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La nonviolenza e' in cammino. 1185
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1185
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 24 Jan 2006 02:14:11 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1185 del 24 gennaio 2006 Sommario di questo numero: 1. Valentina Greco: Lidia Beccaria Rolfi: la costruzione di una biografia nel passaggio dalla memoria alla testimonianza (parte seconda e conclusiva) 2. La "Carta" del Movimento Nonviolento 3. Per saperne di piu' 1. MEMORIA. VALENTINA GRECO: LIDIA BECCARIA ROLFI: LA COSTRUZIONE DI UNA BIOGRAFIA NEL PASSAGGIO DALLA MEMORIA ALLA TESTIMONIANZA (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dalla utilissima rivista telematica "Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile", nel sito: http://venus.unive.it/rtsmf, riprendiamo il seguente saggio. Valentina Greco, storica, e' impegnata in una ricerca su "La deportazione femminile dall'Italia durante la seconda guerra mondiale: la costruzione di una memoria sulle assenze della storia"; fa parte del comitato di redazione di "Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile", ed e' responsabile del settore bibliografie e sitografie della rivista. Lidia Beccaria Rolfi (1925-1996), nata a Mondovi' nel 1925, staffetta partigiana nella Resistenza, nel '44 fu arrestata dai nazifascisti e deportata nel campo di sterminio di Ravensbrueck. Insegnante, testimone, e' deceduta nel 1996. Opere di Lidia Beccaria Rolfi: (con Anna Maria Bruzzone), Le donne di Ravensbrueck, Einaudi, Torino 1978; L'esile filo della memoria, Einaudi, Torino 1996; (con Bruno Maida), Il futuro spezzato, Giuntina, Firenze 1997. Opere su Lidia Beccaria Rolfi: Bruno Maida (a cura di), Un'etica della testimonianza. La memoria della deportazione femminile e Lidia Beccaria Rolfi, Angeli, Milano 1997. Un suo profilo scritto da Anna Bravo e' nel n. 897 di questo foglio] 8. Il lungo soggiorno a Lubecca Dopo pochi giorni di permanenza alla cascina, Beccaria viene mandata al comando americano di stanza ad Hagenau e, successivamente, a quello inglese che la trasferisce a Lubecca, in un campo abbandonato di prigionieri russi, il Blm. E' il 19 maggio del 1945: dovranno trascorrere altri tre mesi prima che possa intraprendere il viaggio che la riportera' in Italia. Gli inglesi si disinteressano totalmente della sorte dei deportati, soprattutto delle donne, che sono quasi tutte malate e necessitano di cure ospedaliere. Le donne vengono sostanzialmente affidate agli internati militari che si occupano di loro procurandosi le verdure negli orti dei tedeschi e ricavando bende di fortuna con cui curare le piaghe e i foruncoli, inoltre non vengono conteggiate nella distribuzione dei pacchi inviati dalla Croce Rossa ne' tantomeno e' concesso loro di scrivere a casa. Le ribellioni naturalmente non mancano, ma e' frustrante dover combattere per un'assistenza che sarebbe loro dovuta. "Lidia e le sue compagne sembrano subire una tripla discriminazione: come italiane, come donne, come deportate sembra che nessuno si occupi di loro o prema per il loro ritorno. I sogni di un rimpatrio trionfale e rapido, magari in aereo, sono definitivamente abbandonati" (Frediani, 2002, p. 310). La disillusione dei deportati di fronte al disinteresse e al protrarsi delle loro lontananza da casa e', ancora una volta, descritta con efficacia impareggiabile dalle parole di Primo Levi: "Avevamo sperato un viaggio breve e sicuro, verso un campo attrezzato per accoglierci... e questa speranza faceva parte di una ben piu' grande speranza, quella in un mondo diritto e giusto, miracolosamente stabilito sulle sue naturali fondamenta... dopo il tempo della nostra lunga pazienza. Era una speranza ingenua... ma noi ne vivevamo... poiche' non si sogna per anni... un mondo migliore senza raffigurarselo perfetto" (1963, p. 78). Nonostante le difficolta' e l'indifferenza, il soggiorno al Blm rappresenta una parentesi positiva per Beccaria. I mesi di permanenza nel campo le consentono un lento ritorno alla vita. Vi e', innanzi tutto, un miglioramento fisico: guariscono le piaghe dovute all'avitaminosi, la pelle riprende un colorito sano, il corpo aumenta di qualche chilo e infine ritornano anche le mestruazioni, la cui assenza aveva causato non poche preoccupazioni. Vedere che i segni dei lunghi mesi di prigionia scompaiono a poco a poco dal proprio corpo e' come una prova della liberazione, una prova del fatto che, forse, un ritorno alla vita e' possibile. Lidia riscopre il contatto con la natura, una natura di cui, nel Lager, aveva persino dimenticato l'esistenza: "Il sole mi toglieva... la puzza del Lager che continuavo a sentirmi addosso, una puzza che era entrata nella pelle... non la sentivo solo quando mi esponevo al sole o mi coricavo nell'erba fresca" (Beccaria, 1995, p. 59). A Lubecca assapora anche una liberta' assoluta, liberta' di muoversi come desidera, di passeggiare o di dormire, liberta' di gestire la sua vita in maniera completamente autonoma. Una liberta' che e' essa stessa una medicina utile a rimarginare le cicatrici della prigionia. Un altro momento importante e' segnato dal definitivo superamento della paura nei confronti dei tedeschi, superamento che e' scandito da un evento preciso: una mattina Beccaria viene sorpresa a rubare della verdura in un orto di proprieta' di un tedesco, il proprietario la minaccia con una zappa e la riempie di improperi, ma lei non si lascia intimidire, risponde per le rime e si allontana con calma. E' come aver superato positivamente un esame. Lidia si sente fiera di se stessa e del proprio coraggio: "Non mi sentivo piu' sulla pelle il complesso della prigioniera" (Beccaria, 1995, p. 58). Beccaria ricomincia adesso a pensare alla propria casa, alla propria famiglia, agli amici che la aspettano a Mondovi': non sono piu' i ricordi dolorosi carichi di malinconia con i quali aveva pianto nelle notti di Ravensbrueck. Ricordare in questo momento significa immaginare come sara' riabbracciare le persone care, dopo tutti i mesi trascorsi lontano da casa, con la certezza che questo incontro avverra'. La sera, alla luce della luna, finalmente sola, Lidia puo' finalmente pensare alla sua casa con serenita': "La luna divento' un momento d'incontro con la mia famiglia e con i vecchi amici... Ogni sera ritagliavo cinque minuti per guardare la luna da sola, per riscoprire il mio passato e pensare alle persone che avrei voluto rivedere" (Beccaria, 1995, p. 56). E' pero' la nostalgia dei libri che da' a Lidia la misura dei progressi fatti nel cammino verso un vero ritorno alla vita. Nello stesso momento in cui riscopre il piacere di leggere, perde completamente il desiderio di scrivere, perche' non vuole piu' ricordare i giorni del Lager. Per lo stesso motivo, come per una tacita intesa, il Lager finisce di essere argomento di discussione anche con le altre compagne. I giorni trascorsi a Lubecca cominciano adesso a farsi lunghi, il desiderio di tornare a casa si fa sempre piu' vivo. Arrivato il momento di partire, una volta di piu', le deportate non sono trattate alla stregua degli uomini: gli inglesi vogliono infatti farle partire con le civili, senza dar loro la precedenza concessa invece agli uomini. Solo grazie a un'ennesima protesta, una vera e propria sollevazione contro i capi inglesi, le donne riescono a partire con la prima tradotta per l'Italia. E' il 16 agosto 1945: il viaggio verso casa durera' quattordici giorni. E' durante una sosta fatta lungo il cammino che Lidia si ritrova, per la seconda volta, a parlare della propria esperienza con alcuni internati militari e per la seconda volta e' costretta a scorgere la perplessita' negli occhi di chi la ascolta: "Era una donna... che parlava di politica e di guerra. Chissa' se quello che raccontava era vero!" (Beccaria, 1995, p. 92). * 9. L'Italia Il 30 agosto il treno su cui viaggia Lidia arriva a Milano: in attesa di quello che la portera' a Torino si reca presso un ufficio per la ricerca delle persone scomparse durante la guerra: qui, tra le varie foto appese, Beccaria riconosce un suo ritratto, istintivamente lo stacca e conserva in tasca. L'impiegata, accorgendosi delle sottrazione, intima a Lidia di posare la foto e si rifiuta di crederle quando questa le assicura di essere la persona ritratta. L'impiegata ascolta dubbiosa il racconto: di Ravensbrueck non ha mai sentito parlare e la storia le suona sospetta visto che chi racconta non e' nemmeno un'ebrea. E' solo l'inizio di una lunga serie di umiliazioni. All'arrivo del treno per Torino, Beccaria sale, insieme ad altri reduci piemontesi, su una carrozza di terza classe nella quale siedono gia' alcuni civili. L'ostilita' dei passeggeri del treno e' evidente, tanto che uno di loro chiama il controllore per lamentarsi della presenza dei deportati. Alla richiesta del biglietto Lidia e i suoi compagni mostrano il lasciapassare, ma il controllore, non ritenendolo valido, li invita a scendere dalla carrozza tra gli applausi e i commenti ad alta voce dei passeggeri: "Ci sono i vagoni bestiame per loro. Avete visto, ci sono delle donne, si portano le donne dietro" (Beccaria, 1995, p. 106). La reazione dei passeggeri del treno non stupisce neanche troppo Lidia: il sogno di un'accoglienza trionfale e' gia' svanito. Nel treno che da Torino la porta a Cuneo un'altra volta il controllore, accortosi che non ha il biglietto, la vuole far scendere, la reputa un'imbrogliona perche' il lasciapassare, dice, si rilascia ai militari, mica alle donne. Questa volta avviene, pero', qualcosa di inaspettato: alcuni operai circondano il controllore e lo costringono a scendere dal treno, minacciandolo. In Beccaria si accende un barlume di speranza, forse qualcuno e' disposto a crederle, forse qualcuno e' disposto ad ascoltare la sua storia. Ma, come scrive Frediani, "la via crucis dell'ostilita' e dell'incomprensione nel suo ritorno a casa sembra non finire mai" (2002, p. 311). Scesa a Cuneo, alcuni giovani la apostrofano in malo modo scambiandola per una ausiliaria: "quel saluto mi raggelo'" (Beccaria, 1995, p. 108). Su invito della polizia ferroviaria si reca a trascorrere la notte in un convento di suore che la trattano freddamente, senza neanche chiederle come si chiama, limitandosi a darle qualcosa da mangiare e un letto per dormire. L'indifferenza delle suore ferisce Lidia, che si sente a disagio di fronte a quegli sguardi che sembrano rimproverarla perche' non e' rimasta a casa, come dovrebbero fare le donne. Dunque proprio il momento in cui le tensioni accumulate avrebbero dovuto sciogliersi, l'arrivo in Italia, si rivela il piu' duro per l'indifferenza, l'ostilita', il disprezzo con cui viene accolta. "Non era il ritorno che spesso avevo immaginato quando cercavo di scacciare la fame sognando il dopo Lager" (Beccaria, 1995, p. 108). Mentre siede sul treno che la riporta finalmente a Mondovi', Lidia sa gia' che non potra' raccontare; e' bastato trascorrere un solo giorno in Italia per farle comprendere che la sua storia non sarebbe stata ascoltata: "Arrivai a casa ormai cosciente che tutto quello che avevo dentro, che la molla che in Lager mi aveva tenuta viva - tornare per raccontare - era saltata - coscienza che alla mia necessita' di far sapere si opponeva la volonta' di non voler sapere" (Beccaria, inedito). * 10. La vita possibile Come ha scritto Primo Levi ne La tregua, l'incontro con la famiglia e' un momento topico per il reduce: "Sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e la anticipavamo con timore... dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere, per abbattere le barriere... Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia contro nemici ignoti, dentro e fuori di noi... Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi" (1963, p. 224). I momenti che precedono l'arrivo a casa sono carichi d'angoscia. Quale sara' l'accoglienza delle persone care dopo tutti quei mesi di distacco e come si potranno raccontare i giorni di prigionia senza sentirsi violate nel pudore e senza far troppo soffrire i parenti? Ma le domande che Lidia si pone sono superflue; nessuno le chiede nulla appena arriva in paese, anche se l'accoglienza e' si' calorosa: il fattorino della funicolare non le fa pagare il biglietto, un facchino le porta lo zaino senza farla pagare, un vicino la accompagna a casa e le racconta le ultime novita' del paese, ma nessuno si interessa alla storia di questa donna tornata a casa dopo un anno di prigionia. "Sembrava che avessero paura di sapere o meglio pensassero che alle spalle nascondessi una storia che era meglio 'non sapere', convinti di stendere un velo pietoso su un anno della mia vita che poteva anche nascondere cose che la gente per bene preferisce far finta di ignorare" (Beccaria, inedito). Beccaria ha avuto, una volta di piu', la prova che sarebbe stato impossibile raccontare. L'incontro con la famiglia e' un incontro "facile": la sorella le va incontro per strada, il papa' l'aspetta sull'uscio di casa, la madre resta dentro casa cercando di nascondere le lacrime, il fratello, appena la vede, le da' una pacca sulla spalla. Alla sua famiglia Lidia non raccontera' mai nulla, teme di non essere creduta, o peggio di far soffrire troppo i suoi cari qualora le credessero. Immagina di poter raccontare almeno dell'evacuazione, un evento simile ad altri racconti di guerra, ma le sue preoccupazioni sono vane. A tavola, con gli amici invitati a pranzo per festeggiarla, non riesce neanche a proferire parola, ad inserirsi nei discorsi; ancora una volta nessuno le domanda nulla della sua prigionia, nessuno si accorge del suo bisogno di parlare: "Capii che non avrei potuto raccontare. Non si racconta la fame, non si racconta il freddo, non si raccontano gli appelli, le umiliazioni, l'incomunicabilita', la disumanizzazione, il crematorio che fuma, l'odore di morte dei blocchi, la voglia di solitudine, il sudicio che entra nella pelle e si incrosta. Tutti hanno avuto fame e freddo e sono stati sporchi almeno una volta e credono che fame freddo e fatica siano uguali per tutti" (Beccaria, 1995, pp. 115-116). Nel racconto di Beccaria stupisce la mancanza di tatto di chi le sta attorno, la totale insensibilita' di fronte al suo appello muto ad essere ascoltata. Per lei non vale nemmeno quello che e' valso per altre deportate, ovvero la possibilita' di raccontare almeno alcuni episodi della prigionia e del viaggio di ritorno, quantomeno quelli che ricalcano la tipologia dei racconti di guerra a cui i familiari sono abituati. Quella di Lidia e' una "disperata presa di coscienza" (Cavaglion, 1991, p. 29) del fatto che la sua e' una storia che nessuno vuole ascoltare. Alla poca disponibilita' ad ascoltare delle persone piu' care si aggiungono altri due motivi di profonda amarezza: da un lato la totale indifferenza delle istituzioni, dall'altro quella che Vittorio E. Giuntella ha definito "incomprensione 'politica'" (1991, p. 110), ossia il rifiuto di ascoltare da parte degli stessi compagni partigiani. A Cuneo, pochi giorni dopo il suo ritorno a casa, Beccaria incontra il comandante partigiano di cui era stata la staffetta che le parla di se stesso ma "dimentica" di chiederle del suo arresto e della sua prigionia: "Non mi chiese di raccontare la mia storia. Non era eroica" (Beccaria, inedito). Un altro compagno partigiano, unico superstite di una famiglia sterminata ad Auschwitz, non le domanda nulla di Ravensbrueck. Ancora piu' grave e', pero', il disprezzo letto nelle parole di un altro importante comandante partigiano: "Deportata, cosa vuol dire? Le partigiane si sono fatte ammazzare, non si sono fatte prendere prigioniere" (Beccaria, 1991, pp. 32-33). E' un'umiliazione insopportabile per una donna che e' stata arrestata e deportata proprio perche' era una partigiana. Ma e' come se Beccaria non fosse in grado di reagire, e' come se reiterasse l'abitudine a incassare colpi, a subire umiliazioni, che aveva appreso nel Lager. All'incomprensione delle persone si affianca la latitanza delle istituzioni che dovrebbero sostenere il ritorno e il reinserimento dei sopravvissuti, almeno dal punto di vista sanitario e lavorativo. A pochi giorni dal suo ritorno Beccaria si reca al Provveditorato agli studi perche' vuole riprendere la sua professione di maestra. Dopo ore di anticamera il provveditore la fa accomodare nel suo ufficio e non appena lei inizia ad esporle il suo caso raccontandogli della deportazione, la interrompe con un viso che "esprimeva una noia profonda" (Beccaria, 1995, p. 123) e le comunica che non puo' presentare domanda come partigiana perche' e' in ritardo, mentre per le deportate non vi e' alcuna disposizione. Lidia esce dal colloquio infuriata, cosciente che la condizione di deportata non le da' nessun diritto e che anzi una figura come la sua non e' nemmeno presa in considerazione. "Ero tornata a casa abbattuta e arrabbiata, avevo capito, se mai ce ne fosse ancora stato bisogno, che la mia condizione di deportata, appena tornata a casa dai lager, era difficile da gestire: una donna non deve fare la guerra, non deve occuparsi delle cose degli uomini, non deve soprattutto pretendere di avere gli stessi diritti" (Beccaria, inedito). E' una discriminazione insostenibile: come scrive Frediani, "non si tratta di un semplice disagio esistenziale o psicologico. Quella che Lidia descrive e' una societa' incapace di accogliere le deportate o addirittura ingrata verso di loro" (Frediani, 2002, p. 312). Di fronte all'impossibilita' di insegnare, almeno per quell'anno, Beccaria decide di iscriversi all'universita'; neanche qui mancheranno le umiliazioni perche' si sente guardata con disprezzo anche dai professori, che la ritengono una privilegiata rispetto agli altri studenti. Il primo esame lo supera rispondendo ad una domanda semplicissima fattale da un professore per "aiutarla", il secondo esame le viene regalato come agli altri "suoi compagni partigiani". "Uscii umiliata, offesa e disgustata di me stessa perche' non avevo reagito, avevo accettato il ventidue e non lo avevo insultato" (Beccaria, inedito). Il distacco dalla societa' si fa sempre piu' forte: guardando le persone per strada Lidia sente di far parte di un altro mondo. Il colpo piu' duro arriva nella primavera del '46, quando scopre che non potra' votare alle elezioni per l'Assemblea Costituente e per il referendum istituzionale. Non potra' votare perche' e' maggiorenne soltanto da pochi giorni: "Avevo avuto il diritto di combattere in nome della liberta' e della democrazia, ma ero immatura per esprimere il mio voto" (Beccaria, 1995, 143). Si sente vittima di un'ingiustizia: "Quella delusione non mi giovo'. Tornarono gli spettri, gli incubi della notte, l'insofferenza per il mondo che mi circondava, la voglia di isolarmi". * 11. Solitudine Bruzzone sostiene in un suo saggio (1996, p. 36) che, per una deportata, il tempo del ritorno puo' considerarsi concluso quando ricomincia a vivere una vita simile a quella delle sue coetanee che non hanno subito la deportazione. La reazione di Beccaria di fronte all'indifferenza che la circonda e', in un primo momento, proprio questa: "Cercai di riprendere la vita normale, andai a ballare, a passeggiare sulla piazza, mi aggregai a gruppi che andavano in montagna" (Beccaria, inedito). Ma la sua e' una "normalita'" impossibile. Non riesce a inserirsi in un contesto in cui la deportazione e' vista come una "colpa", la colpa di non essersene stata a casa, dove dovrebbero stare le donne; il massimo che le e' concesso e' un ascolto distratto immediatamente accompagnato dalla preghiera di finirla di raccontare cose tristi. Un reinserimento nella comunita' appare impossibile. Tutto sembra essere rimasto uguale a prima, ma e' comunque una comunita' dalla quale le deportate sono, e si sentono, inevitabilmente escluse. L'emarginazione subita si trasforma in una tendenza ad isolarsi: "Non andavo in parrocchia, non avevo amiche, leggevo invece di sferruzzare, partecipavo alle conferenze dove si discuteva, la domenica stavo chiusa in casa, non andavo ai funerali, avevo accettato di lavorare per cento lire al giorno alla Camera del Lavoro" (Beccaria, 1995, p. 134). Attorno a lei, nonostante l'indifferenza ostentata, aleggia sempre il sospetto che le deportate che si sono salvate lo debbano soltanto al fatto di essersi prostituite per i tedeschi, e non manca una certa curiosita' morbosa in alcune insinuazioni o battute a doppio senso che i conoscenti le fanno sulla sua prigionia. Come la battuta di un amico che, vistala tornare dalla Francia con in braccio il nipotino, figlio della sorella emigrata, le chiede se per caso fosse andata a recuperare "il frutto del peccato". Di fronte a un tale clima di solitudine, incomprensione e ostilita', le deportate possono arrivare addirittura a ricordare con nostalgia i giorni trascorsi nel Lager: esemplare, in proposito, la testimonianza di Liana Millu (1991, p. 55) che ricorda di aver pensato con nostalgia al Natale trascorso nel Lager perche' lo ricordava piu' caloroso di quello presente in cui, seppur libera, era completamente sola e senza speranze per il futuro. * 12. Il silenzio Nell'estate del 1946 Beccaria e' in attesa di una nomina annuale come maestra. Ma e' una donna, una "maestrina" le cui opportunita' sono ben diverse da quelle degli uomini: "le leggi e i regolamenti persistevano e con essi i privilegi dell'essere maschio" (Beccaria, inedito). Il provveditore agli studi e' lo stesso che aveva rifiutato di accettare la sua domanda l'anno prima, un uomo fidato del fascismo che era riuscito a riciclarsi, un uomo che non esitava ad aggirare le graduatorie per favorire i suoi protetti. Finalmente le arriva la nomina: dovra' recarsi in un paesino delle Langhe, Baratta di Cravenzana. Nonostante la sede assai disagiata, Beccaria e' felice dell'incarico: ha finalmente la possibilita' di stare da sola, anche se sono molti i fantasmi che popolano la sua solitudine. "Imparai a tacere, a nascondere il mio passato per sentirmi come le altre, ma la provincia e' piccola e pettegola, dopo poco la mia storia rimbalzava, si creava una specie di curiosita' morbosa" (Beccaria, inedito). Ritorna di continuo il tema dello sfruttamento sessuale o della compiacenza. Indifferenti a un racconto fatto di fame freddo e privazioni, le "maestre imbevute di perbenismo" vorrebbero ascoltare i racconti "piccanti" di una prigioniera che e' stata nelle mani di aguzzini senza scrupoli e restano assai deluse delle risposte che Lidia da' alle loro domande ambigue. Questo atteggiamento sancisce immediatamente l'impossibilita' di inserirsi normalmente nella comunita'. Il fatto di essere un ex-deportata non influisce solo sul rapporto con le colleghe, ma anche su quello con i suoi superiori, che la considerano una donna troppo indipendente e poco seria, tanto che viene immediatamente trasferita. Nel frattempo viene rintracciata da un deportato di Cuneo che la accoglie nella sua casa come fosse una di famiglia. L'incontro con la madre di quest'uomo sara' fondamentale per Lidia che trovera' in lei, per la prima volta, una persona disposta ad ascoltarla con sincero interesse, senza pregiudizi; solo con lei potra' parlare della condizione della donna nel Lager. Sara' l'unica persona con la quale Lidia si aprira'. Nell'estate del 1948 Lidia vince il concorso a cattedra. In quell'anno entra per la prima volta nella sede dell'associazione degli ex deportati di Torino, ma l'impatto e' terrificante: si sente sprofondare nuovamente nell'atmosfera del Lager, ritornano gli incubi notturni. Non le resta che una scelta: "Per venir fuori da quella spirale pericolosa era meglio tacere, adeguarmi alla vita delle mie coetanee, pensare al futuro, agli esami, ai vestiti, alle vacanze, illudermi che Ravensbrueck non fosse esistito" (Beccaria, 1995, p. 184). Lidia si chiude in un silenzio totale, un silenzio che e' esso stesso testimonianza. Un silenzio che e' un'accusa nei confronti di chi non ha ascoltato, di chi non ha capito, di chi ha giudicato senza sapere. Un silenzio che durera' dieci anni. * 13. Rompere il silenzio Lidia, come abbiamo visto, sceglie il silenzio, ma il suo silenzio non e' oblio, non rappresenta un desiderio di dimenticare il Lager. Tacere e' un ripiego, un adeguarsi alla volonta' del tempo. In lei c'e' una vera e propria "vocazione" alla testimonianza che non puo' essere soddisfatta. Non resta che provare a vivere una vita "normale", ma il tentativo di cancellare Ravensbrueck si rivela un'impresa vana: "Per un po' mi illusi di aver cacciato i fantasmi, di aver cancellato la memoria, ma non fu cosi'" (Beccaria, 1995, p. 185). Per lunghi anni Lidia resta come sospesa; nonostante il lavoro, nonostante la famiglia, sente la profonda diversita' che la divide dagli altri: "La nostra sensibilita' nei rapporti col mondo e' diversa, io direi proprio che siamo diversi... il tempo dell'ex deportato e' uno solo, il presente che comprende il passato e il futuro" (Bruck, 1991, p. 80). Lidia vive lunghi anni in questa "terra di mezzo", doppiamente "diversa" perche' deportata e perche' donna. Il momento in cui il silenzio si spezza e' datato da un avvenimento preciso: la pubblicazione del libro Il flagello della svastica di Lord Russel, edito da Feltrinelli nel 1955. E' il primo libro in cui viene citato il campo di Ravensbrueck, il primo libro in cui e' sintetizzata la storia delle donne e dei bambini senza nessun accento ambiguo: "Aveva detto cose che io in dieci anni non avevo potuto dire o avevo detto senza essere creduta... Dopo avere letto e riletto e fatto leggere questo libro ho rotto il silenzio e ho incominciato a raccontare e a scrivere ovunque mi fosse concesso spazio. Dieci anni non avevano sopito la mia memoria, ne' il bisogno di raccontare, ora volevo la mia rivincita sul silenzio che mi era stato imposto e sull'indifferenza che aveva accolto la mia memoria" (Beccaria, 1991, p. 35). Anna Bravo ha scritto che Beccaria ha avuto due ritorni, "quello verso l'Italia, che si conclude nell'agosto del '45, quello verso se stessa, che si prolunga negli anni del dopoguerra" (Bravo, 1997, p. 47). Con il 1955 inizia una terza fase del ritorno di Lidia, quella in cui finalmente puo' assolvere all'imperativo morale che si era posta in Lager: la testimonianza. * 14. Insegnare la deportazione Il 1958 e' un'altra data importante nella biografia di Beccaria. Nel dicembre di quell'anno si tiene a Torino un convegno sulla memoria della deportazione. Sono molti i testimoni: Primo Levi, Alberto Todros. Beccaria e' la sola donna a parlare della propria esperienza di deportazione e a rispondere alle domande del pubblico. E' la prima volta che prende un microfono in mano ed e' terrorizzata. E' difficile rispondere alle domande di chi non conosce il Lager, di chi non lo ha vissuto, soprattutto se si e' donna, ma l'interesse dimostrato dal pubblico in quell'occasione si dimostra talmente vivo e sincero da far superare tutti i timori. E' in quella sede che nascera' l'idea degli incontri con le scuole. La testimonianza alle nuove generazioni diverra' per Lidia una vera e propria missione a cui adempira' senza soste per il resto della sua vita. Testimoniare nelle scuole coniuga il bisogno di raccontare la propria esperienza, per far conoscere quello che e' stato e sottrarlo all'oblio, con l'esigenza di fare del Lager un monito contro tutte le violenze. I primi anni sono i piu' difficili per Beccaria soprattutto perche' perdura lo stereotipo che vuole che la deportazione femminile implichi necessariamente lo sfruttamento sessuale. Nelle domande rivoltele durante gli incontri non mancano mai gli accenni a questo tema. E' un argomento che Lidia affronta con difficolta', memore delle varie insinuazioni che aveva dovuto subire nell'immediato dopoguerra; cerca di trattarlo attenendosi ai fatti di sua conoscenza, ma non e' ancora sicura di essere capita e di essere creduta. "Tuttavia la volonta' di testimoniare era cosi' importante e cosi' urgente che, nonostante le domande provocatorie e ambigue, continuai a testimoniare" (Beccaria, 1992, p. 223). Un'altra difficolta' e' rappresentata dal fatto che nei giovani vi e' un interesse quasi morboso per la sofferenza fisica: "C'era questa tendenza a farti raccontare gli episodi piu' tragici, piu' violenti, senza tener conto di quella che era stata tutta la struttura concentrazionaria" (Beccaria, 1992, p. 223). Le domande piu' ricorrenti riguardano i motivi per cui i deportati non si fossero ribellati, non avessero tentato la fuga o non si fossero suicidati: "Ci rendevamo conto che se quelle erano le domande noi non eravamo riusciti a far capire la realta' del mondo concentrazionario" (Beccaria, 1992, p. 228). In ogni caso la deportazione suscita un interesse profondo nei giovani e, nonostante le difficolta' nella comunicazione, gli incontri si moltiplicano. Non mancano le reazioni negative a questa nuova ondata di interesse, soprattutto di un certo tipo di stampa. In una pagina del "Candido", che Lidia ha conservato tra le pagine del suo Diario di prigionia, quasi e rendere ancora piu' evidente, per contrasto, la falsita' delle affermazioni contenute nell'articolo, Guareschi definisce gli incontri organizzati dai deportati una "Universita' dell'Odio". Nell'articolo c'e' anche un riferimento a una ex-deportata di Cuneo che non ha avuto remore nel rovinare la serena atmosfera del Natale portando in citta' la "Mostra della Deportazione". "Gli attacchi della stampa di destra non ottennero l'effetto sperato: la mostra sulla deportazione divento' itinerante, i colloqui coi giovani si moltiplicarono, i sopravvissuti si riappropriarono della loro memoria, impararono a raccontare" (Beccaria, inedito). E' proprio nella volonta' di conoscere dei giovani che Beccaria trova la forza di non arrendersi di fronte all'indifferenza della stampa e, soprattutto, dei presidi e degli insegnanti. In seguito a questi primi incontri con loro nasce in lei l'esigenza di studiare piu' a fondo la deportazione: "Mi sono resa conto proprio attraverso le conversazioni e i colloqui... di quanto fosse difficile parlare con gli interlocutori se non conoscevi a fondo la materia" (Beccaria, 1991, pp. 226 - 227). Nel suo archivio si trovano centinaia di pagine manoscritte in cui sono raccolti dati su moltissimi campi di sterminio, pagine e pagine di nomi, di date, di numeri. Per Beccaria, affinche' la testimonianza possa ritenersi valida, e' importante "avere conoscenze precise, anche se schematiche, di tutti i campi". Bisogna saper spiegare le differenze tra la deportazione politica e quella razziale, le differenze tra i vari campi e le differenze tra i deportati all'interno di uno stesso campo. Da questo studio nasce una vera e propria metodologia della testimonianza. Innanzi tutto il raccontare con un tono pacato, il piu' possibile distaccato, senza toni violenti e senza far leva sull'emotivita' di chi ascolta: "Con le armi che abbiamo in mano e' talmente facile commuovere... Non mi lascio mai prendere da tutto questo, perche' e' pericoloso, non lascia una traccia" (Bruzzone, 1997, p. 55). Beccaria non parla mai di avvenimenti che non conosce; non riempie mai i vuoti della testimonianza con i racconti di altri deportati; fa una netta distinzione tra gli avvenimenti vissuti personalmente all'interno di Ravensbrueck e quelli appresi attraverso la lettura o l'ascolto di altre testimonianze. La testimonianza viene affrontata con rigore scientifico introducendo gli ascoltatori alla storia dei campi di sterminio prima di parlare della propria esperienza. Anche quando parla di se stessa Lidia lo fa attenendosi il piu' possibile ai fatti essenziali: "Do' questa impostazione: io ero donna, sono finita in un campo di donne, e ho fatto l'esperienza peggiore che e' quella dell'ultimo anno" (Bruzzone, 1997, p. 57). E' questo un modo per introdurre gli aspetti specificamente femminili della deportazione. Quello che le preme e' soprattutto combattere l'immagine della deportazione legata solo agli aspetti sessuali dello sfruttamento: non nega che questi siano esistiti, ma insiste sulla loro marginalita'. Le preme comunicare ai ragazzi come, in realta', le donne fossero trattate alla stessa stregua degli uomini, senza nessun privilegio dovuto al sesso. Allo stesso tempo sottolinea la specificita' femminile di certe reazioni di fronte all'orrore dei Lager: "Non e' possibile vedere delle donne incinte arrivare al campo, lavorare dodici ore a pala e piccone con noi, e poi chiederti all'improvviso, quando non le vedi piu' dov'e' finito il neonato, che fine ha fatto. Queste emozioni le vivi da donna, non le vivi da uomo" (Bruzzone, 1997, p. 63). Nelle testimonianze di Beccaria non mancano mai le analogie tra il passato e il presente: "Io non vado la' solo per raccontare un qualcosa avvenuto nel passato e che non si ripetera' mai piu', che e' cancellato, perche' e' assolutamente vero. Vado la' per renderli piu' attenti a quello che sta avvenendo nel mondo attorno a loro" (Bruzzone, 1997. p. 66). Il collegamento con il presente non ha solo una funzione didattica. La testimonianza e' denuncia delle violenze passate e di quelle future. Il senso della testimonianza si snoda in due direzioni: da un lato comunicare la propria esperienza di donne e di combattenti, dall'altro non dimenticare che ogni giorno, in ogni parte del mondo, si perpetrano violenze nei confronti di persone inermi, violenze di fronte a cui il deportato non puo' chiudere gli occhi. Beccaria sa che sollecitare i collegamenti con il presente puo' essere rischioso, ma per lei la testimonianza e' un vero e proprio impegno politico e non avrebbe senso se non potesse attualizzarne di continuo il valore. Fa suo il monito di Primo Levi: "Meditare su quanto e' avvenuto e' un dovere di tutti... L'odio nazista... non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire da dove nasce e stare in guardia... conoscere e' necessario, perche' cio' che e' accaduto puo' ritornare" (Levi, 1993, p. 247). Non e' un caso che Beccaria abbia redatto, nei primi anni novanta, una serie di appunti sulla crescita del razzismo e sui casi di stupro etnico in Bosnia. La possibilita' di testimoniare nelle scuole rappresenta per lei anche una forma di riscatto per gli anni di silenzio a cui e' stata costretta e sono fonte di grande gratificazione l'ascolto attento degli studenti o le piccole attenzioni che le dimostrano che il suo messaggio e' arrivato al cuore di chi ascolta. Come ha scritto Bruzzone, quella di Beccaria e' stata "un'altissima lezione di metodo, sorretto da un'autentica istanza etica" (1997, p. 35). * 15. Ricominciare a scrivere Come sappiamo, il desiderio di scrivere nasce in Beccaria gia' all'interno del Lager. Sfidando la legge concentrazionaria, tiene un diario, scrivendo anche durante la marcia di evacuazione, tra i mitragliamenti e i bombardamenti: "Ho salvato quegli appunti con grande sacrificio - Negli ultimi giorni pesavano e li avrei buttati via volentieri - Ma erano le uniche cose che mi ricordavano il campo - Volevo portarle a casa e completarle" (Beccaria, inedito). Tornata a casa, si accorge che nessuno e' interessato alla sua testimonianza. Gli appunti vengono chiusi in un cassetto. Molti anni dopo, a causa di un'operazione all'anca sinistra che la costringe a letto per sei mesi, riprende in mano gli appunti "sbiaditi" e ricomincia a rielaborarne il contenuto: "Avevo molti anni in piu', un'esperienza diversa, le impressioni di allora diventano oggetto di meditazione, cercai di analizzare la realta' della citta' concentrazionaria con un certo distacco" (Beccaria, inedito). Anche questi scritti vengono riposti in un cassetto. Nella prima meta' degli anni '70 un altro intervento la costringe ad un ricovero in ospedale. E' arrivato il momento dei consuntivi. Lidia riprende ancora una volta in mano i fogli scritti nel corso degli anni e si rende conto che e' davvero venuto il momento di scrivere. "Ritento oggi - perche' dopo trent'anni? I motivi, sostanzialmente sono tre: I - Sono ancora ammalata e mi rendo conto che se voglio farlo devo farlo adesso e non domani - potrebbe essere troppo tardi. II - In questi tempi ho riletto quanto di piu' di impegnativo e' stato scritto sul campo" (Beccaria, inedito). Il foglio in cui era appuntato il terzo motivo e' andato perso, ma credo di poter affermare con certezza che il terzo motivo per cui Beccaria ha deciso di scrivere va fatto risalire all'uscita del film "Il portiere di notte" di Liliana Cavani. Lo si evince chiaramente dalle sue testimonianze. Per capire i motivi di Beccaria bisogna risalire al 1964. Il giorno prima di partire per Ravensbrueck per l'inaugurazione del sacrario, Lidia rilascia a Liliana Cavani un'intervista che avrebbe dovuto essere inserita in un episodio del documentario "La donna nella Resistenza", mandato in onda dalla Rai nel 1965. Dieci anni dopo Cavani gira "Il portiere di notte", un film che suscita lo sdegno di Beccaria per il modo in cui veniva affrontato il tema del rapporto fra carnefice e vittima. Contemporaneamente usci' il libro omonimo pubblicato da Einaudi. Nell'introduzione al libro Cavani scrive che nel 1965 aveva intervistato una partigiana di Cuneo che aveva trascorso tre anni a Dachau. La regista racconta di essere rimasta sconcertata da una dichiarazione di questa donna, che le aveva raccontato che, da quando era ritornata, trascorreva tutte le estati due settimane a Dachau: "Le chiesi perche' ci andava, perche' non andava invece il piu' lontano possibile. Non riusci' a rispondermi con abbastanza chiarezza (avrebbe dovuto essere Dostoevskij) ma la risposta, mi dicevo, la dava con quei suoi ritorni: la vittima anziche' il carnefice torna sul luogo dei delitti" (Cavani, 1975, p. 7). La deportata a cui si riferisce Cavani e' indubbiamente Beccaria: "Non corrispondevano invece le dichiarazioni che mi aveva messo in bocca... aveva bisogno di confessioni anche false... per suffragare la sua tesi altrimenti non sostenibile" (1992, p. 36). Lidia si arrabbia fortemente per la mistificazione fatta da Liliana Cavani, si sente fraintesa e nuovamente umiliata, come nei primi anni del dopoguerra. Vorrebbe reagire, vorrebbe sconfessare le dichiarazioni di Cavani. I compagni deportati le sconsigliano di farlo perche', data la fortuna avuta dal film, che aveva avuto le lodi anche della critica di sinistra, la polemica sarebbe servita soltanto a fare della pubblicita' gratuita all'opera: "Il ragionamento non faceva una grinza, funzionava sul piano dell'opportunita', ma io mi sentivo offesa per l'ennesima volta" (1992, p. 38). Si sente offesa come deportata e come donna, perche' questo genere di film e di letteratura offre una visione distorta della prigionia nei campi di sterminio, aumentando il disagio del ritorno e la difficolta' di raccontare, perpetuando allo stesso tempo gli stereotipi negativi di una societa' che aveva da subito guardato con sospetto e malizia le deportate. "Era giunto il tempo di scrivere la nostra storia" (Beccaria, 1992, p. 38). * Note 1. A Ravensbrueck la bande rouge o anweiserin e' la figura analoga al kapo'. * Fonti Archivio di Lidia Beccaria Rolfi: manoscritti inediti - Appunti di prigionia, 1944-1945. - 25 Aprile, appunti non datati per una relazione tenuta al Comune di Mondovi' in occasione del 25 aprile. - Correva l'anno 1946, appunti non datati sul mestiere di insegnante nel primo dopoguerra. - Diario di prigionia, 1944-1945. - Il ritorno, prima stesura de L'esile filo della memoria. - La memoria dopo il ritorno, dattiloscritto non datato. - Lettera a Nilde Iotti, 24 luglio 1991. - Perche' ho scritto, appunti non datati. - Primo incontro del comitato nazionale di Ravensbrueck, relazione introduttiva tenuta in occasione del convegno tenutosi a Torino nel febbraio del 1979. - Primo Levi, dattiloscritto non datato. - Riflessioni sul razzismo, breve diario sull'ondata di razzismo dei primi anni Novanta. - Santo Stefano, appunti su un ricovero in ospedale. * Bibliografia - Alan Adelson, a c. di, Il diario di Dawid Sierakowak. Cinque quaderni dal ghetto di Lodz, Torino, Einaudi, 1997. - Jean Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987. - Aned, a c. di, Bibliografia della deportazione, Milano, Mondadori, 1982. - Aned, a c. di, Storia vissuta. Dal dovere di testimoniare alle testimonianze orali nell'insegnamento della storia della seconda guerra mondiale, Milano, Franco Angeli, 1988. - Aned sezione di Roma, a c. di, Un silenzio nella storia. La liberazione dai campi e il ritorno dei deportati, Roma, Sabbadini Grafiche Sud, 1997. - Hannah Arendt, La banalita' del male, Milano, Feltrinelli, 1963. - Zygmunt Bauman, Modernita' e Olocausto, Bologna, il Mulino, 1999. - Lidia Beccaria Rolfi, L'esile filo della memoria, Torino, Einaudi, 1996. - Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbruck. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, Einaudi, 1978. - Lidia Beccaria Rolfi, Bruno Maida, Il futuro spezzato. I nazisti contro i bambini, Firenze, La Giuntina, 1997. - Anna Bravo, a c. di, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Bari, Laterza, 1991. - Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senz'armi. Storie di donne. 1940-1945, Bari, Laterza, 1995. - Anna Bravo, Daniele Jalla, a c. di, La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, Franco Angeli, 1987. - Anna Bravo, Lucetta Scaraffia, Donne del '900, Firenze, Liberal Libri, 1999. - Pietro Caleffi, Si fa presto a dire fame, Milano, Mondadori, 1967. - Alberto Cavaglion, a c. di, Primo Levi. Il presente del passato, Milano, Franco Angeli, 1993. - Alberto Cavaglion, a c. di, Il ritorno dai Lager. Convegno internazionale, 23 novembre 1991, Milano, Franco Angeli, 1993. - Federico Cereja, Brunello Mantelli, a c. di, La deportazione nei campi di sterminio nazisti, Milano, Franco Angeli, 1986. - Consiglio regionale del Piemonte, Aned, a c. di, Storia vissuta. 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Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 3. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1185 del 24 gennaio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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