modelli, occidentale e africano, ma fortunatamente ci sono ancora, in Burkina, degli uomini e delle donne che s'impegnano perche' il nostro patrimonio culturale e la ricchezza delle nostre tradizioni non vengano cancellati" dice. "Mi chiedo pero' quante persone possano capire il vero significato nascosto dietro a tutto questo, quanta gente si renda conto della necessita' vitale di mantenere ben salde le nostre radici africane. Noi, tramite il teatro, riprendiamo i racconti tradizionali proprio con l'intenzione di riproporre, grazie ai loro contenuti, tutti i valori di un paese, della storia di un popolo, di un continente intero, soffermandoci sugli insegnamenti, sui principi educativi, affinche' da questi si possano trarre immagini di una societa'". * Odile fa notare che le attuali politiche africane non fanno nulla per impedire l'influenza occidentale e sostiene che "se la politica cerca nei valori tradizionali, trovera' delle cose a cui appoggiarsi per armonizzare la societa' moderna". Ma quando le si chiede se fa politica, risponde di no, intendendo che non riveste cariche politiche ufficiali. In realta', nel 1992 ha fondato l'Associazione "Talents de femmes" per promuovere l'eccellenza femminile nelle arti dello spettacolo e nell'artigianato. L'Associazione - che e' composta principalmente da donne ma non preclude la partecipazione agli uomini - in questi anni ha messo in scena testi teatrali, ha promosso Giornate delle donne delle arti dello spettacolo e organizza stabilmente, ogni due anni, "Voix de Femmes", evento noto in tutta l'Africa. Quando l'ho sentita per la prima volta usare la parola "valori", e per di piu' associata a "tradizionali", ho fatto un piccolo sobbalzo, perche' e' un concetto che, qui da noi, suona piuttosto moralistico; ma il problema che sta a cuore a Odile e' cruciale. Si tratta di un argomento ben delineato anche nel libro della Robert: le elite politiche africane di parecchi paesi rifiutano i valori e le forme tradizionali dell'organizzazione sociale e politica a favore dei modi della democrazia occidentale (tribunali, diritti ecc.). La centralita' di questa posizione mi e' apparsa chiara quando l'autrice porta nel suo libro l'esempio di Nelson Mandela, che in un suo scritto esplicita come la palabre - cioe' il cerchio tradizionale sotto l'albero in cui chi vuole parlare puo' farlo - abbia influenzato la sua concezione del potere. All'improvviso ho capito da dove veniva quella straordinaria invenzione politica che e' stato il processo di riconciliazione in Sudafrica, in cui e' stata data la parola sia alle vittime che ai carnefici. Certo non e' stata la riproposizione diretta della tradizione; e' qualche cosa di nuovo, un'invenzione, ma che trova la sua radice nella tradizione africana. Forse e' proprio questo che dobbiamo imparare dall'Africa. La nostra e' una civilta' basata sulla scrittura, e spesso ci sfugge il fatto che nelle civilta' orali la questione del potere si organizza in modo differente, perche' la scrittura cambia il significato delle norme e del vivere comune e crea un universale astratto. Secondo la Robert, in Africa la palabre e' una "forma specifica di mediazione", una forma di potere parallelo (L'Afrique, p. 120). Nelle societa' a tradizione orale tutto rimane piu' fluido. Credo che Odile abbia in mente proprio questo, quando parla di "armonizzare la societa' moderna". Di sicuro non e' contro di essa, ma neppure accetta tutto quello che propone. Assume questo stesso atteggiamento verso usi e costumi dell'Occidente, verso la societa' francese, in cui ogni anno passa alcuni mesi, invitata a tenere corsi di teatro, a Belfort. Sulla necessita' di fare riferimento alla tradizione, Odile si richiama a suo fratello per parte di padre, Thomas Sankara, amato presidente del Burkina dal 1983 al 1987, che fu tragicamente ucciso dopo essere stato protagonista di un tentativo rivoluzionario oggi molto studiato e riproposto in due spettacoli teatrali in corso di realizzazione in Francia e in Italia. "Si pensa sempre alla tradizione come a qualcosa fuori moda" dice Odile, "ma se Thomas vedeva le cose in quel modo e pensava quelle cose, e' proprio perche' e' nato nella tradizione. Noi non siamo della citta', siamo cresciuti nel rispetto e nella conoscenza della tradizione". Thomas Sankara parlava di decolonizzare la mente, e Odile, riferendosi al fratello, continua: "Sosteneva l'idea di 'sprigionare' le persone dalla loro stessa testa, di farle uscire dall'incastro in cui finiscono per mettersi, di convincerle che e' importante occuparsi di se', prendere la parola ed essere responsabili di se stessi". * Quando eravamo a casa mia, le ho chiesto che cosa significhi vivere e crescere secondo la cultura mossi. I Mossi sono una delle 60 etnie che costituiscono il Burkina. Me ne ha parlato a lungo e l'elemento di fondo che ho colto dalle sue parole e' una dimensione di sacralita' che aderisce agli aspetti materiali della vita e ai rapporti umani. "L'educazione, per un Mossi, e' dare un valore alle cose, alla comunita' e all'individuo come parte integrante di essa, a tutto cio' che rappresenta il villaggio, ai sacrifici, alle cerimonie e ai riti... Nella comunita' mossi c'e' molto rispetto per tutto cio' che e' ritenuto sacro, per cui se, per esempio, al villaggio un pozzo viene considerato pubblico e tutti ne possono attingere l'acqua, nessuno vi si avvicinera' con l'intenzione di sputarci dentro. Non si possono saccheggiare i beni altrui, non si puo' andare nel campo di un altro e rubargli il raccolto solo per invidia o gelosia. Se ci sono dei feticci o dei luoghi di culto, nonostante io non condivida certi riti, rispetto comunque il luogo e lo considero sacro, perche' cosi' va considerato, perche' cosi' e' deciso da generazioni da tutti; il carattere sacro e' fondamentale e dobbiamo rispettarlo". L'altro valore centrale all'interno della cultura mossi e' quello dell'integrita'. "Se faccio parte di una famiglia mossi, anche se la mia famiglia e' povera e non ho la possibilita' di mangiare, devo mantenere un atteggiamento fiero, essere fiera di portare il mio cognome, Sankara, o Kabore' o Ouedraogo, perche' rappresenta un'intera comunita', la storia di un popolo; e per questo non posso uscire di casa e lamentarmi della mia condizione, ma devo fare di tutto per migliorare lo stato in cui si trova la mia famiglia, lavorando, impegnandomi come posso. Anche il lavoro e' un valore che da' dignita' a un essere umano". L'idea dell'integrita' e' stata felicemente ripresa in Burkina Faso negli anni della presidenza Sankara, tanto che lo stesso nome del Paese, che ha sostituito quello di Alto Volta, dato dai colonizzatori, significa "Paese degli uomini integri". Odile vuole rimanere fedele alla sua radice culturale, ma in modo dinamico. Quando, in Libreria, le abbiamo chiesto quali sono i nuovi valori che l'Africa cerca, indipendentemente dall'influenza occidentale, ha risposto: "Credo che da noi il sapere venga considerato un valore importante perche', se si e' istruiti, si ha la possibilita' di scegliere. Un altro valore importante e' quello del ridere, del riuscire a sorridere nonostante la poverta', nonostante le mille difficolta'. Ritrovare la forza per sorridere della vita significa darsi forza ed essere comunque soddisfatti; dietro a questo si nasconde il valore dell'integrita', che e' nato soprattutto durante la rivoluzione e che fino a oggi ha distinto il mio popolo, per cui ogni burkinabe' e' fiero di sentirsi tale". Dell'integrita', Odile fa una regola interiore di vita. Per lei, per esempio, "la promessa e' sacra". A volte ha rinunciato a proposte piu' vantaggiose o prestigiose, pur di non venire meno all'impegno preso con i suoi corsisti di Belfort. Di tutto questo, qualcosa traluce dal suo contegno, dal suo portamento, dal suo modo di parlare, tanto che si ha l'impressione di avere a che fare con una regina; questa, almeno, e' stata l'impressione che ha fatto a molte di noi quando Serena Sartori - un'amica regista teatrale che lavora spesso in Africa - ce l'ha fatta conoscere una sera, in Libreria. * Il suo stesso fare teatro e' attraversato dalla contraddizione politica tra Occidente e paesi africani. Il Burkina e' un paese molto povero e gran parte dei progetti, anche teatrali, che la' si realizzano, vengono finanziati da paesi occidentali; questo crea spesso forti ambiguita' e ulteriori problemi, "perche' in Burkina ci sono tanti registi stranieri che vengono come dei rapaci, per saccheggiare l'Africa degli attori africani proponendo dei progetti magari ben remunerati ma con contenuti e qualita' decisamente scarsi". Un'altra contraddizione molto presente a Odile e' rappresentata dal fatto che, con i forti finanziamenti da parte delle Ong, si fa del teatro una forma di intervento sociale. Mi ha parlato piu' volte di una troupe molto conosciuta che fa teatro-forum in Burkina, ispirandosi ad Augusto Boal - il regista che ha fondato un movimento teatrale nel dopoguerra - per affrontare temi politici e sociali, come per esempio i matrimoni forzati e l'escissione. Odile non condivide un simile approccio: "Non credo che questa forma di teatro sia arte, perche' non c'e' dietro un lavoro d'attori, non c'e' una creazione alle spalle; risulterebbe uguale se prendessi tre persone del villaggio e le portassi in piazza per fare un discorso politico. Pur rispettando molto l'utilita' del lavoro che viene fatto, non potrei accettare di partecipare a iniziative del genere, perche', come attrice, perderei significato, non esisterei. In questo modo non si valorizza l'attore africano, che resta poco considerato e non viene valutato professionalmente, alimentando il preconcetto che e' poco artista, che accetta qualsiasi ruolo solo per i soldi. Preferirei che si creassero dei progetti in cui venisse valorizzata la qualita', la professionalita', integrando anche i valori della tradizione e i risultati della riflessione continua e profonda che sempre occorre fare di fronte a un testo". Queste ultime frasi delineano la strada su cui sta camminando Odile, che mi ha raccontato la sua esperienza. "Quando ho cominciato con il teatro, ho avuto la fortuna di incontrare un regista africano veramente bravo che ancora oggi fa parte della compagnia; sin dall'inizio ci ha consigliato di lavorare duro, di non mollare, e ci ha ripetuto che se avessimo continuato a dare importanza ai contenuti, alla formazione, saremmo riusciti un giorno a vivere del nostro mestiere. La Compagnie de Seeren (fioritura) e' nata alla fine del 1990, grazie al direttore che gia' aveva fatto diverse esperienze in Francia e che, una volta tornato in Burkina, aveva deciso di mettere a frutto tutte le conoscenze acquisite in un nuovo progetto. Appena creata la compagnia, chiari' immediatamente che si trattava di un lavoro professionale e che tutti coloro che accettavano l'impegno dovevano fare del teatro un mestiere, dedicandosi solo a quello. Fu una presa di posizione innovativa che, per certi versi, suscito' scandalo e molte critiche, perche' era la prima volta che in Burkina si parlava del teatro come di un vero e proprio mestiere; fino ad allora, nel mio paese, non veniva considerato come un lavoro vero e proprio". * Odile e' completamente calata nelle contraddizioni del presente, e sa che si tratta di una lotta sempre aperta. "Oggi e' difficile, la gente rinuncia ai propri principi per i soldi, per guadagnare il potere, e spesso si scende troppo a compromessi a discapito dei propri valori. E' difficile lottare contro questa situazione, perche' si tratta di un sistema mondiale. L'unica cosa che posso fare, nel mio piccolo, e' dare l'esempio, senza esiliarmi in Europa. Vengo, si', in Europa per conoscere, per imparare, e poi reinvesto cio' che ho appreso nel mio paese, per il mio paese. E' l'unica maniera che ho per partecipare al cambiamento, per essere d'esempio per le persone che mi sono vicine, con le quali posso discutere... Altrimenti non si puo' far nulla per arrestare il meccanismo in atto". Devo, a questo punto, ma non e' una digressione, allargare il contorno, popolarlo. Odile, infatti, non e' sola nella sua lotta, perche' lo stesso approccio e' condiviso dalle sue compagne Marceline Compaore' e Leontine Ouedrago, con cui nel 1992 ha fondato l'Associazione. Inoltre Odile ha, a sostenerla, quel che di straordinario che attraversa il suo paese e il continente africano. A sud del Mali, nell'arido Sahel, con dieci milioni di abitanti, il Burkina e' di primo acchito sconcertante: quanto e' povero di beni materiali tanto e' ricco di amore per la cultura. A chi vi si avvicina viene spontaneo parlarne come di un miracolo, proprio come fa Lila Azam Zanganeh in un articolo comparso su "D donna di Repubblica", in cui racconta l'edizione di quest'anno del "Festival Panafricano del Cinema" (Fespaco) che dal 1966 si tiene ogni due anni nella capitale. Lo descrive come un miracolo, in vari sensi: Ouagadougou, citta' sofferente e povera, e' riuscita a diventare la sede della piu' grande e interessante manifestazione culturale di tutta l'Africa, a cui accorrono critici e gente di cinema anche dall'Europa e dall'America; inoltre, grazie a questo evento, per sette giorni l'Africa diventa "visibile", si sottrae all'immagine che ne propongono i mass-media occidentali, fatta di massacri, aids, guerre tribali. Certo, i film in concorso si fanno spesso specchio di fatti tragici, ma li raccontano dando "un volto piu' umano all'oscurita', nella percezione collettiva, di questo continente continuamente devastato dalle guerre" scrive Lila Azam Zanganeh. "Ogni film riesce ad afferrare un suo frammento di verita' e a illuminarlo con una scintilla di poesia". Cita poi un testo che mi e' molto piaciuto per dire che continuare a essere poeta in circostanze difficili e' anche raggiungere il cuore della politica perche' i sentimenti, le esperienze umane, ritrovano un posto di primo piano. Che ci sia un cuore della politica che sta nel cuore degli esseri umani e' particolarmente vero per il Burkina, in cui ha continuato a tessersi un filo sotterraneo che dopo la morte del presidente Sankara non si e' piu' fermato e che si manifesta come amore per la cultura, per il sapere, coinvolgendo tutta la popolazione, dalle donne artiste ai contadini dei villaggi. * Odile e le sue compagne dell'Associazione sono espressione di questo "cuore della politica" e in piu' di un decennio hanno delineato una loro strada di liberta', che si puo' sintetizzare nel prendere la parola. In questo, Odile segna una differenza anche rispetto a suo fratello. Nel corso di un incontro pubblico, ricordando il grande impegno di Thomas per l'emancipazione femminile, ha raccontato come questa sensibilita' gli venisse dall'aver assistito troppe volte alle sofferenze della madre a causa del marito, suo padre, un uomo molto patriarcale, e gli ha avanzato una velata critica, dicendo che "in Africa non si puo' andare in fretta, e qui si parla di un cambiamento molto profondo e radicale di mentalita'". Le stesse vicende biografiche di Odile mostrano questa verita'. Conversando a casa mia, mi ha raccontato che lei stessa, nonostante facesse l'universita', durante la rivoluzione non si sentiva di partecipare agli incontri pubblici, come altre donne hanno fatto, e preferiva tornare a casa ad aiutare nelle faccende domestiche. Pur essendo d'accordo su tutto, preferiva tenersi in disparte e non farsi coinvolgere. Mi ha spiegato che si comportava cosi' per il peso - negativo, in questo caso - della tradizione, quello stesso per cui da bambina non aveva un sogno: l'individuo viene sopraffatto dalla comunita' e, per una donna, non e' prevista la partecipazione a una discussione pubblica. Mi spiegava di aver trovato la sua indipendenza, la sua consapevolezza e la fiducia in se stessa - in breve, la sua strada per la liberta' - grazie al teatro, che ha incontrato per caso quando frequentava l'universita'. "Con il tempo ho scoperto che quello che facevo mi piaceva e mi veniva naturale, e il teatro e la recitazione sono diventati per me un'arma per esistere in quanto donna. Nelle comunita' tradizionali, la parola e' consacrata ai saggi, agli anziani, al capo del villaggio. Cosi' mi sono detta: il teatro e' un mezzo di espressione, con il teatro posso dire delle cose, recitare sulla scena e dire delle cose liberamente". Il teatro - che si fa "luogo di dibattito pubblico" - le permette di discutere, di entrare in contatto con la gente di citta' e di villaggio. "Dal punto di vista delle sue manifestazioni, il teatro trasmette la stessa vitalita' che si respira nei villaggi, come se si trattasse di un matrimonio, o di una veglia. Non e' come in Occidente, dove si presta grande attenzione al rigore, al rispetto del testo, alla dizione; per noi, all'interno delle nostre creazioni, e' prioritaria la vita. Il divertimento sale ma, a un tratto, il pubblico non ride piu': e' in quel momento che inizia a riflettere". Pur privilegiando, nel fare teatro, i racconti tradizionali, sia in "Talents de femmes" che nella sua compagnia teatrale, Odile non esclude altre fonti di ispirazione come romanzi e testi classici. "Nel '96 abbiamo messo in scena il nostro primo spettacolo, Les Co-epouses dell'algerina Fatima Gallaire, testo di un certo impatto sul pubblico, visto che parla della coalizione delle mogli che sottomettono il marito poligamo" racconta. "Abbiamo anche analizzato dei testi classici. Recentemente abbiamo lavorato su un testo di Pasolini, Pilade; l'abbiamo realizzato in Burkina, dopo una breve formazione a Parigi. La scelta, ovviamente, non e' stata casuale, visto che nella trama si toccano tematiche molto vicine alla realta' politica africana di oggi. In Pilade viene sottolineata la relazione fra potere, sangue e crimine, e si analizza come, per raggiungere il potere, spesso, di fatto, si debba passare attraverso lo spargimento di sangue e il crimine. Un argomento d'evidente attualita', nell'Africa odierna". Odile fa conto sulla forza dell'oralita' che "porta a una riflessione profonda, che suscita domande e interrogazioni sul proprio comportamento, sull'agire interno della collettivita'. La nostra battaglia" dice, "serve proprio per ridare valore alla parola, rendere ancora sacra l'arte della parola, dell'oralita'". * Apparentemente in contraddizione con il forte accento che pongono sull'oralita' e con la tradizione culturale in cui sono immerse, le donne dell'Associazione "Talents de femmes" danno molta importanza alla scrittura. Odile e le sue compagne ritengono che si tratti di una strada di liberta' femminile, oltre a un modo per custodire il sapere degli anziani, che rischia di perdersi nello sviluppo della societa' africana. In un incontro pubblico, dopo aver ricordato che lo scrittore africano Amadou Hampate' Ba sostiene che "quando in Africa muore un vecchio e' come se bruciasse una biblioteca", Odile ha avanzato una considerazione: "per me, il luogo della scrittura resta il luogo della liberta' d'espressione. Dopo ci potra' essere la censura, ma intanto qualcosa e' stato pensato e tradotto in scrittura. Per molti paesi questo e' molto importante, e' una presa di coscienza e padronanza di se'". A quell'incontro era presente anche Leontine, che ha aggiunto: "Abbiamo voglia di parlare e abbiamo delle cose da dire. Spesso capita che in presenza degli uomini le donne tacciano. Tuttavia, quando abbiamo un pezzo di carta e una penna in mano, allora parliamo; con la scrittura, le donne possono parlare di tutto quello che vogliono". Il rapporto tra la Libreria delle donne di Milano e l'associazione "Talents de Femmes" e' nato proprio per sostenere un loro progetto, quello di creare delle giovani scrittrici in Burkina attraverso un concorso letterario per le scuole superiori. Luisa Muraro e io abbiamo fatto in modo che il progetto concorresse al Premio "Grazia Zerman", e ha ottenuto un finanziamento. Da quel momento, e' cominciata una relazione che si va rafforzando, attrae altre donne della Libreria e non smette di farci pensare. Nel 2004 c'e' stata la prima edizione del concorso letterario "Voix de Femme - Grazia Zerman", a cui hanno partecipato piu' di duecento ragazze burkinabe'. In questi mesi e' in preparazione la seconda edizione, che si concludera' nel febbraio 2006. Riporto un passo del progetto, quello che piu' ci ha colpite perche' fa vedere la scelta di queste donne - pienamente consapevoli dei drammatici problemi del loro Paese - di adottare come strategia politica la strada della scrittura: "'Se anche avete un solo dente, fate che sia di un bianco perfetto' dice il proverbio. Nelle donne burkinabe' la passione per la scrittura esiste, questo e' molto importante; si tratta ora di trovare dei quadri, un inquadramento affinche' esse possano dare il meglio di se stesse. E' in questo contesto e in questa prospettiva che l'Associazione 'Talents de Femmes', fedele ai suoi obiettivi, vorrebbe contribuire all'emergere della parola scritta femminile. La donna non ha forse una sensibilita' che le e' propria, con la quale e' tenuta a contribuire alla costruzione del pensiero nazionale? In altre parole, puo' esistere un pensiero nazionale senza l'apporto della donna? Indubbiamente la ragazza burkinabe' ha problemi che possono essere giudicati prioritari: la scolarizzazione, l'educazione, la lotta contro le malattie sessualmente trasmissibili, il dramma delle ragazze madri... Tutti questi problemi, vissuti spesso in un drammatico silenzio, situano la giovane donna nel punto d'incrocio dei mali sociali del nostro tempo. E' una ragione in piu' per dare la parola a queste vittime perche', come dice Edmonde Jabes, praticare la scrittura e' praticare nella propria vita un'apertura da cui la vita si fara' testo". Lo sviluppo ulteriore di questo progetto prevede una formazione piu' approfondita per le vincitrici, la pubblicazione dei testi migliori e il trarne materia per messe in scena teatrali. Da questi lavori e dalle altre attivita' di "Talents de femmes" passa, per Odile, la possibile rottura, che e' gia' in atto, con gli aspetti della tradizione che pesano malamente sulla vita delle donne. Il lavoro dell'Associazione e la sua stessa figura sono su un crinale difficile tra amore della tradizione e cambiamenti anche duri da fare: forse l'emblema di questa difficile posizione e' che hanno adottato il francese, la lingua dei colonizzatori. "Negli scritti delle ragazze che hanno partecipato al Concorso letterario emergono dei temi e delle liberta' che vengono con forza rivendicate in contrasto con la tradizione stessa. Oggi bisogna iniziare a rendersi conto che ci sono delle pratiche della tradizione che sono superate, che oramai non possono piu' coesistere con la realta' e lo sviluppo della societa'... Per esempio, se consideriamo l'escissione, non ci si chiede perche' realmente la si pratichi ma la si continua a proporre come rito sacro, perche' da generazioni viene considerato tale e se non si dovesse fare si sarebbe puniti dalla divinita'... Oggi si sono gia' messi in discussioni certi riti quali i matrimoni forzati, dove la donna e' semplicemente un oggetto di scambio, e si lotta perche' la donna, tramite la scolarizzazione, possa ottenere uno spazio all'interno della societa' pubblica... Tutti questi comportamenti ed argomenti vengono ripresi negli incontri che organizziamo con 'Talents de femmes', perche' la donna possa comprendere il significato di tali comportamenti e inizi a raggiungere una certa consapevolezza, una coscienza per lottare per i propri diritti; la stessa possibilita' di prendere la parola e potersi esprimere diventa un mezzo fondamentale attraverso il quale si puo' assistere a un cambiamento che ha origine proprio da una nuova coscienza e spinta". * Odile e' una donna bella, elegante, fiera, un'artista coraggiosa, capace di tenere assieme liberta', cambiamento e tradizione culturale. Io sto continuando a imparare da quello che mi racconta di se', della sua vita, delle sue idee; e quello che posso fare io, con la mia povera penna, le mie povere forze, e' cercare di parlare di lei nel rispetto della sua differenza. * Bibliografia - Robert, Anne-Cecile, L'Afrique au secours de l'Occident, Les Editions de l'Atelier, Paris 2004. - Zerbo, Joseph, A quando l'Africa?, Emi, Bologna 2005. - Azam Zanganeh, Lila, Miracolo a Ouagadougou, in "D donna di Repubblica", 5 aprile 2005. 2. APPELLI. UN APPELLO PER IL 50% DI DONNE NELLE CARICHE ISTITUZIONALI E DI GOVERNO [Dall'Udi (Unione donne in Italia) (per contatti: udinazionale at tin.it) riceviamo e volentieri diffondiamo il seguente invito delle promotrici dell'appello "50 e 50 il paese che ci sara'"] Carissime, continuano a giungere firme di adesione (oltre cinquecento) al nostro documento ["50 e 50 il paese che ci sara'", apparso anche su "La nonviolenza e' in cammino" n. 1213 - ndr] ed intendiamo incontrarci quanto prima per decidere le modalita' e le forme della nostra partecipazione alla costruzione di quel discorso e quello spazio politico nuovo per il quale ci sentiamo impegnate. Tanto piu' ora che, con la vittoria ai punti del centrosinistra e l'atteggiamento provocatorio del centrodestra, la situazione si fa delicata e necessita di tutta la nostra presenza attiva. Nel frattempo riteniamo che sarebbe opportuno inviare a Prodi la maggior quantita' di messaggi per esplicitare che le donne ci sono, partecipano, vigilano, giudicano, prestando la massima attenzione a quello che sta accadendo anche in questi giorni di interregno. I messaggi possono essere o lo stesso o simili a quello che abbiamo gia' inviato e che riportiamo qui di seguito, con firme singole, o piu' di una. Purche' ne ricevano. * "Ci associamo alla domanda che sta crescendo sempre piu' nel Paese, che si diano subito segnali significativi di rinnovamento a cominciare dalla presenza del 50% di donne nelle cariche istituzionali e di governo". I messaggi vanno indirizzati a info at unioneweb.it * Affettuosi saluti, Lidia Campagnano, Francesca Koch, Pina Nuzzo, Patrizia Politelli 3. TESTI. FATEMA MERNISSI: IL PRIMO CAPITOLO DE "LA TERRAZZA PROIBITA" [Da Fatima Mernissi, La terrazza proibita. Vita nell'harem, Giunti, Firenze 1996, 2001, riportiamo il primo capitolo "I confini del mio harem". Fatema Mernissi (ma il nome puo' essere traslitterato anche in Fatima) e' nata a Fez, in Marocco, nel 1940, acutissima intellettuale, impegnata per i diritti delle donne, docente universitaria di sociologia a Rabat, studiosa del Corano, saggista e narratrice; tra i suoi libri disponibili in italiano: Le donne del Profeta, Ecig, 1992; Le sultane dimenticate, Marietti, 1992; Chahrazad non e' marocchina, Sonda, 1993; La terrazza proibita, Giunti, 1996; L'harem e l'Occidente, Giunti, 2000; Islam e democrazia, Giunti, 2002; Karawan. Dal deserto al web, Giunti, 2004. Il sito internet di Fatema Mernissi e' www.mernissi.net] Venni al mondo nel 1940 in un harem di Fez, citta' marocchina del nono secolo, cinquemila chilometri circa a ovest della Mecca e solo mille chilometri a sud di Madrid, una delle temibili capitali cristiane. Mio padre era solito dire che con i cristiani, e con le donne i guai nascono quando non vengono rispettati i hudud, ovvero i sacri confini. Al tempo in cui nacqui, dunque si era in pieno caos, perche' ne' donne ne' cristiani volevano saperne di accettare confini. E questo era evidente gia' sulla soglia di casa, dove le donne dell'harem discutevano e si accapigliavano con Ahmed, l'uomo a guardia della porta, mentre per strada sfilavano i soldati stranieri che continuavano ad arrivare dal nord e che si erano stabiliti proprio in fondo alla nostra via, tra i quartieri vecchi e la Ville Nouvelle, la citta' nuova che si stavano costruendo. Secondo mio padre, non era un caso che Allah, creando la terra, avesse separato uomini e donne, e messo un mare a dividere cristiani e musulmani. L'armonia esiste quando ogni gruppo rispetta i limiti dell'altro conformemente a quanto prescritto; passare quei limiti conduce solo al dolore e all'infelicita'. E invece le donne, ossessionate dal mondo al di la' della soglia di casa, altro non sognavano che di oltrepassarla, e andare a passeggio per vie sconosciute, mentre i cristiani seguitavano ad attraversare quel mare, portando disordine e morte. Sciagura e vento freddo vengono dal nord; e noi preghiamo rivolti verso l'est. La Mecca e' lontana. La tua preghiera puo' giungere fin la', ma devi sapere come concentrarti. A tempo debito, mi avrebbero insegnato a concentrarmi. I soldati spagnoli si erano accampati a nord di Fez. Zio 'Ali' e mio padre, che in citta' erano tanto potenti e in casa davano ordini a tutti, dovevano chiedere il permesso a Madrid, se volevano recarsi alla festa religiosa di Mawlay 'Abdelsalam, vicino a Tangeri, a trecento chilometri di distanza. Ma quei soldati fuori dalla nostra porta appartenevano a un'altra tribu': quella dei francesi, cristiani come gli spagnoli, ma che parlavano un'altra lingua e vivevano ancora piu' a nord. La loro capitale si chiamava Parigi e, nei calcoli di mio cugino Samir, doveva trovarsi a duemila chilometri da noi, due volte piu' lontana di Madrid, e due volte piu' feroce. Come i musulmani, i cristiani avevano l'abitudine di combattersi tra di loro; e ogni volta che spagnoli e francesi varcavano il nostro confine, per poco non si ammazzavano a vicenda. Quando fu chiaro che nessuno dei due era in grado di sterminare l'altro, presero la decisione di tagliare in due il Marocco. Misero dei soldati dalle parti di Arbawa e dissero che, da allora in poi, chi andava a nord doveva avere un lasciapassare perche' attraversava il Marocco spagnolo, e chi andava a sud doveva avere un altro lasciapassare, perche' entrava nel Marocco francese. Chi non era d'accordo, rimaneva bloccato ad Arbawa, luogo arbitrario, dove una lunga sbarra - messa li' appositamente - veniva chiamata confine. Eppure il Marocco, diceva mio padre, esisteva indiviso da secoli, anche da prima dell'avvento dell'lslam, cento e quaranta decenni or sono. Nessuno aveva mai sentito parlare di una linea che dividesse in due il paese. Il confine era una linea invisibile nella mente dei guerrieri. Il cugino Samir, che a volte accompagnava lo zio e papa' nei loro viaggi, diceva che, per creare un confine, tutto quello che serve sono soldati che costringano la gente a crederci. Nel paesaggio di per se' non cambia nulla. Il confine sta nella mente di chi ha il potere. Io non potevo andare a verificarlo di persona, perche' lo zio e papa' dicevano che una donna non deve viaggiare: viaggiare e pericoloso e le donne non sono in grado di difendersi. In proposito, la teoria della zia Habiba - la quale era stata ripudiata all'improvviso e senza ragione dal marito amatissimo - era la seguente: Allah aveva mandato in Marocco gli eserciti del nord per punire gli uomini, colpevoli di aver violato i hudud che proteggono le donne. Chi fa torto a una donna, viola i sacri confini di Allah. E' illecito far torto a chi non puo' difendersi. La poveretta pianse per anni. Educazione e' conoscere i hudud, i sacri confini, asseriva Lalla Tam, direttrice della scuola coranica dove, all'eta' di tre anni, fui mandata a raggiungere i miei dieci Cugini. La mia maestra aveva una frusta lunga e minacciosa, ed io ero perfettamente d'accordo con lei su tutto: i confini, i cristiani, I'educazione. Essere musulmani e rispettare i hudud sono una cosa sola. E per un bambino, rispettare i hudud significa obbedire. Io desideravo tremendamente di compiacere Lalla Tam, e una volta che lei non era a portata d'orecchio chiesi a mia cugina Malika, di due anni maggiore di me, se poteva mostrarmi il punto esatto dove si trovavano i hudud. Mi rispose che lei per certo sapeva una cosa sola: che tutto sarebbe filato liscio se avessi obbedito alla maestra. Hudud era tutto quello che la maestra proibiva. Le parole di mia cugina mi aiutarono a rilassarmi e cominciai a godermi la scuola. Ma da allora, cercare i confini e' diventata l'occupazione della mia vita. L'ansia mi divora ogni volta che non so individuare con esattezza la linea geometrica che determina la mia impotenza. La mia infanzia e' stata felice perche' i confini erano di una chiarezza cristallina. Primo fu la soglia che separava il salone di casa dal cortile principale. Uscire in quel cortile al mattino non mi era permesso, fintanto che mia madre non si alzava, e cio' significava che, dalle sei alle otto, dovevo giocare senza far rumore. Potevo, se volevo, sedermi sulla fredda soglia di marmo, ma non dovevo unirmi ai giochi dei cugini piu' grandi. "Ancora non sei capace di difenderti", mi spiegava la mamma, "anche giocare e' una specie di guerra". E io, che avevo paura della guerra, mettevo il mio cuscino sulla soglia, e me ne stavo li' seduta, giocando a al-masriya bi-'l-jals (alla lettera, "passeggiare seduta"), un gioco che inventai a quel tempo e che ancora oggi trovo molto utile. Per giocare occorrono solo tre cose. La prima e' starsene immobili da qualche parte, la seconda e' avere un posto per sedersi, e la terza, trovarsi in una disposizione di umilta' tale da accettare l'idea che il proprio tempo non valga niente. Il gioco consiste nel contemplare superfici familiari come se fossero estranee. Stavo li' a sedere sulla soglia e osservavo casa nostra come se non l'avessi mai vista. La prima cosa da guardare era il cortile rigido e squadrato, dove ogni cosa era governata dalla simmetria. Persino la bianca fontana di marmo che si trovava al centro, col suo perpetuo gorgogliare, pareva ammansita e sotto controllo. Ia fontana era decorata, lungo la circonferenza, da un sottile fregio di ceramica bianca e blu, che riproduceva il motivo inserito tra le mattonelle di marmo quadrate del pavimento. Il cortile era circondato da un colonnato ad archi, con quattro colonne per lato, che avevano base e capitelli di marmo, e nel mezzo erano rivestite di ceramica bianca e blu il cui disegno riprendeva quello della fontana e del pavimento. Vi si affacciavano quattro enormi saloni, che si fronteggiavano a due a due. Ogni salone aveva una grande entrata centrale che dava sul cortile, con due ampie finestre laterali. Al mattino presto, e durante l'inverno, i saloni erano ben chiusi da battenti in legno di cedro intagliato a motivi floreali. D'estate restavano aperti, e calava un sipario di drappi pesanti, trine e velluto, che lasciava passare l'aria, riparando da luce e rumori. Le finestre del salone avevano, all'interno, delle imposte di legno intagliato, simili alle porte, ma dall'esterno si vedevano solo delle inferriate di ferro battuto placcato in argento, sormontate da lunette di vetro dipinte a splendidi colori. Amavo quei vetri colorati per il modo in cui il sole, sorgendo, sfumava di continuo i rossi e i blu, e attenuava i gialli. Come i pesanti battenti di legno, anche le finestre si lasciavano aperte d'estate, e le tende venivano calate solo di notte o durante il riposo pomeridiano, a proteggere il sonno. Alzando gli occhi verso il cielo, si poteva ammirare un elegante struttura a due piani dov'era ripetuto il geometrico colonnato ad archi del cortile, cui si aggiungeva, a completarlo, un parapetto in ferro battuto placcato d'argento. E finalmente il cielo sospeso al di sopra di ogni cosa, ma sempre rigidamente squadrato, come tutto il resto, e saldamente racchiuso in un fregio ligneo a disegni geometrici di una pallida tinta oro e ocra. Guardare il cielo dal cortile era un'esperienza travolgente. All'inizio, sembrava tenuto a bada da quella cornice squadrata fatta da mani d'uomo. Ma poi il movimento delle stelle del primo mattino, col loro progressivo dissolversi nelle profondita' del blu e del bianco, si faceva cosi' intenso che dava un senso di vertigine. Di fatto, in certi giorni, specialmente d'inverno - quando i raggi porpora e rosa shocking del sole scacciavano a forza dal cielo le ultime stelle che si ostinavano a brillare - si poteva facilmente restarne ipnotizzati. Con la testa piegata all'indietro, a faccia a faccia con quel cielo squadrato, veniva voglia di andare a dormire, ma proprio allora il cortile iniziava a riempirsi di gente che giungeva da ogni parte della casa: dalle porte, dalle scale... oh, quasi dimenticavo le scale. Situate ai quattro angoli del cortile, erano importanti perche' su di esse perfino gli adulti potevano giocare a una sorta di gigantesco nascondino, correndo su e giu' per i lucidi gradini verdi. Di fronte a me, dal lato opposto del cortile, c'era il salone dello zio e di sua moglie, e dei loro sette figli, che era la riproduzione esatta del nostro. La mamma non permetteva alcuna distinzione che fosse pubblicamente visibile fra i due saloni, nonostante lo zio fosse il primogenito e, pertanto, secondo la tradizione, gli spettassero appartamenti piu' ampi e lussuosi. Lo zio non era soltanto piu' ricco e piu' anziano di mio padre; aveva anche una famiglia piu' numerosa. Noi - io, mia sorella, mio fratello e i genitori - arrivavamo a cinque. La famiglia dello zio era a quota nove (o dieci, contando la sorella di sua moglie che spesso veniva in visita da Rabat, e che, da quando suo marito aveva preso una seconda moglie, a volte si tratteneva anche per sei mesi di fila). Ma mia madre, che detestava la vita comunitaria dell'harem e sognava un eterno ''tete-a'-tete'' con mio padre, aveva accettato quella che chiamava una sistemazione critica (azma) solo a condizione che non venisse fatta alcuna distinzione fra le mogli: nonostante la disparita' di rango, avrebbe goduto gli stessi privilegi della cognata. Lo zio rispettava scrupolosamente questo accordo perche', in un harem ben condotto, piu' si ha potere, piu' si deve agire con generosita'. Lui e i suoi figli, in fin dei conti, avevano piu' spazio, ma solo ai piani alti, lontano dal cortile, spazio pubblico per eccellenza. Il potere non ha bisogno di manifestazioni eclatanti. Nostra nonna paterna, Lalla Mani', occupava il salone alla mia sinistra. Andavamo da lei solo due volte al giorno, una al mattino e una alla sera, per baciarle la mano. Come tutti gli altri saloni, il suo era arredato con divani e cuscini tappezzati in broccato di seta, disposti lungo tutte e quattro le pareti; un grande specchio, al centro, rifletteva l'interno della porta principale con i suoi drappeggi sapientemente studiati, e un pallido tappeto a fiori copriva tutto intero il pavimento. Non ci era permesso, per nessuna ragione, camminare su quel tappeto con le babbucce, e men che meno con i piedi bagnati, cosa assai difficile da evitare d'estate, quando il selciato del cortile veniva rinfrescato due volte al giorno con l'acqua della fontana. Le donne piu' giovani della famiglia, come mia cugina Shama e le sue sorelle, amavano assolvere quell'incombenza giocando a la piscine, cioe' vuotando secchi d'acqua sul selciato e schizzando "per caso" la persona piu' vicina. Questo, ovviamente, incoraggiava i bambini piu' piccoli, nella fattispecie, io e mio cugino Samir, a correre in cucina e ritornare armati con la canna dell'acqua. Quindi mentre tutti urlavano e tentavano di farci smettere, procedevamo a un sistematico lavoro di schizzatura. Gli strilli finivano inevitabilmente per disturbare Lalla Mani', che, alzando con stizza le sue tende, minacciava di andare a lamentarsi dallo zio e da papa' quella sera stessa. "Diro' loro che piu' nessuno, in questa casa, ha rispetto dell'autorita'", diceva. Lalla Mani' odiava i giochi d'acqua e i piedi bagnati, e se ci capitava di correre da lei per dirle qualcosa dopo essere stati vicini alla fontana, ci ordinava sempre di fermarci la' dove eravamo. "Non parlarmi con i piedi bagnati", diceva, "vai prima ad asciugarteli". Per quanto la riguardava, chiunque violasse la Legge dei Piedi Asciutti e Puliti veniva stigmatizzato a vita, e se avessimo osato procedere oltre, fino a insozzarle il tappeto a fiori, il nostro atto di insubordinazione ci sarebbe stato rammentato per molti anni a venire. Lalla Mani' gradiva essere rispettata, vale a dire esser lasciata in disparte, elegantemente vestita, con il suo copricapo ingioiellato, a sedere e a guardare in silenzio nel cortile. Amava essere circondata da un pesante silenzio. Il silenzio era un lusso: il privilegio di quei pochi eletti che potevano permettersi di tenere lontani i bambini. Infine, sul lato destro del cortile, si trovava il salone piu' ampio e piu' elegante di tutti - il salone degli uomini, dove questi pranzavano, ascoltavano le notizie, concludevano gli affari e giocavano a carte. In teoria, loro erano gli unici della casa ad avere accesso alla grande radio che stava nell'angolo destro del loro salone, custodita in un mobile i cui sportelli venivano chiusi a chiave quando l'apparecchio non veniva utilizzato (fuori, comunque, erano installati degli altoparlanti, perche' tutti potessero sentire). Le uniche due chiavi della radio, mio padre ne era certo, erano sotto controllo suo e dello zio. Tuttavia, cosa alquanto curiosa, quando gli uomini erano fuori, le donne riuscivano regolarmente ad ascoltare Radio Cairo. Shama e mia madre danzavano spesso sulle melodie della radio, cantando con la principessa libanese Asmahan "Ahwa'" (sono innamorata), quando gli uomini non erano in vista. Ed io ricordo la prima volta che le donne usarono la parola kha'in (traditore) per rivolgersi a me e a Samir: quando, a mio padre che ci chiedeva cosa avessimo fatto in sua assenza, raccontammo di aver ascoltato Radio Cairo. La nostra risposta svelo' l'esistenza di una chiave pirata. Piu' specificamente, rivelo' che le donne avevano rubato la chiave per farsene una copia. "Se si sono fatte una chiave del mobile-radio, presto se ne faranno una anche del portone", brontolo' mio padre. Ne nacque un affare di stato, e le donne furono interrogate una per volta nel salone degli uomini. Ma dopo due giorni di indagini, tutto quello che si concluse fu che la chiave doveva essere caduta dal cielo; nessuno sapeva di dove fosse venuta. Ciononostante, una volta che l'inchiesta fu archiviata, le donne se la presero con noi bambini. Dissero che eravamo dei traditori, e che avremmo dovuto essere esclusi dai loro giochi. Era una prospettiva orribile, e noi ci difendemmo spiegando che non avevamo fatto altro che dire la verita'. Mia madre ribatte' che alcune cose erano vere, certo, ma nondimeno si dovevano tacere: dovevano essere tenute segrete. E aggiunse che cio' che si dice e cio' che si tiene segreto non ha nulla a che vedere con le bugie e la verita'. La pregammo di spiegarci dove stava la differenza, ma non seppe tirar fuori una risposta utile. "Devi giudicare da sola l'impatto delle tue parole", disse. "Se quello che dici puo' far male a qualcuno, devi star zitta". Anche quel consiglio non ci fu di nessun aiuto. Il povero Samir, che odiava esser chiamato traditore, si ribello' e grido' che era libero di dire quello che voleva. Io, come al solito, ammirai il suo coraggio, ma rimasi in silenzio. Decisi che, se oltre a dover distinguere tra verita' e bugie (cosa che gia' mi causava non pochi problemi) dovevo anche mettermi a distinguere questa nuova categoria di "segreto", mi sarebbe venuto un gran caos nella testa: era meglio rassegnarmi subito ad essere insultata spesso e abituarmi alla nomea di traditrice. Uno dei miei piaceri settimanali era quello di ammirare Samir che metteva in atto le sue ribellioni contro gli adulti, e sentivo che, se avessi continuato a stare dietro a lui, non mi sarebbe accaduto mai nulla di male. Io e Samir siamo nati nello stesso giorno, in un lungo pomeriggio di Ramadan, con un'ora appena di differenza (1). Lui nacque per primo, al secondo piano, ultimo di sette figli. Io nacqui un'ora piu' tardi, nel nostro salone al pianoterra, primogenita, e sebbene mia madre fosse esausta, insiste' che zie e parenti mi riservassero gli stessi rituali osservati per Samir. Aveva sempre rifiutato la superiorita' maschile come illogica e del tutto antimusulmana - "Allah ci ha creati tutti uguali", era solita dire. E quindi - mi racconto' in seguito - quel pomeriggio la casa vibro' una seconda volta al suono dei tradizionali yu-yu (2) e dei canti di giubilo, tanto che i vicini si confusero e pensarono che in famiglia fossero nati due maschi. Mio padre era fuori di se' dalla gioia: ero tutta paffutella, con una faccia da "luna piena", e decise immediatamente che sarei diventata una gran bellezza. Per stuzzicarlo, Lalla Mani' gli disse che ero un po' troppo pallida, che i miei occhi erano troppo sghembi e i miei zigomi troppo alti, mentre Samir, aggiunse, aveva "una bella tinta dorata, e i piu' grandi occhi color nero velluto che si siano mai visti". Mia madre non disse nulla, ma non appena pote' reggersi in piedi, corse a vedere se davvero Samir aveva gli occhi color nero velluto, e li aveva. Li ha tuttora, ma tutta la morbidezza del velluto scompare quando e' di cattivo umore. Mi sono sempre chiesta se quella sua caratteristica di saltare su e giu' mentre si ribellava ai grandi, non fosse dovuta semplicemente alla sua costituzione mingherlina. Per contro, io ero cosi' grassoccia che neanche mi veniva in mente di saltare quando qualcuno mi infastidiva; anzi, scoppiavo in lacrime e correvo a nascondermi nel caffettano di mia madre. Ma la mamma continuava a ripetermi che non dovevo lasciare a Samir il compito di ribellarsi anche per me: "Devi imparare a gridare e protestare, proprio come hai imparato a camminare e parlare. Piangere davanti agli insulti e' come chiederne ancora". Preoccupata che potessi diventare una donna servile, mia madre, in visita alla sua famiglia per le vacanze estive, chiese consiglio sul da farsi a nonna Jasmina, che era famosa per l'impareggiabile modo con cui sapeva difendere le proprie ragioni. Questa le consiglio' di smetterla di fare paragoni tra me e Samir e di spingermi, al contrario, a sviluppare un atteggiamento protettivo nei confronti dei bambini piu' piccoli. "Ci sono molti modi per creare una forte personalita'", disse la nonna. "Uno e' quello di far sviluppare la capacita' di sentirsi responsabile per gli altri. Essere semplicemente aggressivi, e saltare al collo del vicino ogni volta che ti pesta i piedi, e' un altro modo, ma di certo non e' il piu' elegante. Incoraggiare una figlia a sentirsi responsabile verso quelli piu' giovani che vivono nella sua stessa casa, vuol dire darle spazio per costruirsi la sua forza. Ricorrere a Samir per essere protetta puo' andar bene, ma se lei scoprira' il modo per proteggere gli altri, potra' usare quell'abilita' anche per se stessa". Ma l'incidente della radio rappresento' comunque per me una lezione importante. Fu allora che mia madre mi parlo' della necessita' di masticare le parole prima di dirle. "Rigira ogni parola nella lingua per sette volte, con le labbra ben chiuse, prima di pronunciare una frase", mi disse, "perche' rischi di rimetterci molto, una volta che le parole sono uscite". Piu' tardi mi rammentai che, in una novella delle Mille e una notte, una sola parola detta male poteva portar disgrazia al malcapitato che l'avesse pronunciata facendo indignare il califfo, o il re. Poteva anche capitare che venisse chiamato il sayyaf, il boia. D'altro canto, le parole potevano anche essere la salvezza, per la persona abile a tesserle con arte. Questo e' quanto accadeva a Shahrazad, l'autrice delle mille e una storia. Il re stava per farle tagliare la testa, ma all'ultimo minuto, proprio usando accortamente le parole, lei fu in grado di fermarlo. Non vedevo l'ora di scoprire come avesse fatto. * Note 1. Nel mese sacro di Ramadan, il nono del calendario musulmano, si osserva un digiuno rituale dall'alba al tramonto. 2. Yu-yu e' un grido di gioia con cui le donne celebrano eventi felici, dalle nascite e i matrimoni a fatti piu' spiccioli, come l'aver portato a termine un ricamo, o la festa di una vecchia zia. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 60 del 20 aprile 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1271
- Next by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1272
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1271
- Next by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1272
- Indice: