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La nonviolenza e' in cammino. 1255
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1255
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 4 Apr 2006 00:17:35 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1255 del 4 aprile 2006 Sommario di questo numero: 1. Giorgio Nebbia, Pier Paolo Poggio: Un appello 2. Luciano Capitini: Un gesto intelligente 3. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento 4. Giulio Vittorangeli: Il pensiero razionale 5. Enrico Peyretti: Democrazia senza legge 6. Marina Di Bartolomeo: A scuola da Hannah Arendt 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. I COMPITI DELL'ORA. GIORGIO NEBBIA, PIER PAOLO POGGIO: UN APPELLO [Ringraziamo Giorgio Nebbia (per contatti: nebbia at quipo.it) e Pier Paolo Poggio (per contatti: poggiorav at libero.it) per questo intervento. Giorgio Nebbia, nato a Bologna nel 1926, docente universitario di merceologia, gia' parlamentare, impegnato nei movimenti ambientalisti e pacifisti, e' una delle figure di riferimento della riflessione e dell'azione ecologista nel nostro paese. Dal sito di Peacelink riprendiamo la seguente piu' ampia scheda: "Giorgio Nebbia, nato a Bologna nel 1926, professore ordinario di merceologia dell'Universita' di Bari dal 1959 al 1995, ora professore emerito, e' stato deputato e senatore della sinistra indipendente. Giorgio Nebbia si e' dedicato all'analisi del ciclo delle merci, cioe' dei materiali utilizzati e prodotti nel campo delle attivita' umane, agricole e industriali. Nel settore dell'utilizzazione delle risorse naturali ha condotto ampie ricerche sull'energia solare, sulla dissalazione delle acque e ha contribuito all'elaborazione dell'analisi del flusso di acqua e materiali nell'ambito di bacini idrografici. Nel corso delle sue ricerche, di ambito nazionale e internazionale, ha studiato il rapporto fra le attivita' umane e il territorio, con particolare riferimento al metabolismo delle citta', allo smaltimento dei rifiuti e al loro recupero, ai consumi di energia. Giorgio Nebbia e' autore di numerosissime pubblicazioni scientifiche e di alcuni libri divulgativi: L'energia solare e le sue applicazioni (Feltrinelli); Risorse merci materia (Cacucci); Il problema dell'acqua (Cacucci); Sete (Editori Riuniti); La merce e i valori. Per una critica ecologica del capitalismo (Jaca Book). Si e' occupato inoltre di storia della tecnica ed ha fatto parte di commissioni parlamentari sulle condizioni di lavoro nell'industria. E' unanimemente considerato tra i fondatori e i principali esponenti dell'ambientalismo in Italia". Tra le sue molte pubblicazioni segnaliamo particolarmente: Lo sviluppo sostenibile, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1991; La merce e i valori. Per una critica ecologica del capitalismo, Jaca Book, Milano; cfr. anche: Il problema dell'acqua, Cacucci, Bari 1965, 1969; La societa' dei rifiuti, Edipuglia, Bari 1990; Sete, Editori Riuniti, Roma 1991; Alla ricerca di un'Italia sostenibile, Tam tam libri, Mestre 1997; La violenza delle merci, Tam tam libri, Mestre 1999. Pier Paolo Poggio, nato ad Acqui Terme nel 1944, storico, direttore della Fondazione Luigi Micheletti e del Museo dell'industria e del lavoro di Brescia; autore di molti studi di storia delle idee politiche, ha scritto saggi sulla storia russa dell'Ottocento e del Novecento, sulla storia del movimento operaio, sull'archeologia industriale, sulla storia locale; ha partecipato attivamente all'azione in difesa dell'ambiente, pubblicando anche vari scritti sull'argomento. Tra le opere di Pier Paolo Poggio: Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaca Book, Milano; (a cura di), La Repubblica sociale italiana 1943-'45, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 1986; Il Sessantotto. L'evento e la storia, Fondazione Micheletti, Brescia 1990; (a cura di, con Aldo Bonomi), Ethnos e Demos. Dal leghismo al neopopulismo, Mimesis, Milano 1995; Una storia ad alto rischio. L'Acna e la Valle Bormida, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Nazismo e revisionismo storico, Manifestolibri, Roma 1997] Ci sono tempi in cui puo' essere comprensibile astenersi dal voto, per distacco dalla politica, indifferenza per le contese sul potere, critica nei confronti di un ceto politico a cui non si intende conferire la propria rappresentanza. Oggi una tale scelta, comunque argomentata, non ci pare condivisibile ne' possibile, a meno di riproporre il "tanto peggio tanto meglio" di infausta memoria. E' vero che non ci sono limiti al degrado, ma e' ora di fermarsi e di attrezzarsi per invertire la rotta. Non sara' facile ne' indolore, bisogna pero' cominciare. Bisogna cominciare a guardare in faccia alla realta' e a dire la verita'. Con l'attuale governo cio' e' impossibile, perche' basa la sua forza e il suo consenso sulle bugie e sull'illusione. L'illusione si e' trasformata in incubo; per uscirne un cambiamento politico non sara' sufficiente ma e' necessario. Per tale motivo vi invitiamo a votare per le forze di opposizione. La fratellanza e la solidarieta', il lavoro e la giustizia, l'ambiente e la pace, l'eguale dignita' di tutti gli esseri umani, debbono tornare a dare un significato alla politica. Rispetto a cio' un voto e' poca cosa, ma oggi e' indispensabile. 2. PROPOSTE. LUCIANO CAPITINI: UN GESTO INTELLIGENTE [Ringraziamo Luciano Capitini (per contatti: capitps at libero.it) per questo intervento. Luciano Capitini e' impegnato nel Movimento Nonviolento, nella Rete di Lilliput e in numerose altre esperienze e iniziative nonviolente; persona di straordinaria mitezza e disponibilita' all'ascolto e all'aiuto, ha condotto a Pesaro una esperienza di mediazione sociale nonviolenta; e' tra i coordinatori della campagna "Scelgo la nonviolenza"] Destinero' volentieri il 5 per mille della mia dichiarazione dei redditi al Movimento Nonviolento. Non si tratta di un sacrificio - la cifra non mi viene ulteriormente sottratta, fa parte delle tasse che comunque pago. Non e' una obiezione di coscienza, come eravamo soliti fare: qui l'opportunita' ci e' offerta dallo stato. Si tratta quindi soltanto di una scelta, e di un gesto intelligente (se ci e' possibile destinare qualche euro a chi reputiamo degno, senza alcun sacrificio, perche' non farlo?). La mia associazione piu' cara, quella a cui sono piu' legato, l'Associazione Amici di Aldo Capitini, non gode dei requisiti richiesti: e la seconda e' sicurissimamente il Movimento Nonviolento: gente che stimo, con una storia impeccabile, con idee che condivido. Si', destinero' il 5 per mille al Movimento Nonviolento. 3. PROPOSTE. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO [Dagli amici del Movimento Nonviolento (per contatti: Movimento Nonviolento, sede nazionale, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it o anche: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org) riceviamo e diffondiamo] Cari tutti, con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento. Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente soldi gia' destinati allo Stato. Per poter destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento, e' sufficiente appore la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il numero di codice fiscale dell'associazione. Il codice fiscale e': 93100500235. Sostenete un'associazione che da oltre quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della nonviolenza. Grazie. Il Movimento Nonviolento sede nazionale, via Spagna 8, 37123 Verona 4. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: IL PENSIERO RAZIONALE [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"] I diritti umani sono una conquista di civilta' raggiunta con fatica, una conquista universale, come sancito dalla "Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali delle Nazioni Unite", adottata il 27 dicembre '78, che recita all'art. 1: "Tutti gli esseri umani appartengono alla stessa specie e provengono dallo stesso ceppo. Essi nascono uguali in dignita' e diritti e fanno tutti parte integrante dell'umanita'". Non solo, una particolare attenzione e' riservata alla persona del rifugiato, colui che "temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalita', appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui e' cittadino e non puo' o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese..." (Art. 1 della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, 1951). Tutto questo, almeno sulla carta. Perche' la realta' e' ben piu' amara. * Nei fatti, una parte consistente della popolazione mondiale e' privata dei diritti basilari; ed inevitabilmente cerca rifugio e protezione nel cosiddetto Primo Mondo. Cosi', non pochi tra gli immigrati che sbarcano sulle coste italiane sono profughi che legittimamente chiedono asilo al nostro Paese. Molti di loro, vittime di violenze o torture nei paesi di origine. Solo che la nostra risposta e' quella della vergogna dei centri temporanei di detenzione (denominati ipocritamente Centri di permanenza temporanea, in sigla: Cpt); e la sfida tra centrodestra e centrosinistra sembra essere tra chi e' piu' bravo nel renderli efficienti. Qui sta il problema vero: che, nell'attuale panorama politico-istituzionale, di partiti e gruppi dirigenti che vogliano la soppressione di questi centri se ne vedono pochi, e assolutamente minoritari. Ancor meno in questa velenosa campagna elettorale. La sinistra, come la destra, non ha trovato risposte adeguate al fenomeno dell'immigrazione, per quanto non sia piu' un fenomeno nuovo per il nostro Paese. Si calcola che il passaggio, almeno formalmente per l'Italia, da paese di emigrazione a paese di immigrazione sia avvenuto oramai nel 1975, allorquando - per la prima volta dall'unificazione dello Stato nel 1870 - e' stato stimato in circa 200.000 unita' il saldo positivo tra entrate ed uscite. Cosi' la nostra classe politica, nella sua stragrande maggioranza, ha finito con l'adeguarsi all'analisi dominante che riduce il tema dell'immigrazione ad un problema squisitamente di sicurezza, regolamentazione e repressione; omettendo le cause che ne stanno alla base. Questo e' possibile dal momento che si riduce la politica essenzialmente all'amministrazione dell'esistente ("pulita" quella del centrosinistra, "corrotta" quella del centrodestra); nella convinzione che la politica sia principalmente conquista e mantenimento del potere. * Ecco perche' forse oggi sembra troppo chiedere un pensiero razionale che sappia analizzare le grandi problematiche che affliggono l'umanita' intera. Eppure dalla "scoperta" del fuoco, ovvero dalla scoperta della sua riproducibilita', ogni forma di progresso delle condizioni di vita umane e' stata raggiunta attraverso questa semplice catena di procedimenti che, introiettata e applicata sistematicamente, ha gettato le basi per la struttura della nostra civilta': il pensiero razionale. Perfetto o meno, si tratta dell'unico strumento di interpretazione del mondo a nostra disposizione che ancora resista all'usura, nonostante le tempeste che periodicamente ne scuotono le fondamenta. Quello attuale sara' forse ricordato come uno tra i periodi piu' violenti della storia contemporanea, un momento in cui la capacita' di produrre pensiero da parte di una civilta' si trova sbalestrata, inferma, al crocevia di venti contrastanti. Ritornare alla sostanza del pensiero razionale, riscoprire la sua struttura fondamentale di analisi, scomposizione, riproduzione di un evento e raccontarci la sua costruzione, diventa allora un'operazione piu' che mai necessaria. * Per tutto questo il mio personale pensiero razionale mi dice di votare la coalizione di centrosinistra. Sara' ancora una volta un "voto contro" invece che un "voto per"; ma come ha scritto Severino Vardacampi: "Voto per la coalizione di centrosinistra per impedire che il golpe della coalizione berlusconiana, gia' assai avanzato, possa giungere a compimento. Voto per la coalizione di centrosinistra nella speranza che si riesca a salvare gli istituti e gli spazi di legalita', di democrazia, di civile convivenza ancora esistenti". 5. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: DEMOCRAZIA SENZA LEGGE [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti e.pey at libero.it) per questo intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario. Nanni Moretti (Brunico 1953) e' uno dei maggiori autori cinematografici italiani degli ultimi decenni. Opere di Nanni Moretti: Io sono un autarchico (1976); Ecce bombo (1978); Sogni d'oro (1981); Bianca (1984); La messa e' finita (1985); Palombella rossa (1989); La Cosa (1990); Caro diario (1993); Aprile (1998); La stanza del figlio (2001); Il caimano (2006). Opere su Nanni Moretti: Flavio De Bernardinis, Nanni Moretti, Il Castoro Cinema, Milano] Solo oggi ho visto "Il caimano" di Nanni Moretti, volutamente senza aver letto commenti. Dice e mostra quello che gia' sappiamo. Ma la politica consiste precisamente nel dire le cose, nel non tacere, nel liberare la parola, per poter decidere. In questo film sull'Italia, la politica e' scomparsa: non compare mai l'opposizione parlamentare. Questa critica, forse eccessiva, e' simbolicamente terribile. Solo i giudici resistono al caimano, e un solo giornalista, che somiglia a Giorgio Bocca. Il senso della denuncia di Moretti e' questo: la folla ipnotizzata e' contro la legge. Il popolo e' sedotto e addormentato con le favole, come i due bambini nel film. Il caimano ha creato e utilizzato per se' una democrazia senza legge. E' la classica degenerazione plebiscitaria che Bobbio bollava, gia' riguardo a Craxi, come "democrazia dell'applauso". A questa falsa democrazia servono i partiti personali, nati fuori dalla storia popolare e dalla cultura costituzionale, senza programma sociale, per ridurre la legge (meno stato) e dare mano libera ai forti (piu' mercato). Nella democrazia senza legge il consenso popolare annulla il reato, pone l'eletto sopra la legge. La qualita' della democrazia dipende dalla qualita' di chi ha potere, ma di piu' dalla qualita' del popolo. Nel film, la folla fedele al caimano applaude il condannato e condanna i custodi della legge. L'Italia si avvolge "tra orrore e folclore". Questa denuncia - per la quale il piccolo produttore scalcagnato inventato da Moretti vende tutto quello che ha - e' opposizione della cultura, della politica, della coscienza. Allora c'e', un'opposizione, c'e' una resistenza. 6. RIFLESSIONE. MARINA DI BARTOLOMEO: A SCUOLA DA HANNAH ARENDT [Dal sito web.cheapnet.it/autoriforma riprendiamo il seguente intervento di Marina Di Bartolomeo tenuto al convegno "Hannah Arendt. Liberta' e autonomia di una pensatrice contemporanea", svoltosi a Prato, Palazzo Novellucci, il 27 marzo 2004. Marina Di Bartolomeo, docente e saggista, collabora a varie riviste. Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l 'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen (1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e' apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2. 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita' e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 2005. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000] Di Hannah Arendt la filosofa Agnes Heller ha scritto: e' una di quelle "donne davvero libere perche' pensano e agiscono alla luce del giorno"; una che del pensare da se', in autonomia, ovvero fuori dal coro, ha fatto il contrassegno dell'intera esistenza. Il suo pensiero e' carico di un'anomalia perturbante (Adriana Cavarero), poiche' sovverte radicalmente e consapevolmente tutto l'impianto della tradizione filosofica, aprendo un altro gioco, un'altra prospettiva: si pone fuori dalla logica astratta dell'Uno, sostituendo al primato dell'Uomo la pluralita' degli umani, al "vivere per la morte" la centralita' della nascita, all'individualismo l'agire in comune. Per questo, il pensiero di Arendt e' intensamente relazionale. Per lei, la nostra singolarita', il nostro differire, si esalta alla luce del pubblico, quando ci si espone allo sguardo degli altri, quando si parla e si agisce insieme a loro. E' nell'agire in uno spazio pubblico condiviso che si realizza compiutamente la propria umanita'. Un pensiero della differenza in relazione, dunque, un grande pensiero di origine femminile, che si incrocia in modo fecondo con attuali teorie e pratiche della differenza sessuale. Le riletture femministe di Arendt, infatti, ne sviluppano tutte le potenzialita' latenti, posto che la differenza sessuale non e' una condizione sociale, l'appartenenza a un gruppo che ha qualcosa da rivendicare, una sorta di categoria o lobby, ma "il pensiero che va in cerca di una relazione di differenza fra se' e l'altra, fra se' e l'altro" (Luisa Muraro). * Allora, e qui vengo al tema della mia relazione, Arendt ha molto da dire, e su piu' piani, a un luogo come la scuola, se per scuola si intende quell'insostituibile occasione di incontro fra generazioni e sessi diversi, intorno alla trasmissione/costruzione di un sapere sensato, non accademico, segnato dalla relazionalita' e dallo scambio. E' in questo contesto che ho incontrato Arendt, nel lavoro quotidiano e nella pratica politica all'interno del movimento di cui faccio parte, l'autoriforma della scuola. Di questo incontro, delle riflessioni che mi ha spinto a fare, vorrei parlare ora, nella convinzione che la scuola e' il cuore della societa', non un affare da specialisti, perche' riguarda i nuovi nati, quelli che vengono dopo di noi. In questa prospettiva, le categorie portanti del pensiero di Arendt si rivelano dei potenti strumenti di lettura e analisi critica della realta', offrendo un contributo illuminante su almeno su tre piani: 1) rispetto alla forma scuola pubblica, alla natura dei processi che si svolgono all'interno di una scuola che si voglia veramente pubblica; 2) rispetto alla relazione fra insegnanti e studenti, e piu' in generale fra nuove e vecchie generazioni; 3) rispetto alla didattica della filosofia, per la radicalita' con cui viene ripensato tutto il pensiero occidentale. E' di questi tre piani che vorrei ora parlare. * Innanzitutto, la questione scuola pubblica-scuola privata, che in questi anni ha prodotto un dibattito molto vivace e vari interventi legislativi. Da una parte, un vasto schieramento trasversale si e' impegnato (purtroppo con successo) a far entrare il privato, e i valori del privato, nel sistema pubblico statale, in nome della liberta' delle famiglie e della competizione; dall'altra, c'e' chi difende la scuola statale in nome dell'eguaglianza e dell'omogeneita' sul territorio nazionale. Ebbene c'e' una nozione, centrale nel pensiero di Arendt, ed e' quella di spazio pubblico, a partire dalla quale tutta la questione si configura in modo nuovo, uscendo dalle strettoie di una polemica ora strumentale ora angusta. Vorrei dare la parola proprio a lei, leggendo un passo di Vita activa: "la realta' della sfera pubblica si fonda sulla presenza simultanea di innumerevoli prospettive e aspetti in cui il mondo comune si offre, e per cui non puo' essere trovata ne' una misura comune ne' un comune denominatore. E' la molteplicita' prospettica a fondare la vita pubblica, mentre nella societa' di massa tutti sono imprigionati nella soggettivita' della singola esperienza, che non cessa di essere singolare anche se viene moltiplicata innumerevoli volte. La fine del mondo comune viene a prodursi quando esso viene visto sotto un unico aspetto e puo' mostrarsi in una sola prospettiva". Dunque, lo spazio pubblico e' il luogo in cui le cose del mondo si vedono in tutta la loro poliedricita', derivante dal fatto che ciascuno ha la propria angolatura da cui osservarle; e la realta' non coincide mai con una sola parte ne' con una somma incomunicante di parti, ma e' il frutto, si potrebbe dire, di un dialogo di parzialita'. Veniamo allora alla scuola. Seguendo Arendt pubblica e' la scuola che, indipendentemente dalla sua forma giuridica, costruisce un sapere condiviso e plurale. E' escluso che pubbliche possano definirsi le scuole di parte, confessionali o altro, perche' qui l'omogeneita' ideologica, la visione parziale, e' esplicitamente perseguita come fine ultimo; e neppure le scuole-impresa, che hanno finalita' di lucro, perche' di nuovo questa loro ragion d'essere porta a subordinare qualunque scelta alla logica del mercato, non certo a quella della pluralita'. Ma non si puo' nemmeno dire che la scuola statale e' pubblica per definizione, come se fosse un dato di fatto. Non e' pubblica la scuola statale quando si adegua a un modello aziendale, entrando nella logica della domanda e dell'offerta e dell'efficienza imprenditoriale; quando si fa macchina ideologica e di consenso; quando si fonda su una concezione individualistica dell'insegnamento (il cui simbolo e' la porta che ci chiudiamo alle spalle). E ci possono essere invece esperienze di scuola non statale che sono pubbliche, perche' laiche e plurali nel loro progetto, fuori dal pensiero unico (confessionale o del profitto), tali da consentire la molteplicita' prospettica. Non sono molte, a dir il vero, in Italia; ma, soprattutto nella primissima fascia di scolarita', ci sono. E forse sarebbe augurabile che ce ne fossero di piu', di "scuole modellate sul territorio e in grado di produrre socialita'" (Anna Pizzo), autorganizzate, un polo fluido e in dialogo con quello statale, necessariamente dai limiti piu' marcati. Invece di dare un definizione puramente formale, giuridica, di pubblico (che e' l'atteggiamento prevalente in entrambi i fronti), da Hannah Arendt ci viene insomma l'invito ad ancorare la nozione di pubblico a cio' che realmente avviene nel suo spazio, dentro i suoi confini. Fare scuola pubblica e' un fine, cui si arriva tutte le volte che si sta nella dimensione della pluralita'. * Passo ora al secondo aspetto, quello della relazione fra insegnanti e studenti, che e' una forma particolare, mediata dal sapere, dell'incontro generazionale, dell'incontro fra quelli venuti prima al mondo e quelli venuti dopo, i nuovi nati. Ebbene, da Arendt ci viene un'idea preziosa, che e' quella di responsabilita'. Ne parla, fra l'altro, in un suo saggio sulla scuola, La crisi dell'istruzione. Di nuovo, le lascio la parola: "gli educatori rappresentano di fronte al giovane un mondo del quale devono dichiararsi responsabili anche se non l'hanno fatto loro, e anche se, in segreto o apertamente, lo desiderassero diverso. Questa responsabilita'... e' implicita nel fatto che gli adulti introducono i giovani in un mondo che cambia di continuo". Continua dicendo che "l'insegnante e' autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilita'"; "e' una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra, che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo". Essere responsabili significa saper introdurre i ragazzi, le ragazze, nel mondo, dando loro strumenti per decifrarlo. La rinuncia a questo "di piu'" equivale a dire: "In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi e' un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati a renderci conto di nulla". Come leggere queste parole? Io penso che ci si possa intravedere un invito a farsi carico della disparita' generazionale nel senso del non tirarsi indietro, dell'essere dentro in prima persona nella relazione, facendoci mediazione vivente fra il sapere sedimentato nel tempo e il sapere dei ragazzi e delle ragazze (l'insegnante media fra vecchio e nuovo, dice Arendt). Nessuna neutralita', cioe': siccome il mondo e' plurale, esserne responsabili significa rappresentare agli occhi dei ragazzi e delle ragazze la sua poliedricita', la sua complessita', ma sempre a partire dalla propria personale angolatura, dal proprio radicamento in un punto di vista, non sfuggendo a questa chiamata all'impegno. Questa esposizione di se', in prima persona, esclude il ricorso alle formule preconfezionate, di qualunque tipo. Sono fuga nell'irresponsabilita' sia l'affidamento ai tecnicismi, all'oggettivita' (che hanno costituito l'ossatura del progetto riformatore berlingueriano) sia la recente riproposizione della figura dell'insegnante come depositario di un patrimonio di saperi e valori codificati, da consegnare immobile e riperpetuare nelle nuove generazioni. Anche questa idea un po' monumentale del sapere puo' essere un modo per chiamarsi fuori, per sfuggire la problematicita' della mediazione fra vecchio e nuovo, per non esercitare una vera autorita'. Perche' la vera autorita' ce la giochiamo li', sul campo, nel rapporto con i ragazzi e le ragazze che abbiamo di fronte, a cui ci si espone non come disincarnati custodi della tradizione, ma sempre come donne o uomini in carne e ossa, con la propria singolarita', con il proprio taglio sulle discipline, sulla cultura, e sempre in uno scambio dinamico con loro. * Perche' poi l'altro soggetto della relazione, i ragazzi e le ragazze, non sono certo intesi da Arendt come dei vasi da riempire, secondo la metafora della pedagogia tradizionale. Sono piuttosto i nuovi nati, che portano nel mondo tutto il carico di imprevisto di un nuovo cominciamento. La nascita corporea e' infatti per Arendt nuovo inizio, l'immissione di un nuovo imprevedibile nel mondo; per cui, se noi siamo in grado di iniziare qualcosa, di interrompere il ciclo delle ripetizioni, di rinnovare il mondo, e' in virtu' del fatto che siamo nati. Qui c'e' la radice di un atteggiamento di grande apertura di Arendt nei confronti dei giovani, i nuovi venuti. In ognuno di loro c'e' per lei qualcosa di potenzialmente rivoluzionario, il germe di un rinnovamento che va custodito: a loro tocca di "rimettere in sesto il mondo". Per questo, lei critica quell'atteggiamento irrispettoso nei confronti dell'inedito costituito dalle nuove generazioni, che consiste nel "non tacere sul futuro", cioe' nel prescrivere loro comportamenti per la vita, iniziarli a un'arte della vita, con l'invadenza di chi presume gia' di sapere quale sia il giusto cammino che debbano intraprendere. Significativo e' un passo, nei frammenti pubblicati in Che cos'e' la politica?, in cui invita a "non depredare i nuovi nati della loro spontaneita'"; il che non va inteso in senso psicologico (questa prospettiva le e' del tutto estranea) ma in senso ontologico, come invito a non soffocare la liberta' di agire delle nuove generazioni. Come tradurre, nella quotidiana relazione educativa, questa idea? Come disporsi, fra tante contraddizioni, a quest'opera tanto in controtendenza con gli orientamenti prevalenti nella societa'? Io credo che innanzitutto si stia all'altezza di questo rifiutandoci di chiudere le nuove generazioni in una categoria, quella appunto del giovane, costruendo su di loro delle teorie generali. Non esistono i giovani, se non in un'ottica di appiattimento conformistico; esistono soggetti singolari, che rispetto a noi sono nell'inedita posizione di nuovi nati. Spesso a scuola (ma non solo) ci accade di fare una duplice operazione su di loro. Succede quando ci lamentiamo di come sono diversi da noi, vuoti, senza ideali e senza senso del dovere, figli del consumismo, rimbecilliti dalla televisione ecc., commisurandoli magari a quegli eroici anni Sessanta-Settanta di cui noi siamo stati protagonisti. Ma cosi' li blocchiamo in una rappresentazione uniforme, senza sfumature, tutti come soggetti a rischio da tutelare o soggetti da colpevolizzare, e nello stesso tempo, rovesciandogli addosso la colpa di non essere come noi, facciamo di noi stessi una sorta di culmine della storia. E' forse una reazione difensiva, che ci rende poi incapaci di vedere come sono veramente, nella loro differenza da noi e fra di loro; una differenza non sempre facile da capire e da sopportare, magari, ma fertile se ci si sporge verso di loro, spostandoci nel gesto anche noi, squilibrandoci. Il che oggi e' ancora piu' urgente se e' vero, come non sono io la prima a pensare, che attualmente siamo di fronte a una frattura antropologica, per cui le nostre mappe cognitive, emotive ecc. non sono piu' le loro. Per un insieme di motivi, a cui non e' estraneo il crescente influsso dei nuovi media, sta emergendo nei ragazzi e ragazze, mi pare, una sorta di pensiero situazionale, legato al contesto, capace di orientarsi nel disordine, nella simultaneita' di suggestioni e di stimoli differenti. Un pensiero che procede per flussi, per flash, per illuminazioni, e che non e' lineare, sequenziale, rigoroso come quello a cui noi siamo abituati. Anche qui, invece di evocare come qualcuno ha fatto degli scenari apocalittici, di pura perdita della cultura, forse conviene rivolgere la nostra intelligenza a intendere questa novita', che certo a scuola ci disorienta abbastanza, e a farci mediatori, mediatrici, tra vecchio e nuovo, perche' il filo della tradizione comunque non si spezzi, e il testimone passi da noi a loro. * Vorrei ora affrontare l'ultimo discorso. Ha senso, e quale, proporre il pensiero di Arendt a scuola, farne una proposta didattica? Che abbia senso non ho dubbi, e infatti ho accolto con piacere la proposta di scrivere un modulo su di lei, in un manuale di filosofia che e' uscito quest'anno. Sono convinta che Arendt debba trovare uno spazio nei libri di testo, non perche' e' una donna e quindi per un motivo di equita', di pari opportunita'. Questa non e' una prospettiva che mi interessa: mi sembra una forma debole di rivendicazionismo, consistente nel promuovere il sesso svantaggiato, riequilibrare gli spazi (nei manuali, nelle classi, nella vita) per far posto alle donne, senza per questo mutare nelle sue linee di confine e nella struttura interna la geografia monosessuata del sapere. No. Arendt e' bene che stia nei manuali perche' e' una grande pensatrice e conoscerla e' un'occasione da non perdere per tutti, donne e uomini. In Arendt si puo' trovare una miniera di spunti possibili, dalla critica del totalitarismo alla critica della societa' di massa, fino a un discorso ecologico ante litteram. Ma non e' tanto a questo che mi riferisco ora, quanto al nocciolo duro del suo pensiero, quell'anomalia a cui gia' ho accennato. Sono convinta che, collocato in questa luce, il pensiero di Arendt abbia da dire molto alle nuove generazioni, sia molto attuale. Anche perche', pur senza nessuna concessione a un linguaggio suggestivo, di facile gradimento (anzi e' sempre molto rigoroso, direi severo), il suo discorso puo' arrivare a toccare un piano esistenziale, di riflessione e quindi di modificazione di se'. Per questo preferisco parlare di incontro con Arendt, piuttosto che di studio, per sottolineare il carattere aperto di una conoscenza che si puo' prolungare oltre il momento dello studio, che puo' trasformare interiormente. Certo non sara' cosi' per tutti i ragazzi e tutte le ragazze; non lo e' mai, del resto; e dipendera' da tanti aspetti, non ultima la presenza dell'insegnante e il suo non solo dire, ma mostrare, nelle pratiche di relazione, il nucleo vivente del pensiero di questa autrice. Ma, parafrasando proprio Arendt, che lo diceva a un altro proposito, bastano pochi casi fortunati (pochi studenti toccati dalle sue parole) ad illuminare un percorso, a dargli senso. E "ogni piu' piccolo evento ha in se' il germe dell'illimitatezza, perche' puo' produrre conseguenze incalcolabili". * Il primo seme che l'incontro con Arendt puo' gettare attiene alla politica. In Arendt, come si sa, la politica e' la forma piu' alta dell'agire umano, quella da cui prende senso pieno l'esistenza umana. Ma cio' che lei intende per politica non ha niente a che fare con il primato del governo, della partitocrazia, della macchina amministrativa. La politica non e' affare da professionisti, non e' un tecnica. E' lo spazio relazionale creato dall'essere insieme degli umani. Qui si fa politica per amore del mondo, per trovare senso, per la passione di esistere insieme ad altri, prendendo parola sugli affari comuni senza deleghe e rappresentanze; e se ne ottiene in guadagno la liberta', che e' il contenuto stesso dell'agire e non un fine a cui tendere. Come la danza, come il gioco, l'attivita' politica racchiude in se' il suo senso. Oggi, la parola politica ha cattivo corso, fra i ragazzi e le ragazze ancor piu' che fra adulti. C'e' un comune rigetto della politica istituzionale, identificata appunto con i giochi di potere, che si manifesta in una varieta' di modi, ma senza molte parole per pensarsi, per articolarsi e uscire dall'immediatezza. Cosi' ad esempio succede che presso molti ragazzi e ragazze il rifiuto della politica vada di pari passo con l'introiezione profonda delle sue categorie, come il principio della rappresentanza, della delega: tanto che succede spesso di sentir chiamare capi d'istituto i loro compagni eletti nel consiglio d'Istituto ed e' da loro che si aspettano le iniziative, la proclamazione delle occupazioni, e cosi' via, ricalcando il gioco della delega, con una minoranza che si attiva e gli altri si adagiano nella passivita'. D'altra parte, in questi ultimi anni sta emergendo in certe fasce giovanili un nuovo interesse per il mondo, per l'agire in prima persona, che si esprime in forme di volontariato, di solidarieta', di aggregazioni anche fluide, momentanee, informali, intorno a temi come il "no alla guerra" e cosi' via. A scuola la sentiamo, quest'aria nuova. Accade che le occupazioni siano un po' meno rituali oppure, come a scuola mia, che nasca un comitato per la pace, che si dia vita a un cineforum, che si organizzino manifestazioni pacifiste per il paese, o ancora che si spendano delle serate per incontrarsi con adulti/insegnanti, creando uno spazio di dialogo fuori dai confini istituzionali. Per quel che posso intravedere, sono aggregazioni tenute insieme da un filo esile, che - prive di struttura come sono - si reggono per vincoli molto personali; quindi si sciolgono magari appena qualcuno lascia la scuola dopo la quinta, e poi si riformano con accenti e tonalita' diverse. Insomma c'e' una sorta (piu' che di movimento) di area, che ha il suo orizzonte in una socialita' da arcipelago, fuori da organizzazioni e piattaforme. Il tutto e' molto connotato esistenzialmente, con codici identitari quasi di tribu', con i loro segnali di riconoscimento diversi da gruppo a gruppo, e molto agito nello spazio del presente. Sembra mancare in loro la linea verticale che congiunge il passato al futuro, ma in cambio hanno un forte senso del qui e ora, un bisogno di luoghi comuni, in cui si potrebbe leggere un desiderio di polis: una piazza aperta, senza cittadelle proibite, dove incontrarsi in liberta', stringere amicizie, esserci e sentirsi, esistere come corpo collettivo, nel piacere gratuito, senza finalismi. Per certi versi, niente potrebbe essere piu' lontano dal pensiero classico di Arendt, di questa mescolanza di emozioni, desideri, talvolta confusi e senza parole, quasi piu' espressi in un'intensa corporeita' che in un discorso. Eppure, a ben guardare, ci sono delle affinita', tanto che il lessico arendtiano puo' offrire una sorta di grammatica entro cui articolare quelle esperienze, che sono di iniziazione spesso inconsapevole alla politica, dandogli una profondita', un orizzonte. Fra le parole di questo lessico, ne spicca fra l'altro una che ha stretti legami con l'intelligenza femminile sul mondo e che, allo stesso tempo, sembra sorprendentemente vicina al sentire giovanile: senso del presente (lei, in verita', non usa questa espressione, ma tutto il suo discorso ne e' impregnato). Incontrare Arendt e' fare i conti con un pensiero che e' attento al presente, a cio' che accade una volta sola, alla dimensione fragile e discontinua dell'azione politica, di quello spazio di liberta' che puo' crearsi in ogni momento in cui gli umani agiscono in relazione, ma che puo' sparire, dissolversi, altrettanto rapidamente, quando al posto del linguaggio e del conflitto subentra la violenza o il dominio di uno sull'altro. E, accanto a presente, essere-insieme, pluralita', liberta': una costellazione di parole che dice a questi ragazzi, ragazze, che si puo'. Si puo' agire a partire da se', riprendere nelle proprie mani le grandi scelte, non affidarsi agli esperti, trovando qui e ora una pienezza esistenziale e muoversi verso un tempo nuovo. Il che non significa un facile ottimismo: Arendt ha una consapevolezza acuta degli orrori della contemporaneita', non solo il totalitarismo ma lo stesso conformismo delle democrazie liberali, l'uomo-massa, il pensiero unico che fa del mondo un deserto. Sa bene come gli spazi siano stretti, come la macchina amministrativa stritoli e livelli. Pero' non cede mai alla tentazione, questa si' facile, di una visione apocalittica, che chiude gli spazi del futuro, che sa gia' come si svolgera' il corso della storia. Anche questo pessimismo e' un deprivare i nuovi nati della spontaneita', perche' vuole persuaderli che, in fondo, non c'e' niente da fare. * L'altro seme di cui vorrei parlare riguarda l'originale elaborazione del tema della dipendenza, nel senso di riconoscimento dell'origine e di legame con il mondo. Un tema che si ritrova oggi nel pensiero della differenza (si pensi a Muraro). In Arendt "io" non e' piu' al centro, ma lo e' il movimento verso l'altro, il punto terzo dell'incontro. Infatti noi siamo esseri condizionati, non autosufficienti: riceviamo vita da una madre, incarnati in un singolare e concreto corpo sessuato, e veniamo alla luce in un mondo plurale che gia' c'era prima di noi, e qui riceviamo senso dalla presenza degli altri. La categoria della nascita permette di vedere che noi siamo esseri costitutivamente relazionali, fin dall'origine (l'ha ben messo in luce Adriana Cavarero). Con questa categoria si dice che non ci siamo fatti da soli, che veniamo dopo, dovendo la nostra esistenza unica a un'altra; e che proprio per questo esser derivati siamo capaci di liberta'. Proprio in quanto nati, infatti, siamo a nostra volta capaci di far nascere, ovvero di ripetere in un certo senso il gesto materno, dando vita a parole e azioni nuove, che sono le nostre, che provengono dalla nostra irriducibile singolarita', hanno il nostro segno. Uno dei grandi rivolgimenti prospettici operati da Arendt consiste proprio nel tener insieme dipendenza e liberta', dire che questi vincoli sono la condizione della nostra possibilita' di agire libero. Quindi, per Arendt, noi siamo inseriti in un vasto insieme di legami, verticali e orizzontali, e proprio da questi legami traiamo la nostra forza e la nostra liberta'. Corollario di questa nuova prospettiva e' che l'individualismo e l'autosufficienza del soggetto, in cui il pensiero moderno ha fatto consistere la liberta', sono invece l'esatto contrario della liberta'. L'individuo isolato e' deprivato di una dimensione fondamentale dell'esistenza e cade facilmente nella prigione dei regimi di massa, totalitari o democratici, dove gli individui sono ammassati l'uno sull'altro, tutti uguali, omologati e soli. Per capire meglio l'intreccio fra liberta' e legami bisogna infatti tener presente che il mondo della politica si descrive in Arendt in termini di spazialita': lo spazio pubblico e' cio' che ci unisce, ci tiene insieme (la relazione) ma anche la distanza che impedisce di caderci addosso l'un l'altro, diventando corpo unico (la differenza). Quando se ne parla, i ragazzi (ma non solo loro) rimangono spesso interdetti. Non hanno mappe mentali dove collocare questo pensiero. Infatti il loro bagaglio di esperienze e di sapere prevede la dicotomia indipendenza/dipendenza, una polarita' che li affatica, perche' oscillano fra la spinta a ridurre a zero lo spazio fra se' e gli altri e quella a farsi il vuoto intorno: cosi', ora si ammassano nel gruppo, appiattendosi nel conformismo, oppure "fanno massa" nella coppia, coltivando l'illusione di una fusione amorosa, e in entrambi i casi finiscono per rinnegare qualche parte di se'; ora il desiderio di autoaffermazione li porta a rotture titaniche, a coltivare il loro "io" a dispetto di tutto, con il timore di non essere abbastanza grandi se rivelano il bisogno degli altri. Per questo e' importante il pensiero di Arendt, un pensiero che fa ordine, che da' misura, perche' viene incontro sia al desiderio di stare liberamente al mondo, di autoaffermarsi e di pensare da se', sia al desiderio di condividere con altri, con altre, mostrando come non ci sia contraddizione ma anzi, l'uno si alimenti dell'altro. In questa accezione, lo spazio e' importante nella vita pubblica, ma non solo. * Voglio ricordare, in chiusura, una frase di Arendt a proposito dell'amore, e che puo' valere anche per l'amicizia (Arendt aveva un talento per l'amicizia, disse di lei Hans Jonas). Parlando del matrimonio del filosofo e suo amico Jaspers, scrive in una lettera: "Tra due esseri umani, se non cedono all'illusione di essere diventati un sola creatura in virtu' del loro rapporto, puo' nascere di nuovo un mondo, e per Jaspers appunto, quella felicita' [nella quale ha vissuto con la moglie] non e' mai stata una cosa privata ma un mondo in miniatura, dove ha appreso, come da un modello, le cose del mondo". Dunque Arendt, una pensatrice della politica, molto diffidente nei confronti della sfera del privato (lo sente come il luogo del ripiegamento, della chiusura nell'individualismo), ha tuttavia parole anche per i sentimenti, dicendoci che se c'e' spazio (e cioe' un gioco di distanza e vicinanza amorosa dove non ci si annulla nell'altro) anche le relazioni di amicizia e di amore formano un mondo, un infra intangibile dove si appare l'un l'altro, dove ci si rivela. L'unico mondo, scrivera' altrove, che lei - ebrea tedesca profuga e per molti anni apolide - sia disposta a riconoscere come patria. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1255 del 4 aprile 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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