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La nonviolenza e' in cammino. 1184
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1184
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 23 Jan 2006 00:07:09 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1184 del 23 gennaio 2006 Sommario di questo numero: 1. Valentina Greco: Lidia Beccaria Rolfi: la costruzione di una biografia nel passaggio dalla memoria alla testimonianza (parte prima) 2. La "Carta" del Movimento Nonviolento 3. Per saperne di piu' 1. MEMORIA. VALENTINA GRECO: LIDIA BECCARIA ROLFI: LA COSTRUZIONE DI UNA BIOGRAFIA NEL PASSAGGIO DALLA MEMORIA ALLA TESTIMONIANZA (PARTE PRIMA) [Dalla utilissima rivista telematica "Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile", nel sito: http://venus.unive.it/rtsmf, riprendiamo il seguente saggio. Valentina Greco, storica, e' impegnata in una ricerca su "La deportazione femminile dall'Italia durante la seconda guerra mondiale: la costruzione di una memoria sulle assenze della storia"; fa parte del comitato di redazione di "Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile", ed e' responsabile del settore bibliografie e sitografie della rivista. Lidia Beccaria Rolfi (1925-1996), nata a Mondovi' nel 1925, staffetta partigiana nella Resistenza, nel '44 fu arrestata dai nazifascisti e deportata nel campo di sterminio di Ravensbrueck. Insegnante, testimone, e' deceduta nel 1996. Opere di Lidia Beccaria Rolfi: (con Anna Maria Bruzzone), Le donne di Ravensbrueck, Einaudi, Torino 1978; L'esile filo della memoria, Einaudi, Torino 1996; (con Bruno Maida), Il futuro spezzato, Giuntina, Firenze 1997. Opere su Lidia Beccaria Rolfi: Bruno Maida (a cura di), Un'etica della testimonianza. La memoria della deportazione femminile e Lidia Beccaria Rolfi, Angeli, Milano 1997. Un suo profilo scritto da Anna Bravo e' nel n. 897 di questo foglio] Premessa Le riflessioni contenute in questo saggio nascono da un lavoro di ricerca sulla deportazione femminile dall'Italia, durante il quale ho avuto la possibilita' di consultare l'archivio personale di Lidia Beccaria Rolfi, fino ad ora inedito e mai consultato. Per questo motivo credo sia necessario illustrare brevemente il materiale su cui ho lavorato. L'archivio di Beccaria e' costituito da numerose cartelle, alcune intestate, altre contrassegnate con le lettere dell'alfabeto, mentre altre ancora non riportano alcun tipo di intestazione; da Aldo Rolfi ho saputo che la madre archiviava meticolosamente tutto quello che riguardava la sua attivita' di testimone. I documenti, nella quasi totalita' manoscritti, sono in realta' conservati in ordine sparso: schedarli, quindi, ha richiesto un lungo lavoro di riordino e trascrizione. I manoscritti si dividono sostanzialmente in tre categorie: relazioni e discorsi tenuti in occasione di convegni o incontri; appunti sparsi sulla deportazione; bozze e prime stesure di alcune parti dei libri. Insieme ai manoscritti sono conservate le copie di alcune interviste rilasciate da Lidia, soprattutto a giornali della provincia di Mondovi'. In una cartella e' archiviato tutto il materiale riguardante il Comitato Internazionale di Ravensbrueck, del quale ella fu la rappresentante italiana dal 1958 fino alla morte. Si tratta soprattutto di verbali e comunicazioni interne. Per cio' che concerne il Diario redatto a Ravensbrueck, e' necessario fare un discorso a parte. Dell'esistenza di un diario di prigionia eravamo a conoscenza, poiche' Lidia ne parla sia ne Le donne di Ravensbrueck che ne L'esile filo della memoria. Il quaderno che contiene il Diario fu fabbricato nel lager, mettendo insieme dei fogli trovati in fondo ad alcuni cassetti durante un turno di notte alla Siemens, e fu scritto con un mozzicone di matita avuto in dono da un'infermiera. In alcune pagine si trovano versi di Dante, Carducci, Pascoli o Leopardi, segno, come vedremo in seguito, del bisogno di esercitare la memoria in modo proficuo; altre pagine sono dedicate alla trascrizione di termini francesi e tedeschi; vi sono inoltre alcune poesie di Charlotte Delbo, scritte credo da lei stessa per Lidia, e infine alcuni disegni del paesaggio del Lager fatti da quest'ultima. Gli appunti di prigionia sono divisi in paragrafi, la maggior parte dei quali e' contrassegnata da un titolo; alcuni sono anche datati. Il tentativo di datare gli appunti e' segno della volonta' di tenere il conto dei giorni trascorsi all'interno del campo: un conto impossibile, tanto che troviamo appunti datati anche settembre 1945. Questo fatto mostra che il tempo della prigionia e' scandito in maniera differente rispetto all'esterno, ma e' anche testimonianza di uno degli esercizi escogitati dalle deportate per resistere attivamente all'annullamento della persona cui miravano i nazisti. La lingua adottata da Beccaria nel Diario e' una lingua completamente diversa da quella dei suoi scritti editi: le emozioni - sia la rabbia per le ingiustizie subite che la nostalgia struggente dei genitori - vengono espresse in forma diretta e intensa, lontana dai toni rigorosi e controllati de Le donne di Ravensbrueck. Ma sono soprattutto i temi affrontati che permettono di ampliare notevolmente la conoscenza dell'esperienza di Beccaria: nel Diario si parla infatti di egoismo, di invidia, di privilegi insopportabili, perfino di omosessualita', temi che in seguito ella non ha mai trattato, non solo per pudore, ma proprio per il rigore scientifico con cui ha affrontato il dovere della testimonianza. Il Diario, quindi, permette non soltanto di tracciare un quadro completo dei mesi di prigionia, ma anche di stabilire un confronto proficuo tra la testimonianza diretta e quella mediata dalla riflessione, consentendo anche di tracciare un quadro completo dei mesi di prigionia. * 1. La scelta "Sono di estrazione contadina, ultima di cinque fratelli... Ho avuto un'infanzia serena, libera, senza nocivi condizionamenti familiari... Le prime parole che ho imparato a scrivere sono state 'Eia, eia, eia, alala'!', la prima lettura Duce, ti amo, il primo disegno la bandiera e il fascio littorio" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 5). E' la stessa Beccaria che si descrive in questo passo, offrendoci, con poche parole, un ritratto di se stessa che ci permette di cogliere perfettamente il contesto culturale nel quale inserire la sua biografia. Come tanti suoi coetanei, e' cresciuta nelle scuole di regime ed e' stata educata ad amare il duce. Un'educazione di cui va fiera e che la fa sentire un poco diversa dai suoi familiari che le sembrano indifferenti alle sorti dell'Italia. I primi dubbi iniziano a sorgere dopo il 10 giugno del 1940, data in cui l'Italia entra in guerra al fianco dei tedeschi. La guerra tocca direttamente la famiglia di Lidia: due dei suoi cinque fratelli sono partiti per il fronte russo e di loro, come di tanti altri, non si hanno notizie. L'immagine del padre che la schiaffeggia, per la prima ed ultima volta in vita sua, perche' tornando da scuola grida "Viva la guerra!", quella della madre che piange di nascosto, fanno scattare in Lidia una seria riflessione su tutte le certezze che aveva avuto fino a quel momento. Nel momento in cui ascolta i racconti dei fratelli tornati dalla campagna di Russia, che le spiegano che il vero nemico non e' il popolo russo, ma l'esercito tedesco, che aveva ucciso i bambini e fucilato le donne, e che durante la ritirata si era persino rivoltato contro gli italiani, le si rivela a pieno la falsita' della propaganda fascista: "Le mie reazioni, anche se sono nella direzione giusta, sono soltanto reazioni istintive alla tragedia della guerra, alle sofferenze che vedo attorno a me, alle morti che hanno colpito i soldati al fronte e i civili in citta'. Non c'e' ancora una presa di coscienza sulla realta' della situazione italiana e sul fascismo. Questa presa di coscienza avverra' molto piu' tardi" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 9). Conseguito il diploma, Lidia riceve la sua prima nomina come insegnante elementare alla fine del novembre del 1943. Pochi giorni dopo essersi trasferita a Torrette di Casteldelfino, in Valle Varaita, sede della scuola in cui era stata destinata, riesce a mettersi in contatto con alcuni partigiani della zona: "Ero cresciuta abbastanza per capire quale era la parte sbagliata e scegliere la Resistenza contro i tedeschi e i fascisti" (Monaco, 1994, p. 159). Si unisce alla XV Brigata Garibaldi "Saluzzo", diventando una staffetta. Di notte, alla luce di un lanternino, monta bombe a mano che nasconde in una cassa sotto il suo letto; di giorno, finite le lezioni, fa la spola tra la valle e Saluzzo. I primi giorni del marzo del 1944 i fascisti e i tedeschi iniziano i rastrellamenti a tappeto: "Ezio", uno dei partigiani della brigata, le ordina di allontanarsi dalle valle perche' pullula di spie. Lidia torna a Mondovi' e rientra a Casteldelfino dopo dieci giorni, la sera dell'11 marzo. La mattina del 13 i militi della Guardia Nazionale Repubblicana irrompono nella sua abitazione e la arrestano. La conducono nell'albergo in cui ha sede il comando di stanza a Sampeyre, dove viene interrogata e torturata per un giorno e una notte, viene anche fatta sfilare davanti al plotone d'esecuzione: "il tenente Vicentini di Mantova... assume in proprio l'onore e l'onere di picchiare a sangue 'un'indegna spia del nemico che collabora con banditi ribelli', poi mi lega a una sedia e il mattino dopo mi fa caricare... su una camionetta" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 11). Consegnata alla Gestapo, trascorre dieci giorni nelle carceri giudiziarie di Saluzzo, rinchiusa in un'enorme cella con detenute colpevoli di reati comuni. Infine, la sera del 24, e' trasferita alle carceri Nuove di Torino dove restera' reclusa tre mesi. I mesi di prigionia sono mesi d'incertezza e di paura, Lidia non sa cosa le accadra', ma non sa neanche quello che sta accadendo all'esterno, perche' ogni comunicazione e' vietata. La notizia che sara' deportata in Germania "per lavorare", come le viene detto, viene accolta quasi con sollievo. E' la notte tra il 25 e il 26 giugno del 1944. Viene chiusa in un vagone bestiame agganciato ad altri vagoni uguali, stracolmi di uomini. Viaggia per quattro giorni e quattro notti quasi ininterrottamente, con brevi e rare interruzioni. Come lei stessa racconta, nei discorsi fatti con le compagne di viaggio durante il trasporto, nessuna riusciva ad immaginare niente di peggio del carcere, della cella, delle torture e della paura delle rappresaglie nei confronti dei familiari o delle persone vicine, nessuna poteva sapere cosa fosse in realta' un campo di concentramento. * 2. Ravensbrueck 30 giugno 1944: e' sera, il convoglio si ferma davanti alla stazione di Fuerstenberg, in Germania; il gruppo di donne scende dai vagoni, i loro corpi sono provati dal lungo viaggio, i loro sguardi increduli cercano una risposta attorno a se'. Le SS tedesche ordinano alle donne di incolonnarsi e le fanno avviare, marciando, lungo una strada che costeggia un lago. Alla fine della strada si intravede un muro altissimo, nero, nel quale si apre un grande portone. E' l'ingresso di Ravensbrueck. Lidia Beccaria e le sue compagne di viaggio rappresentano il primo trasporto di italiane nell'unico campo esclusivamente femminile della Germania nazista. "Ravensbrueck ci appare davanti, all'improvviso... Nessuna persona normale puo' immaginare l'aspetto di una citta' concentrazionaria, una citta' concepita, studiata e strutturata apposta per violentare la persona, per umiliarla, per distruggerla, per renderla bestia" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 23). Appena entrata in Lager Beccaria si rende conto che le speranze nutrite lungo il viaggio erano vane. Il primo impatto con il campo, le prigioniere che tornano dal lavoro, e' agghiacciante: migliaia di donne, tutte apparentemente uguali, con lo stesso aspetto scheletrito, con gli stessi occhi spenti, con gli stessi vestiti di stracci. La stessa sistemazione urbanistica del campo e' inquietante nella sua apparente normalita', poiche' il Lager e' studiato in modo tale da renderlo simile ad una moderna citta' industriale. Le prigioniere vengono immediatamente catapultate nella vita del campo attraverso la rituale cerimonia della svestizione. Le leggi del campo spezzano ogni legame con il proprio corpo, reso non soltanto irriconoscibile dalla rasatura, ma, soprattutto, reso pubblico dalla nudita', dalle mani delle SS che lo ispezionano, lo frugano. Come ha scritto Giuliana Tedeschi: "Fu come se qualcuno ci strappasse contemporaneamente alle vesti qualcosa del nostro bagaglio spirituale" (Tedeschi, 1946, p. 13). Il contrasto con le abitudini della vita quotidiana e' troppo forte, il corpo stesso sembra rifiutarsi di assecondare quella violazione: "la pelle rifuggiva (dagli indumenti sporchi e informi) accapponandosi, mentre lungo le reni correva un brivido di freddo" (Tedeschi, 1988, p. 12). Arbeit, lavoro, "e' il motto della citta' concentrazionaria..., esprime l'imperativo su cui ruota ora la societa' del profitto" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 70). Il lavoro nel campo inizia nel momento in cui le deportate vengono svegliate dalla sirena del campo e dura per tutto il giorno, interrotto soltanto dalla lunga cerimonia dell'appello e dalle brevi pause per i pasti. La situazione e' ancora piu' difficile per chi e' una verfuegbar, un'operaia disponibile, come lo e' Beccaria nei primi cinque mesi di prigionia. Essere verfuegbar significa essere semplicemente dei corpi reclutabili per eseguire i lavori piu' massacranti e inutili. La mattina, dopo l'appello, tutte le prigioniere che fanno un lavoro fisso lasciano l'arbeitsplatz, nel campo "rimangono le disoccupate, le ultime arrivate che non sono state assegnate ad un commando e che vengono pescate di volta in volta per lavori di scavo, per scaricare i battelli sul lago, per affrescare i vagoni per tagliare legna per pulire le fogne. Le bande rouge (1)... le caposquadra si gettano a pesce su questa manovalanza ed a colpi di bastone, a schiaffi o con le unghie le attirano nella loro colonna finche' non raggiungono il numero. Le SS assistono a questa operazione di cernita ed a seconda dell'umore lasciano fare o intervengono a colpi di scudiscio per inquadrare le piu' restie" (Inedito, 1944 - 1945). Naturalmente, se visto nella logica della citta' concentrazionaria, anche l'annientamento fisico attraverso il lavoro ha un senso poiche' ad esso segue l'annichilimento psicologico delle prigioniere: "In queste condizioni si perdono le abitudini umane..., si perde addirittura la voce, si diventa mute, ci si chiude in un cerchio di miseria e di annientamento. Scompare la persona e si fa avanti la bestia che agisce solo per istinto" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 92). Derubata del proprio passato, privata del futuro, Beccaria si trova a vivere in un presente eterno. La vita intera diventa quella vissuta nel Lager. Come scrive Primo Levi: "A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme" (Levi, 1958, p. 31). Senza appoggi, senza solidarieta', senza una rete di contatti non c'e' possibilita' di resistenza nel Lager. La fame e la fatica fanno dimenticare che c'e' un motivo per cui si e' in quelle condizioni, che c'e' un nemico che ha fatto si' che cio' potesse accadere, nel nemico si trasforma, piu' semplicemente, la compagna che ha una crosta di pane in piu'. "Il 'tempo concentrazionario' incide i corpi e solo in questo modo sembra spezzare l'apparente fissita' della vita delle prigioniere" (Frediani, 2002, p. 298); il deperimento, la perdita delle mestruazioni, le piaghe dell'avitaminosi, i pidocchi, i segni delle scudisciate, la perdita dei denti, i dolori alle ossa, il corpo subisce una repentina e costante trasformazione. "Questo povero corpo" scrive Giuliana Tedeschi, per sottolineare la sofferenza del corpo violato, usato, torturato: "Nell'immobile monotonia della vita del campo il fluire del tempo appariva solo nelle tracce che lasciava sui nostri corpi e sulle nostre anime... I visi affilati, gli occhi spenti e perduti, i corpi estenuati delle compagne erano i tuoi" (Tedecshi, 1988, p. 77). Sebbene ne Le donne di Ravensbrueck Beccaria non accenni mai in maniera drammatica ai mutamenti del proprio corpo, in realta' anche per lei, che e' una ragazza di appena diciannove anni, il cambiamento fisico e' doloroso. Lo si evince dalle parole che usa nel suo Diario: attraverso i mutamenti fisici si evidenzia lo sradicamento dal proprio passato. Lidia non riconosce in se' i tratti della ragazza che era fino a pochi mesi prima. Ecco cosa annota: "A non ancora vent'anni d'eta' ho il piacere di sentirmi dire da tutti quelli che mi avvicinano se ho dai ventiquattro ai ventisei anni... ho gia' molte rughe sulla fronte e agli angoli della bocca, gli occhi non brillano della luce della giovinezza, e gia' molti fili bianchi brillano fra i miei capelli... dell'"enfant terrible" non resta nulla, della figlia della montagna men che meno" (Beccaria, inedito). Se Tedeschi individua, nei corpi delle compagne, lo specchio attraverso cui vedere i cambiamenti subiti dal proprio corpo, Beccaria sottolinea, invece, il contrasto con i corpi delle privilegiate. Lo fa in una delle pagine piu' forti del suo Diario, quella in cui commenta l'aspetto fisico e l'atteggiamento delle donne che non hanno subito i cambiamenti radicali dovuti alla fame e al lavoro massacrante, ma in cui parla anche di quelle donne che nel campo hanno perso ogni aspetto femminile e sembrano essersi mutate in ibridi. La scena descritta si svolge nel Waschraum del campo: "Ecco entrare una privilegiata... il paggio... le lavera' la schiena, le massaggera' il corpo ancor sodo e ben tornito di cui fa bella mostra ora, facendosi ammirare da altre frequentatrici dell'ala sinistra da una cert'aria mascolina e inquietante... indossano quasi tutte un paio di calzoni, i capelli tagliati alla maschietta, un passo sicuro da uomo, una voce gioiosa per natura o artefatta quando la natura e' in difetto" (Beccaria, inedito). Questa descrizione colpisce per la sua durezza, soprattutto se si confronta questo linguaggio con quello utilizzato da Beccaria nelle sue testimonianze edite: sono temi cui non ha mai fatto cenno, probabilmente soprattutto per paura di essere fraintesa. Il contrasto tra le privilegiate e le deportate comuni e' reso qui attraverso la descrizione del corpo; credo non sia un caso che sia proprio una donna a scegliere questo punto di vista. Nonostante l'annichilimento fisico e morale, Beccaria non vuole rassegnarsi a un destino di morte. Contro il volere dei nazisti resta vivo in lei l'istinto della sopravvivenza. Per poter sopravvivere a Ravensbrueck, occorre salire di almeno un gradino la scala sociale, occorre affrancarsi dalla condizione di sottoproletarie e diventare operaie; sopravvivere significa lavorare nel Siemens Lager, dentro una fabbrica, con degli orari di lavoro e un tetto sulla testa. Per ottenere il suo scopo Beccaria non esita a rubare una divisa a righe indispensabile per lavorare in fabbrica. Una mattina, terminato l'appello, cerca di inserirsi nelle colonne delle lavoratrici stabili, ma viene immediatamente scoperta. Solo grazie all'intercessione di una bande rouge cecoslovacca non subisce alcuna punizione, anzi viene raccomandata al capo del personale della Siemens per la sua buona volonta' e per il suo attaccamento al lavoro. Accade cosi' che nella seconda settimana di ottobre, durante l'appello, sente chiamare il proprio numero dalla blockowa che le ordina di raggiungere la Kolonne Siemens. * 3. Il sottocampo Siemens L'assunzione alla Siemens rappresenta una svolta nella vita concentrazionaria di Lidia Beccaria. L'inserimento non e' facile. Lidia, per il suo aspetto trasandato e per le difficolta' che incontra nella comunicazione ("ho quasi perso l'abitudine di tirar fuori la voce" [Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 89]), e' guardata con sospetto dalle altre deportate. Sceglie di essere inserita nella stube delle francesi poiche' non esiste un blocco delle italiane: "Le francesi... mi accolgono molto freddamente: sono un elemento estraneo in mezzo a una comunita' affiatata e compatta" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 90). All'inizio le deportate francesi sono molto dure con Lidia: la considerano troppo sporca e temono che possa infestare tutto il blocco con i suoi pidocchi, ma soprattutto non le perdonano di essere un'italiana, una cittadina di uno stato fascista alleato con la Germania. I forti legami di solidarieta' che si instaurano all'interno di un gruppo generano, come contraltare, una tendenza alla chiusura verso le altre che a volte sfocia nell'ostilita'. Beccaria si sistema in un letto isolato, al terzo piano, lontana da tutte le altre compagne; questa solitudine e', pero', accolta come un dono dopo lunghi mesi di prigionia durante i quali aveva dimenticato cosa fosse l'intimita'. La "piccionaia", come la chiama nel suo Diario, diventera' per Lidia un luogo privilegiato dal quale osservare le altre compagne e riflettere soprattutto sulla difficolta' a essere solidali le une con le altre. Sono temi mai affrontati che rivelano un lato inedito delle riflessioni di Beccaria. Ecco una delle sue annotazioni in proposito: "Non e' piacevole discendere dal terzo piano, poiche' le vicine trovano il modo di ridire dietro ogni movimento ed ogni nostro atto... L'egoismo domina sovrano in verita'... Triste ma purtroppo vero, dopo anni di campo di concentrazione ci sono donne che pretendono le medesime comodita' ed i medesimi comfort anche se questo torna a danno delle compagne" (Beccaria, inedito). Se, nelle testimonianze rese dopo il ritorno, Beccaria accenna solo agli episodi di solidarieta' tra compagne, lo fa perche' ha analizzato l'esperienza concentrazionaria nel suo complesso; ma le parole appena citate, non mediate da anni di riflessione, ci fanno capire quanto in realta' fossero difficili le relazioni sociali in quella situazione estrema. Le condizioni lavorative all'interno della fabbrica sono assai dure, le deportate sono costrette a fare turni continuativi di 11/12 ore, interrotti soltanto da una pausa di un quarto d'ora: "i ritmi imposti sembrerebbero eccessivi anche per operaie che lavorassero in condizioni di vita normali, ma sono insostenibili" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 82) per i fisici debilitati delle deportate. La situazione si fa ancora piu' difficile durante i turni di notte: "Sono un incubo: tutto sembra piu' lugubre, le macchine marciano con un ritmo piu' lento, le prigioniere si muovono come fantasmi per l'ala, le membra compiono movimenti d'automa, ma con la pesantezza del piombo. Le lancette dell'orologio sembrano inchiodate" (Beccaria, inedito). Il lavoro notturno e' assai debilitante per Beccaria, ma la sorveglianza e' notevolmente ridotta per cui il turno si svolge in un clima piu' sereno. "Di notte si pensa e si giudicano le cose in un modo molto strano... le impressioni arrivano al cervello sfumate ed indistinte, tanto che non ci si puo' rendere conto se e' un sogno o realta'... i sogni appagano l'anima, e addormentano i desideri come un buon narcotico addormenta il corpo, e qualche rara, ma rara volta, mi permetto di fare qualche piccolo ragionamento che non richieda troppo sforzo, poiche' lo sforzo costa fatica" (Beccaria, inedito), quella fatica che annienta anche la voglia di pensare perche' fa consumare troppe energie. * 4. L'amicizia con le deportate francesi Come dicevamo, i primi giorni alla Siemens sono difficili per Lidia a causa della freddezza con cui e' stata accolta. Una domenica mattina, durante l'appello, una deportata politica francese inizia a fischiettare Bandiera Rossa e Beccaria istintivamente la imita cantando la canzone in italiano. Le compagne chiedono allora a Lidia se sia comunista e lei risponde che ha imparato la canzone mentre era in montagna con i partigiani: a questa risposta l'atteggiamento delle francesi cambia, diventano subito piu' cordiali con Lidia e la presentano alle altre compagne. Il fatto che rivolgano la parola a Lidia solo nel momento in cui le sentono intonare un canto comunista e' il segno evidente della diffidenza nei confronti delle deportate italiane, sospettate di essere delle fasciste nonostante si trovino nel campo. E' una diffidenza che hanno provato tutti i deportati italiani e che ha reso ancora piu' dura la prigionia. E' anche la prova, come abbiamo avuto modo di dire, di quanto sia raro l'inserimento di un elemento estraneo all'interno di un gruppo consolidato, perche' significa mettere in gioco i rapporti di fiducia che si sono instaurati, significa mettere a rischio la propria vita. L'incontro con le deportate francesi segna per Lidia l'inizio di un'amicizia profonda che le cambiera' la vita, non soltanto all'interno del campo: piu' volte, nelle sue testimonianze, sottolineera' come per lei il Lager sia stato anche un'universita'. Da loro impara che avere cura del proprio corpo, del proprio aspetto fisico e' un atto di resistenza all'interno del campo, perche' e' un'affermazione della propria volonta', e' uno schiaffo alla volonta' nazista di umiliare il corpo delle donne; impara che allenare la memoria, sforzarsi di ricordare e' un mezzo per resistere alla disumanizzazione; impara le leggi che regolano i rapporti tra le deportate all'interno del campo; impara a sabotare la produzione senza pero' mettere in pericolo la propria vita o quella delle compagne. E' a questo periodo che Beccaria fa risalire la sua prima formazione politica: dalle francesi apprende le prime nozioni sul comunismo, su Marx e su Rosa Luxemburg; si rende conto soltanto adesso di cosa siano realmente il fascismo e il nazismo, e' un lungo lavoro che deve fare su se stessa per capovolgere quello che aveva appreso durante gli anni della scuola e riuscire a giudicare criticamente tutti gli avvenimenti alla luce dell'esperienza vissuta sulla propria pelle. Lidia e' profondamente colpita dall'atteggiamento delle politiche francesi: molte di loro si sono rifiutate per parecchi di mesi di lavorare per l'industria bellica tedesca, entrando alla Siemens soltanto quando ormai era una questione di vita o di morte, affinche' salvandosi potessero raccontare la loro esperienza, e dai loro discorsi trapela un senso di colpa nei confronti delle altre compagne meno fortunate. All'inizio per Beccaria e' difficile adeguarsi a una disciplina cosi' rigida, spesso viene ripresa duramente per alcuni suoi atteggiamenti, ritenuti non coerenti con la sua condizione di deportata politica. La fatica iniziale e' compensata, pero', dal piacere di riscoprirsi nuovamente persona: "Riacquisto il rispetto di me stessa..., la ripresa e' lenta ma graduale: giorno per giorno miglioro, riprendo a pensare, a parlare, a discutere" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 95). Da questa "rinascita" scaturisce innanzitutto una dura autocritica. In una pagina del suo Diario Beccaria scrive: "Dal giorno in cui mi hanno arrestata ho avuto l'impressione di avere meritato questa prova per ben altri motivi che quelli che mi hanno portata in prigione, soprattutto per essermi comportata come una vera imbecille. A tutto posso trovare una scusa, ma non all'imbecillita', quando si e' affetti da codesta malattia... non ci si cimenta in imprese nelle quali oltre alla nostra si puo' mettere a repentaglio la vita di altre persone" (Beccaria, inedito). Guardando a se stessa come era prima di essere arrestata, si accusa di aver agito con troppa leggerezza, senza pensare alle conseguenze delle proprie azioni: "In un anno di prigionia ho riflettuto parecchio, arrivando a questa constatazione: ho vissuto male fino a 19 anni, e nell'anno che segue e forse per poco piu' ancora pago il fio dei miei falli" (Beccaria, inedito). Adesso si sente profondamente diversa e le metamorfosi del fisico sono uno specchio del cambiamento che ha subito interiormente, i fili bianchi tra i suoi capelli di ventenne le sembrano il segno tangibile della maturita' che ha conquistato. E' un'analisi che colpisce se si tiene conto che e' stata fatta all'interno del campo e se la si paragona con gli altri passi del Diario in cui l'accento era puntato esclusivamente sull'egoismo delle compagne. * 5. Ricordare "Allenare la memoria e il cervello... e' un altro mezzo per resistere alla disumanizzazione" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 94). Beccaria riscopre con stupore la propria capacita' di ricordare anche se, ancora una volta, guarda a se stessa con severita': "Sono veramente umiliata ed arrabbiata con me stessa per aver perduto tanta ricchezza, la sola che nessuno avrebbe potuto togliermi... ho tutto perduto o quasi, resta un poco, ma e' troppo, troppo poco" (Beccaria, inedito). Si dedica al disegno e alla scrittura approfittando di ogni momento libero, perfettamente conscia del pericolo a cui va incontro nel caso qualcuno la scoprisse ("una francese... mi avverti' che il pomeriggio c'era stata una perquisizione della Blokova molto meticolosa - aveva trovato i fogli manoscritti e li aveva sequestrati. Mi assali' una paura folle - sapevo... cosa mi sarebbe potuto succedere se fossi stata denunciata e per alcuni giorni [mi parve] di sentir chiamare il mio numero, anche se i fogli erano comuni era molto facile individuarmi perche' in tutta la Stube eravamo rimaste solo due italiane" (Beccaria, inedito)). Trascrive brani di poesia o di prosa, nomi e date che riaffiorano nella sua memoria, appunta le nuove parole o i verbi che impara in francese con la loro traduzione in italiano "per non cedere al desiderio di collezionare ricette di cucina" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 95). In quest'ultimo passo Beccaria si riferisce all'usanza delle deportate di scambiarsi le ricette dei paesi di provenienza: anche se qui ha un'accezione negativa, questa usanza per molte deportate ha rappresentato una scappatoia per non cedere ai morsi della fame o al desiderio di lasciarsi andare, per molte ha rappresentato anche l'unico modo di comunicare tra persone che non avevano niente in comune. Soltanto adesso Lidia si rende conto di quanto si fosse trovata vicina alla fine: la misura dell'abisso che aveva toccato le e' data dal rendersi conto che, durante i cinque mesi trascorsi a Ravensbrueck come verfuegbar, nemmeno una volta aveva pensato alla sua famiglia, ai suoi amici, ai luoghi del suo paese che le erano piu' cari. Tutto questo era come sparito appena varcata la soglia del campo. Disegnare la aiuta a riappropriarsi dei volti cari, dei luoghi conosciuti: "Perche' lo fai?" le chiede una deportata che lavora in infermeria, "Per ricordare", risponde Lidia, "vedi sto dimenticando anche casa mia - Ieri pensavo al riso di mia madre, ma non lo trovo piu', e' lontano. E cosi' anche quello degli amici, dei compagni di scuola, e' una nebbia - Ricordo solo le cose e finche' posso ricordarle cerco di metterle giu' sulla carta. Vedi questo e' il mio cancello vicino c'e' un albero di fiori... Questa e' casa mia... Questa e' la mia collina... (i disegni) non sono belli, lo so, ma sono miei - sono i miei ricordi, il mio passato, sono le poche cose che mi legano ancora, per un soffio, a quella vita - Quando non sapro' piu' disegnare vorra' dire che sono morta, che qui, in questa testa non ci sara' piu' niente" (Beccaria, inedito). Il lento riaffiorare dei ricordi porta con se' la nostalgia di casa, delle persone care, sentimento che possiamo cogliere in alcuni tra i passi piu' belli del Diario, quelli in cui parla della madre, del padre e del paesaggio di Mondovi' a lei tanto caro. In realta', ne Le donne di Ravensbrueck, Beccaria non usa il termine nostalgia, anzi nega di averla provata e definisce il suo sentimento piu' come piacere di riappropriarsi del suo passato. Nonostante cio', su questo punto le parole del Diario non lasciano spazio a fraintendimenti: "le palpebre sono pesanti la mano a stento riesce a far scorrere la matita la testa cade ciondoloni, ma nonostante tutto il pensiero e' ancora fisso lontano in un ricordo che nello stesso tempo e' visione e speranza, e' desiderio... Italia... mia, mia casetta lontana, mamma, papa', dove siete perche' non mi date vostre notizie, perche' mi lasciate sola? Ho tanto bisogno di conforto, mamma ho bisogno di te, voglio che tu mi stringa fra le tue braccia, sono troppo sola, paurosamente sola, fra la promiscuita' di tante donne che di donna non hanno piu' che le sole sembianze fisiche" (Beccaria, inedito). In un altro passo del Diario Lidia si rivolge direttamente al padre, immaginando di parlare con lui e di dargli conforto: e' certa che lui, alla fine della giornata di lavoro, davanti alla tavola pronta per la cena, si fermi a pensare a lei, attendendo il suo ritorno: "vero babbo che tu mi attendi tutte le sere?" (Beccaria, inedito). Sapere che a casa c'e' qualcuno che l'aspetta le da' conforto: "nel ricordo della patria lontana, nel desiderio della tua casetta, nella certezza che la' qualcuno ti attende trovi la forza di sopportare" (Beccaria, inedito). * 6. Gli ultimi giorni a Ravensbrueck Il primo di aprile del 1945 e' una data molto importante per Beccaria: e' infatti il giorno in cui vengono liberate le deportate francesi che hanno compiuto trent'anni. La notizia getta nello sconforto Beccaria che ha paura di restare priva di appoggio e protezione, ma soprattutto ha paura di lasciarsi nuovamente andare senza il costante controllo dell'amica. Partite le francesi, decide di trasferirsi nel blocco delle tedesche dove risiede la maggior parte delle prigioniere italiane. Pochi giorni dopo, Lidia riceve la notizia del suo licenziamento dalla fabbrica: "Siemens chiude le sue porte: alle otto improvvisamente l'ordine di imballare tutto il materiale... cosi' dopo sei mesi lascio la Siemens... forse c'e' una punta di rimpianto in questo distacco: e' stupido ma dopo cosi' lungo tempo ci si affeziona egualmente al nostro lavoro" (Beccaria, inedito). In seguito al licenziamento e alla smobilitazione si accavallano pensieri contraddittori: da un lato c'e' la paura per l'incertezza del futuro, dall'altro c'e' la speranza che tutto stia per finire. Seguono giornate difficili: le deportate sono ancora sotto la stretta sorveglianza delle SS, devono recarsi, come d'abitudine, all'appello mattutino, vengono loro assegnate dure corvees, ma non vengono distribuiti i pasti. Col passare dei giorni, pero', matura nelle deportate la certezza che la fine della prigionia e' vicina: le SS non si vedono quasi piu', il campo sembra essersi svuotato. "C'e' qualcosa di nuovo nell'aria un'atmosfera carica di elettricita' una tensione nervosa in tutte... nell'ala regna un silenzio di tomba... una tedesca cuce, prepara un sacco, in previsione della partenza, un sacco pratico che si possa mettere a spalla in caso di un lungo viaggio a piedi" (Beccaria, inedito). La mattina del 26 aprile, terminato l'appello, le deportate ricevono l'ordine di non rientrare nei blocchi. Restano per tutto il giorno fuori, inquadrate cinque per cinque; alla fine arrivano le SS, ognuna con due cani al guinzaglio, e ordinano loro di iniziare a marciare. Beccaria si allontana da Ravensbrueck con un proposito che ha appuntato su un foglio di velina bianca conservato tra le pagine del Diario: "Voglio vivere... per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto e per raccontare forte, per gridare a tutti che sulla terra esiste l'inferno" (Beccaria, inedito). I cancelli di Ravensbrueck si sono finalmente aperti, e' arrivato il momento di lasciarsi i mesi di prigionia alle spalle, varcare la soglia del Lager per uscirne corrispondeva, infatti, nei sogni delle deportate, ad un completo ritorno alla liberta'. La delusione e' immediata: Beccaria si rende conto da subito che la realta' e diversa, a scortarla fuori da Ravensbrueck sono i soldati tedeschi che costringono le deportate a marciare ancora una volta fuenf zu fuenf, cinque a cinque. "Quando ho superato la porta del campo e ho cominciato a camminare, prima lungo la sponda del lago e poi nella pineta, mi sono resa conto che forse avevo lasciato Ravensbrueck definitivamente, ma che questo non voleva dire ancora liberta'" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 125). E ancora una volta le prigioniere percepiscono quanto sia insignificante la loro vita agli occhi degli aguzzini. Vengono usate come scudi umani dai soldati e dai civili tedeschi, i corpi delle prigioniere proteggono dagli attacchi a bassa quota degli alleati. Sono momenti di rabbia e di terrore: "Non sembra possibile, non puo' essere vero, non e' giusto morire per colpa di una pallottola degli alleati dopo essere scampati all'inferno" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 126). Molte prigioniere moriranno cosi', in questa zona di confine, non piu' prigioniere ma non ancora libere. Nei primi due giorni dopo la liberazione, Beccaria riesce a trovare il tempo per prendere alcuni appunti che non sono inseriti nel Diario tenuto in campo e la cui copia originale e' andata molto probabilmente perduta. Fortunatamente le copie battute a macchina sono conservate nel suo archivio personale. Gli appunti relativi al 26 aprile, primo giorno di evacuazione, sono stati pubblicati come introduzione all'Esile filo della memoria, il loro tono, nonostante tutto, e' improntato all'ottimismo: "Cosi' si lascia Ravensbrueck, cosi' si varca il cancello di questa prigione maledetta ma cantando, nonostante la pioggia, nonostante il freddo il fuoco e le guardie, cantando le canzoni preparate un lontano giorno dell'estate passata per ben altra partenza" (Beccaria, 1995, p. 4). Lo scritto del 27 aprile e' gia' radicalmente diverso: un giorno di marcia sotto la pioggia ha fiaccato lo spirito di Beccaria, mentre il fisico, fortemente provato dai giorni di prigionia, sembra non poter sopportare ulteriori prove. "La stanchezza e' tale che non si sente piu' la fame" (Beccaria, inedito): il disagio della situazione e' condensato tutto in questa breve frase che non necessita di ulteriori commenti. Anche riposare e' uno strazio perche' la pioggia che cade fitta, aggiunta alla fatica per la marcia, causa a Lidia un insopportabile dolore alla gamba. E' ancora una volta la vicinanza delle altre compagne che le impedisce di lasciarsi andare, ad ogni sosta una compagna le massaggia la gamba in modo da alleviarle, almeno momentaneamente, il dolore. "Molte volte sono stata sul punto... di farmi anche ammazzare pur di mettere fine a quella tortura, ma ogni volta che mi rifiuto di alzarmi, Pina mi mette in piedi a viva forza" (Beccaria, Bruzzone, 1978, p. 127). Nel sottolineare la solidarieta' dell'amica, Lidia sminuisce il proprio coraggio e la propria forza di volonta'; questo, come abbiamo gia' avuto modo di notare, e' un atteggiamento comune alla maggior parte delle testimonianze femminili che, come scrive Bruzzone, vanno lette anche tra le righe, "indovinando quello a cui la modestia di chi scrive o parla accenna solo" (1978, p. XI). Questo atteggiamento e' riscontrabile anche nelle testimonianze di Lidia Beccaria. Sia ne Le donne di Ravensbrueck che ne L'esile filo della memoria ella tace un episodio, a mio parere assai significativo, di cui e' protagonista assieme ad altre due compagne e che e' possibile ricostruire proprio grazie agli appunti presi durante la marcia. Questi i fatti: nella confusione della marcia si presenta la possibilita' di fuggire dalla colonna, nascondendosi in un carro italiano, ma Beccaria si rifiuta di abbandonare la colonna perche' non se la sente di lasciare al loro destino le inferme che non riescono piu' a marciare senza un aiuto: "Le SS ancora ci sorvegliano e ben conosciamo il loro modo di agire verso le ammalate, bisogna percio' aiutarle fin che c'e' forza fin che non possiamo lasciarle al sicuro" (Beccaria, inedito). Beccaria non parla mai, nelle sue testimonianze, degli episodi in cui si rende protagonista di gesti di solidarieta' come quello a cui ho accennato, non soltanto perche' glielo impedisce il pudore o perche' vuole evitare qualsiasi accento di autocompiacimento, ma soprattutto perche' con la sua scrittura si pone l'obiettivo di avvicinare il piu' possibile la memoria al racconto storiografico. Per far questo occorre "scremare" il racconto di tutti quei particolari autobiografici che non sono funzionali ad una ricostruzione "oggettiva" della deportazione. La sera del 27, dopo appena un giorno di marcia, e' chiara la situazione in cui versa l'esercito tedesco. Le SS non fanno piu' paura: se la liberazione avviene per tappe successive, questo e' il momento in cui Beccaria inizia a liberarsi del timore verso i soldati tedeschi. Questo passaggio segna il momento in cui si rende conto che ormai non possono piu' decidere arbitrariamente della sua vita o della sua morte. E' un momento decisivo: "Il cielo ha riflessi di sangue e di morte, le SS sono tutte ubriache, i cani latrano con insistenza. Il comandante non sa che fare: ci raduna e ci dice: 'Siete in balia di voi stesse'... si resta non per preferenza, ma semplicemente perche' siamo sfinite e perche' il nostro nemico e' il tedesco. Attendiamo solo la liberta', venga questa dai Russi o dagli Americani non ha importanza. La sera e' buia, pioviggina, fa freddo, restiamo accovacciate ai piedi di un pino, strette strette per avere caldo" (Beccaria, inedito). Gli alleati, i liberatori, non hanno ancora un volto, sono annunciati dal rumore degli aerei, delle bombe, delle mitragliatrici. Beccaria ha ormai compreso che la liberazione che aveva sognato durante i lunghi mesi di prigionia non avra' i tratti netti di una rivelazione, ma si manifestera' gradualmente. E' si' fuori da Ravensbrueck, ma e' come se fosse piombata in una sorta di limbo: la situazione e' spaesante, e' chiaro che il ritorno non sara' facile ma e' difficile immaginare quali saranno le difficolta'. Primo Levi ha definito in modo assai preciso questa sensazione: "La liberta'... era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli e altre paure" (Levi, 1963, p. 78). * 7. Sono arrivati i russi "Sono arrivati i Russi, ci sono i Russi, sono fermi sulla strada", grida un soldato italiano entrando nella cascina in cui, dopo nove giorni di marcia, sono arrivati Lidia e Carlo, un internato militare incontrato lungo la strada, che la ha "soccorsa e... trascinata in quell'esodo apocalittico verso l'ignoto" (Beccaria, inedito). Beccaria e' arrivata in quella cascina da appena mezz'ora, dopo essere scappata dalla colonna in evacuazione, accolta da un gruppo di quattordici internati militari. La notizia dell'arrivo dei soldati russi, dei tanto attesi liberatori, sembra non colpire Lidia che, senza prestare la minima attenzione a quello che le accade intorno, senza nemmeno sollevare la testa, continua a mangiare la trippa che le hanno offerto. "Solo piu' tardi, quando proprio insistono, esco a vedere i liberatori" (Beccaria, inedito). Nonostante l'apparente disinteresse, e' comunque come se qualcosa si sciogliesse nell'animo di Beccaria: questo cambiamento si manifesta fisicamente attraverso un lungo sonno, un sonno che dura piu' di un giorno, tanto che a ridestarla sono proprio i suoi compagni preoccupati. "E' incominciata la mia tregua cosi': 14 italiani, tanti piatti di minestra - un bicchiere di wodka e al risveglio un bagno caldo in una tinozza di fortuna, un pezzo di sapone, un asciugamano pulito e una tuta blu da meccanico" (Beccaria, inedito). Il breve periodo trascorso alla cascina serve a Lidia per recuperare un po' di forza e per iniziare a ritrovare se stessa, innanzi tutto attraverso la riscoperta del proprio corpo, al quale, dopo le sofferenze patite a Ravensbrueck, puo' ricominciare a prestare un po' di cura. E' appunto attraverso la cura del corpo che Lidia riscopre la propria femminilita', ed e' a questa riscoperta che si accompagnano le prime insicurezze e i primi timori: "Solo allora mi resi conto di essere l'unica donna in mezzo a tutti quegli uomini... ero qui, sola, in mezzo a liberatori russi e ospiti italiani e anche loro facevano finta di non vedermi, forse per pudore. Non mi avevano chiesto nemmeno il mio nome" (Beccaria, 1995, p. 18). Il bisogno di superare questa invisibilita' e' piu' forte dei timori. Lidia sta riscoprendo se stessa e sente il bisogno di comunicare perche' adesso non e' piu' un numero, ha nuovamente un nome e un cognome: "Dovevo dirlo, almeno ai miei compagni, che avevo un nome" (Beccaria, inedito). Eppure non e' facile rispondere nemmeno alla prima e piu' banale delle domande: "Chi sei?"; "Chi sono?" si chiede Beccaria, chi sono diventata dopo l'arresto, i mesi di prigionia, le privazioni, la malattia? Le basta iniziare a parlare per sciogliersi completamente, racconta tutto quello che le era accaduto, dall'arresto alla liberazione, senza tralasciare nessun particolare: "Mi sembrava di raccontare un film, un libro, la storia di un'altra" (Beccaria, 1995, p. 19). E' la prima volta che racconta la sua storia e la racconta a persone che dovrebbero esserle vicine poiche' hanno subito anche loro una sorte simile, eppure non e' cosi'; al contrario Beccaria, deve gia' da adesso fare i conti con la diffidenza, con il dubbio. E' il dubbio di fronte al quale, sempre, si trovano le deportate che raccontano. Se testimoniare la propria esperienza e' per tutti complicato e doloroso, quando a raccontare e' una donna si aggiungono ulteriori difficolta'. La paura di non essere credute o di essere fraintese e' il leit motiv dei racconti delle deportate. I racconti delle donne suscitano imbarazzi e paure poiche' e' inevitabile collegare la prigionia femminile alla violenza e allo stupro. Spesso pero' le reduci sono vittime di una curiosita' morbosa che insinua il dubbio della compiacenza al solo fine di ricavarne qualche privilegio o qualche favore e che associa la prigionia femminile allo sfruttamento della prostituzione. Neanche Beccaria sfugge a questo genere di curiosita': difatti, non appena finisce di raccontare, le viene domandato se per caso le deportate, a Ravensbrueck, non fossero state sfruttate dai tedeschi "Usate voglio dire come si usano le donne..." (Beccaria, 1995, pp. 20 - 21). E' una domanda che ferisce Lidia, ma che non la stupisce poiche' conosce bene la cultura del tempo e l'immagine della donna che hanno i suoi interlocutori: "Non mi offesi..., anch'io subivo la cultura di quell'epoca. Avrei potuto negare ma sapevo che non mi avrebbero creduta... ma fin da quel momento capii che sarebbe stato difficile raccontare il Lager e quasi impossibile essere creduta" (Beccaria, 1995, p. 19). (Parte prima - Segue) 2. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 3. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1184 del 23 gennaio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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