La nonviolenza e' in cammino. 1255



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1255 del 4 aprile 2006

Sommario di questo numero:
1. Giorgio Nebbia, Pier Paolo Poggio: Un appello
2. Luciano Capitini: Un gesto intelligente
3. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
4. Giulio Vittorangeli: Il pensiero razionale
5. Enrico Peyretti: Democrazia senza legge
6. Marina Di Bartolomeo: A scuola da Hannah Arendt
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. I COMPITI DELL'ORA. GIORGIO NEBBIA, PIER PAOLO POGGIO: UN APPELLO
[Ringraziamo Giorgio Nebbia (per contatti: nebbia at quipo.it) e Pier Paolo
Poggio (per contatti: poggiorav at libero.it) per questo intervento.
Giorgio Nebbia, nato a Bologna nel 1926, docente universitario di
merceologia, gia' parlamentare, impegnato nei movimenti ambientalisti e
pacifisti, e' una delle figure di riferimento della riflessione e
dell'azione ecologista nel nostro paese. Dal sito di Peacelink riprendiamo
la seguente piu' ampia scheda: "Giorgio Nebbia, nato a Bologna nel 1926,
professore ordinario di merceologia dell'Universita' di Bari dal 1959 al
1995, ora professore emerito, e' stato deputato e senatore della sinistra
indipendente. Giorgio Nebbia si e' dedicato all'analisi del ciclo delle
merci, cioe' dei materiali utilizzati e prodotti nel campo delle attivita'
umane, agricole e industriali. Nel settore dell'utilizzazione delle risorse
naturali ha condotto ampie ricerche sull'energia solare, sulla dissalazione
delle acque e ha contribuito all'elaborazione dell'analisi del flusso di
acqua e materiali nell'ambito di bacini idrografici. Nel corso delle sue
ricerche, di ambito nazionale e internazionale, ha studiato il rapporto fra
le attivita' umane e il territorio, con particolare riferimento al
metabolismo delle citta', allo smaltimento dei rifiuti e al loro recupero,
ai consumi di energia. Giorgio Nebbia e' autore di numerosissime
pubblicazioni scientifiche e di alcuni libri divulgativi: L'energia solare e
le sue applicazioni (Feltrinelli); Risorse merci materia (Cacucci); Il
problema dell'acqua (Cacucci); Sete (Editori Riuniti); La merce e i valori.
Per una critica ecologica del capitalismo (Jaca Book). Si e' occupato
inoltre di storia della tecnica ed ha fatto parte di commissioni
parlamentari sulle condizioni di lavoro nell'industria. E' unanimemente
considerato tra i fondatori e i principali esponenti dell'ambientalismo in
Italia". Tra le sue molte pubblicazioni segnaliamo particolarmente: Lo
sviluppo sostenibile, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole
(Fi) 1991; La merce e i valori. Per una critica ecologica del capitalismo,
Jaca Book, Milano; cfr. anche: Il problema dell'acqua, Cacucci, Bari 1965,
1969; La societa' dei rifiuti, Edipuglia, Bari 1990; Sete, Editori Riuniti,
Roma 1991; Alla ricerca di un'Italia sostenibile, Tam tam libri, Mestre
1997; La violenza delle merci, Tam tam libri, Mestre 1999.
Pier Paolo Poggio, nato ad Acqui Terme nel 1944, storico, direttore della
Fondazione Luigi Micheletti e del Museo dell'industria e del lavoro di
Brescia; autore di molti studi di storia delle idee politiche, ha scritto
saggi sulla storia russa dell'Ottocento e del Novecento, sulla storia del
movimento operaio, sull'archeologia industriale, sulla storia locale; ha
partecipato attivamente all'azione in difesa dell'ambiente, pubblicando
anche vari scritti sull'argomento. Tra le opere di Pier Paolo Poggio: Comune
contadina e rivoluzione in Russia, Jaca Book, Milano; (a cura di), La
Repubblica sociale italiana 1943-'45, Annali della Fondazione Luigi
Micheletti, Brescia, 1986; Il Sessantotto. L'evento e la storia, Fondazione
Micheletti, Brescia 1990; (a cura di, con Aldo Bonomi), Ethnos e Demos. Dal
leghismo al neopopulismo, Mimesis, Milano 1995; Una storia ad alto rischio.
L'Acna e la Valle Bormida, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Nazismo e
revisionismo storico, Manifestolibri, Roma 1997]

Ci sono tempi in cui puo' essere comprensibile astenersi dal voto, per
distacco dalla politica, indifferenza per le contese sul potere, critica nei
confronti di un ceto politico a cui non si intende conferire la propria
rappresentanza.
Oggi una tale scelta, comunque argomentata, non ci pare condivisibile ne'
possibile, a meno di riproporre il "tanto peggio tanto meglio" di infausta
memoria. E' vero che non ci sono limiti al degrado, ma e' ora di fermarsi e
di attrezzarsi per invertire la rotta.
Non sara' facile ne' indolore, bisogna pero' cominciare. Bisogna cominciare
a guardare in faccia alla realta' e a dire la verita'. Con l'attuale governo
cio' e' impossibile, perche' basa la sua forza e il suo consenso sulle bugie
e sull'illusione.
L'illusione si  e' trasformata in incubo; per uscirne un cambiamento
politico non sara' sufficiente ma e' necessario. Per tale motivo vi
invitiamo a votare per le forze di opposizione.
La fratellanza e la solidarieta', il lavoro e la giustizia, l'ambiente e la
pace, l'eguale dignita' di tutti gli esseri umani, debbono tornare a dare un
significato alla politica. Rispetto a cio' un voto e' poca cosa, ma oggi e'
indispensabile.

2. PROPOSTE. LUCIANO CAPITINI: UN GESTO INTELLIGENTE
[Ringraziamo Luciano Capitini (per contatti: capitps at libero.it) per questo
intervento. Luciano Capitini e' impegnato nel Movimento Nonviolento, nella
Rete di Lilliput e in numerose altre esperienze e iniziative nonviolente;
persona di straordinaria mitezza e disponibilita' all'ascolto e all'aiuto,
ha condotto a Pesaro una esperienza di mediazione sociale nonviolenta; e'
tra i coordinatori della campagna "Scelgo la nonviolenza"]

Destinero' volentieri il 5 per mille della mia dichiarazione dei redditi al
Movimento Nonviolento.
Non si tratta di un sacrificio - la cifra non mi viene ulteriormente
sottratta, fa parte delle tasse che comunque pago.
Non e' una obiezione di coscienza, come eravamo soliti fare: qui
l'opportunita' ci e' offerta dallo stato.
Si tratta quindi soltanto di una scelta, e di un gesto intelligente (se ci
e' possibile destinare qualche euro a chi reputiamo degno, senza alcun
sacrificio, perche' non farlo?).
La mia associazione piu' cara, quella a cui sono piu' legato, l'Associazione
Amici di Aldo Capitini, non gode dei requisiti richiesti: e la seconda e'
sicurissimamente il Movimento Nonviolento: gente che stimo, con una storia
impeccabile, con idee che condivido.
Si', destinero' il 5 per mille al Movimento Nonviolento.

3. PROPOSTE. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dagli amici del Movimento Nonviolento (per contatti: Movimento Nonviolento,
sede nazionale, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax:
0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it o anche: an at nonviolenti.org,
sito: www.nonviolenti.org) riceviamo e diffondiamo]

Cari tutti,
con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile sottoscrivere un
versamento al Movimento Nonviolento. Non si tratta di versare soldi in piu',
ma solo di utilizzare diversamente soldi gia' destinati allo Stato.
Per poter destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento
Nonviolento, e' sufficiente appore la propria firma nell'apposito spazio e
scrivere il numero di codice fiscale dell'associazione.
Il codice fiscale e': 93100500235.
Sostenete un'associazione che da oltre quarant'anni, con coerenza, lavora
per la crescita e la diffusione della nonviolenza.
Grazie.
Il Movimento Nonviolento
sede nazionale, via Spagna 8, 37123 Verona

4. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: IL PENSIERO RAZIONALE
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

I diritti umani sono una conquista di civilta' raggiunta con fatica, una
conquista universale, come sancito dalla "Dichiarazione sulla razza e i
pregiudizi razziali delle Nazioni Unite", adottata il 27 dicembre '78, che
recita all'art. 1: "Tutti gli esseri umani appartengono alla stessa specie e
provengono dallo stesso ceppo. Essi nascono uguali in dignita' e diritti e
fanno tutti parte integrante dell'umanita'".
Non solo, una particolare attenzione e' riservata alla persona del
rifugiato, colui che "temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di
razza, religione, nazionalita', appartenenza a un determinato gruppo sociale
o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui e'
cittadino e non puo' o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della
protezione di questo Paese..." (Art. 1 della Convenzione di Ginevra relativa
allo status dei rifugiati, 1951).
Tutto questo, almeno sulla carta. Perche' la realta' e' ben piu' amara.
*
Nei fatti, una parte consistente della popolazione mondiale e' privata dei
diritti basilari; ed inevitabilmente cerca rifugio e protezione nel
cosiddetto Primo Mondo.
Cosi', non pochi tra gli immigrati che sbarcano sulle coste italiane sono
profughi che legittimamente chiedono asilo al nostro Paese. Molti di loro,
vittime di violenze o torture nei paesi di origine.
Solo che la nostra risposta e' quella della vergogna dei centri temporanei
di detenzione (denominati ipocritamente Centri di permanenza temporanea, in
sigla: Cpt); e la sfida tra centrodestra e centrosinistra sembra essere tra
chi e' piu' bravo nel renderli efficienti.
Qui sta il problema vero: che, nell'attuale panorama politico-istituzionale,
di partiti e gruppi dirigenti che vogliano la soppressione di questi centri
se ne vedono pochi, e assolutamente minoritari. Ancor meno in questa
velenosa campagna elettorale.
La sinistra, come la destra, non ha trovato risposte adeguate al fenomeno
dell'immigrazione, per quanto non sia piu' un fenomeno nuovo per il nostro
Paese. Si calcola che il passaggio, almeno formalmente per l'Italia, da
paese di emigrazione a paese di immigrazione sia avvenuto oramai nel 1975,
allorquando - per la prima volta dall'unificazione dello Stato nel 1870 - e'
stato stimato in circa 200.000 unita' il saldo positivo tra entrate ed
uscite.
Cosi' la nostra classe politica, nella sua stragrande maggioranza, ha finito
con l'adeguarsi all'analisi dominante che riduce il tema dell'immigrazione
ad un problema squisitamente di sicurezza, regolamentazione e repressione;
omettendo le cause che ne stanno alla base.
Questo e' possibile dal momento che si riduce la politica essenzialmente
all'amministrazione dell'esistente ("pulita" quella del centrosinistra,
"corrotta" quella del centrodestra); nella convinzione che la politica sia
principalmente conquista e mantenimento del potere.
*
Ecco perche' forse oggi sembra troppo chiedere un pensiero razionale che
sappia analizzare le grandi problematiche che affliggono l'umanita' intera.
Eppure dalla "scoperta" del fuoco, ovvero dalla scoperta della sua
riproducibilita', ogni forma di progresso delle condizioni di vita umane e'
stata raggiunta attraverso questa semplice catena di procedimenti che,
introiettata e applicata sistematicamente, ha gettato le basi per la
struttura della nostra civilta': il pensiero razionale.
Perfetto o meno, si tratta dell'unico strumento di interpretazione del mondo
a nostra disposizione che ancora resista all'usura, nonostante le tempeste
che periodicamente ne scuotono le fondamenta.
Quello attuale sara' forse ricordato come uno tra i periodi piu' violenti
della storia contemporanea, un momento in cui la capacita' di produrre
pensiero da parte di una civilta' si trova sbalestrata, inferma, al crocevia
di venti contrastanti.
Ritornare alla sostanza del pensiero razionale, riscoprire la sua struttura
fondamentale di analisi, scomposizione, riproduzione di un evento e
raccontarci la sua costruzione, diventa allora un'operazione piu' che mai
necessaria.
*
Per tutto questo il mio personale pensiero razionale mi dice di votare la
coalizione di centrosinistra.
Sara' ancora una volta un "voto contro" invece che un "voto per"; ma come ha
scritto Severino Vardacampi: "Voto per la coalizione di centrosinistra per
impedire che il golpe della coalizione berlusconiana, gia' assai avanzato,
possa giungere a compimento. Voto per la coalizione di centrosinistra nella
speranza che si riesca a salvare gli istituti e gli spazi di legalita', di
democrazia, di civile convivenza ancora esistenti".

5. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: DEMOCRAZIA SENZA LEGGE
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti e.pey at libero.it) per questo
intervento.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio,
ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di
nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con
altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio",
che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi
"Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research
Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi
per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della
rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro
Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e
del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie
prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e
politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile
nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di
cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico
Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte
riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari
suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e
alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario.
Nanni Moretti (Brunico 1953) e' uno dei maggiori autori cinematografici
italiani degli ultimi decenni. Opere di Nanni Moretti: Io sono un autarchico
(1976); Ecce bombo (1978); Sogni d'oro (1981); Bianca (1984); La messa e'
finita (1985); Palombella rossa (1989); La Cosa (1990); Caro diario (1993);
Aprile (1998); La stanza del figlio (2001); Il caimano (2006). Opere su
Nanni Moretti: Flavio De Bernardinis, Nanni Moretti, Il Castoro Cinema,
Milano]

Solo oggi ho visto "Il caimano" di Nanni Moretti, volutamente senza aver
letto commenti. Dice e mostra quello che gia' sappiamo. Ma la politica
consiste precisamente nel dire le cose, nel non tacere, nel liberare la
parola, per poter decidere. In questo film sull'Italia, la politica e'
scomparsa: non compare mai l'opposizione parlamentare. Questa critica, forse
eccessiva, e' simbolicamente terribile. Solo i giudici resistono al caimano,
e un solo giornalista, che somiglia a Giorgio Bocca. Il senso della denuncia
di Moretti e' questo: la folla ipnotizzata e' contro la legge. Il popolo e'
sedotto e addormentato con le favole, come i due bambini nel film. Il
caimano ha creato e utilizzato per se' una democrazia senza legge. E' la
classica degenerazione plebiscitaria che Bobbio bollava, gia' riguardo a
Craxi, come "democrazia dell'applauso". A questa falsa democrazia servono i
partiti personali, nati fuori dalla storia popolare e dalla cultura
costituzionale, senza programma sociale, per ridurre la legge (meno stato) e
dare mano libera ai forti (piu' mercato). Nella democrazia senza legge il
consenso popolare annulla il reato, pone l'eletto sopra la legge. La
qualita' della democrazia dipende dalla qualita' di chi ha potere, ma di
piu' dalla qualita' del popolo. Nel film, la folla fedele al caimano
applaude il condannato e condanna i custodi della legge. L'Italia si avvolge
"tra orrore e folclore". Questa denuncia - per la quale il piccolo
produttore scalcagnato inventato da Moretti vende tutto quello che ha - e'
opposizione della cultura, della politica, della coscienza. Allora c'e',
un'opposizione, c'e' una resistenza.

6. RIFLESSIONE. MARINA DI BARTOLOMEO: A SCUOLA DA HANNAH ARENDT
[Dal sito web.cheapnet.it/autoriforma riprendiamo il seguente intervento di
Marina Di Bartolomeo tenuto al convegno "Hannah Arendt. Liberta' e autonomia
di una pensatrice contemporanea", svoltosi a Prato, Palazzo Novellucci, il
27 marzo 2004.
Marina Di Bartolomeo, docente e saggista, collabora a varie riviste.
Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva
di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe
all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le
massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l
'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen
(1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti,
Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli,
Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e'
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di
brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano,
1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969.
Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra
amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975,
Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio
Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2.
1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita'
e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la
biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri,
Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt,
Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah
Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah
Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della
polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt,
Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su
Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah
Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli,
Roma 2005. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie
divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang
Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg
Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]

Di Hannah Arendt la filosofa Agnes Heller ha scritto: e' una di quelle
"donne davvero libere perche' pensano e agiscono alla luce del giorno"; una
che del pensare da se', in autonomia, ovvero fuori dal coro, ha fatto il
contrassegno dell'intera esistenza. Il suo pensiero e' carico di un'anomalia
perturbante (Adriana Cavarero), poiche' sovverte radicalmente e
consapevolmente tutto l'impianto della tradizione filosofica, aprendo un
altro gioco, un'altra prospettiva: si pone fuori dalla logica astratta
dell'Uno, sostituendo al primato dell'Uomo la pluralita' degli umani, al
"vivere per la morte" la centralita' della nascita, all'individualismo
l'agire in comune.
Per questo, il pensiero di Arendt e' intensamente relazionale. Per lei, la
nostra singolarita', il nostro differire, si esalta alla luce del pubblico,
quando ci si espone allo sguardo degli altri, quando si parla e si agisce
insieme a loro. E' nell'agire in uno spazio pubblico condiviso che si
realizza compiutamente la propria umanita'. Un pensiero della differenza in
relazione, dunque, un grande pensiero di origine femminile, che si incrocia
in modo fecondo con attuali teorie e pratiche della differenza sessuale. Le
riletture femministe di Arendt, infatti, ne sviluppano tutte le
potenzialita' latenti, posto che la differenza sessuale non e' una
condizione sociale, l'appartenenza a un gruppo che ha qualcosa da
rivendicare, una sorta di categoria o lobby, ma "il pensiero che va in cerca
di una relazione di differenza fra se' e l'altra, fra se' e l'altro" (Luisa
Muraro).
*
Allora, e qui vengo al tema della mia relazione, Arendt ha molto da dire, e
su piu' piani, a un luogo come la scuola, se per scuola si intende
quell'insostituibile occasione di incontro fra generazioni e sessi diversi,
intorno alla trasmissione/costruzione di un sapere sensato, non accademico,
segnato dalla relazionalita' e dallo scambio. E' in questo contesto che ho
incontrato Arendt, nel lavoro quotidiano e nella pratica politica
all'interno del movimento di cui faccio parte, l'autoriforma della scuola.
Di questo incontro, delle riflessioni che mi ha spinto a fare, vorrei
parlare ora, nella convinzione che la scuola e' il cuore della societa', non
un affare da specialisti, perche' riguarda i nuovi nati, quelli che vengono
dopo di noi.
In questa prospettiva, le categorie portanti del pensiero di Arendt si
rivelano dei potenti strumenti di lettura e analisi critica della realta',
offrendo un contributo illuminante su almeno su tre piani:
1) rispetto alla forma scuola pubblica, alla natura dei processi che si
svolgono all'interno di una scuola che si voglia veramente pubblica;
2) rispetto alla relazione fra insegnanti e studenti, e piu' in generale fra
nuove e vecchie generazioni;
3) rispetto alla didattica della filosofia, per la radicalita' con cui viene
ripensato tutto il pensiero occidentale.
E' di questi tre piani che vorrei ora parlare.
*
Innanzitutto, la questione scuola pubblica-scuola privata, che in questi
anni ha prodotto un dibattito molto vivace e vari interventi legislativi. Da
una parte, un vasto schieramento trasversale si e' impegnato (purtroppo con
successo) a far entrare il privato, e i valori del privato, nel sistema
pubblico statale, in nome della liberta' delle famiglie e della
competizione; dall'altra, c'e' chi difende la scuola statale in nome
dell'eguaglianza e dell'omogeneita' sul territorio nazionale. Ebbene c'e'
una nozione, centrale nel pensiero di Arendt, ed e' quella di spazio
pubblico, a partire dalla quale tutta la questione si configura in modo
nuovo, uscendo dalle strettoie di una polemica ora strumentale ora angusta.
Vorrei dare la parola proprio a lei, leggendo un passo di Vita activa: "la
realta' della sfera pubblica si fonda sulla presenza simultanea di
innumerevoli prospettive e aspetti in cui il mondo comune si offre, e per
cui non puo' essere trovata ne' una misura comune ne' un comune
denominatore. E' la molteplicita' prospettica a fondare la vita pubblica,
mentre nella societa' di massa tutti sono imprigionati nella soggettivita'
della singola esperienza, che non cessa di essere singolare anche se viene
moltiplicata innumerevoli volte. La fine del mondo comune viene a prodursi
quando esso viene visto sotto un unico aspetto e puo' mostrarsi in una sola
prospettiva".
Dunque, lo spazio pubblico e' il luogo in cui le cose del mondo si vedono in
tutta la loro poliedricita', derivante dal fatto che ciascuno ha la propria
angolatura da cui osservarle; e la realta' non coincide mai con una sola
parte ne' con una somma incomunicante di parti, ma e' il frutto, si potrebbe
dire, di un dialogo di parzialita'.
Veniamo allora alla scuola. Seguendo Arendt pubblica e' la scuola che,
indipendentemente dalla sua forma giuridica, costruisce un sapere condiviso
e plurale. E' escluso che pubbliche possano definirsi le scuole di parte,
confessionali o altro, perche' qui l'omogeneita' ideologica, la visione
parziale, e' esplicitamente perseguita come fine ultimo; e neppure le
scuole-impresa, che hanno finalita' di lucro, perche' di nuovo questa loro
ragion d'essere porta a subordinare qualunque scelta alla logica del
mercato, non certo a quella della pluralita'.
Ma non si puo' nemmeno dire che la scuola statale e' pubblica per
definizione, come se fosse un dato di fatto. Non e' pubblica la scuola
statale quando si adegua a un modello aziendale, entrando nella logica della
domanda e dell'offerta e dell'efficienza imprenditoriale; quando si fa
macchina ideologica e di consenso; quando si fonda su una concezione
individualistica dell'insegnamento (il cui simbolo e' la porta che ci
chiudiamo alle spalle).
E ci possono essere invece esperienze di scuola non statale che sono
pubbliche, perche' laiche e plurali nel loro progetto, fuori dal pensiero
unico (confessionale o del profitto), tali da consentire la molteplicita'
prospettica. Non sono molte, a dir il vero, in Italia; ma, soprattutto nella
primissima fascia di scolarita', ci sono. E forse sarebbe augurabile che ce
ne fossero di piu', di "scuole modellate sul territorio e in grado di
produrre socialita'" (Anna Pizzo), autorganizzate, un polo fluido e in
dialogo con quello statale, necessariamente dai limiti piu' marcati.
Invece di dare un definizione puramente formale, giuridica, di pubblico (che
e' l'atteggiamento prevalente in entrambi i fronti), da Hannah Arendt ci
viene insomma l'invito ad ancorare la nozione di pubblico a cio' che
realmente avviene nel suo spazio, dentro i suoi confini. Fare scuola
pubblica e' un fine, cui si arriva tutte le volte che si sta nella
dimensione della pluralita'.
*
Passo ora al secondo aspetto, quello della relazione fra insegnanti e
studenti, che e' una forma particolare, mediata dal sapere, dell'incontro
generazionale, dell'incontro fra quelli venuti prima al mondo e quelli
venuti dopo, i nuovi nati.
Ebbene, da Arendt ci viene un'idea preziosa, che e' quella di
responsabilita'. Ne parla, fra l'altro, in un suo saggio sulla scuola, La
crisi dell'istruzione.
Di nuovo, le lascio la parola: "gli educatori rappresentano di fronte al
giovane un mondo del quale devono dichiararsi responsabili anche se non
l'hanno fatto loro, e anche se, in segreto o apertamente, lo desiderassero
diverso. Questa responsabilita'... e' implicita nel fatto che gli adulti
introducono i giovani in un mondo che cambia di continuo". Continua dicendo
che "l'insegnante e' autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la
responsabilita'"; "e' una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della
terra, che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo". Essere
responsabili significa saper introdurre i ragazzi, le ragazze, nel mondo,
dando loro strumenti per decifrarlo. La rinuncia a questo "di piu'" equivale
a dire: "In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per
noi e' un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali
talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo
non siete autorizzati a renderci conto di nulla".
Come leggere queste parole? Io penso che ci si possa intravedere un invito a
farsi carico della disparita' generazionale nel senso del non tirarsi
indietro, dell'essere dentro in prima persona nella relazione, facendoci
mediazione vivente fra il sapere sedimentato nel tempo e il sapere dei
ragazzi e delle ragazze (l'insegnante media fra vecchio e nuovo, dice
Arendt).
Nessuna neutralita', cioe': siccome il mondo e' plurale, esserne
responsabili significa rappresentare agli occhi dei ragazzi e delle ragazze
la sua poliedricita', la sua complessita', ma sempre a partire dalla propria
personale angolatura, dal proprio radicamento in un punto di vista, non
sfuggendo a questa chiamata all'impegno. Questa esposizione di se', in prima
persona, esclude il ricorso alle formule preconfezionate, di qualunque tipo.
Sono fuga nell'irresponsabilita' sia l'affidamento ai tecnicismi,
all'oggettivita' (che hanno costituito l'ossatura del progetto riformatore
berlingueriano) sia la recente riproposizione della figura dell'insegnante
come depositario di un patrimonio di saperi e valori codificati, da
consegnare immobile e riperpetuare nelle nuove generazioni. Anche questa
idea un po' monumentale del sapere puo' essere un modo per chiamarsi fuori,
per sfuggire la problematicita' della mediazione fra vecchio e nuovo, per
non esercitare una vera autorita'. Perche' la vera autorita' ce la giochiamo
li', sul campo, nel rapporto con i ragazzi e le ragazze che abbiamo di
fronte, a cui ci si espone non come disincarnati custodi della tradizione,
ma sempre come donne o uomini in carne e ossa, con la propria singolarita',
con il proprio taglio sulle discipline, sulla cultura, e sempre in uno
scambio dinamico con loro.
*
Perche' poi l'altro soggetto della relazione, i ragazzi e le ragazze, non
sono certo intesi da Arendt come dei vasi da riempire, secondo la metafora
della pedagogia tradizionale. Sono piuttosto i nuovi nati, che portano nel
mondo tutto il carico di imprevisto di un nuovo cominciamento. La nascita
corporea e' infatti per Arendt nuovo inizio, l'immissione di un nuovo
imprevedibile nel mondo; per cui, se noi siamo in grado di iniziare
qualcosa, di interrompere il ciclo delle ripetizioni, di rinnovare il mondo,
e' in virtu' del fatto che siamo nati. Qui c'e' la radice di un
atteggiamento di grande apertura di Arendt nei confronti dei giovani, i
nuovi venuti. In ognuno di loro c'e' per lei qualcosa di potenzialmente
rivoluzionario, il germe di un rinnovamento che va custodito: a loro tocca
di "rimettere in sesto il mondo".
Per questo, lei critica quell'atteggiamento irrispettoso nei confronti
dell'inedito costituito dalle nuove generazioni, che consiste nel "non
tacere sul futuro", cioe' nel prescrivere loro comportamenti per la vita,
iniziarli a un'arte della vita, con l'invadenza di chi presume gia' di
sapere quale sia il giusto cammino che debbano intraprendere. Significativo
e' un passo, nei frammenti pubblicati in Che cos'e' la politica?, in cui
invita a "non depredare i nuovi nati della loro spontaneita'"; il che non va
inteso in senso psicologico (questa prospettiva le e' del tutto estranea) ma
in senso ontologico, come invito a non soffocare la liberta' di agire delle
nuove generazioni.
Come tradurre, nella quotidiana relazione educativa, questa idea? Come
disporsi, fra tante contraddizioni, a quest'opera tanto in controtendenza
con gli orientamenti prevalenti nella societa'? Io credo che innanzitutto si
stia all'altezza di questo rifiutandoci di chiudere le nuove generazioni in
una categoria, quella appunto del giovane, costruendo su di loro delle
teorie generali. Non esistono i giovani, se non in un'ottica di
appiattimento conformistico; esistono soggetti singolari, che rispetto a noi
sono nell'inedita posizione di nuovi nati. Spesso a scuola (ma non solo) ci
accade di fare una duplice operazione su di loro. Succede quando ci
lamentiamo di come sono diversi da noi, vuoti, senza ideali e senza senso
del dovere, figli del consumismo, rimbecilliti dalla televisione ecc.,
commisurandoli magari a quegli eroici anni Sessanta-Settanta di cui noi
siamo stati protagonisti. Ma cosi' li blocchiamo in una rappresentazione
uniforme, senza sfumature, tutti come soggetti a rischio da tutelare o
soggetti da colpevolizzare, e nello stesso tempo, rovesciandogli addosso la
colpa di non essere come noi, facciamo di noi stessi una sorta di culmine
della storia.
E' forse una reazione difensiva, che ci rende poi incapaci di vedere come
sono veramente, nella loro differenza da noi e fra di loro; una differenza
non sempre facile da capire e da sopportare, magari, ma fertile se ci si
sporge verso di loro, spostandoci nel gesto anche noi, squilibrandoci. Il
che oggi e' ancora piu' urgente se e' vero, come non sono io la prima a
pensare, che attualmente siamo di fronte a una frattura antropologica, per
cui le nostre mappe cognitive, emotive ecc. non sono piu' le loro. Per un
insieme di motivi, a cui non e' estraneo il crescente influsso dei nuovi
media, sta emergendo nei ragazzi e ragazze, mi pare, una sorta di pensiero
situazionale, legato al contesto, capace di orientarsi nel disordine, nella
simultaneita' di suggestioni e di stimoli differenti. Un pensiero che
procede per flussi, per flash, per illuminazioni, e che non e' lineare,
sequenziale, rigoroso come quello a cui noi siamo abituati. Anche qui,
invece di evocare come qualcuno ha fatto degli scenari apocalittici, di pura
perdita della cultura, forse conviene rivolgere la nostra intelligenza a
intendere questa novita', che certo a scuola ci disorienta abbastanza, e a
farci mediatori, mediatrici, tra vecchio e nuovo, perche' il filo della
tradizione comunque non si spezzi, e il testimone passi da noi a loro.
*
Vorrei ora affrontare l'ultimo discorso. Ha senso, e quale, proporre il
pensiero di Arendt a scuola, farne una proposta didattica? Che abbia senso
non ho dubbi, e infatti ho accolto con piacere la proposta di scrivere un
modulo su di lei, in un manuale di filosofia che e' uscito quest'anno. Sono
convinta che Arendt debba trovare uno spazio nei libri di testo, non perche'
e' una donna e quindi per un motivo di equita', di pari opportunita'. Questa
non e' una prospettiva che mi interessa: mi sembra una forma debole di
rivendicazionismo, consistente nel promuovere il sesso svantaggiato,
riequilibrare gli spazi (nei manuali, nelle classi, nella vita) per far
posto alle donne, senza per questo mutare nelle sue linee di confine e nella
struttura interna la geografia monosessuata del sapere.
No. Arendt e' bene che stia nei manuali perche' e' una grande pensatrice e
conoscerla e' un'occasione da non perdere per tutti, donne e uomini. In
Arendt si puo' trovare una miniera di spunti possibili, dalla critica del
totalitarismo alla critica della societa' di massa, fino a un discorso
ecologico ante litteram. Ma non e' tanto a questo che mi riferisco ora,
quanto al nocciolo duro del suo pensiero, quell'anomalia a cui gia' ho
accennato.
Sono convinta che, collocato in questa luce, il pensiero di Arendt abbia da
dire molto alle nuove generazioni, sia molto attuale. Anche perche', pur
senza nessuna concessione a un linguaggio suggestivo, di facile gradimento
(anzi e' sempre molto rigoroso, direi severo), il suo discorso puo' arrivare
a toccare un piano esistenziale, di riflessione e quindi di modificazione di
se'. Per questo preferisco parlare di incontro con Arendt, piuttosto che di
studio, per sottolineare il carattere aperto di una conoscenza che si puo'
prolungare oltre il momento dello studio, che puo' trasformare
interiormente. Certo non sara' cosi' per tutti i ragazzi e tutte le ragazze;
non lo e' mai, del resto; e dipendera' da tanti aspetti, non ultima la
presenza dell'insegnante e il suo non solo dire, ma mostrare, nelle pratiche
di relazione, il nucleo vivente del pensiero di questa autrice. Ma,
parafrasando proprio Arendt, che lo diceva a un altro proposito, bastano
pochi casi fortunati (pochi studenti toccati dalle sue parole) ad illuminare
un percorso, a dargli senso. E "ogni piu' piccolo evento ha in se' il germe
dell'illimitatezza, perche' puo' produrre conseguenze incalcolabili".
*
Il primo seme che l'incontro con Arendt puo' gettare attiene alla politica.
In Arendt, come si sa, la politica e' la forma piu' alta dell'agire umano,
quella da cui prende senso pieno l'esistenza umana. Ma cio' che lei intende
per politica non ha niente a che fare con il primato del governo, della
partitocrazia, della macchina amministrativa. La politica non e' affare da
professionisti, non e' un tecnica. E' lo spazio relazionale creato
dall'essere insieme degli umani. Qui si fa politica per amore del mondo, per
trovare senso, per la passione di esistere insieme ad altri, prendendo
parola sugli affari comuni senza deleghe e rappresentanze; e se ne ottiene
in guadagno la liberta', che e' il contenuto stesso dell'agire e non un fine
a cui tendere. Come la danza, come il gioco, l'attivita' politica racchiude
in se' il suo senso.
Oggi, la parola politica ha cattivo corso, fra i ragazzi e le ragazze ancor
piu' che fra adulti. C'e' un comune rigetto della politica istituzionale,
identificata appunto con i giochi di potere, che si manifesta in una
varieta' di modi, ma senza molte parole per pensarsi, per articolarsi e
uscire dall'immediatezza.
Cosi' ad esempio succede che presso molti ragazzi e ragazze il rifiuto della
politica vada di pari passo con l'introiezione profonda delle sue categorie,
come il principio della rappresentanza, della delega: tanto che succede
spesso di sentir chiamare capi d'istituto i loro compagni eletti nel
consiglio d'Istituto ed e' da loro che si aspettano le iniziative, la
proclamazione delle occupazioni, e cosi' via, ricalcando il gioco della
delega, con una minoranza che si attiva e gli altri si adagiano nella
passivita'.
D'altra parte, in questi ultimi anni sta emergendo in certe fasce giovanili
un nuovo interesse per il mondo, per l'agire in prima persona, che si
esprime in forme di volontariato, di solidarieta', di aggregazioni anche
fluide, momentanee, informali, intorno a temi come il "no alla guerra" e
cosi' via. A scuola la sentiamo, quest'aria nuova. Accade che le occupazioni
siano un po' meno rituali oppure, come a scuola mia, che nasca un comitato
per la pace, che si dia vita a un cineforum, che si organizzino
manifestazioni pacifiste per il paese, o ancora che si spendano delle serate
per incontrarsi con adulti/insegnanti, creando uno spazio di dialogo fuori
dai confini istituzionali. Per quel che posso intravedere, sono aggregazioni
tenute insieme da un filo esile, che - prive di struttura come sono - si
reggono per vincoli molto personali; quindi si sciolgono magari appena
qualcuno lascia la scuola dopo la quinta, e poi si riformano con accenti e
tonalita' diverse. Insomma c'e' una sorta (piu' che di movimento) di area,
che ha il suo orizzonte in una socialita' da arcipelago, fuori da
organizzazioni e piattaforme. Il tutto e' molto connotato esistenzialmente,
con codici identitari quasi di tribu', con i loro segnali di riconoscimento
diversi da gruppo a gruppo, e molto agito nello spazio del presente. Sembra
mancare in loro la linea verticale che congiunge il passato al futuro, ma in
cambio hanno un forte senso del qui e ora, un bisogno di luoghi comuni, in
cui si potrebbe leggere un desiderio di polis: una piazza aperta, senza
cittadelle proibite, dove incontrarsi in liberta', stringere amicizie,
esserci e sentirsi, esistere come corpo collettivo, nel piacere gratuito,
senza finalismi.
Per certi versi, niente potrebbe essere piu' lontano dal pensiero classico
di Arendt, di questa mescolanza di emozioni, desideri, talvolta confusi e
senza parole, quasi piu' espressi in un'intensa corporeita' che in un
discorso. Eppure, a ben guardare, ci sono delle affinita', tanto che il
lessico arendtiano puo' offrire una sorta di grammatica entro cui articolare
quelle esperienze, che sono di iniziazione spesso inconsapevole alla
politica, dandogli una profondita', un orizzonte.
Fra le parole di questo lessico, ne spicca fra l'altro una che ha stretti
legami con l'intelligenza femminile sul mondo e che, allo stesso tempo,
sembra sorprendentemente vicina al sentire giovanile: senso del presente
(lei, in verita', non usa questa espressione, ma tutto il suo discorso ne e'
impregnato). Incontrare Arendt e' fare i conti con un pensiero che e'
attento al presente, a cio' che accade una volta sola, alla dimensione
fragile e discontinua dell'azione politica, di quello spazio di liberta' che
puo' crearsi in ogni momento in cui gli umani agiscono in relazione, ma che
puo' sparire, dissolversi, altrettanto rapidamente, quando al posto del
linguaggio e del conflitto subentra la violenza o il dominio di uno
sull'altro.
E, accanto a presente, essere-insieme, pluralita', liberta': una
costellazione di parole che dice a questi ragazzi, ragazze, che si puo'. Si
puo' agire a partire da se', riprendere nelle proprie mani le grandi scelte,
non affidarsi agli esperti, trovando qui e ora una pienezza esistenziale e
muoversi verso un tempo nuovo.
Il che non significa un facile ottimismo: Arendt ha una consapevolezza acuta
degli orrori della contemporaneita', non solo il totalitarismo ma lo stesso
conformismo delle democrazie liberali, l'uomo-massa, il pensiero unico che
fa del mondo un deserto. Sa bene come gli spazi siano stretti, come la
macchina amministrativa stritoli e livelli.
Pero' non cede mai alla tentazione, questa si' facile, di una visione
apocalittica, che chiude gli spazi del futuro, che sa gia' come si svolgera'
il corso della storia. Anche questo pessimismo e' un deprivare i nuovi nati
della spontaneita', perche' vuole persuaderli che, in fondo, non c'e' niente
da fare.
*
L'altro seme di cui vorrei parlare riguarda l'originale elaborazione del
tema della dipendenza, nel senso di riconoscimento dell'origine e di legame
con il mondo. Un tema che si ritrova oggi nel pensiero della differenza (si
pensi a Muraro).
In Arendt "io" non e' piu' al centro, ma lo e' il movimento verso l'altro,
il punto terzo dell'incontro. Infatti noi siamo esseri condizionati, non
autosufficienti: riceviamo vita da una madre, incarnati in un singolare e
concreto corpo sessuato, e veniamo alla luce in un mondo plurale che gia'
c'era prima di noi, e qui riceviamo senso dalla presenza degli altri.
La categoria della nascita permette di vedere che noi siamo esseri
costitutivamente relazionali, fin dall'origine (l'ha ben messo in luce
Adriana Cavarero). Con questa categoria si dice che non ci siamo fatti da
soli, che veniamo dopo, dovendo la nostra esistenza unica a un'altra; e che
proprio per questo esser derivati siamo capaci di liberta'.
Proprio in quanto nati, infatti, siamo a nostra volta capaci di far nascere,
ovvero di ripetere in un certo senso il gesto materno, dando vita a parole e
azioni nuove, che sono le nostre, che provengono dalla nostra irriducibile
singolarita', hanno il nostro segno.
Uno dei grandi rivolgimenti prospettici operati da Arendt consiste proprio
nel tener insieme dipendenza e liberta', dire che questi vincoli sono la
condizione della nostra possibilita' di agire libero. Quindi, per Arendt,
noi siamo inseriti in un vasto insieme di legami, verticali e orizzontali, e
proprio da questi legami traiamo la nostra forza e la nostra liberta'.
Corollario di questa nuova prospettiva e' che l'individualismo e
l'autosufficienza del soggetto, in cui il pensiero moderno ha fatto
consistere la liberta', sono invece l'esatto contrario della liberta'.
L'individuo isolato e' deprivato di una dimensione fondamentale
dell'esistenza e cade facilmente nella prigione dei regimi di massa,
totalitari o democratici, dove gli individui sono ammassati l'uno
sull'altro, tutti uguali, omologati e soli.
Per capire meglio l'intreccio fra liberta' e legami bisogna infatti tener
presente che il mondo della politica si descrive in Arendt in termini di
spazialita': lo spazio pubblico e' cio' che ci unisce, ci tiene insieme (la
relazione) ma anche la distanza che impedisce di caderci addosso l'un
l'altro, diventando corpo unico (la differenza).
Quando se ne parla, i ragazzi (ma non solo loro) rimangono spesso
interdetti. Non hanno mappe mentali dove collocare questo pensiero. Infatti
il loro bagaglio di esperienze e di sapere prevede la dicotomia
indipendenza/dipendenza, una polarita' che li affatica, perche' oscillano
fra la spinta a ridurre a zero lo spazio fra se' e gli altri e quella a
farsi il vuoto intorno: cosi', ora si ammassano nel gruppo, appiattendosi
nel conformismo, oppure "fanno massa" nella coppia, coltivando l'illusione
di una fusione amorosa, e in entrambi i casi finiscono per rinnegare qualche
parte di se'; ora il desiderio di autoaffermazione li porta a rotture
titaniche, a coltivare il loro "io" a dispetto di tutto, con il timore di
non essere abbastanza grandi se rivelano il bisogno degli altri.
Per questo e' importante il pensiero di Arendt, un pensiero che fa ordine,
che da' misura, perche' viene incontro sia al desiderio di stare liberamente
al mondo, di autoaffermarsi e di pensare da se', sia al desiderio di
condividere con altri, con altre, mostrando come non ci sia contraddizione
ma anzi, l'uno si alimenti dell'altro.
In questa accezione, lo spazio e' importante nella vita pubblica, ma non
solo.
*
Voglio ricordare, in chiusura, una frase di Arendt a proposito dell'amore, e
che puo' valere anche per l'amicizia (Arendt aveva un talento per
l'amicizia, disse di lei Hans Jonas). Parlando del matrimonio del filosofo e
suo amico Jaspers, scrive in una lettera: "Tra due esseri umani, se non
cedono all'illusione di essere diventati un sola creatura in virtu' del loro
rapporto, puo' nascere di nuovo un mondo, e per Jaspers appunto, quella
felicita' [nella quale ha vissuto con la moglie] non e' mai stata una cosa
privata ma un mondo in miniatura, dove ha appreso, come da un modello, le
cose del mondo". Dunque Arendt, una pensatrice della politica, molto
diffidente nei confronti della sfera del privato (lo sente come il luogo del
ripiegamento, della chiusura nell'individualismo), ha tuttavia parole anche
per i sentimenti, dicendoci che se c'e' spazio (e cioe' un gioco di distanza
e vicinanza amorosa dove non ci si annulla nell'altro) anche le relazioni di
amicizia e di amore formano un mondo, un infra intangibile dove si appare
l'un l'altro, dove ci si rivela. L'unico mondo, scrivera' altrove, che lei -
ebrea tedesca profuga e per molti anni apolide - sia disposta a riconoscere
come patria.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1255 del 4 aprile 2006

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