La nonviolenza e' in cammino. 1185



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1185 del 24 gennaio 2006

Sommario di questo numero:
1. Valentina Greco: Lidia Beccaria Rolfi: la costruzione di una biografia
nel passaggio dalla memoria alla testimonianza (parte seconda e conclusiva)
2. La "Carta" del Movimento Nonviolento
3. Per saperne di piu'

1. MEMORIA. VALENTINA GRECO: LIDIA BECCARIA ROLFI: LA COSTRUZIONE DI UNA
BIOGRAFIA NEL PASSAGGIO DALLA MEMORIA ALLA TESTIMONIANZA (PARTE SECONDA E
CONCLUSIVA)
[Dalla utilissima rivista telematica "Deportate, esuli, profughe. Rivista
telematica di studi sulla memoria femminile", nel sito:
http://venus.unive.it/rtsmf, riprendiamo il seguente saggio.
Valentina Greco, storica, e' impegnata in una ricerca su "La deportazione
femminile dall'Italia durante la seconda guerra mondiale: la costruzione di
una memoria sulle assenze della storia"; fa parte del comitato di redazione
di "Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria
femminile", ed e' responsabile del settore bibliografie e sitografie della
rivista.
Lidia Beccaria Rolfi (1925-1996), nata a Mondovi' nel 1925, staffetta
partigiana nella Resistenza, nel '44 fu arrestata dai nazifascisti e
deportata nel campo di sterminio di Ravensbrueck. Insegnante, testimone, e'
deceduta nel 1996. Opere di Lidia Beccaria Rolfi: (con Anna Maria Bruzzone),
Le donne di Ravensbrueck, Einaudi, Torino 1978; L'esile filo della memoria,
Einaudi, Torino 1996; (con Bruno Maida), Il futuro spezzato, Giuntina,
Firenze 1997. Opere su Lidia Beccaria Rolfi: Bruno Maida (a cura di),
Un'etica della testimonianza. La memoria della deportazione femminile e
Lidia Beccaria Rolfi, Angeli, Milano 1997. Un suo profilo scritto da Anna
Bravo e' nel n. 897 di questo foglio]

8. Il lungo soggiorno a Lubecca
Dopo pochi giorni di permanenza alla cascina, Beccaria viene mandata al
comando americano di stanza ad Hagenau e, successivamente, a quello inglese
che la trasferisce a Lubecca, in un campo abbandonato di prigionieri russi,
il Blm.
E' il 19 maggio del 1945: dovranno trascorrere altri tre mesi prima che
possa intraprendere il viaggio che la riportera' in Italia.
Gli inglesi si disinteressano totalmente della sorte dei deportati,
soprattutto delle donne, che sono quasi tutte malate e necessitano di cure
ospedaliere.
Le donne vengono sostanzialmente affidate agli internati militari che si
occupano di loro procurandosi le verdure negli orti dei tedeschi e ricavando
bende di fortuna con cui curare le piaghe e i foruncoli, inoltre non vengono
conteggiate nella distribuzione dei pacchi inviati dalla Croce Rossa ne'
tantomeno e' concesso loro di scrivere a casa.
Le ribellioni naturalmente non mancano, ma e' frustrante dover combattere
per un'assistenza che sarebbe loro dovuta.
"Lidia e le sue compagne sembrano subire una tripla discriminazione: come
italiane, come donne, come deportate sembra che nessuno si occupi di loro o
prema per il loro ritorno. I sogni di un rimpatrio trionfale e rapido,
magari in aereo, sono definitivamente abbandonati" (Frediani, 2002, p. 310).
La disillusione dei deportati di fronte al disinteresse e al protrarsi delle
loro lontananza da casa e', ancora una volta, descritta con efficacia
impareggiabile dalle parole di Primo Levi: "Avevamo sperato un viaggio breve
e sicuro, verso un campo attrezzato per accoglierci... e questa speranza
faceva parte di una ben piu' grande speranza, quella in un mondo diritto e
giusto, miracolosamente stabilito sulle sue naturali fondamenta... dopo il
tempo della nostra lunga pazienza. Era una speranza ingenua... ma noi ne
vivevamo... poiche' non si sogna per anni... un mondo migliore senza
raffigurarselo perfetto" (1963, p. 78).
Nonostante le difficolta' e l'indifferenza, il soggiorno al Blm rappresenta
una parentesi positiva per Beccaria.
I mesi di permanenza nel campo le consentono un lento ritorno alla vita.
Vi e', innanzi tutto, un miglioramento fisico: guariscono le piaghe dovute
all'avitaminosi, la pelle riprende un colorito sano, il corpo aumenta di
qualche chilo e infine ritornano anche le mestruazioni, la cui assenza aveva
causato non poche preoccupazioni.
Vedere che i segni dei lunghi mesi di prigionia scompaiono a poco a poco dal
proprio corpo e' come una prova della liberazione, una prova del fatto che,
forse, un ritorno alla vita e' possibile.
Lidia riscopre il contatto con la natura, una natura di cui, nel Lager,
aveva persino dimenticato l'esistenza: "Il sole mi toglieva... la puzza del
Lager che continuavo a sentirmi addosso, una puzza che era entrata nella
pelle... non la sentivo solo quando mi esponevo al sole o mi coricavo
nell'erba fresca" (Beccaria, 1995, p. 59).
A Lubecca assapora anche una liberta' assoluta, liberta' di muoversi come
desidera, di passeggiare o di dormire, liberta' di gestire la sua vita in
maniera completamente autonoma.
Una liberta' che e' essa stessa una medicina utile a rimarginare le
cicatrici della prigionia.
Un altro momento importante e' segnato dal definitivo superamento della
paura nei confronti dei tedeschi, superamento che e' scandito da un evento
preciso: una mattina Beccaria viene sorpresa a rubare della verdura in un
orto di proprieta' di un tedesco, il proprietario la minaccia con una zappa
e la riempie di improperi, ma lei non si lascia intimidire, risponde per le
rime e si allontana con calma.
E' come aver superato positivamente un esame. Lidia si sente fiera di se
stessa e del proprio coraggio: "Non mi sentivo piu' sulla pelle il complesso
della prigioniera" (Beccaria, 1995, p. 58).
Beccaria ricomincia adesso a pensare alla propria casa, alla propria
famiglia, agli amici che la aspettano a Mondovi': non sono piu' i ricordi
dolorosi carichi di malinconia con i quali aveva pianto nelle notti di
Ravensbrueck.
Ricordare in questo momento significa immaginare come sara' riabbracciare le
persone care, dopo tutti i mesi trascorsi lontano da casa, con la certezza
che questo incontro avverra'.
La sera, alla luce della luna, finalmente sola, Lidia puo' finalmente
pensare alla sua casa con serenita': "La luna divento' un momento d'incontro
con la mia famiglia e con i vecchi amici... Ogni sera ritagliavo cinque
minuti per guardare la luna da sola, per riscoprire il mio passato e pensare
alle persone che avrei voluto rivedere" (Beccaria, 1995, p. 56).
E' pero' la nostalgia dei libri che da' a Lidia la misura dei progressi
fatti nel cammino verso un vero ritorno alla vita.
Nello stesso momento in cui riscopre il piacere di leggere, perde
completamente il desiderio di scrivere, perche' non vuole piu' ricordare i
giorni del Lager.
Per lo stesso motivo, come per una tacita intesa, il Lager finisce di essere
argomento di discussione anche con le altre compagne.
I giorni trascorsi a Lubecca cominciano adesso a farsi lunghi, il desiderio
di tornare a casa si fa sempre piu' vivo.
Arrivato il momento di partire, una volta di piu', le deportate non sono
trattate alla stregua degli uomini: gli inglesi vogliono infatti farle
partire con le civili, senza dar loro la precedenza concessa invece agli
uomini.
Solo grazie a un'ennesima protesta, una vera e propria sollevazione contro i
capi inglesi, le donne riescono a partire con la prima tradotta per
l'Italia.
E' il 16 agosto 1945: il viaggio verso casa durera' quattordici giorni.
E' durante una sosta fatta lungo il cammino che Lidia si ritrova, per la
seconda volta, a parlare della propria esperienza con alcuni internati
militari e per la seconda volta e' costretta a scorgere la perplessita'
negli occhi di chi la ascolta: "Era una donna... che parlava di politica e
di guerra. Chissa' se quello che raccontava era vero!" (Beccaria, 1995, p.
92).
*
9. L'Italia
Il 30 agosto il treno su cui viaggia Lidia arriva a Milano: in attesa di
quello che la portera' a Torino si reca presso un ufficio per la ricerca
delle persone scomparse durante la guerra: qui, tra le varie foto appese,
Beccaria riconosce un suo ritratto, istintivamente lo stacca e conserva in
tasca. L'impiegata, accorgendosi delle sottrazione, intima a Lidia di posare
la foto e si rifiuta di crederle quando questa le assicura di essere la
persona ritratta. L'impiegata ascolta dubbiosa il racconto: di Ravensbrueck
non ha mai sentito parlare e la storia le suona sospetta visto che chi
racconta non e' nemmeno un'ebrea.
E' solo l'inizio di una lunga serie di umiliazioni.
All'arrivo del treno per Torino, Beccaria sale, insieme ad altri reduci
piemontesi, su una carrozza di terza classe nella quale siedono gia' alcuni
civili.
L'ostilita' dei passeggeri del treno e' evidente, tanto che uno di loro
chiama il controllore per lamentarsi della presenza dei deportati. Alla
richiesta del biglietto Lidia e i suoi compagni mostrano il lasciapassare,
ma il controllore, non ritenendolo valido, li invita a scendere dalla
carrozza tra gli applausi e i commenti ad alta voce dei passeggeri: "Ci sono
i vagoni bestiame per loro. Avete visto, ci sono delle donne, si portano le
donne dietro" (Beccaria, 1995, p. 106).
La reazione dei passeggeri del treno non stupisce neanche troppo Lidia: il
sogno di un'accoglienza trionfale e' gia' svanito.
Nel treno che da Torino la porta a Cuneo un'altra volta il controllore,
accortosi che non ha il biglietto, la vuole far scendere, la reputa
un'imbrogliona perche' il lasciapassare, dice, si rilascia ai militari, mica
alle donne. Questa volta avviene, pero', qualcosa di inaspettato: alcuni
operai circondano il controllore e lo costringono a scendere dal treno,
minacciandolo. In Beccaria si accende un barlume di speranza, forse qualcuno
e' disposto a crederle, forse qualcuno e' disposto ad ascoltare la sua
storia.
Ma, come scrive Frediani, "la via crucis dell'ostilita' e
dell'incomprensione nel suo ritorno a casa sembra non finire mai" (2002, p.
311).
Scesa a Cuneo, alcuni giovani la apostrofano in malo modo scambiandola per
una ausiliaria: "quel saluto mi raggelo'" (Beccaria, 1995, p. 108).
Su invito della polizia ferroviaria si reca a trascorrere la notte in un
convento di suore che la trattano freddamente, senza neanche chiederle come
si chiama, limitandosi a darle qualcosa da mangiare e un letto per dormire.
L'indifferenza delle suore ferisce Lidia, che si sente a disagio di fronte a
quegli sguardi che sembrano rimproverarla perche' non e' rimasta a casa,
come dovrebbero fare le donne.
Dunque proprio il momento in cui le tensioni accumulate avrebbero dovuto
sciogliersi, l'arrivo in Italia, si rivela il piu' duro per l'indifferenza,
l'ostilita', il disprezzo con cui viene accolta.
"Non era il ritorno che spesso avevo immaginato quando cercavo di scacciare
la fame sognando il dopo Lager" (Beccaria, 1995, p. 108).
Mentre siede sul treno che la riporta finalmente a Mondovi', Lidia sa gia'
che non potra' raccontare; e' bastato trascorrere un solo giorno in Italia
per farle comprendere che la sua storia non sarebbe stata ascoltata:
"Arrivai a casa ormai cosciente che tutto quello che avevo dentro, che la
molla che in Lager mi aveva tenuta viva - tornare per raccontare - era
saltata - coscienza che alla mia necessita' di far sapere si opponeva la
volonta' di non voler sapere" (Beccaria, inedito).
*
10. La vita possibile
Come ha scritto Primo Levi ne La tregua, l'incontro con la famiglia e' un
momento topico per il reduce: "Sapevamo che sulle soglie delle nostre case,
per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e la anticipavamo con
timore... dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere, per
abbattere le barriere... Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare
battaglia contro nemici ignoti, dentro e fuori di noi... Ci sentivamo vecchi
di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi" (1963,
p. 224).
I momenti che precedono l'arrivo a casa sono carichi d'angoscia.
Quale sara' l'accoglienza delle persone care dopo tutti quei mesi di
distacco e come si potranno raccontare i giorni di prigionia senza sentirsi
violate nel pudore e senza far troppo soffrire i parenti?
Ma le domande che Lidia si pone sono superflue; nessuno le chiede nulla
appena arriva in paese, anche se l'accoglienza e' si' calorosa: il fattorino
della funicolare non le fa pagare il biglietto, un facchino le porta lo
zaino senza farla pagare, un vicino la accompagna a casa e le racconta le
ultime novita' del paese, ma nessuno si interessa alla storia di questa
donna tornata a casa dopo un anno di prigionia.
"Sembrava che avessero paura di sapere o meglio pensassero che alle spalle
nascondessi una storia che era meglio 'non sapere', convinti di stendere un
velo pietoso su un anno della mia vita che poteva anche nascondere cose che
la gente per bene preferisce far finta di ignorare" (Beccaria, inedito).
Beccaria ha avuto, una volta di piu', la prova che sarebbe stato impossibile
raccontare.
L'incontro con la famiglia e' un incontro "facile": la sorella le va
incontro per strada, il papa' l'aspetta sull'uscio di casa, la madre resta
dentro casa cercando di nascondere le lacrime, il fratello, appena la vede,
le da' una pacca sulla spalla.
Alla sua famiglia Lidia non raccontera' mai nulla, teme di non essere
creduta, o peggio di far soffrire troppo i suoi cari qualora le credessero.
Immagina di poter raccontare almeno dell'evacuazione, un evento simile ad
altri racconti di guerra, ma le sue preoccupazioni sono vane.
A tavola, con gli amici invitati a pranzo per festeggiarla, non riesce
neanche a proferire parola, ad inserirsi nei discorsi; ancora una volta
nessuno le domanda nulla della sua prigionia, nessuno si accorge del suo
bisogno di parlare: "Capii che non avrei potuto raccontare. Non si racconta
la fame, non si racconta il freddo, non si raccontano gli appelli, le
umiliazioni, l'incomunicabilita', la disumanizzazione, il crematorio che
fuma, l'odore di morte dei blocchi, la voglia di solitudine, il sudicio che
entra nella pelle e si incrosta. Tutti hanno avuto fame e freddo e sono
stati sporchi almeno una volta e credono che fame freddo e fatica siano
uguali per tutti" (Beccaria, 1995, pp. 115-116).
Nel racconto di Beccaria stupisce la mancanza di tatto di chi le sta
attorno, la totale insensibilita' di fronte al suo appello muto ad essere
ascoltata. Per lei non vale nemmeno quello che e' valso per altre deportate,
ovvero la possibilita' di raccontare almeno alcuni episodi della prigionia e
del viaggio di ritorno, quantomeno quelli che ricalcano la tipologia dei
racconti di guerra a cui i familiari sono abituati.
Quella di Lidia e' una "disperata presa di coscienza" (Cavaglion, 1991, p.
29) del fatto che la sua e' una storia che nessuno vuole ascoltare.
Alla poca disponibilita' ad ascoltare delle persone piu' care si aggiungono
altri due motivi di profonda amarezza: da un lato la totale indifferenza
delle istituzioni, dall'altro quella che Vittorio E. Giuntella ha definito
"incomprensione 'politica'" (1991, p. 110), ossia il rifiuto di ascoltare da
parte degli stessi compagni partigiani.
A Cuneo, pochi giorni dopo il suo ritorno a casa, Beccaria incontra il
comandante partigiano di cui era stata la staffetta che le parla di se
stesso ma "dimentica" di chiederle del suo arresto e della sua prigionia:
"Non mi chiese di raccontare la mia storia. Non era eroica" (Beccaria,
inedito). Un altro compagno partigiano, unico superstite di una famiglia
sterminata ad Auschwitz, non le domanda nulla di Ravensbrueck. Ancora piu'
grave e', pero', il disprezzo letto nelle parole di un altro importante
comandante partigiano: "Deportata, cosa vuol dire? Le partigiane si sono
fatte ammazzare, non si sono fatte prendere prigioniere" (Beccaria, 1991,
pp. 32-33).
E' un'umiliazione insopportabile per una donna che e' stata arrestata e
deportata proprio perche' era una partigiana.
Ma e' come se Beccaria non fosse in grado di reagire, e' come se reiterasse
l'abitudine a incassare colpi, a subire umiliazioni, che aveva appreso nel
Lager.
All'incomprensione delle persone si affianca la latitanza delle istituzioni
che dovrebbero sostenere il ritorno e il reinserimento dei sopravvissuti,
almeno dal punto di vista sanitario e lavorativo.
A pochi giorni dal suo ritorno Beccaria si reca al Provveditorato agli studi
perche' vuole riprendere la sua professione di maestra. Dopo ore di
anticamera il provveditore la fa accomodare nel suo ufficio e non appena lei
inizia ad esporle il suo caso raccontandogli della deportazione, la
interrompe con un viso che "esprimeva una noia profonda" (Beccaria, 1995, p.
123) e le comunica che non puo' presentare domanda come partigiana perche'
e' in ritardo, mentre per le deportate non vi e' alcuna disposizione. Lidia
esce dal colloquio infuriata, cosciente che la condizione di deportata non
le da' nessun diritto e che anzi una figura come la sua non e' nemmeno presa
in considerazione. "Ero tornata a casa abbattuta e arrabbiata, avevo capito,
se mai ce ne fosse ancora stato bisogno, che la mia condizione di deportata,
appena tornata a casa dai lager, era difficile da gestire: una donna non
deve fare la guerra, non deve occuparsi delle cose degli uomini, non deve
soprattutto pretendere di avere gli stessi diritti" (Beccaria, inedito).
E' una discriminazione insostenibile: come scrive Frediani, "non si tratta
di un semplice disagio esistenziale o psicologico. Quella che Lidia descrive
e' una societa' incapace di accogliere le deportate o addirittura ingrata
verso di loro" (Frediani, 2002, p. 312).
Di fronte all'impossibilita' di insegnare, almeno per quell'anno, Beccaria
decide di iscriversi all'universita'; neanche qui mancheranno le umiliazioni
perche' si sente guardata con disprezzo anche dai professori, che la
ritengono una privilegiata rispetto agli altri studenti. Il primo esame lo
supera rispondendo ad una domanda semplicissima fattale da un professore per
"aiutarla", il secondo esame le viene regalato come agli altri "suoi
compagni partigiani". "Uscii umiliata, offesa e disgustata di me stessa
perche' non avevo reagito, avevo accettato il ventidue e non lo avevo
insultato" (Beccaria, inedito).
Il distacco dalla societa' si fa sempre piu' forte: guardando le persone per
strada Lidia sente di far parte di un altro mondo.
Il colpo piu' duro arriva nella primavera del '46, quando scopre che non
potra' votare alle elezioni per l'Assemblea Costituente e per il referendum
istituzionale.
Non potra' votare perche' e' maggiorenne soltanto da pochi giorni: "Avevo
avuto il diritto di combattere in nome della liberta' e della democrazia, ma
ero immatura per esprimere il mio voto" (Beccaria, 1995, 143).
Si sente vittima di un'ingiustizia: "Quella delusione non mi giovo'.
Tornarono gli spettri, gli incubi della notte, l'insofferenza per il mondo
che mi circondava, la voglia di isolarmi".
*
11. Solitudine
Bruzzone sostiene in un suo saggio (1996, p. 36) che, per una deportata, il
tempo del ritorno puo' considerarsi concluso quando ricomincia a vivere una
vita simile a quella delle sue coetanee che non hanno subito la
deportazione.
La reazione di Beccaria di fronte all'indifferenza che la circonda e', in un
primo momento, proprio questa: "Cercai di riprendere la vita normale, andai
a ballare, a passeggiare sulla piazza, mi aggregai a gruppi che andavano in
montagna" (Beccaria, inedito).
Ma la sua e' una "normalita'" impossibile. Non riesce a inserirsi in un
contesto in cui la deportazione e' vista come una "colpa", la colpa di non
essersene stata a casa, dove dovrebbero stare le donne; il massimo che le e'
concesso e' un ascolto distratto immediatamente accompagnato dalla preghiera
di finirla di raccontare cose tristi.
Un reinserimento nella comunita' appare impossibile. Tutto sembra essere
rimasto uguale a prima, ma e' comunque una comunita' dalla quale le
deportate sono, e si sentono, inevitabilmente escluse.
L'emarginazione subita si trasforma in una tendenza ad isolarsi: "Non andavo
in parrocchia, non avevo amiche, leggevo invece di sferruzzare, partecipavo
alle conferenze dove si discuteva, la domenica stavo chiusa in casa, non
andavo ai funerali, avevo accettato di lavorare per cento lire al giorno
alla Camera del Lavoro" (Beccaria, 1995, p. 134).
Attorno a lei, nonostante l'indifferenza ostentata, aleggia sempre il
sospetto che le deportate che si sono salvate lo debbano soltanto al fatto
di essersi prostituite per i tedeschi, e non manca una certa curiosita'
morbosa in alcune insinuazioni o battute a doppio senso che i conoscenti le
fanno sulla sua prigionia.
Come la battuta di un amico che, vistala tornare dalla Francia con in
braccio il nipotino, figlio della sorella emigrata, le chiede se per caso
fosse andata a recuperare "il frutto del peccato".
Di fronte a un tale clima di solitudine, incomprensione e ostilita', le
deportate possono arrivare addirittura a ricordare con nostalgia i giorni
trascorsi nel Lager: esemplare, in proposito, la testimonianza di Liana
Millu (1991, p. 55) che ricorda di aver pensato con nostalgia al Natale
trascorso nel Lager perche' lo ricordava piu' caloroso di quello presente in
cui, seppur libera, era completamente sola e senza speranze per il futuro.
*
12. Il silenzio
Nell'estate del 1946 Beccaria e' in attesa di una nomina annuale come
maestra. Ma e' una donna, una "maestrina" le cui opportunita' sono ben
diverse da quelle degli uomini: "le leggi e i regolamenti persistevano e con
essi i privilegi dell'essere maschio" (Beccaria, inedito).
Il provveditore agli studi e' lo stesso che aveva rifiutato di accettare la
sua domanda l'anno prima, un uomo fidato del fascismo che era riuscito a
riciclarsi, un uomo che non esitava ad aggirare le graduatorie per favorire
i suoi protetti.
Finalmente le arriva la nomina: dovra' recarsi in un paesino delle Langhe,
Baratta di Cravenzana.
Nonostante la sede assai disagiata, Beccaria e' felice dell'incarico: ha
finalmente la possibilita' di stare da sola, anche se sono molti i fantasmi
che popolano la sua solitudine.
"Imparai a tacere, a nascondere il mio passato per sentirmi come le altre,
ma la provincia e' piccola e pettegola, dopo poco la mia storia rimbalzava,
si creava una specie di curiosita' morbosa" (Beccaria, inedito).
Ritorna di continuo il tema dello sfruttamento sessuale o della compiacenza.
Indifferenti a un racconto fatto di fame freddo e privazioni, le "maestre
imbevute di perbenismo" vorrebbero ascoltare i racconti "piccanti" di una
prigioniera che e' stata nelle mani di aguzzini senza scrupoli e restano
assai deluse delle risposte che Lidia da' alle loro domande ambigue.
Questo atteggiamento sancisce immediatamente l'impossibilita' di inserirsi
normalmente nella comunita'.
Il fatto di essere un ex-deportata non influisce solo sul rapporto con le
colleghe, ma anche su quello con i suoi superiori, che la considerano una
donna troppo indipendente e poco seria, tanto che viene immediatamente
trasferita.
Nel frattempo viene rintracciata da un deportato di Cuneo che la accoglie
nella sua casa come fosse una di famiglia.
L'incontro con la madre di quest'uomo sara' fondamentale per Lidia che
trovera' in lei, per la prima volta, una persona disposta ad ascoltarla con
sincero interesse, senza pregiudizi; solo con lei potra' parlare della
condizione della donna nel Lager. Sara' l'unica persona con la quale Lidia
si aprira'.
Nell'estate del 1948 Lidia vince il concorso a cattedra.
In quell'anno entra per la prima volta nella sede dell'associazione degli ex
deportati di Torino, ma l'impatto e' terrificante: si sente sprofondare
nuovamente nell'atmosfera del Lager, ritornano gli incubi notturni.
Non le resta che una scelta: "Per venir fuori da quella spirale pericolosa
era meglio tacere, adeguarmi alla vita delle mie coetanee, pensare al
futuro, agli esami, ai vestiti, alle vacanze, illudermi che Ravensbrueck non
fosse esistito" (Beccaria, 1995, p. 184).
Lidia si chiude in un silenzio totale, un silenzio che e' esso stesso
testimonianza. Un silenzio che e' un'accusa nei confronti di chi non ha
ascoltato, di chi non ha capito, di chi ha giudicato senza sapere. Un
silenzio che durera' dieci anni.
*
13. Rompere il silenzio
Lidia, come abbiamo visto, sceglie il silenzio, ma il suo silenzio non e'
oblio, non rappresenta un desiderio di dimenticare il Lager.
Tacere e' un ripiego, un adeguarsi alla volonta' del tempo.
In lei c'e' una vera e propria "vocazione" alla testimonianza che non puo'
essere soddisfatta.
Non resta che provare a vivere una vita "normale", ma il tentativo di
cancellare Ravensbrueck si rivela un'impresa vana: "Per un po' mi illusi di
aver cacciato i fantasmi, di aver cancellato la memoria, ma non fu cosi'"
(Beccaria, 1995, p. 185).
Per lunghi anni Lidia resta come sospesa; nonostante il lavoro, nonostante
la famiglia, sente la profonda diversita' che la divide dagli altri: "La
nostra sensibilita' nei rapporti col mondo e' diversa, io direi proprio che
siamo diversi... il tempo dell'ex deportato e' uno solo, il presente che
comprende il passato e il futuro" (Bruck, 1991, p. 80).
Lidia vive lunghi anni in questa "terra di mezzo", doppiamente "diversa"
perche' deportata e perche' donna.
Il momento in cui il silenzio si spezza e' datato da un avvenimento preciso:
la pubblicazione del libro Il flagello della svastica di Lord Russel, edito
da Feltrinelli nel 1955.
E' il primo libro in cui viene citato il campo di Ravensbrueck, il primo
libro in cui e' sintetizzata la storia delle donne e dei bambini senza
nessun accento ambiguo: "Aveva detto cose che io in dieci anni non avevo
potuto dire o avevo detto senza essere creduta... Dopo avere letto e riletto
e fatto leggere questo libro ho rotto il silenzio e ho incominciato a
raccontare e a scrivere ovunque mi fosse concesso spazio. Dieci anni non
avevano sopito la mia memoria, ne' il bisogno di raccontare, ora volevo la
mia rivincita sul silenzio che mi era stato imposto e sull'indifferenza che
aveva accolto la mia memoria" (Beccaria, 1991, p. 35).
Anna Bravo ha scritto che Beccaria ha avuto due ritorni, "quello verso
l'Italia, che si conclude nell'agosto del '45, quello verso se stessa, che
si prolunga negli anni del dopoguerra" (Bravo, 1997, p. 47).
Con il 1955 inizia una terza fase del ritorno di Lidia, quella in cui
finalmente puo' assolvere all'imperativo morale che si era posta in Lager:
la testimonianza.
*
14. Insegnare la deportazione
Il 1958 e' un'altra data importante nella biografia di Beccaria.
Nel dicembre di quell'anno si tiene a Torino un convegno sulla memoria della
deportazione. Sono molti i testimoni: Primo Levi, Alberto Todros. Beccaria
e' la sola donna a parlare della propria esperienza di deportazione e a
rispondere alle domande del pubblico.
E' la prima volta che prende un microfono in mano ed e' terrorizzata. E'
difficile rispondere alle domande di chi non conosce il Lager, di chi non lo
ha vissuto, soprattutto se si e' donna, ma l'interesse dimostrato dal
pubblico in quell'occasione si dimostra talmente vivo e sincero da far
superare tutti i timori.
E' in quella sede che nascera' l'idea degli incontri con le scuole. La
testimonianza alle nuove generazioni diverra' per Lidia una vera e propria
missione a cui adempira' senza soste per il resto della sua vita.
Testimoniare nelle scuole coniuga il bisogno di raccontare la propria
esperienza, per far conoscere quello che e' stato e sottrarlo all'oblio, con
l'esigenza di fare del Lager un monito contro tutte le violenze.
I primi anni sono i piu' difficili per Beccaria soprattutto perche' perdura
lo stereotipo che vuole che la deportazione femminile implichi
necessariamente lo sfruttamento sessuale. Nelle domande rivoltele durante
gli incontri non mancano mai gli accenni a questo tema. E' un argomento che
Lidia affronta con difficolta', memore delle varie insinuazioni che aveva
dovuto subire nell'immediato dopoguerra; cerca di trattarlo attenendosi ai
fatti di sua conoscenza, ma non e' ancora sicura di essere capita e di
essere creduta.
"Tuttavia la volonta' di testimoniare era cosi' importante e cosi' urgente
che, nonostante le domande provocatorie e ambigue, continuai a testimoniare"
(Beccaria, 1992, p. 223).
Un'altra difficolta' e' rappresentata dal fatto che nei giovani vi e' un
interesse quasi morboso per la sofferenza fisica: "C'era questa tendenza a
farti raccontare gli episodi piu' tragici, piu' violenti, senza tener conto
di quella che era stata tutta la struttura concentrazionaria" (Beccaria,
1992, p. 223).
Le domande piu' ricorrenti riguardano i motivi per cui i deportati non si
fossero ribellati, non avessero tentato la fuga o non si fossero suicidati:
"Ci rendevamo conto che se quelle erano le domande noi non eravamo riusciti
a far capire la realta' del mondo concentrazionario" (Beccaria, 1992, p.
228).
In ogni caso la deportazione suscita un interesse profondo nei giovani e,
nonostante le difficolta' nella comunicazione, gli incontri si moltiplicano.
Non mancano le reazioni negative a questa nuova ondata di interesse,
soprattutto di un certo tipo di stampa.
In una pagina del "Candido", che Lidia ha conservato tra le pagine del suo
Diario di prigionia, quasi e rendere ancora piu' evidente, per contrasto, la
falsita' delle affermazioni contenute nell'articolo, Guareschi definisce gli
incontri organizzati dai deportati una "Universita' dell'Odio".
Nell'articolo c'e' anche un riferimento a una ex-deportata di Cuneo che non
ha avuto remore nel rovinare la serena atmosfera del Natale portando in
citta' la "Mostra della Deportazione".
"Gli attacchi della stampa di destra non ottennero l'effetto sperato: la
mostra sulla deportazione divento' itinerante, i colloqui coi giovani si
moltiplicarono, i sopravvissuti si riappropriarono della loro memoria,
impararono a raccontare" (Beccaria, inedito).
E' proprio nella volonta' di conoscere dei giovani che Beccaria trova la
forza di non arrendersi di fronte all'indifferenza della stampa e,
soprattutto, dei presidi e degli insegnanti. In seguito a questi primi
incontri con loro nasce in lei l'esigenza di studiare piu' a fondo la
deportazione: "Mi sono resa conto proprio attraverso le conversazioni e i
colloqui... di quanto fosse difficile parlare con gli interlocutori se non
conoscevi a fondo la materia" (Beccaria, 1991, pp. 226 - 227).
Nel suo archivio si trovano centinaia di pagine manoscritte in cui sono
raccolti dati su moltissimi campi di sterminio, pagine e pagine di nomi, di
date, di numeri.
Per Beccaria, affinche' la testimonianza possa ritenersi valida, e'
importante "avere conoscenze precise, anche se schematiche, di tutti i
campi". Bisogna saper spiegare le differenze tra la deportazione politica e
quella razziale, le differenze tra i vari campi e le differenze tra i
deportati all'interno di uno stesso campo.
Da questo studio nasce una vera e propria metodologia della testimonianza.
Innanzi tutto il raccontare con un tono pacato, il piu' possibile
distaccato, senza toni violenti e senza far leva sull'emotivita' di chi
ascolta: "Con le armi che abbiamo in mano e' talmente facile commuovere...
Non mi lascio mai prendere da tutto questo, perche' e' pericoloso, non
lascia una traccia" (Bruzzone, 1997, p. 55).
Beccaria non parla mai di avvenimenti che non conosce; non riempie mai i
vuoti della testimonianza con i racconti di altri deportati; fa una netta
distinzione tra gli avvenimenti vissuti personalmente all'interno di
Ravensbrueck e quelli appresi attraverso la lettura o l'ascolto di altre
testimonianze.
La testimonianza viene affrontata con rigore scientifico introducendo gli
ascoltatori alla storia dei campi di sterminio prima di parlare della
propria esperienza. Anche quando parla di se stessa Lidia lo fa attenendosi
il piu' possibile ai fatti essenziali: "Do' questa impostazione: io ero
donna, sono finita in un campo di donne, e ho fatto l'esperienza peggiore
che e' quella dell'ultimo anno" (Bruzzone, 1997, p. 57).
E' questo un modo per introdurre gli aspetti specificamente femminili della
deportazione. Quello che le preme e' soprattutto combattere l'immagine della
deportazione legata solo agli aspetti sessuali dello sfruttamento: non nega
che questi siano esistiti, ma insiste sulla loro marginalita'.
Le preme comunicare ai ragazzi come, in realta', le donne fossero trattate
alla stessa stregua degli uomini, senza nessun privilegio dovuto al sesso.
Allo stesso tempo sottolinea la specificita' femminile di certe reazioni di
fronte all'orrore dei Lager: "Non e' possibile vedere delle donne incinte
arrivare al campo, lavorare dodici ore a pala e piccone con noi, e poi
chiederti all'improvviso, quando non le vedi piu' dov'e' finito il neonato,
che fine ha fatto. Queste emozioni le vivi da donna, non le vivi da uomo"
(Bruzzone, 1997, p. 63).
Nelle testimonianze di Beccaria non mancano mai le analogie tra il passato e
il presente: "Io non vado la' solo per raccontare un qualcosa avvenuto nel
passato e che non si ripetera' mai piu', che e' cancellato, perche' e'
assolutamente vero. Vado la' per renderli piu' attenti a quello che sta
avvenendo nel mondo attorno a loro" (Bruzzone, 1997. p. 66).
Il collegamento con il presente non ha solo una funzione didattica.
La testimonianza e' denuncia delle violenze passate e di quelle future. Il
senso della testimonianza si snoda in due direzioni: da un lato comunicare
la propria esperienza di donne e di combattenti, dall'altro non dimenticare
che ogni giorno, in ogni parte del mondo, si perpetrano violenze nei
confronti di persone inermi, violenze di fronte a cui il deportato non puo'
chiudere gli occhi.
Beccaria sa che sollecitare i collegamenti con il presente puo' essere
rischioso, ma per lei la testimonianza e' un vero e proprio impegno politico
e non avrebbe senso se non potesse attualizzarne di continuo il valore.
Fa suo il monito di Primo Levi: "Meditare su quanto e' avvenuto e' un dovere
di tutti... L'odio nazista... non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo
capire da dove nasce e stare in guardia... conoscere e' necessario, perche'
cio' che e' accaduto puo' ritornare" (Levi, 1993, p. 247).
Non e' un caso che Beccaria abbia redatto, nei primi anni novanta, una serie
di appunti sulla crescita del razzismo e sui casi di stupro etnico in
Bosnia.
La possibilita' di testimoniare nelle scuole rappresenta per lei anche una
forma di riscatto per gli anni di silenzio a cui e' stata costretta e sono
fonte di grande gratificazione l'ascolto attento degli studenti o le piccole
attenzioni che le dimostrano che il suo messaggio e' arrivato al cuore di
chi ascolta.
Come ha scritto Bruzzone, quella di Beccaria e' stata "un'altissima lezione
di metodo, sorretto da un'autentica istanza etica" (1997, p. 35).
*
15. Ricominciare a scrivere
Come sappiamo, il desiderio di scrivere nasce in Beccaria gia' all'interno
del Lager. Sfidando la legge concentrazionaria, tiene un diario, scrivendo
anche durante la marcia di evacuazione, tra i mitragliamenti e i
bombardamenti: "Ho salvato quegli appunti con grande sacrificio - Negli
ultimi giorni pesavano e li avrei buttati via volentieri - Ma erano le
uniche cose che mi ricordavano il campo - Volevo portarle a casa e
completarle" (Beccaria, inedito).
Tornata a casa, si accorge che nessuno e' interessato alla sua
testimonianza. Gli appunti vengono chiusi in un cassetto.
Molti anni dopo, a causa di un'operazione all'anca sinistra che la costringe
a letto per sei mesi, riprende in mano gli appunti "sbiaditi" e ricomincia a
rielaborarne il contenuto: "Avevo molti anni in piu', un'esperienza diversa,
le impressioni di allora diventano oggetto di meditazione, cercai di
analizzare la realta' della citta' concentrazionaria con un certo distacco"
(Beccaria, inedito).
Anche questi scritti vengono riposti in un cassetto.
Nella prima meta' degli anni '70 un altro intervento la costringe ad un
ricovero in ospedale.
E' arrivato il momento dei consuntivi.
Lidia riprende ancora una volta in mano i fogli scritti nel corso degli anni
e si rende conto che e' davvero venuto il momento di scrivere.
"Ritento oggi - perche' dopo trent'anni? I motivi, sostanzialmente sono tre:
I - Sono ancora ammalata e mi rendo conto che se voglio farlo devo farlo
adesso e non domani - potrebbe essere troppo tardi.
II - In questi tempi ho riletto quanto di piu' di impegnativo e' stato
scritto sul campo" (Beccaria, inedito).
Il foglio in cui era appuntato il terzo motivo e' andato perso, ma credo di
poter affermare con certezza che il terzo motivo per cui Beccaria ha deciso
di scrivere va fatto risalire all'uscita del film "Il portiere di notte" di
Liliana Cavani.
Lo si evince chiaramente dalle sue testimonianze.
Per capire i motivi di Beccaria bisogna risalire al 1964. Il giorno prima di
partire per Ravensbrueck per l'inaugurazione del sacrario, Lidia rilascia a
Liliana Cavani un'intervista che avrebbe dovuto essere inserita in un
episodio del documentario "La donna nella Resistenza", mandato in onda dalla
Rai nel 1965.
Dieci anni dopo Cavani gira "Il portiere di notte", un film che suscita lo
sdegno di Beccaria per il modo in cui veniva affrontato il tema del rapporto
fra carnefice e vittima. Contemporaneamente usci' il libro omonimo
pubblicato da Einaudi. Nell'introduzione al libro Cavani scrive che nel 1965
aveva intervistato una partigiana di Cuneo che aveva trascorso tre anni a
Dachau.
La regista racconta di essere rimasta sconcertata da una dichiarazione di
questa donna, che le aveva raccontato che, da quando era ritornata,
trascorreva tutte le estati due settimane a Dachau: "Le chiesi perche' ci
andava, perche' non andava invece il piu' lontano possibile. Non riusci' a
rispondermi con abbastanza chiarezza (avrebbe dovuto essere Dostoevskij) ma
la risposta, mi dicevo, la dava con quei suoi ritorni: la vittima anziche'
il carnefice torna sul luogo dei delitti" (Cavani, 1975, p. 7).
La deportata a cui si riferisce Cavani e' indubbiamente Beccaria: "Non
corrispondevano invece le dichiarazioni che mi aveva messo in bocca... aveva
bisogno di confessioni anche false... per suffragare la sua tesi altrimenti
non sostenibile" (1992, p. 36).
Lidia si arrabbia fortemente per la mistificazione fatta da Liliana Cavani,
si sente fraintesa e nuovamente umiliata, come nei primi anni del
dopoguerra.
Vorrebbe reagire, vorrebbe sconfessare le dichiarazioni di Cavani. I
compagni deportati le sconsigliano di farlo perche', data la fortuna avuta
dal film, che aveva avuto le lodi anche della critica di sinistra, la
polemica sarebbe servita soltanto a fare della pubblicita' gratuita
all'opera: "Il ragionamento non faceva una grinza, funzionava sul piano
dell'opportunita', ma io mi sentivo offesa per l'ennesima volta" (1992, p.
38).
Si sente offesa come deportata e come donna, perche' questo genere di film e
di letteratura offre una visione distorta della prigionia nei campi di
sterminio, aumentando il disagio del ritorno e la difficolta' di raccontare,
perpetuando allo stesso tempo gli stereotipi negativi di una societa' che
aveva da subito guardato con sospetto e malizia le deportate.
"Era giunto il tempo di scrivere la nostra storia" (Beccaria, 1992, p. 38).
*
Note
1. A Ravensbrueck la bande rouge o anweiserin e' la figura analoga al kapo'.
*
Fonti
Archivio di Lidia Beccaria Rolfi: manoscritti inediti
- Appunti di prigionia, 1944-1945.
- 25 Aprile, appunti non datati per una relazione tenuta al Comune di
Mondovi' in occasione del 25 aprile.
- Correva l'anno 1946, appunti non datati sul mestiere di insegnante nel
primo dopoguerra.
- Diario di prigionia, 1944-1945.
- Il ritorno, prima stesura de L'esile filo della memoria.
- La memoria dopo il ritorno, dattiloscritto non datato.
- Lettera a Nilde Iotti, 24 luglio 1991.
- Perche' ho scritto, appunti non datati.
- Primo incontro del comitato nazionale di Ravensbrueck, relazione
introduttiva tenuta in occasione del convegno tenutosi a Torino nel febbraio
del 1979.
- Primo Levi, dattiloscritto non datato.
- Riflessioni sul razzismo, breve diario sull'ondata di razzismo dei primi
anni Novanta.
- Santo Stefano, appunti su un ricovero in ospedale.
*
Bibliografia
- Alan Adelson, a c. di, Il diario di Dawid Sierakowak. Cinque quaderni dal
ghetto di Lodz, Torino, Einaudi, 1997.
- Jean Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
- Aned, a c. di, Bibliografia della deportazione, Milano, Mondadori, 1982.
- Aned, a c. di, Storia vissuta. Dal dovere di testimoniare alle
testimonianze orali nell'insegnamento della storia della seconda guerra
mondiale, Milano, Franco Angeli, 1988.
- Aned sezione di Roma, a c. di, Un silenzio nella storia. La liberazione
dai campi e il ritorno dei deportati, Roma, Sabbadini Grafiche Sud, 1997.
- Hannah Arendt, La banalita' del male, Milano, Feltrinelli, 1963.
- Zygmunt Bauman, Modernita' e Olocausto, Bologna, il Mulino, 1999.
- Lidia Beccaria Rolfi, L'esile filo della memoria, Torino, Einaudi, 1996.
- Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbruck.
Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, Einaudi, 1978.
- Lidia Beccaria Rolfi, Bruno Maida, Il futuro spezzato. I nazisti contro i
bambini, Firenze, La Giuntina, 1997.
- Anna Bravo, a c. di, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Bari, Laterza,
1991.
- Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senz'armi. Storie di donne.
1940-1945, Bari, Laterza, 1995.
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dovere di testimoniare alle testimonianze orali nell'insegnamento della
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- Anna Rossi-Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Soveria
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- Jorge Semprun, Elie Wiesel, Tacere e' impossibile, Parma, Guanda, 1996.
- Domenico Tarizzo, Ideologia della morte, Milano, il Saggiatore, 1962.
- Giuliana Tedeschi, Questo povero corpo, Milano, Edit, 1946.
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- Italo Tibaldi, Compagni di viaggio, Milano, Franco Angeli, 1994.
- Germaine Tillion, Ravensbrueck, Paris, Editions du Seuil, 1973.
- P. Vaenti, a c. di, Il ritorno dai Lager, Cesena, Societa' Editrice "Il
Ponte Vecchio", 1996.
- Bruno Vasari, La Resistenza dei deportati politici italiani nei lager
nazisti, Piacenza, Edizioni dell'Orso, 1995.
- Eleonora Vincenti, a c. di, Gli ultimi giorni dei Lager, Milano, Angeli,
1992.
- Simon Wiesental, Il girasole. I limiti del perdono, Milano, Garzanti,
1970.
- Annette Wieviorka, L'era del testimone, Milano, Raffaello Cortina, 1999.
- Annette Wieviorka, Auschwitz spiegato a mia figlia, Torino, Einaudi, 1999.
- Marguerite Yourcenar, Il dolore, Milano, Feltrinelli, 1985.
(Parte seconda - Fine)

2. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

3. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1185 del 24 gennaio 2006

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