Nonviolenza. Femminile plurale. 60



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 60 del 20 aprile 2006

In questo numero:
1. Vita Cosentino: Odile Sankara, prima di tutto la vita
2. Un appello per il 50% di donne nelle cariche istituzionali e di governo
3. Fatema Mernissi: Il primo capitolo de "La terrazza proibita"

1. ESPERIENZE. VITA COSENTINO: ODILE SANKARA, PRIMA DI TUTTO LA VITA
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso su "DWF", n. 68,
ottobre-dicembre 2005.
Vita Cosentino e' un'autorevolissima intellettuale femminista.
Odile Sankara, nata nel 1964, anno dell'indipendenza del suo paese, il
Burkina Faso, e sorella del presidente Thomas Sankara (ucciso il 15 ottobre
1987), e' artista di teatro e di cinema, promotrice di cultura, operatrice
sociale, suscitatrice di consapevolezza e impegno per i diritti. Un profilo
di Odile Sankara e' in "Nonviolenza. Femminile plurale" n. 29]

Parlare di teatro e di politica, se si tratta di Odile Sankara, significa
per me parlare di un cambiamento. Sento infatti che, nello scambio che
intrattengo da alcuni anni con questa artista africana del Burkina Faso, mi
si sono aperti dei varchi di comprensione, soprattutto riguardo ad alcune
possibilita' politiche preziose in questo nostro tormentato presente. Una
relazione non sempre semplice, per i molteplici piani che si intersecano e
che chiamano prepotentemente in causa il rapporto, cosi' come si e'
costituito storicamente, tra Occidente e paesi poveri africani.
Per farmi intendere, raccontero' un piccolo episodio capitato durante una
recente visita di Odile a Milano, quando venne invitata, nell'aprile 2005,
dalla Libreria delle donne. Eravamo andate, insieme a Luisa Muraro, a tenere
un incontro in una scuola e un ragazzo, incuriosito, le chiese che sogno
avesse da bambina. "Quando ero molto piccola non avevo un sogno" rispose,
"perche' sono stata educata secondo la tradizione della mia etnia Mossi, che
privilegia la comunita' rispetto all'individuo; poi, quando sono andata a
scuola, che in Burkina e' francese per via della colonizzazione, allora si',
avevo un sogno, ed era quello di diventare una grande cantante francese,
come Edith Piaf. Crescendo, pero', ho capito che si trattava di un inganno,
e solo all'universita' ho incontrato la mia strada". In quell'occasione,
Odile ha chiuso l'incontro con una sorprendente considerazione che mi ha
fatto pensare: "Quello che io e il mio paese possiamo dare al mondo
globalizzato di oggi e' un contributo alla spiritualita'".
Quest'ultima affermazione illumina, a mio modo di vedere, tutto il suo
percorso umano e teatrale.
*
Mi occorreranno molte piu' parole scambiate per rendere comprensibile il suo
percorso, come mi e' occorso molto tempo per i lenti avvicinamenti
successivi. E tante domande. Soprattutto un pomeriggio, a casa mia,
trascorso a cercare di capire qualcosa di quello che mi stava dicendo. Come
facciamo noi occidentali - e questo Odile lo apprezza molto - mi sono
aiutata con i libri, in particolare due. Il primo e' stato L'Afrique au
secours de l'Occident, per ora disponibile solo in francese, scritto da
Anne-Cecile Robert, che insegna all'universita' di Parigi 8 e collabora a
"Le Monde Diplomatique". La sua tesi di fondo e' che il preteso "ritardo"
dell'Africa potrebbe essere l'espressione di una formidabile resistenza
culturale a un modello economico devastante. Sarebbe piuttosto l'Occidente
ad aver bisogno di aiuto, e il patrimonio culturale africano potrebbe
venirgli in soccorso. Odile mi ha poi consigliato di leggere A quando
l'Africa? di Joseph Ki Zerbo, un intellettuale, uno storico e un uomo
d'azione del Burkina che da quaranta anni si batte per lo "sviluppo
endogeno".
Dice un proverbio africano citato nel libro, "non si puo' pettinare qualcuno
in sua assenza". "Non dovrebbero essere gli Europei a spingere per la
crescita dell'Africa" - spiega Odile - "Quest'esigenza dovrebbe partire da
noi africani, dalla nostra volonta' e capacita' di tracciare la nostra
strada nel mondo senza che siano altri a indicarcela".
La consapevolezza che lo sviluppo del suo paese non puo' e non deve avvenire
a imitazione del modello occidentale ha profondamente a che fare con il suo
impegno nel teatro.
Il perche' lo ha spiegato, con la consueta capacita' di ricorrere a immagini
semplici e incisive, durante un incontro in Libreria, raccontando che le e'
capitato di vedere, in villaggi dispersi nella savana, bambini che
indossavano vestiti con i colori della bandiera americana. "Di fatto, esiste
un contrasto fra i due modelli, occidentale e africano, ma fortunatamente ci
sono ancora, in Burkina, degli uomini e delle donne che s'impegnano perche'
il nostro patrimonio culturale e la ricchezza delle nostre tradizioni non
vengano cancellati" dice. "Mi chiedo pero' quante persone possano capire il
vero significato nascosto dietro a tutto questo, quanta gente si renda conto
della necessita' vitale di mantenere ben salde le nostre radici africane.
Noi, tramite il teatro, riprendiamo i racconti tradizionali proprio con
l'intenzione di riproporre, grazie ai loro contenuti, tutti i valori di un
paese, della storia di un popolo, di un continente intero, soffermandoci
sugli insegnamenti, sui principi educativi, affinche' da questi si possano
trarre immagini di una societa'".
*
Odile fa notare che le attuali politiche africane non fanno nulla per
impedire l'influenza occidentale e sostiene che "se la politica cerca nei
valori tradizionali, trovera' delle cose a cui appoggiarsi per armonizzare
la societa' moderna". Ma quando le si chiede se fa politica, risponde di no,
intendendo che non riveste cariche politiche ufficiali. In realta', nel 1992
ha fondato l'Associazione "Talents de femmes" per promuovere l'eccellenza
femminile nelle arti dello spettacolo e nell'artigianato. L'Associazione -
che e' composta principalmente da donne ma non preclude la partecipazione
agli uomini - in questi anni ha messo in scena testi teatrali, ha promosso
Giornate delle donne delle arti dello spettacolo e organizza stabilmente,
ogni due anni, "Voix de Femmes", evento noto in tutta l'Africa.
Quando l'ho sentita per la prima volta usare la parola "valori", e per di
piu' associata a "tradizionali", ho fatto un piccolo sobbalzo, perche' e' un
concetto che, qui da noi, suona piuttosto moralistico; ma il problema che
sta a cuore a Odile e' cruciale. Si tratta di un argomento ben delineato
anche nel libro della Robert: le elite politiche africane di parecchi paesi
rifiutano i valori e le forme tradizionali dell'organizzazione sociale e
politica a favore dei modi della democrazia occidentale (tribunali, diritti
ecc.). La centralita' di questa posizione mi e' apparsa chiara quando
l'autrice porta nel suo libro l'esempio di Nelson Mandela, che in un suo
scritto esplicita come la palabre - cioe' il cerchio tradizionale sotto
l'albero in cui chi vuole parlare puo' farlo - abbia influenzato la sua
concezione del potere. All'improvviso ho capito da dove veniva quella
straordinaria invenzione politica che e' stato il processo di
riconciliazione in Sudafrica, in cui e' stata data la parola sia alle
vittime che ai carnefici. Certo non e' stata la riproposizione diretta della
tradizione; e' qualche cosa di nuovo, un'invenzione, ma che trova la sua
radice nella tradizione africana.
Forse e' proprio questo che dobbiamo imparare dall'Africa. La nostra e' una
civilta' basata sulla scrittura, e spesso ci sfugge il fatto che nelle
civilta' orali la questione del potere si organizza in modo differente,
perche' la scrittura cambia il significato delle norme e del vivere comune e
crea un universale astratto. Secondo la Robert, in Africa la palabre e' una
"forma specifica di mediazione", una forma di potere parallelo (L'Afrique,
p. 120). Nelle societa' a tradizione orale tutto rimane piu' fluido. Credo
che Odile abbia in mente proprio questo, quando parla di "armonizzare la
societa' moderna". Di sicuro non e' contro di essa, ma neppure accetta tutto
quello che propone. Assume questo stesso atteggiamento verso usi e costumi
dell'Occidente, verso la societa' francese, in cui ogni anno passa alcuni
mesi, invitata a tenere corsi di teatro, a Belfort.
Sulla necessita' di fare riferimento alla tradizione, Odile si richiama a
suo fratello per parte di padre, Thomas Sankara, amato presidente del
Burkina dal 1983 al 1987, che fu tragicamente ucciso dopo essere stato
protagonista di un tentativo rivoluzionario oggi molto studiato e riproposto
in due spettacoli teatrali in corso di realizzazione in Francia e in Italia.
"Si pensa sempre alla tradizione come a qualcosa fuori moda" dice Odile, "ma
se Thomas vedeva le cose in quel modo e pensava quelle cose, e' proprio
perche' e' nato nella tradizione. Noi non siamo della citta', siamo
cresciuti nel rispetto e nella conoscenza della tradizione". Thomas Sankara
parlava di decolonizzare la mente, e Odile, riferendosi al fratello,
continua: "Sosteneva l'idea di 'sprigionare' le persone dalla loro stessa
testa, di farle uscire dall'incastro in cui finiscono per mettersi, di
convincerle che e' importante occuparsi di se', prendere la parola ed essere
responsabili di se stessi".
*
Quando eravamo a casa mia, le ho chiesto che cosa significhi vivere e
crescere secondo la cultura mossi. I Mossi sono una delle 60 etnie che
costituiscono il Burkina. Me ne ha parlato a lungo e l'elemento di fondo che
ho colto dalle sue parole e' una dimensione di sacralita' che aderisce agli
aspetti materiali della vita e ai rapporti umani. "L'educazione, per un
Mossi, e' dare un valore alle cose, alla comunita' e all'individuo come
parte integrante di essa, a tutto cio' che rappresenta il villaggio, ai
sacrifici, alle cerimonie e ai riti... Nella comunita' mossi c'e' molto
rispetto per tutto cio' che e' ritenuto sacro, per cui se, per esempio, al
villaggio un pozzo viene considerato pubblico e tutti ne possono attingere
l'acqua, nessuno vi si avvicinera' con l'intenzione di sputarci dentro. Non
si possono saccheggiare i beni altrui, non si puo' andare nel campo di un
altro e rubargli il raccolto solo per invidia o gelosia. Se ci sono dei
feticci o dei luoghi di culto, nonostante io non condivida certi riti,
rispetto comunque il luogo e lo considero sacro, perche' cosi' va
considerato, perche' cosi' e' deciso da generazioni da tutti; il carattere
sacro e' fondamentale e dobbiamo rispettarlo".
L'altro valore centrale all'interno della cultura mossi e' quello
dell'integrita'. "Se faccio parte di una famiglia mossi, anche se la mia
famiglia e' povera e non ho la possibilita' di mangiare, devo mantenere un
atteggiamento fiero, essere fiera di portare il mio cognome, Sankara, o
Kabore' o Ouedraogo, perche' rappresenta un'intera comunita', la storia di
un popolo; e per questo non posso uscire di casa e lamentarmi della mia
condizione, ma devo fare di tutto per migliorare lo stato in cui si trova la
mia famiglia, lavorando, impegnandomi come posso. Anche il lavoro e' un
valore che da' dignita' a un essere umano". L'idea dell'integrita' e' stata
felicemente ripresa in Burkina Faso negli anni della presidenza Sankara,
tanto che lo stesso nome del Paese, che ha sostituito quello di Alto Volta,
dato dai colonizzatori, significa "Paese degli uomini integri".
Odile vuole rimanere fedele alla sua radice culturale, ma in modo dinamico.
Quando, in Libreria, le abbiamo chiesto quali sono i nuovi valori che
l'Africa cerca, indipendentemente dall'influenza occidentale, ha risposto:
"Credo che da noi il sapere venga considerato un valore importante perche',
se si e' istruiti, si ha la possibilita' di scegliere. Un altro valore
importante e' quello del ridere, del riuscire a sorridere nonostante la
poverta', nonostante le mille difficolta'. Ritrovare la forza per sorridere
della vita significa darsi forza ed essere comunque soddisfatti; dietro a
questo si nasconde il valore dell'integrita', che e' nato soprattutto
durante la rivoluzione e che fino a oggi ha distinto il mio popolo, per cui
ogni burkinabe' e' fiero di sentirsi tale".
Dell'integrita', Odile fa una regola interiore di vita. Per lei, per
esempio, "la promessa e' sacra". A volte ha rinunciato a proposte piu'
vantaggiose o prestigiose, pur di non venire meno all'impegno preso con i
suoi corsisti di Belfort. Di tutto questo, qualcosa traluce dal suo
contegno, dal suo portamento, dal suo modo di parlare, tanto che si ha
l'impressione di avere a che fare con una regina; questa, almeno, e' stata
l'impressione che ha fatto a molte di noi quando Serena Sartori - un'amica
regista teatrale che lavora spesso in Africa - ce l'ha fatta conoscere una
sera, in Libreria.
*
Il suo stesso fare teatro e' attraversato dalla contraddizione politica tra
Occidente e paesi africani. Il Burkina e' un paese molto povero e gran parte
dei progetti, anche teatrali, che la' si realizzano, vengono finanziati da
paesi occidentali; questo crea spesso forti ambiguita' e ulteriori problemi,
"perche' in Burkina ci sono tanti registi stranieri che vengono come dei
rapaci, per saccheggiare l'Africa degli attori africani proponendo dei
progetti magari ben remunerati ma con contenuti e qualita' decisamente
scarsi". Un'altra contraddizione molto presente a Odile e' rappresentata dal
fatto che, con i forti finanziamenti da parte delle Ong, si fa del teatro
una forma di intervento sociale. Mi ha parlato piu' volte di una troupe
molto conosciuta che fa teatro-forum in Burkina, ispirandosi ad Augusto
Boal - il regista che ha fondato un movimento teatrale nel dopoguerra - per
affrontare temi politici e sociali, come per esempio i matrimoni forzati e
l'escissione. Odile non condivide un simile approccio: "Non credo che questa
forma di teatro sia arte, perche' non c'e' dietro un lavoro d'attori, non
c'e' una creazione alle spalle; risulterebbe uguale se prendessi tre persone
del villaggio e le portassi in piazza per fare un discorso politico. Pur
rispettando molto l'utilita' del lavoro che viene fatto, non potrei
accettare di partecipare a iniziative del genere, perche', come attrice,
perderei significato, non esisterei. In questo modo non si valorizza
l'attore africano, che resta poco considerato e non viene valutato
professionalmente, alimentando il preconcetto che e' poco artista, che
accetta qualsiasi ruolo solo per i soldi. Preferirei che si creassero dei
progetti in cui venisse valorizzata la qualita', la professionalita',
integrando anche i valori della tradizione e i risultati della riflessione
continua e profonda che sempre occorre fare di fronte a un testo".
Queste ultime frasi delineano la strada su cui sta camminando Odile, che mi
ha raccontato la sua esperienza. "Quando ho cominciato con il teatro, ho
avuto la fortuna di incontrare un regista africano veramente bravo che
ancora oggi fa parte della compagnia; sin dall'inizio ci ha consigliato di
lavorare duro, di non mollare, e ci ha ripetuto che se avessimo continuato a
dare importanza ai contenuti, alla formazione, saremmo riusciti un giorno a
vivere del nostro mestiere. La Compagnie de Seeren (fioritura) e' nata alla
fine del 1990, grazie al direttore che gia' aveva fatto diverse esperienze
in Francia e che, una volta tornato in Burkina, aveva deciso di mettere a
frutto tutte le conoscenze acquisite in un nuovo progetto. Appena creata la
compagnia, chiari' immediatamente che si trattava di un lavoro professionale
e che tutti coloro che accettavano l'impegno dovevano fare del teatro un
mestiere, dedicandosi solo a quello. Fu una presa di posizione innovativa
che, per certi versi, suscito' scandalo e molte critiche, perche' era la
prima volta che in Burkina si parlava del teatro come di un vero e proprio
mestiere; fino ad allora, nel mio paese, non veniva considerato come un
lavoro vero e proprio".
*
Odile e' completamente calata nelle contraddizioni del presente, e sa che si
tratta di una lotta sempre aperta. "Oggi e' difficile, la gente rinuncia ai
propri principi per i soldi, per guadagnare il potere, e spesso si scende
troppo a compromessi a discapito dei propri valori. E' difficile lottare
contro questa situazione, perche' si tratta di un sistema mondiale. L'unica
cosa che posso fare, nel mio piccolo, e' dare l'esempio, senza esiliarmi in
Europa. Vengo, si', in Europa per conoscere, per imparare, e poi reinvesto
cio' che ho appreso nel mio paese, per il mio paese. E' l'unica maniera che
ho per partecipare al cambiamento, per essere d'esempio per le persone che
mi sono vicine, con le quali posso discutere... Altrimenti non si puo' far
nulla per arrestare il meccanismo in atto".
Devo, a questo punto, ma non e' una digressione, allargare il contorno,
popolarlo. Odile, infatti, non e' sola nella sua lotta, perche' lo stesso
approccio e' condiviso dalle sue compagne Marceline Compaore' e Leontine
Ouedrago, con cui nel 1992 ha fondato l'Associazione. Inoltre Odile ha, a
sostenerla, quel che di straordinario che attraversa il suo paese e il
continente africano. A sud del Mali, nell'arido Sahel, con dieci milioni di
abitanti, il Burkina e' di primo acchito sconcertante: quanto e' povero di
beni materiali tanto e' ricco di amore per la cultura. A chi vi si avvicina
viene spontaneo parlarne come di un miracolo, proprio come fa Lila Azam
Zanganeh in un articolo comparso su "D donna di Repubblica", in cui racconta
l'edizione di quest'anno del "Festival Panafricano del Cinema" (Fespaco) che
dal 1966 si tiene ogni due anni nella capitale. Lo descrive come un
miracolo, in vari sensi: Ouagadougou, citta' sofferente e povera, e'
riuscita a diventare la sede della piu' grande e interessante manifestazione
culturale di tutta l'Africa, a cui accorrono critici e gente di cinema anche
dall'Europa e dall'America; inoltre, grazie a questo evento, per sette
giorni l'Africa diventa "visibile", si sottrae all'immagine che ne
propongono i mass-media occidentali, fatta di massacri, aids, guerre
tribali. Certo, i film in concorso si fanno spesso specchio di fatti
tragici, ma li raccontano dando "un volto piu' umano all'oscurita', nella
percezione collettiva, di questo continente continuamente devastato dalle
guerre" scrive Lila Azam Zanganeh. "Ogni film riesce ad afferrare un suo
frammento di verita' e a illuminarlo con una scintilla di poesia". Cita poi
un testo che mi e' molto piaciuto per dire che continuare a essere poeta in
circostanze difficili e' anche raggiungere il cuore della politica perche' i
sentimenti, le esperienze umane, ritrovano un posto di primo piano.
Che ci sia un cuore della politica che sta nel cuore degli esseri umani e'
particolarmente vero per il Burkina, in cui ha continuato a tessersi un filo
sotterraneo che dopo la morte del presidente Sankara non si e' piu' fermato
e che si manifesta come amore per la cultura, per il sapere, coinvolgendo
tutta la popolazione, dalle donne artiste ai contadini dei villaggi.
*
Odile e le sue compagne dell'Associazione sono espressione di questo "cuore
della politica" e in piu' di un decennio hanno delineato una loro strada di
liberta', che si puo' sintetizzare nel prendere la parola. In questo, Odile
segna una differenza anche rispetto a suo fratello. Nel corso di un incontro
pubblico, ricordando il grande impegno di Thomas per l'emancipazione
femminile, ha raccontato come questa sensibilita' gli venisse dall'aver
assistito troppe volte alle sofferenze della madre a causa del marito, suo
padre, un uomo molto patriarcale, e gli ha avanzato una velata critica,
dicendo che "in Africa non si puo' andare in fretta, e qui si parla di un
cambiamento molto profondo e radicale di mentalita'". Le stesse vicende
biografiche di Odile mostrano questa verita'. Conversando a casa mia, mi ha
raccontato che lei stessa, nonostante facesse l'universita', durante la
rivoluzione non si sentiva di partecipare agli incontri pubblici, come altre
donne hanno fatto, e preferiva tornare a casa ad aiutare nelle faccende
domestiche. Pur essendo d'accordo su tutto, preferiva tenersi in disparte e
non farsi coinvolgere. Mi ha spiegato che si comportava cosi' per il peso -
negativo, in questo caso - della tradizione, quello stesso per cui da
bambina non aveva un sogno: l'individuo viene sopraffatto dalla comunita' e,
per una donna, non e' prevista la partecipazione a una discussione pubblica.
Mi spiegava di aver trovato la sua indipendenza, la sua consapevolezza e la
fiducia in se stessa - in breve, la sua strada per la liberta' - grazie al
teatro, che ha incontrato per caso quando frequentava l'universita'. "Con il
tempo ho scoperto che quello che facevo mi piaceva e mi veniva naturale, e
il teatro e la recitazione sono diventati per me un'arma per esistere in
quanto donna. Nelle comunita' tradizionali, la parola e' consacrata ai
saggi, agli anziani, al capo del villaggio. Cosi' mi sono detta: il teatro
e' un mezzo di espressione, con il teatro posso dire delle cose, recitare
sulla scena e dire delle cose liberamente".
Il teatro - che si fa "luogo di dibattito pubblico" - le permette di
discutere, di entrare in contatto con la gente di citta' e di villaggio.
"Dal punto di vista delle sue manifestazioni, il teatro trasmette la stessa
vitalita' che si respira nei villaggi, come se si trattasse di un
matrimonio, o di una veglia. Non e' come in Occidente, dove si presta grande
attenzione al rigore, al rispetto del testo, alla dizione; per noi,
all'interno delle nostre creazioni, e' prioritaria la vita. Il divertimento
sale ma, a un tratto, il pubblico non ride piu': e' in quel momento che
inizia a riflettere".
Pur privilegiando, nel fare teatro, i racconti tradizionali, sia in "Talents
de femmes" che nella sua compagnia teatrale, Odile non esclude altre fonti
di ispirazione come romanzi e testi classici. "Nel '96 abbiamo messo in
scena il nostro primo spettacolo, Les Co-epouses dell'algerina Fatima
Gallaire, testo di un certo impatto sul pubblico, visto che parla della
coalizione delle mogli che sottomettono il marito poligamo" racconta.
"Abbiamo anche analizzato dei testi classici. Recentemente abbiamo lavorato
su un testo di Pasolini, Pilade; l'abbiamo realizzato in Burkina, dopo una
breve formazione a Parigi. La scelta, ovviamente, non e' stata casuale,
visto che nella trama si toccano tematiche molto vicine alla realta'
politica africana di oggi. In Pilade viene sottolineata la relazione fra
potere, sangue e crimine, e si analizza come, per raggiungere il potere,
spesso, di fatto, si debba passare attraverso lo spargimento di sangue e il
crimine. Un argomento d'evidente attualita', nell'Africa odierna".
Odile fa conto sulla forza dell'oralita' che "porta a una riflessione
profonda, che suscita domande e interrogazioni sul proprio comportamento,
sull'agire interno della collettivita'. La nostra battaglia" dice, "serve
proprio per ridare valore alla parola, rendere ancora sacra l'arte della
parola, dell'oralita'".
*
Apparentemente in contraddizione con il forte accento che pongono
sull'oralita' e con la tradizione culturale in cui sono immerse, le donne
dell'Associazione "Talents de femmes" danno molta importanza alla scrittura.
Odile e le sue compagne ritengono che si tratti di una strada di liberta'
femminile, oltre a un modo per custodire il sapere degli anziani, che
rischia di perdersi nello sviluppo della societa' africana. In un incontro
pubblico, dopo aver ricordato che lo scrittore africano Amadou Hampate' Ba
sostiene che "quando in Africa muore un vecchio e' come se bruciasse una
biblioteca", Odile ha avanzato una considerazione: "per me, il luogo della
scrittura resta il luogo della liberta' d'espressione. Dopo ci potra' essere
la censura, ma intanto qualcosa e' stato pensato e tradotto in scrittura.
Per molti paesi questo e' molto importante, e' una presa di coscienza e
padronanza di se'". A quell'incontro era presente anche Leontine, che ha
aggiunto: "Abbiamo voglia di parlare e abbiamo delle cose da dire. Spesso
capita che in presenza degli uomini le donne tacciano. Tuttavia, quando
abbiamo un pezzo di carta e una penna in mano, allora parliamo; con la
scrittura, le donne possono parlare di tutto quello che vogliono".
Il rapporto tra la Libreria delle donne di Milano e l'associazione "Talents
de Femmes" e' nato proprio per sostenere un loro progetto, quello di creare
delle giovani scrittrici in Burkina attraverso un concorso letterario per le
scuole superiori. Luisa Muraro e io abbiamo fatto in modo che il progetto
concorresse al Premio "Grazia Zerman", e ha ottenuto un finanziamento. Da
quel momento, e' cominciata una relazione che si va rafforzando, attrae
altre donne della Libreria e non smette di farci pensare. Nel 2004 c'e'
stata la prima edizione del concorso letterario "Voix de Femme - Grazia
Zerman", a cui hanno partecipato piu' di duecento ragazze burkinabe'. In
questi mesi e' in preparazione la seconda edizione, che si concludera' nel
febbraio 2006.
Riporto un passo del progetto, quello che piu' ci ha colpite perche' fa
vedere la scelta di queste donne - pienamente consapevoli dei drammatici
problemi del loro Paese - di adottare come strategia politica la strada
della scrittura: "'Se anche avete un solo dente, fate che sia di un bianco
perfetto' dice il proverbio. Nelle donne burkinabe' la passione per la
scrittura esiste, questo e' molto importante; si tratta ora di trovare dei
quadri, un inquadramento affinche' esse possano dare il meglio di se stesse.
E' in questo contesto e in questa prospettiva che l'Associazione 'Talents de
Femmes', fedele ai suoi obiettivi, vorrebbe contribuire all'emergere della
parola scritta femminile. La donna non ha forse una sensibilita' che le e'
propria, con la quale e' tenuta a contribuire alla costruzione del pensiero
nazionale? In altre parole, puo' esistere un pensiero nazionale senza
l'apporto della donna? Indubbiamente la ragazza burkinabe' ha problemi che
possono essere giudicati prioritari: la scolarizzazione, l'educazione, la
lotta contro le malattie sessualmente trasmissibili, il dramma delle ragazze
madri... Tutti questi problemi, vissuti spesso in un drammatico silenzio,
situano la giovane donna nel punto d'incrocio dei mali sociali del nostro
tempo. E' una ragione in piu' per dare la parola a queste vittime perche',
come dice Edmonde Jabes, praticare la scrittura e' praticare nella propria
vita un'apertura da cui la vita si fara' testo".
Lo sviluppo ulteriore di questo progetto prevede una formazione piu'
approfondita per le vincitrici, la pubblicazione dei testi migliori e il
trarne materia per messe in scena teatrali. Da questi lavori e dalle altre
attivita' di "Talents de femmes" passa, per Odile, la possibile rottura, che
e' gia' in atto, con gli aspetti della tradizione che pesano malamente sulla
vita delle donne. Il lavoro dell'Associazione e la sua stessa figura sono su
un crinale difficile tra amore della tradizione e cambiamenti anche duri da
fare: forse l'emblema di questa difficile posizione e' che hanno adottato il
francese, la lingua dei colonizzatori.
"Negli scritti delle ragazze che hanno partecipato al Concorso letterario
emergono dei temi e delle liberta' che vengono con forza rivendicate in
contrasto con la tradizione stessa. Oggi bisogna iniziare a rendersi conto
che ci sono delle pratiche della tradizione che sono superate, che oramai
non possono piu' coesistere con la realta' e lo sviluppo della societa'...
Per esempio, se consideriamo l'escissione, non ci si chiede perche'
realmente la si pratichi ma la si continua a proporre come rito sacro,
perche' da generazioni viene considerato tale e se non si dovesse fare si
sarebbe puniti dalla divinita'... Oggi si sono gia' messi in discussioni
certi riti quali i matrimoni forzati, dove la donna e' semplicemente un
oggetto di scambio, e si lotta perche' la donna, tramite la scolarizzazione,
possa ottenere uno spazio all'interno della societa' pubblica... Tutti
questi comportamenti ed argomenti vengono ripresi negli incontri che
organizziamo con 'Talents de femmes', perche' la donna possa comprendere il
significato di tali comportamenti e inizi a raggiungere una certa
consapevolezza, una coscienza per lottare per i propri diritti; la stessa
possibilita' di prendere la parola e potersi esprimere diventa un mezzo
fondamentale attraverso il quale si puo' assistere a un cambiamento che ha
origine proprio da una nuova coscienza e spinta".
*
Odile e' una donna bella, elegante, fiera, un'artista coraggiosa, capace di
tenere assieme liberta', cambiamento e tradizione culturale. Io sto
continuando a imparare da quello che mi racconta di se', della sua vita,
delle sue idee; e quello che posso fare io, con la mia povera penna, le mie
povere forze, e' cercare di parlare di lei nel rispetto della sua
differenza.
*
Bibliografia
- Robert, Anne-Cecile, L'Afrique au secours de l'Occident, Les Editions de
l'Atelier, Paris 2004.
- Zerbo, Joseph, A quando l'Africa?, Emi, Bologna 2005.
- Azam Zanganeh, Lila, Miracolo a Ouagadougou, in "D donna di Repubblica", 5
aprile 2005.

2. APPELLI. UN APPELLO PER IL 50% DI DONNE NELLE CARICHE ISTITUZIONALI E DI
GOVERNO
[Dall'Udi (Unione donne in Italia) (per contatti: udinazionale at tin.it)
riceviamo e volentieri diffondiamo il seguente invito delle promotrici
dell'appello "50 e 50 il paese che ci sara'"]

Carissime,
continuano a giungere firme di adesione (oltre cinquecento) al nostro
documento ["50 e 50 il paese che ci sara'", apparso anche su "La nonviolenza
e' in cammino" n. 1213 - ndr] ed intendiamo incontrarci quanto prima per
decidere le modalita' e le forme della nostra partecipazione alla
costruzione di quel discorso e quello spazio politico nuovo per il quale ci
sentiamo impegnate.
Tanto piu' ora che, con la vittoria ai punti del centrosinistra e
l'atteggiamento provocatorio del centrodestra, la situazione si fa delicata
e necessita di tutta la nostra presenza attiva.
Nel frattempo riteniamo che sarebbe opportuno inviare a Prodi la maggior
quantita' di messaggi per esplicitare che le donne ci sono, partecipano,
vigilano, giudicano, prestando la massima attenzione a quello che sta
accadendo anche in questi giorni di interregno.
I messaggi possono essere o lo stesso o simili a quello che abbiamo gia'
inviato e che riportiamo qui di seguito, con firme singole, o piu' di una.
Purche' ne ricevano.
*
"Ci associamo alla domanda che sta crescendo sempre piu' nel Paese, che si
diano subito segnali significativi di rinnovamento a cominciare dalla
presenza del 50% di donne nelle cariche istituzionali e di governo".
I messaggi vanno indirizzati a info at unioneweb.it
*
Affettuosi saluti,
Lidia Campagnano, Francesca Koch, Pina Nuzzo, Patrizia Politelli

3. TESTI. FATEMA MERNISSI: IL PRIMO CAPITOLO DE "LA TERRAZZA PROIBITA"
[Da Fatima Mernissi, La terrazza proibita. Vita nell'harem, Giunti, Firenze
1996, 2001, riportiamo il primo capitolo "I confini del mio harem". Fatema
Mernissi (ma il nome puo' essere traslitterato anche in Fatima) e' nata a
Fez, in Marocco, nel 1940, acutissima intellettuale, impegnata per i diritti
delle donne, docente universitaria di sociologia a Rabat, studiosa del
Corano, saggista e narratrice; tra i suoi libri disponibili in italiano: Le
donne del Profeta, Ecig, 1992; Le sultane dimenticate, Marietti, 1992;
Chahrazad non e' marocchina, Sonda, 1993; La terrazza proibita, Giunti,
1996; L'harem e l'Occidente, Giunti, 2000; Islam e democrazia, Giunti, 2002;
Karawan. Dal deserto al web, Giunti, 2004. Il sito internet di Fatema
Mernissi e' www.mernissi.net]

Venni al mondo nel 1940 in un harem di Fez, citta' marocchina del nono
secolo, cinquemila chilometri circa a ovest della Mecca e solo mille
chilometri a sud di Madrid, una delle temibili capitali cristiane.
Mio padre era solito dire che con i cristiani, e con le donne i guai nascono
quando non vengono rispettati i hudud, ovvero i sacri confini. Al tempo in
cui nacqui, dunque si era in pieno caos, perche' ne' donne ne' cristiani
volevano saperne di accettare confini. E questo era evidente gia' sulla
soglia di casa, dove le donne dell'harem discutevano e si accapigliavano con
Ahmed, l'uomo a guardia della porta, mentre per strada sfilavano i soldati
stranieri che continuavano ad arrivare dal nord e che si erano stabiliti
proprio in fondo alla nostra via, tra i quartieri vecchi e la Ville
Nouvelle, la citta' nuova che si stavano costruendo.
Secondo mio padre, non era un caso che Allah, creando la terra, avesse
separato uomini e donne, e messo un mare a dividere cristiani e musulmani.
L'armonia esiste quando ogni gruppo rispetta i limiti dell'altro
conformemente a quanto prescritto; passare quei limiti conduce solo al
dolore e all'infelicita'.
E invece le donne, ossessionate dal mondo al di la' della soglia di casa,
altro non sognavano che di oltrepassarla, e andare a passeggio per vie
sconosciute, mentre i cristiani seguitavano ad attraversare quel mare,
portando disordine e morte. Sciagura e vento freddo vengono dal nord; e noi
preghiamo rivolti verso l'est. La Mecca e' lontana. La tua preghiera puo'
giungere fin la', ma devi sapere come concentrarti. A tempo debito, mi
avrebbero insegnato a concentrarmi.
I soldati spagnoli si erano accampati a nord di Fez. Zio 'Ali' e mio padre,
che in citta' erano tanto potenti e in casa davano ordini a tutti, dovevano
chiedere il permesso a Madrid, se volevano recarsi alla festa religiosa di
Mawlay 'Abdelsalam, vicino a Tangeri, a trecento chilometri di distanza. Ma
quei soldati fuori dalla nostra porta appartenevano a un'altra tribu':
quella dei francesi, cristiani come gli spagnoli, ma che parlavano un'altra
lingua e vivevano ancora piu' a nord. La loro capitale si chiamava Parigi e,
nei calcoli di mio cugino Samir, doveva trovarsi a duemila chilometri da
noi, due volte piu' lontana di Madrid, e due volte piu' feroce. Come i
musulmani, i cristiani avevano l'abitudine di combattersi tra di loro; e
ogni volta che spagnoli e francesi varcavano il nostro confine, per poco non
si ammazzavano a vicenda. Quando fu chiaro che nessuno dei due era in grado
di sterminare l'altro, presero la decisione di tagliare in due il Marocco.
Misero dei soldati dalle parti di Arbawa e dissero che, da allora in poi,
chi andava a nord doveva avere un lasciapassare perche' attraversava il
Marocco spagnolo, e chi andava a sud doveva avere un altro lasciapassare,
perche' entrava nel Marocco francese. Chi non era d'accordo, rimaneva
bloccato ad Arbawa, luogo arbitrario, dove una lunga sbarra - messa li'
appositamente - veniva chiamata confine. Eppure il Marocco, diceva mio
padre, esisteva indiviso da secoli, anche da prima dell'avvento dell'lslam,
cento e quaranta decenni or sono. Nessuno aveva mai sentito parlare di una
linea che dividesse in due il paese. Il confine era una linea invisibile
nella mente dei guerrieri.
Il cugino Samir, che a volte accompagnava lo zio e papa' nei loro viaggi,
diceva che, per creare un confine, tutto quello che serve sono soldati che
costringano la gente a crederci. Nel paesaggio di per se' non cambia nulla.
Il confine sta nella mente di chi ha il potere.
Io non potevo andare a verificarlo di persona, perche' lo zio e papa'
dicevano che una donna non deve viaggiare: viaggiare e pericoloso e le donne
non sono in grado di difendersi. In proposito, la teoria della zia Habiba -
la quale era stata ripudiata all'improvviso e senza ragione dal marito
amatissimo - era la seguente: Allah aveva mandato in Marocco gli eserciti
del nord per punire gli uomini, colpevoli di aver violato i hudud che
proteggono le donne. Chi fa torto a una donna, viola i sacri confini di
Allah. E' illecito far torto a chi non puo' difendersi. La poveretta pianse
per anni.
Educazione e' conoscere i hudud, i sacri confini, asseriva Lalla Tam,
direttrice della scuola coranica dove, all'eta' di tre anni, fui mandata a
raggiungere i miei dieci Cugini. La mia maestra aveva una frusta lunga e
minacciosa, ed io ero perfettamente d'accordo con lei su tutto: i confini, i
cristiani, I'educazione.
Essere musulmani e rispettare i hudud sono una cosa sola. E per un bambino,
rispettare i hudud significa obbedire. Io desideravo tremendamente di
compiacere Lalla Tam, e una volta che lei non era a portata d'orecchio
chiesi a mia cugina Malika, di due anni maggiore di me, se poteva mostrarmi
il punto esatto dove si trovavano i hudud. Mi rispose che lei per certo
sapeva una cosa sola: che tutto sarebbe filato liscio se avessi obbedito
alla maestra. Hudud era tutto quello che la maestra proibiva. Le parole di
mia cugina mi aiutarono a rilassarmi e cominciai a godermi la scuola.
Ma da allora, cercare i confini e' diventata l'occupazione della mia vita.
L'ansia mi divora ogni volta che non so individuare con esattezza la linea
geometrica che determina la mia impotenza.
La mia infanzia e' stata felice perche' i confini erano di una chiarezza
cristallina. Primo fu la soglia che separava il salone di casa dal cortile
principale. Uscire in quel cortile al mattino non mi era permesso, fintanto
che mia madre non si alzava, e cio' significava che, dalle sei alle otto,
dovevo giocare senza far rumore. Potevo, se volevo, sedermi sulla fredda
soglia di marmo, ma non dovevo unirmi ai giochi dei cugini piu' grandi.
"Ancora non sei capace di difenderti", mi spiegava la mamma, "anche giocare
e' una specie di guerra". E io, che avevo paura della guerra, mettevo il mio
cuscino sulla soglia, e me ne stavo li' seduta, giocando a al-masriya
bi-'l-jals (alla lettera, "passeggiare seduta"), un gioco che inventai a
quel tempo e che ancora oggi trovo molto utile. Per giocare occorrono solo
tre cose. La prima e' starsene immobili da qualche parte, la seconda e'
avere un posto per sedersi, e la terza, trovarsi in una disposizione di
umilta' tale da accettare l'idea che il proprio tempo non valga niente. Il
gioco consiste nel contemplare superfici familiari come se fossero estranee.
Stavo li' a sedere sulla soglia e osservavo casa nostra come se non l'avessi
mai vista. La prima cosa da guardare era il cortile rigido e squadrato, dove
ogni cosa era governata dalla simmetria. Persino la bianca fontana di marmo
che si trovava al centro, col suo perpetuo gorgogliare, pareva ammansita e
sotto controllo. Ia fontana era decorata, lungo la circonferenza, da un
sottile fregio di ceramica bianca e blu, che riproduceva il motivo inserito
tra le mattonelle di marmo quadrate del pavimento. Il cortile era circondato
da un colonnato ad archi, con quattro colonne per lato, che avevano base e
capitelli di marmo, e nel mezzo erano rivestite di ceramica bianca e blu il
cui disegno riprendeva quello della fontana e del pavimento. Vi si
affacciavano quattro enormi saloni, che si fronteggiavano a due a due. Ogni
salone aveva una grande entrata centrale che dava sul cortile, con due ampie
finestre laterali. Al mattino presto, e durante l'inverno, i saloni erano
ben chiusi da battenti in legno di cedro intagliato a motivi floreali.
D'estate restavano aperti, e calava un sipario di drappi pesanti, trine e
velluto, che lasciava passare l'aria, riparando da luce e rumori. Le
finestre del salone avevano, all'interno, delle imposte di legno intagliato,
simili alle porte, ma dall'esterno si vedevano solo delle inferriate di
ferro battuto placcato in argento, sormontate da lunette di vetro dipinte a
splendidi colori. Amavo quei vetri colorati per il modo in cui il sole,
sorgendo, sfumava di continuo i rossi e i blu, e attenuava i gialli. Come i
pesanti battenti di legno, anche le finestre si lasciavano aperte d'estate,
e le tende venivano calate solo di notte o durante il riposo pomeridiano, a
proteggere il sonno.
Alzando gli occhi verso il cielo, si poteva ammirare un elegante struttura a
due piani dov'era ripetuto il geometrico colonnato ad archi del cortile, cui
si aggiungeva, a completarlo, un parapetto in ferro battuto placcato
d'argento. E finalmente il cielo  sospeso al di sopra di ogni cosa, ma
sempre rigidamente squadrato, come tutto il resto, e saldamente racchiuso in
un fregio ligneo a disegni geometrici di una pallida tinta oro e ocra.
Guardare il cielo dal cortile era un'esperienza travolgente. All'inizio,
sembrava tenuto a bada da quella cornice squadrata fatta da mani d'uomo. Ma
poi il movimento delle stelle del primo mattino, col loro progressivo
dissolversi nelle profondita' del blu e del bianco, si faceva cosi' intenso
che dava un senso di vertigine. Di fatto, in certi giorni, specialmente
d'inverno - quando i raggi porpora e rosa shocking del sole scacciavano a
forza dal cielo le ultime stelle che si ostinavano a brillare - si poteva
facilmente restarne ipnotizzati. Con la testa piegata all'indietro, a faccia
a faccia con quel cielo squadrato, veniva voglia di andare a dormire, ma
proprio allora il cortile iniziava a riempirsi di gente che giungeva da ogni
parte della casa: dalle porte, dalle scale... oh, quasi dimenticavo le
scale. Situate ai quattro angoli del cortile, erano importanti perche' su di
esse perfino gli adulti potevano giocare a una sorta di gigantesco
nascondino, correndo su e giu' per i lucidi gradini verdi.
Di fronte a me, dal lato opposto del cortile, c'era il salone dello zio e di
sua moglie, e dei loro sette figli, che era la riproduzione esatta del
nostro. La mamma non permetteva alcuna distinzione che fosse pubblicamente
visibile fra i due saloni, nonostante lo zio fosse il primogenito e,
pertanto, secondo la tradizione, gli spettassero appartamenti piu' ampi e
lussuosi. Lo zio non era soltanto piu' ricco e piu' anziano di mio padre;
aveva anche una famiglia piu' numerosa. Noi - io, mia sorella, mio fratello
e i genitori - arrivavamo a cinque. La famiglia dello zio era a quota nove
(o dieci, contando la sorella di sua moglie che spesso veniva in visita da
Rabat, e che, da quando suo marito aveva preso una seconda moglie, a volte
si tratteneva anche per sei mesi di fila). Ma mia madre, che detestava la
vita comunitaria dell'harem e sognava un eterno ''tete-a'-tete'' con mio
padre, aveva accettato quella che chiamava una sistemazione critica (azma)
solo a condizione che non venisse fatta alcuna distinzione fra le mogli:
nonostante la disparita' di rango, avrebbe goduto gli stessi privilegi della
cognata.
Lo zio rispettava scrupolosamente questo accordo perche', in un harem ben
condotto, piu' si ha potere, piu' si deve agire con generosita'. Lui e i
suoi figli, in fin dei conti, avevano piu' spazio, ma solo ai piani alti,
lontano dal cortile, spazio pubblico per eccellenza. Il potere non ha
bisogno di manifestazioni eclatanti.
Nostra nonna paterna, Lalla Mani', occupava il salone alla mia sinistra.
Andavamo da lei solo due volte al giorno, una al mattino e una alla sera,
per baciarle la mano. Come tutti gli altri saloni, il suo era arredato con
divani e cuscini tappezzati in broccato di seta, disposti lungo tutte e
quattro le pareti; un grande specchio, al centro, rifletteva l'interno della
porta principale con i suoi drappeggi sapientemente studiati, e un pallido
tappeto a fiori copriva tutto intero il pavimento. Non ci era permesso, per
nessuna ragione, camminare su quel tappeto con le babbucce,  e men che meno
con i piedi bagnati, cosa assai difficile da evitare d'estate, quando il
selciato del cortile veniva rinfrescato due volte al giorno con l'acqua
della fontana. Le donne piu' giovani della famiglia, come mia cugina Shama e
le sue sorelle, amavano assolvere quell'incombenza giocando a la piscine,
cioe' vuotando secchi d'acqua sul selciato e schizzando "per caso" la
persona piu' vicina. Questo, ovviamente, incoraggiava i bambini piu'
piccoli, nella fattispecie, io e mio cugino Samir, a correre in cucina e
ritornare armati con la canna dell'acqua. Quindi mentre tutti urlavano e
tentavano di farci smettere, procedevamo a un sistematico lavoro di
schizzatura. Gli strilli finivano inevitabilmente per disturbare Lalla
Mani', che, alzando con stizza le sue tende, minacciava di andare a
lamentarsi dallo zio e da papa' quella sera stessa. "Diro' loro che piu'
nessuno, in questa casa, ha rispetto dell'autorita'", diceva. Lalla Mani'
odiava i giochi d'acqua e i piedi bagnati, e se ci capitava di correre da
lei per dirle qualcosa dopo essere stati vicini alla fontana, ci ordinava
sempre di fermarci la' dove eravamo. "Non parlarmi con i piedi bagnati",
diceva, "vai prima ad asciugarteli". Per quanto la riguardava, chiunque
violasse la Legge dei Piedi Asciutti e Puliti veniva stigmatizzato a vita, e
se avessimo osato procedere oltre, fino a insozzarle il tappeto a fiori, il
nostro atto di insubordinazione ci sarebbe stato rammentato per molti anni a
venire. Lalla Mani' gradiva essere rispettata, vale a dire esser lasciata in
disparte, elegantemente vestita, con il suo copricapo ingioiellato, a sedere
e a guardare in silenzio nel cortile. Amava essere circondata da un pesante
silenzio. Il silenzio era un lusso: il privilegio di quei pochi eletti che
potevano permettersi di tenere lontani i bambini.
Infine, sul lato destro del cortile, si trovava il salone piu' ampio e piu'
elegante di tutti - il salone degli uomini, dove questi pranzavano,
ascoltavano le notizie, concludevano gli affari e giocavano a carte. In
teoria, loro erano gli unici della casa ad avere accesso alla grande radio
che stava nell'angolo destro del loro salone, custodita in un mobile i cui
sportelli venivano chiusi a chiave quando l'apparecchio non veniva
utilizzato (fuori, comunque, erano installati degli altoparlanti, perche'
tutti potessero sentire). Le uniche due chiavi della radio, mio padre ne era
certo, erano sotto controllo suo e dello zio. Tuttavia, cosa alquanto
curiosa, quando gli uomini erano fuori, le donne riuscivano regolarmente ad
ascoltare Radio Cairo. Shama e mia madre danzavano spesso sulle melodie
della radio, cantando con la principessa libanese Asmahan "Ahwa'" (sono
innamorata), quando gli uomini non erano in vista. Ed io ricordo la prima
volta che le donne usarono la parola kha'in (traditore) per rivolgersi a me
e a Samir: quando, a mio padre che ci chiedeva cosa avessimo fatto in sua
assenza, raccontammo di aver ascoltato Radio Cairo. La nostra risposta
svelo' l'esistenza di una chiave pirata. Piu' specificamente, rivelo' che le
donne avevano rubato la chiave per farsene una copia. "Se si sono fatte una
chiave del mobile-radio, presto se ne faranno una anche del portone",
brontolo' mio padre. Ne nacque un affare di stato, e le donne furono
interrogate una per volta nel salone degli uomini. Ma dopo due giorni di
indagini, tutto quello che si concluse fu che la chiave doveva essere caduta
dal cielo; nessuno sapeva di dove fosse venuta.
Ciononostante, una volta che l'inchiesta fu archiviata, le donne se la
presero con noi bambini. Dissero che eravamo dei traditori, e che avremmo
dovuto essere esclusi dai loro giochi. Era una prospettiva orribile, e noi
ci difendemmo spiegando che non avevamo fatto altro che dire la verita'. Mia
madre ribatte' che alcune cose erano vere, certo, ma nondimeno si dovevano
tacere: dovevano essere tenute segrete. E aggiunse che cio' che si dice e
cio' che si tiene segreto non ha nulla a che vedere con le bugie e la
verita'. La pregammo di spiegarci dove stava la differenza, ma non seppe
tirar fuori una risposta utile. "Devi giudicare da sola l'impatto delle tue
parole", disse. "Se quello che dici puo' far male a qualcuno, devi star
zitta". Anche quel consiglio non ci fu di nessun aiuto. Il povero Samir, che
odiava esser chiamato traditore, si ribello' e grido' che era libero di dire
quello che voleva. Io, come al solito, ammirai il suo coraggio, ma rimasi in
silenzio. Decisi che, se oltre a dover distinguere tra verita' e bugie (cosa
che gia' mi causava non pochi problemi) dovevo anche mettermi a distinguere
questa nuova categoria di "segreto", mi sarebbe venuto un gran caos nella
testa: era meglio rassegnarmi subito ad essere insultata spesso e abituarmi
alla nomea di traditrice.
Uno dei miei piaceri settimanali era quello di ammirare Samir che metteva in
atto le sue ribellioni contro gli adulti, e sentivo che, se avessi
continuato a stare dietro a lui, non mi sarebbe accaduto mai nulla di male.
Io e Samir siamo nati nello stesso giorno, in un lungo pomeriggio di
Ramadan, con un'ora appena di differenza (1). Lui nacque per primo, al
secondo piano, ultimo di sette figli. Io nacqui un'ora piu' tardi, nel
nostro salone al pianoterra, primogenita, e sebbene mia madre fosse esausta,
insiste' che zie e parenti mi riservassero gli stessi rituali osservati per
Samir. Aveva sempre rifiutato la superiorita' maschile come illogica e del
tutto antimusulmana - "Allah ci ha creati tutti uguali", era solita dire. E
quindi - mi racconto' in seguito - quel pomeriggio la casa vibro' una
seconda volta al suono dei tradizionali yu-yu (2) e dei canti di giubilo,
tanto che i vicini si confusero e pensarono che in famiglia fossero nati due
maschi. Mio padre era fuori di se' dalla gioia: ero tutta paffutella, con
una faccia da "luna piena", e decise immediatamente che sarei diventata una
gran bellezza. Per stuzzicarlo, Lalla Mani' gli disse che ero un po' troppo
pallida, che i miei occhi erano troppo sghembi e i miei zigomi troppo alti,
mentre Samir, aggiunse, aveva "una bella tinta dorata, e i piu' grandi occhi
color nero velluto che si siano mai visti". Mia madre non disse nulla, ma
non appena pote' reggersi in piedi, corse a vedere se davvero Samir aveva
gli occhi color nero velluto, e li aveva. Li ha tuttora, ma tutta la
morbidezza del velluto scompare quando e' di cattivo umore. Mi sono sempre
chiesta se quella sua caratteristica di saltare su e giu' mentre si
ribellava ai grandi, non fosse dovuta semplicemente alla sua costituzione
mingherlina.
Per contro, io ero cosi' grassoccia che neanche mi veniva in mente di
saltare quando qualcuno mi infastidiva; anzi, scoppiavo in lacrime e correvo
a nascondermi nel caffettano di mia madre. Ma la mamma continuava a
ripetermi che non dovevo lasciare a Samir il compito di ribellarsi anche per
me: "Devi imparare a gridare e protestare, proprio come hai imparato a
camminare e parlare. Piangere davanti agli insulti e' come chiederne
ancora". Preoccupata che potessi diventare una donna servile, mia madre, in
visita alla sua famiglia per le vacanze estive, chiese consiglio sul da
farsi a nonna Jasmina, che era famosa per l'impareggiabile modo con cui
sapeva difendere le proprie ragioni. Questa le consiglio' di smetterla di
fare paragoni tra me e Samir e di spingermi, al contrario, a sviluppare un
atteggiamento protettivo nei confronti dei bambini piu' piccoli. "Ci sono
molti modi per creare una forte personalita'", disse la nonna. "Uno e'
quello di far sviluppare la capacita' di sentirsi responsabile per gli
altri. Essere semplicemente aggressivi, e saltare al collo del vicino ogni
volta che ti pesta i piedi, e' un altro modo, ma di certo non e' il piu'
elegante. Incoraggiare una figlia a sentirsi responsabile verso quelli piu'
giovani che vivono nella sua stessa casa, vuol dire darle spazio per
costruirsi la sua forza. Ricorrere a Samir per essere protetta puo' andar
bene, ma se lei scoprira' il modo per proteggere gli altri, potra' usare
quell'abilita' anche per se stessa". Ma l'incidente della radio rappresento'
comunque per me una lezione importante. Fu allora che mia madre mi parlo'
della necessita' di masticare le parole prima di dirle. "Rigira ogni parola
nella lingua per sette volte, con le labbra ben chiuse, prima di pronunciare
una frase", mi disse, "perche' rischi di rimetterci molto, una volta che le
parole sono uscite". Piu' tardi mi rammentai che, in una novella delle Mille
e una notte, una sola parola detta male poteva portar disgrazia al
malcapitato che l'avesse pronunciata facendo indignare il califfo, o il re.
Poteva anche capitare che venisse chiamato il sayyaf, il boia.
D'altro canto, le parole potevano anche essere la salvezza, per la persona
abile a tesserle con arte. Questo e' quanto accadeva a Shahrazad, l'autrice
delle mille e una storia. Il re stava per farle tagliare la testa, ma
all'ultimo minuto, proprio usando accortamente le parole, lei fu in grado di
fermarlo. Non vedevo l'ora di scoprire come avesse fatto.
*
Note
1. Nel mese sacro di Ramadan, il nono del calendario musulmano, si osserva
un digiuno rituale dall'alba al tramonto.
2. Yu-yu e' un grido di gioia con cui le donne celebrano eventi felici,
dalle nascite e i matrimoni a fatti piu' spiccioli, come l'aver portato a
termine un ricamo, o la festa di una vecchia zia.

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 60 del 20 aprile 2006

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