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La nonviolenza e' in cammino. 1218
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1218
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 26 Feb 2006 00:17:45 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1218 del 26 febbraio 2006 Sommario di questo numero: 1. Anna Bravo ricorda Anna Segre 2. Augusto Cavadi: Anatomia dell'universita' nel ricordo di uno storico 3. Giovanni Gandini 4. Ibrahim Rugova 5. Robert Sheckley 6. Pietro Maria Toesca 7. Umberto Eco: Filosofare al femminile 8. Benito D'Ippolito: In difesa delle piante ornamentali. Prosopopea 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. MEMORIA. ANNA BRAVO RICORDA ANNA SEGRE [Dal sito della Fondazione Alexander Langer (www.alexanderlanger.org) riprendiamo l'intervento di Anna Bravo: in ricordo di Anna Segre al convegno di Torino del 16 -17 giugno 2005. Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it), storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003. Anna Segre, scomparsa nel 2004, e' stata docente di geografia economica e politica dell'ambiente all'Universita' di Torino, ricercatrice nei campi della sostenibilita' ambientale dello sviluppo, dello sviluppo locale e dei sistemi territoriali locali, di una visione di genere dello sviluppo, di problemi ambientali e cartografia; persona di forte impegno civile, impegnata nel tramandare la memoria della Shoah e nel contrastare ogni violazione dei diritti umani. Da un documento sottoscritto da colleghe e colleghi riprendiamo le seguenti parole in suo ricordo: "Le linee di pensiero e di ricerca, le esperienze, le relazioni umane e politiche in cui si e' impegnata nel corso della sua vita sono state molto numerose e varie. Pur se e' ben difficile fare riemergere tutta la complessita' e la ricchezza della sua figura, si vuole dare valore almeno ad alcuni degli aspetti che paiono essere stati per lei piu' intensi e piu' significativi. Il primo e' l'attenta tenacia con cui Anna nella ricerca, nell'insegnamento e nell'impegno civile mirava a saldare le dimensioni teoriche e concettuali della geografia economica e delle politiche ambientali con il piano concreto dei problemi e dei soggetti presenti sul territorio. Insegnava infatti Geografia economica e Politica dell'ambiente presso la Facolta' di Lettere e Filosofia dell'Universita' degli Studi di Torino, ma al tempo stesso si impegnava direttamente nelle iniziative sul terreno: ricordiamo in particolare che all'inizio degli anni '90 era stata eletta nel Consiglio Regionale del Piemonte nelle liste dei Verdi. Importante e' stato poi il rapporto di Anna con l'ebraismo: l'amore per la cultura ebraica, nei suoi fondamenti spirituali e nei suoi aspetti minuti; l'interesse per la storia ebraica, in particolare la storia della Shoah, cui non solo ha dedicato un'attenzione costante, ma ha offerto un contributo di rilievo, pubblicando il diario che suo padre Renzo aveva tenuto nei venti mesi dell'occupazione nazista, ricostruendo le vicende della sua famiglia, promuovendo la conoscenza pubblica dello sterminio fino a assumere su di se' il ruolo difficilissimo di candela della memoria. Sensibile alle questioni sollevate dalla prospettiva di genere, e' stata rappresentante del Dipartimento Interateneo Territorio nel Cirsde (Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne dell'Universita' di Torino) e vicepresidente della Fondazione Langer: amava i costruttori di ponti, gli esploratori di frontiera". Tra le opere di Anna Segre: (a cura di), Renzo Segre, Venti mesi, Sellerio 1995; con Egidio Dansero, Politiche per l'ambiente. Dalla natura al territorio, Utet, Torino 1996; con Egidio Dansero, Per un Atlante dei problemi ambientali del Piemonte, Consiglio Regionale del Piemonte, Torino 2000; con Claudia De Benedetti, Luisa Sacerdote, La Pasqua ebraica Zamorani, Torino 2001; (a cura di), Atlante dell'ambiente in Piemonte, Consiglio regionale del Piemonte, Torino 2003; The local Territorial System and their Environmental Sustainability, paper presentato alla Regional Science Association International Conference, Pisa 12/15 aprile 2003; con A. Calvo, E. Donini, Un approccio di genere al problema dello sviluppo, in "Rivista Geografica Italiana", giugno 2003] Oggi e' un momento importante a cui nessuno di noi avrebbe voluto partecipare. Sara' difficile per tutti trovare parole, non dico giuste, ma pronunciabili senza doversi interrompere per l'emozione. E senza l'impressione di aver dimenticato aspetti essenziali di Anna e della sua vita. Perche' Anna era molte cose. Una donna ebrea, un'intellettuale libera, una docente universitaria, una cultrice della nonviolenza, una ambientalista appassionata, dirigente e consigliera regionale dei verdi, dopo una militanza in Lotta continua che doveva aver contribuito alla sua idea della politica come servizio. Era una interlocutrice di molte realta' e circuiti politico-culturali - per esempio aveva partecipato al varo della Fondazione Langer, cui portava un affetto particolare legato anche alla sua amicizia con Alex, e accettato il ruolo di vicepresidente; lavorava nel gruppo di ricerca e riflessione su donne e discipline geografiche. Era una studiosa attenta alla soggettivita' anche dove sembra piu' difficile scovarla; ricordo la sua inchiesta sulle mappe mentali, vale a dire sul modo in cui l'esperienza diretta modella nella mente delle persone l'immagine di un luogo. Era anche una grande viaggiatrice e una grande narratrice di luoghi e incontri - ho vissuto e visto molte cose per interposta Anna, con le sue fotografie e gli oggetti portati in dono. Era una persona complessa, mutevole, a volte solitaria ma fulcro di un gran numero di reti di relazione, vulnerabile ma capace di mediare i conflitti con l'ironia, e di reagire agli attacchi con durezza quando si rendeva conto che il patto della reciproca lealta' era stato violato. Per me e' stata ed e' una sorella elettiva, termine disusato, ma, come lei stessa aveva detto in un intervento a Bolzano, non esiste l'equivalente femminile dell'espressione "amico fraterno". Mi sono resa conto che nella mia scelta di studiare deportazione e genocidio aveva contato molto il fatto che lei fosse ebrea; a riguardare la propria storia, dietro certe decisioni all'apparenza "oggettive" capita di scoprire qualcosa di profondamente personale. Infine Anna era la compagna e moglie di Claudio, la zia putativa di Ada, figlia della sua amica Sandra, e attraverso Ada, di Enrico, di Leah; e lo sarebbe stata di Guido Chaim - un cerchio di affetti che ho lasciato per ultimo, perche' ciascuna delle molte identita' di Anna poggiava su questa riserva di amore, curata con la delicatezza esigente che si applica alle cose piu' care. Questi sono soltanto alcuni flash della Anna che abbiamo conosciuto, e ciascuno di noi ne aggiungera' altri. * Io vorrei almeno accennare a tre punti, il suo contributo alla storia della Shoah, in particolare dei Giusti, il suo modo di appartenere al mondo ebraico, la sua esperienza della malattia. Anna veniva da una famiglia di Biella, che aveva patito la persecuzione in prima persona. Per quanto giovani e non particolarmente politicizzati, nel settembre 1943 i suoi futuri genitori Renzo e Nella Morelli si erano resi subito conto della gravita' del pericolo, avevano capito che una situazione eccezionale imponeva risposte eccezionali. A differenza di altri, che si stringono alla famiglia, Nella e Renzo lasciano immediatamente la citta', si staccano dalla grande rete parentale e dai luoghi cari ormai insidiosi, valutano ogni spiraglio per la salvezza. Impresa quasi disperata. Non hanno alle spalle una rete di relazioni politicamente importanti, non dispongono di molto denaro, le loro carte d'identita' sono cosi' mal contraffatte che non ingannerebbero nessuno - e' risaputo che il discrimine fra chi puo' mimetizzarsi con relativa facilita' e chi e' totalmente vulnerabile sta proprio nella credibilita' dei documenti falsi. Chi studia la guerra si chiede se abbia senso parlare di strategie di sopravvivenza in un contesto cosi' imprevedibile e caotico, a maggior ragione per gli ebrei. La storia di Renzo e Nella dice di si'. Con i loro punti di riferimento aleatori e i loro bagagli minimi per non dare nell'occhio, i due giovani partono. Incontrano rifiuti, paura, impreviste solidarieta'. Finche' trovano rifugio nell'ospedale psichiatrico di San Maurizio Canavese, dove Renzo assume la parte di malato, Nella di sua assistente. Per lui, significhera' simulare disturbi devastanti, sopportare terapie che rendano plausibile la finzione; per tutti e due, vivere in allarme continuo, rinunciare a gran parte degli spazi privati, vigilare su ogni dettaglio dei comportamenti. Rimarranno a San Maurizio fino alla liberazione. In quei mesi Renzo aveva tenuto un diario, in cui narrava fatti e sentimenti di chi si trova in una condizione di massimo rischio, e lo sa. Proprio rifacendosi al diario, aveva raccontato alla figlia quegli anni, a poco a poco, nella forma che riteneva adatta a una bambina, una adolescente, una ragazza. Solo dopo la morte di lui, Anna aveva potuto leggere per intero quelle pagine sbiadite dal tempo. Erano gli anni Ottanta, si andava intensificando l'interesse per la deportazione, ma il tema dei salvataggi durante la seconda guerra mondiale era pressoche' ignorato. In un paese che dalla pretesa assenza di antiebraismo rivendica un aspetto fondante della propria identita', sembra un paradosso. Non e' del tutto cosi'. Da un lato, la Shoah e' stata a lungo identificata con il Lager, e le sofferenze patite da chi e' riuscito a sfuggire alla deportazione sono rimaste ai margini. D'altro lato, dominava (domina?) ancora sul piano simbolico e politico una delle basi tradizionali della cittadinanza, che lega la sua pienezza alla prerogativa del portare le armi, secondo un paradigma maschile e guerriero del rapporto individuo/stato. La pensavano a questo modo anche grandi intellettuali ebrei. In un libro insuperato sul 16 ottobre 1943 a Roma, Giacomo Debenedetti rivendica per le vittime ebree lo stesso statuto storico del combattente in armi, trasfigurando nella figura "eroica" del caduto quelle e quelli che sarebbe piu' giusto definire semplicemente i morti: "e se un giorno, a questi caduti, si vorra' dare una ricompensa al valore, non certo noi, gli ebrei sopravvissuti, la rifiuteremo; ma non si conino apposite medaglie, non si stampino speciali diplomi: siano le medaglie e i diplomi degli altri soldati. Soldato Coen... Soldato Levi... Soldato Abramovic... Soldato Chaim Blumenthal, di anni cinque, caduto a Leopoli, in mezzo alla sua famiglia, mentre, con le mani legate dietro la schiena, ancora difendeva, ancora testimoniava la causa della liberta'". Con Anna, ci chiedevamo se qualcuno all'epoca avesso colto la dissonanza fra il titolo di soldato e la vittima assoluta che era stato quel piccolino. Nasce anche da questo orizzonte, non solo italiano, il disinteresse della storiografia e dei media verso le forme di resistenza nonviolenta, verso la lotta dei piu' vulnerabili e dei loro pochi protettori per far fronte a un nemico strapotente, a virtu' come la capacita' di "maneggiare" le situazioni e il coraggio morale - le risorse principali nelle azioni di salvataggio e autosalvataggio. Infatti a raccontare sono stati quasi sempre i sopravvissuti o i loro parenti, e senza di loro i protagonisti sarebbero rimasti totalmente sconosciuti; molti lo sono ancora. Bisogna aggiungere che fra i pochi salvatori italiani su grande scala si contano figure scomode, accolte nella memoria nazionale da poco tempo - basta pensare a Giorgio Perlasca, che strappa ai nazisti un gran numero di ebrei di Budapest nonostante sia (sia stato) fascista, e nello stesso tempo perche' e' (e' stato) un fascista e ha combattuto al fianco dei fascisti spagnoli. Ad Anna e a me, sembrava una storia fatta apposta per gettare nell'imbarazzo chi giudica le persone dalla loro etichetta politica piu' che dai loro comportamenti. Credo contasse e conti anche un altro timore: censire e raccontare le storie di salvataggio smentirebbe l'idea che fosse impossibile fare alcunche'; mostrerebbe che l'aiuto si sviluppa quando e' chiaro che per gli ebrei si tratta di vita o di morte, ma anche che la Germania ha ormai perso la guerra; che, a dispetto del mito nazionale del buon italiano, ad agire e' una minoranza. Ma una minoranza abbastanza consistente e variegata da contrastare l'immagine opposta di un popolo geneticamente opportunista e fascistoide. Stereotipi speculari, che consideravamo escamotages per schivare i dilemmi veri. Il diario e' rimasto a lungo in un cassetto. Sulla possibilita' e utilita' di pubblicarlo, Anna aveva chiesto consiglio a qualcuno dei nostri "padri simbolici", Primo Levi, Nuto Revelli, e agli amici piu' vicini, me compresa. Avevamo molto discusso intorno al peso incombente sulle "candele della memoria", vale a dire su chi, in una famiglia o una comunita', si fa carico di ricordare e far ricordare; intorno alla difficolta' di svelare squarci di una storia intima, in cui i genitori, primi punti fermi di una figlia, primi suoi mediatori con il mondo esterno, compaiono nel loro coraggio, ma anche nella loro fragilita' e dipendenza. Dopo anni di esitazioni e rimandi, il libro era uscito da Sellerio nel '95, titolo Venti mesi, introdotto da Nicola Tranfaglia, e accompagnato da una splendida Premessa di Anna; e' stato uno dei primi contributi per una storia dei salvataggi in Italia. Per decidere di pubblicarlo ci e' voluta molta forza, e Anna l'ha tratta da due impulsi potenti: il desiderio di rendere giustizia al "suo" salvatore, il professor Carlo Angela, la convinzione che era il momento di dare spazio nel discorso pubblico a queste vicende e al loro significato. * Ricordo molti discorsi fatti sui carnefici, sugli indifferenti, sui giusti, dove si affacciavano sempre i grandi nodi dell'autonomia di giudizio e della responsabilita' personale, cosi' come li ha formulato in particolare Hannah Arendt. Anna vedeva in Carlo Angela un esempio di questo doppio talento: pensare liberamente e agire di conseguenza; e via via che scopriva pezzi della sua vita, ne trovava conferme. Nel 1943 Carlo Angela dirigeva la clinica psichiatrica Villa Turina Amione di San Maurizio Canavese, un paese delle valli torinesi. Aveva moglie e due figli, Sandra e Piero, appena adolescenti, aveva 70 anni e poca salute, era sotto sorveglianza come antifascista di lunga data; il paese era stato piu' volte rastrellato, fascisti e tedeschi entravano a loro piacere nella clinica, fra i dipendenti non mancavano i collaborazionisti. La situazione di Carlo Angela sembra il compendio di tutte le difficolta' soggettive e oggettive che sconsiglierebbero un impegno in prima persona; a molti ne e' bastata una sola per giustificarsi di non aver fatto nulla. Eppure Angela fa: apre le porte a varie famiglie ebree, a antifascisti e a renitenti alle leve della neofascista repubblica di Salo'; scrive falsi certificati medici; fronteggia le ispezioni dei fascisti. Per Renzo e Nella arriva ad affrontare il temutissimo presidio fascista torinese dove si fa garante della loro identita' fittizia. Il paradosso per cui l'istituzione totale psichiatrica salva dall'istituzione totale assoluta che e' il Lager, parte dalla tenacia di Renzo e Nella, e si realizza grazie al coraggio e al senso di giustizia di una singola persona, appoggiata da un gruppo minuscolo di aiutanti; e in quei momenti, senza voler negare il ruolo di leggi, istituzioni, eventi militari, a essere decisivi sono gli individui, e' un si' o un no detto a un certo momento da una certa persona. In Italia esistevano in quegli anni decine di migliaia di medici, probabilmente centinaia di medici antifascisti, e a tanti di loro devono essere arrivate richieste di aiuto. Ma non si incontrano molti Carlo Angela. Per questo non ritenevamo l'antifascismo un dato di per se' dirimente. Anna ha avuto bisogno di forza anche per il passo successivo, far conoscere il libro, presentarlo in pubblico, partecipare a dibattiti mettendo sul tavolo un pezzo di vita, un pezzo di se'. Venti mesi e' arrivato al figlio e alla figlia del professor Angela, che Anna, nata dopo la guerra, ancora non conosceva. Si e' visto cosi' che la storia viveva in due memorie familiari ricche e precise, e nel loro corredo di lettere, documenti, fotografie, oggetti - come la sterlina d'oro che Renzo aveva donato a Carlo Angela in segno di affetto e gratitudine. Nell'incontro delle due memorie, le figure dei protagonisti si erano arricchite. Piero e Sandra ricordavano Renzo e Nella e alcuni episodi che li riguardavano, altri ne hanno appresi da Anna. Anna ha conosciuto aspetti del professore di cui non sapeva, gli anni di studi e di spesso avventurosi soggiorni all'estero, il suo ruolo importante nell'esperienza antifascista e libertaria di Democrazia sociale, la sua cultura scientifica avversa al biologismo razzista. E ogni scoperta per lei era un tassello prezioso del ritratto mentale che andava costruendosi. Tra i figli dei protagonisti e' nato un rapporto discontinuo, affettuoso e carico di significati. Senza Carlo Angela, forse Anna non sarebbe nata; senza Anna, Carlo Angela sarebbe probabilmente rimasto una figura luminosa nell'album privato dei suoi figli. Sia resa lode alla memoria familiare, che ha conservato storie come queste, creando i presupposti perche' entrassero nell'area del pubblicamente memorabile. * Venti mesi e' stato importante dal punto di vista storiografico, ha avuto recensioni e echi sul piano internazionale: un mio contributo (mi scuso per l'autocitazione) sulla storia di Nella, Renzo e Carlo Angela, uscito di recente in un volume collettaneo negli Stati Uniti, ha suscitato uno speciale interesse. Naturalmente Anna l'aveva letto e corretto, come faceva con molti miei lavori - e qui c'era asimmetria: dati i miei temi di ricerca, erano molte di piu' le sue riletture di miei scritti che non le mie di suoi. Oggi quel suo sguardo amico e rigoroso mi manca come il dialogo quotidiano, perche' fra questi e altri aspetti del nostro rapporto non c'e' mai stata separazione. Con il tempo, il libro ha fruttificato. Il 25 aprile del 2000, a San Maurizio, la cerimonia per il giorno della Liberazione e' stata semplice e bella: si e' scoperta una lapide in ricordo di Carlo Angela, la prima in Italia in cui compare l'espressione "resistenza civile". Alcuni studiosi e le autorita' locali hanno ricordato la vicenda, le suore che ancora si occupano della clinica hanno offerto un rinfresco, la banda del paese suonava canzoni anni Quaranta. Al centro della giornata, Sandra, Piero, e Anna, raggiante. Ma per Carlo Angela lei voleva di piu': decide cosi' di chiedere che gli sia assegnato il titolo di Giusto fra le nazioni, gia' ammalata si districa nelle molte e giustamente complesse tappe necessarie per il riconoscimento, lo ottiene. E' stata una gioia e una vittoria. Anna aveva nel cuore il professor Angela e i suoi figli, si sentiva in un certo senso garante e custode della sua memoria contro possibili usi strumentali; sul piano generale, le sembrava urgente opporsi alle banalizzazioni e ai fraintendimenti che circolavano sul tema dei salvataggi di ebrei. Il 27 gennaio del 2002, per esempio, sui media se ne era brevemento parlato, "spiegando" la scarsa conoscenza di quelle vicende con la scelta dei protagonisti di tacere per riserbo e per discrezione. Argomentazione inverificabile, che si arroga il diritto di decidere quali siano state le motivazioni di persone cui non si e' chiesto di raccontare quando sarebbe stato possibile farlo (e' quel che era accaduto a Carlo Angela). Argomentazione culturalmente miserevole: come hanno mostrato le ricerche, i salvatori non si assomigliano affatto fra loro, non possono in alcun modo essere ricondotti a un determinato "tipo" sociale e umano; e nonostante tutto, avrebbero prodigiosamente avuto in comune la vocazione sacrificale al silenzio! Ricordo l'irritazione che ci aveva preso allora, la lettera di protesta scritta a "Diario", che non si era astenuto dal fare propria quella sciocchezza. * Forse la storia della pubblicazione di Venti mesi e del suo percorso successivo e' anche un esempio del rapporto di Anna con la cultura ebraica e con l'essere ebrea. Anna diffidava del filoebraismo acritico o interessato, delle "smancerie" sulla superiore intelligenza ebraica. Ragionava in termini di persone, non di gruppi. Respingeva sia le generalizzazioni e le definizioni troppo vincolanti, sia l'universalismo a tutti i costi, ma distinguendone le diverse matrici: una cosa era stato quello inclusivo, affettivo, estremista, del '68 e dei movimenti successivi, in cui non c'era letteralmente posto che per l'identita' unificante della politica, e le peculiarita' delle persone scomparivano. Tutt'altra cosa l'universalismo ottuso di questi anni, che reagisce alla sacralizzazione delle differenze minimizzandole in nome della comune natura umana - come se proprio questo non fosse gia' uno spartiacque fra culture. Anna, credo di poter dire, vedeva l'essere ebrei come un'identita' condivisa filtrata da ciascuno in modi propri, come un nucleo fondativo della soggettivita' che poteva assumere sfumature diverse a seconda dei contesti e dei momenti. Lo vedeva come una ricchezza in alcuni aspetti "esportabile". Aveva una conoscenza notevole della cultura ebraica e ne era una dispensatrice - storie, tradizioni, libri, oggetti. Finche' ha potuto, ha festeggiato la Pasqua ebraica con una cena a casa sua per un gruppo di amici, ebrei e non ebrei, cui offriva i cibi prescritti dal rito, rievocandone il significato. Non contavano fedi e appartenenze, contava l'essere vicini, l'interesse reciproco, la buona curiosita', la capacita' di stupirsi. Abbiamo parlato spesso di come far parte di una maggioranza o di una minoranza segni l'atteggiamento verso la cultura e la spiritualita' di origine, generalmente piu' distratto nel primo caso, piu' consapevole e impegnato alla salvaguardia dei valori nel secondo. Su questo a Anna capitava di scherzare; parlava ridendo di "ebrei e associati", intendendo per associati i suoi amici cattolici, o di nessuna religione, ma legati all'ebraismo dall'apprezzamento per la sua cultura, e - qui non rideva piu' - dalla convinzione che bisogna volere bene a Israele per quel che rappresenta per il popolo ebraico e per quel che ci rivela della storia umana. * Nella Premessa a Venti mesi, Anna scrive: "Il rapporto con mio padre, nel suo duplice aspetto, di grande vicinanza e complicita' nell'infanzia, di contrasto (pur pieno di affetto) durante l'adolescenza, ha rappresentato uno dei nuclei portanti su cui si e' costruito tutto il mio modo di interpretare la vita, fino al momento attuale, quello in cui sto scrivendo. Nel bene e nel male, evidentemente, dandomi la sicurezza di chi ha imparato presto a radunare tutte le sue forze per seguire le proprie idee, e, al tempo stesso, ha conosciuto per tutta la vita l'ansia di abbandono vissuta precocemente non solo attraverso la morte, ma anche con la fatica di comunicare sensazioni e sentimenti, di comunicare anche a me stessa il mio reale malessere soffocato dai sensi di colpa". Anna doveva a Renzo la "curiosita' verso le storie del mondo", una cultura affinata ed eclettica, la paura di restare sola, forse alcuni incontri con la depressione - a volte diceva che la persecuzione aveva logorato le risorse psichiche del padre. E a Nella Morelli, cosa doveva? Sempre nella Premessa si legge: "Mia madre era diversa, lei dalla tragedia aveva tratto forza; l'aver superato momenti terribili le aveva rinvigorito lo spirito vitale, intraprendente, gioviale, lei era altruista, disponibile, protettiva nei miei confronti, ma non indulgente. Al contrario di mio padre, non aveva maturato un'eccessiva ansia per il futuro, anzi, pensava di dover vivere al meglio il presente, e soprattutto di farlo vivere bene a me". Sono parole di cui sento un'eco nei modi in cui Anna ha vissuto la malattia. Con smarrimento, paura, collera, tristezza infinita. Che le sono rimaste. Ma gradatamente le e' sbocciata anche tanta voglia di vivere, e al meglio possibile nella situazione data. Aveva conquistato piu' fiducia in se stessa, piu' fermezza nelle decisioni, un'elasticita' mentale che e' di pochi - mi raccontava con che nuova facilita' riusciva a intervenire nei dibattiti, di come il suo pensiero prendeva forma e fluiva spontaneamente mentre parlava, anche quando si trattava di temi nuovi. Continuava a fare lezione, a partecipare a convegni, metteva insieme persone, coordinava ricerche. Si concedeva piu' cose, oggetti per la casa, vestiti, viaggi, una scintillante auto blu, che aveva guidato in una sola tirata fino a Bolzano in occasione di una cerimonia per il premio Langer; si era fatta costruire un caminetto nel soggiorno della bella casa ai piedi della collina. Spero che non vi sembrino divagazioni: in quei tocchi di leggerezza e "frivolezza", in quel desiderio di agio, si esprimeva una Anna in parte nuova, meno doverista rispetto ai tempi in cui la nostra priorita' era la politica, piu' dolce con se stessa, piu' ragazzina, mi verrebbe da dire. E piu' creativa: sono certa che tutti riconoscono l'originalita' dell'Atlante, a cominciare dall'immagine di copertina, quasi un simbolo della sua sensibilita'. Sono stati anni pieni. Anna si crogiolava nel calore della nuova famiglia in cui l'aveva introdotta Claudio, si godeva Leah, e Ada in versione materna. Sperimentava cose nuove, la discesa di un fiume in canoa con tanto di caschetto protettivo, nuove terapie per l'emicrania, l'incontro in canada con le balene, lo shatsu, la scrittura narrativa - ricordo un suo breve racconto in cui fotografava i vari tipi di borse che i pazienti in attesa della chemioterapia portavano con se' a Candiolo, scegliendo la strada difficile di far parlare gli oggetti e i gesti invece di descrivere i sentimenti. Faceva progetti: una vacanza, una speciale sorpresa per Claudio, un giro in Provenza alla ricerca delle terracotte locali, un soggiorno in una beauty farm dove tutti i trattamenti erano a base di uva, un libro da scrivere insieme sulla storia di Nella, Renzo e Carlo Angela, un altro che avrebbe dovuto intitolarsi "Intanto vivo" e raccontare come la malattia (certe malattie con l'"aura", il cancro, l'infarto) ridefiniscono le relazioni, certe amiche e amici che si dileguano, persone meno intime che corrono a starti vicino, alcuni che neppure chiedono: "come stai?", perche' e' faticoso cercare parole adatte, altri che pur rischiando la goffaggine, provano e riprovano a comunicare. Progettava il matrimonio, che e' avvenuto, e subito dopo un viaggio con Claudio ad Agrigento. Ma fino ad Agrigento non e' potuta arrivare. Difficile non accorgersi di quanto Anna somigli a sua madre in questa determinazione a non disperdere il tempo che rimane, a capitalizzare le esperienze belle: "amore per la vita" l'ha definito Fabio Levi. Ricordo l'ammirazione che tutte e due avevamo per queste parole di un ex deportato: "ero la', e pensavo: Hitler puo' farmi di tutto, ma il fatto di aver vissuto bene, facendo quel che mi piaceva, divertendomi, quello non poteva togliermelo". Credo che la forza di Anna venisse anche dalla sua capacita' di fare propri messaggi fuggevoli. * Non vorrei aver disegnato una immagine eroicistica. Disperazione e ripiegamento su se stessa a volte prevalevano. Come avrebbe potuto essere diversamente? Anna non coltivava illusioni, solo speranze, non aveva un atteggiamento guerresco verso la malattia, nessuna sfida prometeica, nessuna scorciatoia psicologista; sulle orme di Susan Sontag, rifiutava l'ideologia che riconduce il male alla depressione, e le guarigioni al pensiero positivo. Anna sapeva; ma voleva avere ancora bei giorni, passare tempo con le persone care, fare un'escursione in montagna, una nuotata al mare, un saggio, un corso. Questo e molto altro aveva raccontato in un'intervista a "Una citta'", uno dei testi piu' coraggiosi e generosi fra i tanti usciti finora. Forse questo discorso sembra un'apologia, e non me ne dispiace. Anna la merita per molte ragioni, non ultimo un tratto cui mi affido per concludere, come mi sono affidata tante volte in passato per altre cose: la virtu' quotidiana della cura. Essere intelligenti e' facile, un po' piu', un po' meno lo siamo tutti. La differenza sta nel cuore. Ricordo come Anna si era prodigata per una amica argentina, il suo dolore per il dramma familiare di un'altra amica, la condivisione dei momenti difficili dei suoi cari; ricordo una sua visita notturna mentre ero in ospedale, e al mattino la aspettava la chemio. * I testi cui faccio riferimento, oltre che Renzo Segre, Venti mesi, Palermo, Sellerio 1995, sono: - Hannah Arendt, Le origini del totalirismo, Edizioni di Comunita', Milano 1996, ed. or. 1951. - Hannah Arendt, Appendice a La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1993, ed. or. 1963. - Enrico Deaglio, La banalita' del bene, Feltrinelli, Milano 1991. - Adriano Zamperini, Psicologia dell'inerzia e della solidarieta'. Lo spettatore di fronte alle atrocita' collettive, Einaudi, Torino 2001. - Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Editori Riuniti, Roma 1978. - Anna Bravo, The rescued and the rescuers in private and public memories, in J. Zimmerman (ed), The Jews of Italy under Fascist and Nazi Rule: 1922-1945, Cambridge University Press, 2005. 2. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: ANATOMIA DELL'UNIVERSITA' NEL RICORDO DI UNO STORICO [Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti: acavadi at lycos.com) per averci messo a disposizione il seguente articolo, apparso nell'edizione di Palermo del quotidiano "La Repubblica" del 15 febbraio 2006. Augusto Cavadi, prestigioso intellettuale ed educatore, collaboratore del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo, e' impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano di problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, nuova edizione aggiornata e ampliata Dehoniane, Bologna 2003; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003; Gente bella, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004; Strappare una generazione alla mafia, DG Editore, Trapani 2005. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori riviste antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito: http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa). Paolo Viola (1948-2005), storico e docente universitario. Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche stralciamo la seguente scheda: "Paolo Viola e' nato a Roma il 6 giugno del 1948. Ha compiuto i propri studi liceali a Torino per poi trasferirsi alla Scuola normale superiore di Pisa, dove ha iniziato i propri studi universitari. A Pisa, durante il '68, alla formazione culturale si affianca in Viola l'adesione ideologica e politica alle idee e ai dibattiti dell'estrema sinistra, che lo spingono a fondere nella propria formazione accademica i suoi primari interessi storici con quelli politici. I suoi interessi vertono, in questo periodo sui rapporti tra giacobini e masse popolari parigine. Prepara la tesi di laurea a Parigi, dove studia per due anni sotto la direzione di Albert Soboul. Di nuovo in Italia, intraprende la propria carriera universitaria, durante la quale resta influenzato dalla figura di Furio Diaz, storico dell'Illuminismo ed esponente di spicco della sinistra laica e democratica. Insegna per molti anni a Pisa, con una sola interruzione di un triennio a Cosenza. Successivamente ha ottenuto il trasferimento alla facolta' di scienze politiche dell'Universita' di Palermo, dove insegna storia moderna...". Opere di Paolo Viola: Il Terrore, Sansoni, Firenze 1975; Il trono vuoto, Einaudi, Torino 1989; La crisi dell'Antico regime, Donzelli, Roma 1993; E' legale perche' lo voglio io; Laterza, Roma-Bari 1994; con Adriano Prosperi, Storia moderna e contemporanea, Einaudi, Torino 2000; L'Europa moderna. Storia di un'identita', Einaudi, Torino 2004; con Antonino Blando, Quando crollano i miti, Palumbo, 2004; con Pietro Corrao, Introduzione agli studi di storia, Donzelli, Roma 2005; Oligarchie. Una storia orale dell'Universita' di Palermo, Donzelli, Roma 2006] Con comprensibile fierezza, l'ateneo palermitano celebra il bicentenario della sua fondazione. Si sa che, in queste circostanze, la commozione vela la memoria. O, per lo meno, seleziona i ricordi: cacciando, quanto piu' lontano possibile dalla coscienza, i meno gradevoli. Ma gli storici non possono permettersi - almeno intenzionalmente - il lusso della retorica: devono provare a restituire il passato per intero, con le sue luci e le sue ombre. Tanto piu' se si tratta di storici rigorosi, austeri per opzione professionale e forse anche - almeno ai primi approcci - per carattere, come il compianto Paolo Viola. Che - a parziale lenimento del sincero dispiacere provocato, in quanti l'avevamo conosciuto ed apprezzato, dalla prematura dipartita - ha affidato all'editore Donzelli, e alla compagna Titti Morello, il suo ultimo volume (Oligarchie. Una storia orale dell'Universita' di Palermo) da poche settimane in libreria. Come si evince dall'Introduzione, il periodo cronologico considerato e' il lungo segmento dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni: le fonti scritte dunque s'intrecciano con le testimonianze di protagonisti, piu' o meno illustri, ancora viventi. Anzi, e' lo stesso ricercatore ad essere coinvolto nell'oggetto della ricerca, si' da guardare eventi e personaggi con uno sguardo "insieme esterno ed interno" (p. 9). Con quali risultati? Il sugo di questa storia non e' certo particolarmente lusinghiero: "il carattere oligarchico si e' mescolato a tratti di un individualismo sleale nei confronti dell'istituzione, e ha finito col danneggiare doppiamente l'ateneo stesso" (p. 6). Per essere piu' chiari: da una parte "il professore universitario palermitano, ma probabilmente italiano, quando indossa i panni accademici, ha riflessi conservatori di chiusura corporativa oligarchica e danneggia culturalmente l'ateneo"; dall'altra, se apre all'esterno "le porte della cittadella universitaria" (soprattutto alle forze politiche ed economiche), lo fa solo per rafforzare il proprio potere individuale e dunque senza remore nel subordinare e mortificare gli interessi di quella stessa istituzione da cui pure "trae il proprio prestigio". In questi due secoli, o per lo meno nell' ultimo sessantennio, si e' andata dunque snodando la dialettica fra chiusura oligarchica della casta e apertura strumentale degli individui. Ne vogliamo qualche esempio? Tra i tanti riportati da Viola il lettore avvertira' soltanto l'imbarazzo della scelta. Chiusura oligarchica ha significato, tra l'altro, meccanismi perversi di reclutamento del personale docente. I baroni hanno favorito, nelle fasi di cooptazione dei nuovi colleghi, figli, nipoti (e amanti): se non propri, almeno degli amici e degli amici degli amici. Anche dalle nostre parti e' valso il principio di ripartizione delle cattedre vigente nel resto del Paese: una al mio candidato, una al tuo, la terza a chi la merita. Purtroppo piu' di una volta e' capitato che le cattedre sono state solo due... Si e' trattato solo di malcostume clientelare o non anche di paura nel dare spazio a personalita' che avrebbero potuto fare ombra? Ricordo la descrizione che, molti anni fa, un docente palermitano forniva - con amara scanzonatura - ad un sociologo inglese: un cattedratico, per evitare concorrenti, sceglie come assistente un allievo un po' meno intelligente; il quale, arrivato a sua volta in cattedra, ne sceglie un altro ancora un po' meno acuto; e cosi' via. Alla legittima curiosita' dell'interlocutore ("Ma, allora, lungo il corso dei decenni, non si dovrebbe arrivare allo zero assoluto?"), il professore rispondeva in maniera logicamente impeccabile: "Cosi' sarebbe se, dopo alcune generazioni, non si arrivasse ad un barone cosi' poco perspicace da non accorgersi che il suo assistente e' una persona piu' intelligente di lui, si' che il ciclo possa ricominciare daccapo". Apertura all'esterno in un'ottica d'interesse privato ha comportato, tra l'altro, una grande cautela nell'occuparsi di cosa e' andato accadendo nel territorio. In un contesto notoriamente inquinato, ci si sarebbe aspettato dal piu' importante centro di cultura l'attento, coraggioso, spietato monitoraggio del sistema di potere mafioso nei suoi risvolti criminali, economico-finanziari, politico-amministrativi. Ma - sino alle stragi del '92 - la produzione scientifica su questi fenomeni e' stata (almeno quantitativamente) limitatissima. In Cose di cosa nostra Giovanni Falcone informava Marcelle Padovani del fatto, difficile a credersi, che un giovane palermitano potesse arrivare a laurearsi in giurisprudenza e a vincere un concorso in magistratura senza aver mai udito una sola ora di lezione sulla mafia. Ma oggi come vanno le cose? Non credo si possano dare risposte generalizzanti. In alcuni istituti e' possibile che i meritevoli trovino accoglienza e incoraggiamento, a prescindere dai cognomi familiari e dalle tessere di partito. In altri ambienti e' notorio che la dittatura degli ordinari non ammette smagliature, al punto che - in nome di contrasti ideologici o solo temperamentali - ricercatori stimati a livello nazionale per le loro pubblicazioni non riescono ad ottenere la cattedra. Non mancano poi le situazioni in cui lo studente e' fortemente sollecitato a spendere soldi per testi il cui pregio maggiore, se non esclusivo, e' di essere stati scritti dallo stesso insegnante che li ha adottati. Storture, deformazioni, censure: mai gradevoli, ma particolarmente dolorose quando ascrivibili a direttori di dipartimento o presidi di facolta' che si dicono, e in altri contesti si dimostrano effettivamente, democratici e progressisti. Farne autocritica, pubblica o tacita purche' operosa, sarebbe un modo adeguato di celebrare il plurisecolare anniversario. 3. LUTTI. GIOVANNI GANDINI E cosi' anche Giovanni Gandini se ne e' andato. Saranno trent'anni che non leggo "Linus", ma il nome del suo fondatore non lo ho mai dimenticato, e non ho dimenticato cosa fu la sua creatura per la mia generazione: quale vivida apertura a una pluralita' di linguaggi, quale palpitante accostamento a una fruizione non consumista, non alienante, delle forme di comunicazione di massa. "Linus" conto' forse piu' dei francofortesi e di Opera aperta e Apocalittici e integrati nel fornire strumenti atti a consentirci di leggere criticamente e per cosi' dire metalinguisticamente alcuni tratti decisivi della realta' che ci opprimeva, e della dimensione estetica come esperienza relazionale di liberazione. Se fu beata ingenuita', fu tuttavia un'ingenuita' beata. E penso ancora che nella koine' dei movimenti giovanili di contestazione tra '68 e '77 quella rivista di fumetti abbia contato molto piu' di tanti fogli paludati, e di tante gesticolazioni e coazioni verbali la cui illeggibilita' ed il cui dereismo oggi ci sorprendono ancora (ed erano correlativo oggetto dell'astratto che disumanizza, dell'ideologia come falsa coscienza che reifica e uccide). Invece il ricordo di quel "Linus" ci commuove ancora. Forse anche perche' reca l'aroma di un tempo e un'eta' piu' felici - non perche' meno tragici , ma perche' meno vili, piu' generosi di oggi. 4. MEMORIA. IBRAHIM RUGOVA In un attimo e' stata rimossa la figura e la vicenda di Rugova. Noi invece lo ricordiamo ancora come il promotore della decennale resistenza nonviolenta, che fu sconfitta dal triplice terrorismo delle mafie e delle democrature, dell'est e dell'ovest. Ma che Rugova sia stato sconfitto, e che dopo il '99 la prospettiva nonviolenta in Kosovo sia stata duramente repressa e quasi annichilita dal congiurare di molte violenze e complicita', e che forse anche la figura, la persona di Rugova ne sia stata logorata - ed offesa e offuscata dallo stato delle cose ancor piu' che dalla malattia, ebbene, tutto cio' non toglie valore a quell'esperienza, a quella scelta, a quella speranza, che e' ancora la nostra: poiche' solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. 5. MEMORIA. ROBERT SHECKLEY Chi sbigottisce oggi dinanzi al fascismo televisivo (e per essere chiari: la televisione non porta al fascismo, la televisione e' il fascismo) evidentemente non aveva letto Sheckley cinquanta, quaranta, trent'anni fa. Ora che Robert Sheckley non e' piu', almeno noi qui gli rendiamo omaggio, e lo ricordiamo come un maestro e un compagno di lotte. 6. MEMORIA. PIETRO MARIA TOESCA Pietro Maria Toesca e' stato uno dei maggiori filosofi della nonviolenza in Italia. E lo e' stato nel senso piu' forte e profondo: cercatore, sperimentatore di verita', la verita' che rispetta e unisce le persone, e le libera. Con gratitudine qui lo ricordiamo, e lo indichiamo a esempio. 7. MEMORIA. UMBERTO ECO: FILOSOFARE AL FEMMINILE [Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo di Umberto Eco, apparso nella sua rubrica "La bustina di Minerva" nel settimanale "L'espresso" alcuni anni fa. Umberto Eco e' nato ad Alessandria nel 1932, docente universitario, saggista, romanziere, e' probabilmente il piu' noto intellettuale italiano a livello internazionale. Tra le opere di Umberto Eco segnaliamo particolarmente Opera aperta, Apocalittici e integrati, La struttura assente, Trattato di semiotica generale, Il superuomo di massa (Cooperativa scrittori, poi Bompiani), Lector in fabula, Semiotica e filosofia del linguaggio (Einaudi), I limiti dell'interpretazione, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (Laterza), Cinque scritti morali, Kant e l'ornitorinco, tutti editi presso Bompiani (ad eccezione di quelli diversamente segnalati). Opere su Umberto Eco: Teresa De Lauretis, Umberto Eco, La Nuova Italia, Firenze 1981; Renato Giovannoli (a cura di), Saggi su "Il nome della rosa", Bompiani, Milano 1985, 1999; AA. VV., Semiotica: storia, teoria, interpretazione. Saggi intorno a Umberto Eco, Bompiani, Milano 1992 (con una utile bibliografia di e su Eco); Roberto Cotroneo, Eco: due o tre cose che so di lui, Bompiani, Milano 2001. Gilles Menage (Angers 1613 - Parigi 1692) e' stato filologo illustre, umanista di vastissima erudizione (tra l'altro accademico della Crusca ed autore nel 1669 di un noto trattato sulle Origini della lingua italiana), poeta. Tra le sue opere recentemente edite in Italia: Lettres inedites a Pierre-Daniel Huet (1659-1692), Liguori, Napoli 1993; Storia delle donne filosofe, Ombre corte, Verona 2005] La vecchia affermazione filosofica per cui l'uomo e' capace di pensare l'infinito mentre la donna da' senso al finito, puo' essere letta in tanti modi: per esempio che siccome l'uomo non sa fare i bambini, si consola coi paradossi di Zenone. Ma sulla base di affermazioni del genere si e' diffusa l'idea che la storia (almeno sino al XX secolo) ci abbia fatto conoscere grandi poetesse e narratrici grandissime, e scienziate in varie discipline, ma non donne filosofe e donne matematiche. Su distorsioni del genere si e' fondata a lungo la persuasione che le donne non fossero portate alla pittura, tranne le solite Rosalba Carriera o Artemisia Gentileschi. E' naturale che, sino a che la pittura era affresco di chiese, montare su un'impalcatura con la gonna non era cosa decente, ne' era mestiere da donna dirigere una bottega con trenta apprendisti, ma appena si e' potuta fare pittura da cavalletto le donne pittrici sono spuntate fuori. Un poco come dire che gli ebrei sono stati grandi in tante arti ma non nella pittura, sino a che non si e' fatto vivo Chagall. E' vero che la loro cultura era eminentemente auditiva e non visiva, e che la divinita' non doveva essere rappresentata per immagini, ma c'e' una produzione visiva di indubbio interesse in molti manoscritti ebraici. Il problema e' che era difficile, nei secoli in cui le arti figurative erano nelle mani della Chiesa, che un ebreo fosse incoraggiato a dipingere madonne e crocifissioni, e sarebbe come stupirsi che nessun ebreo sia diventato papa. Le cronache dell'Universita' di Bologna citano professoresse come Bettisia Gozzadini e Novella d'Andrea, cosi' bella che doveva tenere lezione dietro un velo per non turbare gli studenti, ma non insegnavano filosofia. Nei manuali di filosofia non incontriamo donne che insegnassero dialettica o teologia. Eloisa, brillantissima e infelice studente di Abelardo, aveva dovuto accontentarsi di divenire badessa. Ma il problema delle badesse non e' da prendere sottogamba, e vi ha dedicato molte pagine una donna-filosofo dei nostri tempi come Maria Teresa Fumagalli. Una badessa era un'autorita' spirituale, organizzativa e politica e svolgeva funzioni intellettuali importanti nella societa' medievale. Un buon manuale di filosofia deve annoverare tra i protagonisti della storia del pensiero grandi mistiche come Caterina da Siena, per non dire di Ildegarda di Bingen che, quanto a visioni metafisiche e a prospettive sull'infinito, ci da' del filo da torcere ancora oggi. L'obiezione che la mistica non sia filosofia non tiene, perche' le storie della filosofia riservano spazio a grandi mistici come Suso, Tauler o Eckhart. E dire che in gran parte la mistica femminile dava maggior risalto al corpo che non alle idee astratte sarebbe come dire che dai manuali di filosofia deve scomparire, che so, Merleau-Ponty. Le femministe hanno da tempo eletto a loro eroina Ipazia che, ad Alessandria, nel quinto secolo, era maestra di filosofia platonica e di alta matematica. Ipazia e' diventata un simbolo, ma purtroppo delle sue opere e' rimasta solo la leggenda, perche' sono andate perdute, e perduta e' andata lei, fatta letteralmente a pezzi da una turba di cristiani inferociti, secondo alcuni storici sobillati dal quel Cirillo di Alessandria che, anche se non per questo, e' stato poi fatto santo. Ma c'era solo Ipazia? Meno di un mese fa e' stato pubblicato in Francia (da Arlea) un librettino, Histoire des femmes philosophes. Se ci si chiede chi sia l'autore, Gilles Menage, si scopre che viveva nel diciassettesimo secolo, era un latinista precettore di Madame de Sevigne' e di Madame de Lafayette e il suo libro, apparso nel 1690, s'intitolava "Mulierum philosopharum historia". Altro che la sola Ipazia: anche se dedicato principalmente all'eta' classica, il libro di Menage ci presenta una serie di figure appassionanti, Diotima la socratica, Arete la cirenaica, Nicarete la megarica, Iparchia la cinica, Teodora la peripatetica (nel senso filosofico del termine), Leonzia l'epicurea, Temistoclea la pitagorica, e Menage, sfogliando i testi antichi e le opere dei padri della chiesa, ne aveva trovate citate ben sessantacinque, anche se aveva inteso l'idea di filosofia in senso abbastanza lato. Se si calcola che nella societa' greca la donna era confinata tra le mura domestiche, che i filosofi piuttosto che con fanciulle preferivano intrattenersi coi giovinetti, e che per godere di pubblica notorieta' la donna doveva essere una cortigiana, si capisce lo sforzo che debbono avere fatto queste pensatrici per potersi affermare. D'altra parte, come cortigiana, per quanto di qualita', viene ancora ricordata Aspasia, dimenticando che era versata in retorica e filosofia, e che (teste Plutarco) Socrate la frequentava con interesse. Sono andato a sfogliare almeno tre enciclopedie filosofiche odierne e di questi nomi (tranne Ipazia) non ho trovato traccia. Non e' che non siano esistite donne che filosofassero. E' che i filosofi hanno preferito dimenticarle, magari dopo essersi appropriati delle loro idee. 8. LUTTI. BENITO D'IPPOLITO. IN DIFESA DELLE PIANTE ORNAMENTALI. PROSOPOPEA Solenni, silenziose, le piante ornamentali come puoi tu non sentirle sorelle? Nobli, immote, viventi monili e ricordo della prima quiete quando il caos cedette all'urto della forma che cresce, dirama, arabesca e illude che il mondo abbia un senso, lenisce l'angoscia della morte. Ornamento del mondo quando il mondo suona rotondo come la voce la musica, l'alito che da' la vita. Ruah. Non come gli uomini sporchi e puzzolenti ladri e vigliacchi, privi di radici frenetici nel muoversi e gracchianti che piu' non sanno assecondare il lieve muover del vento, respiro delle onde. Neppure presi la mira, il fucile fece da se'. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1218 del 26 febbraio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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