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Nonviolenza. Femminile plurale. 47
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 47
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 19 Jan 2006 12:43:34 +0100
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 47 del 19 gennaio 2006 In questo numero: 0. Una necessaria comunicazione di servizio 1. Luciano Minerva intervista Assia Djebar 2. Cristina Bolzani intervista Julia Kristeva su Colette 3. Un profilo biografico di Dacia Maraini 0. UNA NECESSARIA COMUNICAZIONE DI SERVIZIO Stiamo ricevendo in questi giorni un'infinita' di messaggi recanti virus, molti apparentemente provenienti dagli account di persone amiche; tra essi anche alcuni apparentemente provenienti da noi stessi. Segnaliamo ancora una volta a tutte le interlocutrici e gli interlocutori che noi non inviamo mai (ripetiamo: mai) messaggi recanti allegati: se se ne ricevono, si tratta di virus, ed occorre cancellarli senza aprirli. Raccomandiamo altresi' a tutte e tutti di aggiornare gli antivirus. 1. RIFLESSIONE. LUCIANO MINERVA INTERVISTA ASSIA DJEBAR [Dal sito www.rainews24.it riprendiamo la seguente intervista di Luciano Minerva ad Assia Djebar, realizzata a Pordenone il 20 marzo 2004; la traduzione e' di Liana Mistretta; l'intervista e' stata realizzata con la collaborazione di Letizia Tesorini e Laura Napoleoni. Luciano Minerva e' giornalista televisivo. Assia Djebar e' una illustre intellettuale algerina impegnata per i diritti umani, scrittrice, storica, antropologa, docente universitaria, cineasta. Opere di Assia Djebar: cfr. almeno Donne d'Algeri nei loro appartamenti, Giunti, Firenze 1988; Lontano da Medina. Figlie d'Ismaele, Giunti, Firenze 1993, 2001; L'amore, la guerra, Ibis, 1995; Vaste est la prison, Albin Michel, Paris 1995; Bianco d'Algeria, Il Saggiatore, Milano 1998; Nel cuore della notte algerina, Giunti, Firenze 1998; Ombra sultana, Baldini & Castoldi, Milano 1999; Le notti di Strasburgo, Il Saggiatore, Milano 2000; Figlie d'Ismaele nel vento e nella tempesta, Giunti, Firenze 2000; La donna senza sepoltura, Il Saggiatore, Milano 2002. Opere su Assia Djebar: cfr. il libro-intervista di Renate Siebert, Andare ancora al cuore delle ferite, La Tartaruga, Milano 1997. Dal sito www.rainews24.it riprendiamo anche la seguente scheda: Nata in Algeria, Assia Djebar e' stata, nel 1955, la prima donna algerina ammessa all'Ecole normale superieure francese. Sostenitrice dell'emancipazione femminile nel mondo islamico, dopo aver partecipato al movimento di liberazione dell'Algeria, si e' imposta come narratrice di lingua francese, raccontando i temi propri del suo mondo d'origine. All'impegno narrativo (i suoi libri sono tradotti in molte lingue), ha affiancato la poesia, la saggistica, la drammaturgia, la scrittura e la regia di opere documentaristiche e cinematografiche. Nel corso della sua carriera ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali tra cui, nel 2000, il prestigioso Premio per la pace. Attualmente insegna alla New York University e vive tra Parigi e gli Stati Uniti... Per tutte le donne del Terzo Mondo, scrivere riconduce a una doppia proibizione, allo stesso tempo dello sguardo e del sapere. Scrivere, per la maggior parte delle mie sorelle, e' scontrarsi inevitabilmente con il muro del silenzio e dell'invisibilita'. Nello stesso tempo, nasce un'urgenza per via della quale il fatto di scrivere puo' diventare "scrivere per", cioe' un impegno del verbo, una scrittura appassionata e combattiva. Assia Djebar e' sicuramente una di queste figure, un'artista mossa - come lei stessa dice - "dall'urgenza della scrittura, l'urgenza della parola dinanzi al disastro". L'urgenza della denuncia, del recupero della memoria. La volonta' di togliere il velo del silenzio alle donne islamiche. Tutta la sua produzione artistica affronta temi come l'identita', la condizione femminile nell'Islam, il fanatismo religioso, il senso della scrittura e il ruolo dell'intellettuale nella societa' civile. Un impegno che proprio la condizione di donna rende piu' gravoso ma che, per contro, vede sempre piu' donne in prima linea come testimonia anche il recente premio Nobel assegnato alla iraniana Shirin Ebadi. Bibliografia: Queste voci che mi assediano, Il Saggiatore; Andare ancora al cuore delle ferite, La Tartaruga; Lontano da Medina. Figlie d'Ismaele, Giunti, 1993, 2002; L'amore, la guerra, Ibis, 1995; Bianco d'Algeria, Il Saggiatore, 1998; Nel cuore della notte algerina, Giunti, 1998; Ombra sultana, Baldini e Castoldi, 1999; Donne d'Algeri nei loro appartamenti, Giunti, 2000; Figlie d'Ismaele nel vento e nella tempesta. Dramma musicale in 5 atti e 21 quadri, Giunti, 2000; Le notti di Strasburgo, Il Saggiatore, 2000; Vasta e' la prigione, Bompiani, 2001; La donna senza sepoltura, Il Saggiatore, 2002"] Non sempre gli scrittori sono come te li aspetti, come li hai immaginati leggendoli, come li hai visti in fotografia. Cosi' e', per me, nel caso della scrittrice algerina Assia Djebar. Si presenta con un viso aperto e meno misterioso di quello che appare nelle fotografie, un portamento da cui riconosci chi ha fatto molto sport, una disponibilita' al sorriso e all'allegria ben lontana dalla sofferenza dei suoi personaggi e dei suoi scritti. L'abbiamo incontrata a Pordenone, dove per quindici giorni nel marzo scorso e stata al centro di Dedica, un'iniziativa di Thesis e dell'Associazione provinciale per la prosa di Pordenone. "E' la seconda volta che sono qui, ma solo ora mi rendo conto di dove sono. Solo adesso capisco di essere a pochi chilometri dal paese di Pasolini e ne sono emozionata. Appena ho saputo della sua morte, ho capito che dovevo fare qualcosa per raccontare come raccontava lui, con lo stesso amore per il dialetto, con la macchina da presa: dovevo descrivere il mio Paese, le donne della mia terra, con l'occhio di chi le conosce da dentro, senza nessuna concessione all'esotismo". E' cio' che avrebbe fatto con il film La Nouba des femmes du Mont Chenoua, premiato come miglior documentario al Festival di Venezia del 1979. Ad Assia piace raccontarsi da subito, prima ancora dell'intervista. Tutta al presente, con la sua meraviglia per la scoperta delle sculture di legno del museo di Pordenone, con gli impegni che la assediano, gli articoli da scrivere in albergo per qualcuno che li aspetta da Parigi, il tempo davvero scarso a disposizione prima di partire per New York. E chiede tra il divertito e il sospettoso se non sia anche tu uno degli innumerevoli giornalisti che le faranno quelle domande politiche a cui potrebbe rispondere chiunque, che non si sa perche' si facciano agli scrittori e che sono destinate a finire nella marmellata dell'informazione. "No, partiremo dai suoi libri, da quello che ha scritto". "Grazie, allora possiamo cominciare". * - Luciano Minerva: In Queste voci che mi assediano ha raccolto una serie di saggi che ripercorrono la sua storia di scrittrice in lingua francese e che contengono una sorta di autoanalisi attraverso la sua scrittura. Pensa che sia arrivata per lei l'ora di fare i resoconti e si sente in grado di sopportare lo specchio degli altri che la leggono, come non poteva fare molti anni fa? - Assia Djebar: Per me e' stato un lungo cammino. Ho iniziato a scrivere nel 1957. Queste voci che mi assediano l'ho scritto nel '99, quindi arriva dopo oltre quarant'anni di scrittura. Ora vorrei parlare del libro che sto scrivendo, ma e' meglio non farlo finche' non uscira'. Nella mia vita ci sono due periodi. Il primo inizia dopo il mio quarto romanzo, L'amore, la guerra, pubblicato nel '67, dopo l'indipendenza dell'Algeria, quando mi trovavo a Parigi. E' un libro che riassume la mia esperienza durante la guerra d'indipendenza, almeno durante gli anni trascorsi a Tunisi. La' si incontrava la gente che veniva dall'Algeria per darsi alla macchia, o per andare all'estero o per tornare nella clandestinita', e poi tunisini, gente di ogni tipo, uomini e donne. Nel libro ci sono molti personaggi, e proprio a meta' del libro, che tratta di guerra, ho dedicato cinquanta pagine alla felicita' di una coppia. E senza rendermene conto in questa parte la mia scrittura e' diventata autobiografica. Quando il libro e' uscito nessuno se n'e' reso conto, ma io ho capito che la scrittura mi metteva in pericolo. Ero giovane, non avevo ancora trent'anni, mia figlia mi sembrava molto piu' importante della mia scrittura. Allora scrivere per parlare di se' equivaleva ad esporsi. Cosi' ho continuato a scrivere, ma non ho voluto piu' pubblicare nulla per oltre dieci anni. Poi sono tornata alla scrittura grazie alla mia esperienza cinematografica. Quando sono tornata nel mio Paese per almeno tre anni, ho cominciato a girare La Nouba de femmes du Mont Chenoua. Non volevo fare un film tanto per farlo. Volevo guardare il mio Paese e, piu' in particolare, le donne della mia infanzia, quelle della famiglia di mia madre, la vita di montagna, del paese dove andavo da bambina, piuttosto che quella di citta'. Cosi' ho chiesto a molti abitanti di quei villaggi come avevano vissuto la guerra. E a partire da questo, non ho realizzato un vero e proprio documentario, perche' c'era anche un personaggio che mi rappresentava. Giravo delle immagini, ascoltavo il modo di parlare tradizionale delle donne, il dialetto, a volte la lingua berbera, usata per esprimere la sofferenza, e credo di aver passato almeno un anno in sala montaggio, per curare bene la musica e suono. Li' ho capito che forse avevo bisogno di una riflessione sulla lingua francese, per capire se dovevo scrivere di me o del mio Paese. Ma l'esperienza cinematografica mi ha fatto comprendere che, al di la' di Algeri e di qualche altra piccola citta', lo sguardo sulle donne e lo sguardo delle donne non era mai stato liberato. Cosi' in Donne di Algeri nei loro appartamenti mi sono immedesimata nell'esperienza dei pittori, che sono i soli nel diciannovesimo secolo a guardare la colonia senza nessun esotismo o ricerca di folklore, sono gli unici a guardare con gli occhi. Attraverso i pittori, i soggetti che scelgono, le loro inquadrature, c'e' un nuovo punto di vista, per esempio c'e' il pittore che guarda le donne prigioniere, quel quadro di Delacroix... ecco quello e' uno sguardo rubato, preso al volo. Ho capito che dovevo scrivere con lo scopo di liberare lo sguardo sulla nostra societa', perche' non si scrive per esporre agli altri la propria societa', ma per guardare a se stessi e al proprio mondo con il proprio sguardo. Ma qual e' la lingua giusta per non deformare la realta'? Questo e' davvero un problema di sguardi e di prospettive. E d'altra parte, come utilizzare la lingua considerando che la mia lingua, fin dall'inizio, non e' quella davvero mia, ma e' quella degli altri? Ci sono due difficolta', una sul piano visivo e l'altra perche' uso una lingua che non e' la mia lingua madre. Cosi' sono arrivata alla formula usata in Donne d'Algeri, dove mi sembra che le donne del mio Paese e di tutto il Maghreb, parlo di vent'anni fa, comincino a mettersi a nudo, chi scrivendo, chi dipingendo, chi facendo il medico. C'e' una doppia liberta' da conquistare, quella della parola e quella del corpo. Ma in realta' questo si puo' fare soltanto dialogando tra donne. La mia scrittura diventa una specie di interrogazione per ristabilire questo dialogo, per vedere qual e' il punto in cui si puo' cercare di liberare se stesse e liberare le altre, ascoltare le altre e nello stesso tempo tornare a se stesse. Quindi penso che abbia valore il dialogo, non quello letterario, ma il dialogo vero e proprio di quando si e' in due. Per riassumere potrei dire che la scrittura autobiografica non puo' esistere nei Paesi musulmani dove la donna non gode ancora dell'appoggio necessario per essere naturalmente se stessa; secondo me la scrittura autobiografica non puo' essere egotista, non puo' essere un io-me. Ma al tempo stesso bisogna anche ascoltare chi e' come noi, perche' quando una donna parla per se stessa parla anche per me, e quando io parlo di me lei cerca di capirmi. Per questo bisogna andare in profondita', non si puo' restare in superficie se si vuole davvero che questa solidarieta' tra donne che io rivendico possa funzionare. * - Luciano Minerva: Lei si e' fatta carico di esprimere molte voci, le voci sepolte, le voci di chi non ha parlato, delle donne che sono rimaste mute nella storia. Quanto le e' pesato sul suo corpo, sulla sua voce, sulla sua scrittura questo carico e quanta energia le ha dato poter interpretare queste voci? - Assia Djebar: Quest'ombra degli altri sulla mia parola, o il fatto che la mia scrittura possa essere ripresa da altri, penso si ritrovi modificando la struttura del romanzo: e' un problema di struttura, non semplicemente di frasi o di parole. Il romanzo cioe' non puo' essere la storia di un personaggio principale, quindi importante, non puo' essere narrato da un portavoce in mezzo a personaggi secondari. Per me non c'e' un vero personaggio principale. Cosi' mi e' stata utile la struttura che ho usato nel film La Nouba des femmes: ciascuno al proprio turno. Non appena si e' portato in scena un personaggio perche' la sua parola gli permetta di liberarsi, questo personaggio deve lasciare il posto ad un altro e a un altro ancora. Questa e' una difficolta' anche perche' scrivo in francese e nello stesso tempo in questo francese non cerco l'esotismo, non cerco l'occhio del pittore, perche' qui non e' un problema di vista. Il francese e' cosi' lontano dal mio dialetto, il berbero! E' una lingua latina, quindi una lingua logica. Me ne sono resa conto anche oggi, qui a Pordenone dove si percepisce l'ombra di Pasolini: la letteratura italiana mantiene i dialetti. Veramente prima di Pasolini, nella mia giovinezza, sono stata influenzata da Pavese, che e' simile a lui, anche se e' di un'altra regione. In lui c'e' questo rapporto con la provincia, con la campagna, e in campagna non c'erano solo paesaggi diversi, c'erano anche suoni linguistici diversi. Bisogna essere sempre piu' fedeli al proprio orecchio e fedeli a una sorta di "non ruolo principale". Per questo la maggior parte dei miei romanzi, a partire da Donne di Algeri nei loro appartamenti, sono composti di racconti. Donne di Algeri nei loro appartamenti e' una raccolta di racconti che si svolgono nell'arco di venti anni. Ma quando i miei personaggi parlano, quando dialogano, devo fare capire al lettore che si tratta di un francese tradotto dall'arabo, perche' in fondo non contano le parole da tradurre, ma il fatto che ogni lingua ha il proprio silenzio, il proprio pudore, la propria struttura. Ci sono cose che si possono dire in francese ma che non si potrebbero dire in arabo. E questo anche se resto all'interno dell'universo femminile: perche' dopo tutto le donne della mia infanzia e della mia adolescenza vivevano piuttosto separate dagli uomini, dunque si poteva, si puo' fare a meno degli uomini. Noi praticavamo anche una sorta di segregazione sessuale, cosa che io non cerco assolutamente. Nello spazio del mio romanzo ci sono molte donne, ma tra loro c'e' una grande differenza, prettamente di natura, a seconda che siano della stessa eta' o che ci siano delle donne piu' anziane o piu' giovani. Perche' alla fine le vere barriere sono anche queste: non si possono dire certe cose alla propria madre o alla nonna, o a una donna di una certa eta', e nello stesso tempo passa la tenerezza. Quindi credo che, una volta compreso l'essenziale, queste parole finiscano per circolare intorno alle donne della mia cultura. Oggi penso di non avere piu' neppure questa preoccupazione, scrivo ed e' tutto. Ma da quando ho creato questa struttura, tra Donne di Algeri nei loro appartamenti e L'amore, la guerra, ogni libro si costruisce all'interno di una struttura polivalente. Per questo i miei libri non saranno mai dei best-seller in Europa, in senso commerciale, perche' quando sono arrivata, venti o trent'anni fa, tutti dicevano "e' algerina..." e mi guardavano come un uccello raro. Ora pero' e' tutto finito, ci sono molte scrittrici, ma i lettori cercano il piccolo dettaglio "tipico", mentre la differenza tra le due stesse rive del Mediterraneo e' molto piu' profonda. La vera pesantezza, che c'e' e che ha gravato su molte generazioni, e' stata il divieto di parola e il divieto di vedere per meta' della nostra societa'. Allora recuperare tutto questo significa prima di tutto collegare i differenti strati che ci sono tra di noi e non soffermarsi sul "tipico". Cosi', visto che in Algeria non ci sono molti editori e non c'e' un grande impegno culturale, i miei libri vengono pubblicati a Parigi e sono letti piu' in Italia, Germania, o Spagna che nel mio paese, tranne che in ambiente universitario. Dopo aver compreso che devo essere fedele soltanto alla condizione in cui si trova la mia societa', e aver scoperto come far circolare la parola e lo sguardo in rapporto al bene, alle donne che sono state come me nella mia giovinezza, ora non sento piu' il dovere di fare dichiarazioni ne' estetiche ne' politiche. Svolgo il mio lavoro come un artigiano o come un artista, scrivo un libro, poi l'altro e cosi' via. * - Luciano Minerva: Tra l'arabo e il francese, con il bisbiglio del berbero, lei racconta anche che dopo aver scritto L'amore, la guerra, ha avuto bisogno di uno spazio terzo, di un territorio neutro, che ha trovato in due estati trascorse a Venezia. - Assia Djebar: Lei si riferisce ad un libro che e' stato davvero molto difficile concludere, perche' il problema principale era prima di tutto la rievocazione della lunga guerra coloniale tra i francesi e gli algerini, raccontata dal punto di vista delle donne. Era ancora piu' complesso perche' le donne vivevano segregate, ma allo stesso tempo si sentivano coinvolte, e per me parallelamente era difficile perche' scrivevo in francese e dovevo capire cosa significava per me il francese. A poco a poco avvertivo questa opposizione insita nella struttura stessa del mio libro: non solo parlavo dell'altro, il conquistatore dopo il diciannovesimo secolo, ma dovevo anche far passare il mio francese dall'altra parte, dalla parte dell'ex nemico e dalla parte delle donne nascoste, quindi dalla parte araba. Non sapevo come trasformare questo faccia a faccia alimentato dal passato e riassorbito in un libro, che non rappresenta un punto di arrivo, ma piuttosto l'ingresso in uno spazio nuovo. E' stato per caso che ho trovato questo "spazio terzo": ero venuta a Venezia in occasione del Festival del cinema per il mio film e ho avuto un colpo di fulmine, che forse mi aspettavo. Sono stata a Venezia due mesi, per due estati di seguito. Abitavo vicino al Ponte dei Greci, quindi davvero in centro: uscivo molto la mattina e la sera, evitavo i turisti e i luoghi turistici, anche se non era molto facile durante l'estate. Ho sentito subito che questa citta' per me funzionava come una medina, per la semplice ragione che non c'era il rumore delle macchine. Mi svegliavo la mattina molto presto, la mia camera si affacciava su una piccola stradina e per la prima volta dopo trent'anni venivo svegliata dai passi della gente. Oggi in una citta', ad eccezione di Venezia, non si sentono le persone dalla finestra, non si sente il rumore dei loro passi prima di vederle comparire. Questo piccolo dettaglio mi ha riportato alla medina della mia infanzia: quando mi svegliavo avevo la sensazione di essere ancora bambina a casa di mia nonna e quelli che sentivo erano i rumori che provenivano dall'esterno, i passi. A partire da li' ho avuto una specie di colpo di fulmine e ho visto che Venezia si puo' sentire totalmente nel cuore anche se si e' ciechi. Ho iniziato allora a cogliere le differenze, ho iniziato a riconoscere il dialetto veneziano in rapporto all'italiano. E finalmente ho provato ad essere semplicemente in una medina liquida, o comunque in una medina dove le donne sono libere di camminare anche di notte. Per me era una rivoluzione. Si tratta comunque di una rivoluzione con un'origine comune: potrei raccontare delle storie del sedicesimo secolo quando Hassan il Veneziano era anche il re di Algeri. Quindi le cose lontane possono avere origini comuni: dal suono si arriva alla storia e si comprende dalla storia il passaggio tra nord e sud. E' semplicemente a partire da questi piccoli dettagli che ho potuto camminare felice per le calli, comprare il pesce come una veneziana, ascoltare nei bar gli uomini che parlavano come nelle citta' arabe e scrivere il mio libro come nessun altro autore puo' fare, descrivendo, come hanno fatto cento autori, la mia Venezia personale, vista come una medina. Grazie a questa situazione ho potuto terminare il mio libro e se si osserva la struttura de L'amore, la guerra, si vede un altro elemento che mi e' stato d'aiuto: la musica di Beethoven. C'e' un'ultima parte del libro, in cui la struttura imita quella di una sonata di Beethoven. Quindi, "quasi una fantasia", sono riuscita a terminare il mio libro a Venezia, perche' mi si e' aperta la vista, perche' e' scomparso il gioco del narratore presente per piu' di due o tre paragrafi. Tutti i personaggi che ho incontrato nel mio film ritornano e ci sono delle visioni che ruotano come quando a Venezia ci si sposta da un campo all'altro e si attraversano tante piccole calli. * - Luciano Minerva: Nel rapporto tra le diverse lingue e culture, quanto e' necessario uno spazio terzo, uno spazio neutro per far incontrare due linguaggi e due modi di pensare differenti? - Assia Djebar: Posso dire, da questa esperienza vissuta circa vent'anni fa, che sono sempre di piu' le donne della classe media (non parlo degli immigrati clandestini, dei sans-papier, ma delle piccole classi medie in cui sono avvenuti cambiamenti molto forti da oltre vent'anni in tutto il mondo arabo), ci sono sempre piu' donne tra i diciotto e i trent'anni che ritrovano dentro di se' il proprio spazio neutro e ancora di piu' lo trovano quando tornano a casa, perche' l'obiettivo non e' piu' quello di rompere con la societa' di origine e di fuggire per sempre, ma di ritornare. Questo e' il problema con cui ho a che fare anche oggi: non cerco piu' lo spazio terzo per poter continuare a scrivere, ma piuttosto ho vissuto con il desiderio del ritorno, e il mio ultimo libro dal titolo La scomparsa della lingua francese, non ancora tradotto in italiano, e' la storia di un uomo algerino che ritorna e poi scompare perche' e' francofono. Quindi c'e' anche l'elemento del non ritorno, e un bel giorno anche voi lo scoprirete. Quando si va avanti con la scrittura, il problema non e' piu' come usare la scrittura, ma per lo scrittore come per tutti gli esseri umani, man mano che si progredisce credendo di aver risolto dei problemi, se ne presentano altri. * - Luciano Minerva: La storia del suo Paese e la sua storia personale sono intrise di esperienze di violenza. Che rapporto c'e' tra la violenza che c'e' intorno a lei e che in questi anni sembra espandersi a macchia d'olio, e la sua scrittura? - Assia Djebar: Nel mio caso, negli anni '90 si e' manifestata un'Algeria violenta dove all'improvviso la violenza non era semplicemente quella della parola, ne' quella della segregazione, ne' quella dell'ingiustizia, ma diventava veramente uccidere chi non ha la tua stessa opinione, quelli che non credono di avere la tua stessa opinione. Io l'ho vissuta, anche se vivevo a Parigi e negli Stati Uniti. Quando ero a Parigi tra il '93 e il '95, l'ho vissuta quasi ogni settimana con un amico, un poeta, uno scrittore o un parente che moriva in una maniera orribile. Ho scritto a questo proposito un libro, Bianco d'Algeria, in cui ho cercato di attraversare questa condizione. E' l'unica volta in cui la mia scrittura e' stata per me una forma di terapia. Se non avessi scritto, avrei dovuto sicuramente prendere delle pillole per dormire e mi sarei ammalata. E' uno scrivere faccia a faccia con la violenza, ma per caso ci si trova in uno spazio lontano: c'e' quindi allo stesso tempo la possibilita' di rivivere cio' che hanno vissuto gli amici o i parenti e rivestire il brutto ruolo di chi e' al sicuro e non sa cos'altro fare se non scrivere. E' proprio questa ambivalenza che ti crea il bisogno assoluto di scrivere. Ma per l'Algeria e per il mio libro mi sono resa conto che lo stato di intellettuale e di scrittore, soprattutto perche' si scrive in un'altra lingua, ti rende un bersaglio e a partire da li' ho visto che il secondo bersaglio erano le donne. Molte donne nel mio paese sono state uccise perche' erano insegnanti di francese, perche' non indossavano lo chador e le giudicavano male. Molte donne nelle piccole citta' sono diventate delle eroine perche' hanno detto no, non hanno ceduto, hanno continuato a credere che fosse una follia e hanno pagato con la vita o con la tortura. La spirale della violenza e' andata avanti e devo ammettere di essere andata negli Stati Uniti per scrivere contemporaneamente da una posizione piu' vicina e piu' lontana. La cosa strana e' che dopo cinque anni sono arrivata a New York, quindici giorni prima dell'11 settembre. Vivevo dalle parti di Manhattan e avevo l'impressione di ritrovarmi nel quartiere latino della mia giovinezza. Poi improvvisamente, proprio mentre scrivevo liberamente come se fossi giovane traendo stimoli da un paese a cui sono costantemente legata nella scrittura, quindici giorni dopo ho dovuto lasciarmi tutto alle spalle, e ho avuto l'impressione che tutto cio' che mi ero lasciata alle spalle fosse nuovamente accanto a me. Allora ho camminato, mi sono guardata intorno, ho guardato le foto delle persone scomparse e mi sono accorta che quella parte di New York era diventata subito la mia citta', piu' che se avessi abitato li' da dieci anni. C'e' dunque una sorta di fratellanza, ma poi gli eventi americani sono proseguiti in modo inatteso, la violenza e' aumentata e si e' generalizzata, e io stessa, forse per la mia eta', sto tornando a un tipo di scrittura in cui cerco un luogo di pace, un luogo di approdo. Direi che la violenza non e' sempre nei luoghi in cui e' visibile; resta la violenza sotterranea, la violenza contro le minoranze, quella contro i clandestini. Non siamo coinvolti direttamente in conflitti o scontri tra civilta', come dicono i giornali a grande tiratura, ma siamo forse al termine delle societa'. Dopo tutto oggi mi trovo in un paese latino e sono tra miei compatrioti, perche' tutti hanno dimenticato che Agostino era berbero, era algerino e si era battuto contro la violenza del movimento scismatico dei donatisti. Sono appena tornata da Oxford dove ho lavorato per due mesi per una conferenza di un'ora proprio su Sant'Agostino e li' ho cercato di raccontare, o almeno di prevedere, come potro' far entrare un personaggio tanto grande nel mio prossimo libro. 2. RIFLESSIONE. CRISTINA BOLZANI INTERVISTA JULIA KRISTEVA SU COLETTE [Dal sito www.rainews24.it riprendiamo la seguente intervista di Cristina Bolzani a Julia Kristeva. Cristina Bolzani e' giornalista televisiva. Julia Kristeva e' nata a Sofia in Bulgaria nel 1941, si trasferisce a Parigi nel 1965; studi di linguistica con Benveniste; intensa collaborazione con Sollers e la rivista "Tel Quel"; impegnata nel movimento delle donne, psicoanalista, ha dedicato una particolare attenzione alla pratica della scrittura ed alla figura della madre; e' docente all'Universita' di Paris VII. Opere di Julia Kristeva: tra quelle tradotte in italiano segnaliamo particolarmente: Semeiotike', Feltrinelli, Milano; Donne cinesi, Feltrinelli, Milano; La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia; In principio era l'amore, Il Mulino, Bologna; Sole nero, Feltrinelli, Milano; Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano; I samurai, Einaudi, Torino; Colette, Donzelli, Roma. In francese: presso Seuil: Semeiotike', 1969, 1978; La revolution du langage poetique, 1974, 1985; (AA. VV.), La traversee des signes, 1975; Polylogue, 1977; (AA. VV.), Folle verite', 1979; Pouvoirs de l'horreur, 1980, 1983; Le langage, cet inconnu, 1969, 1981; presso Fayard: Etrangers a nous-memes, 1988; Les samourais, 1990; Le vieil homme et les loups, 1991; Les nouvelles maladies de l'ame, 1993; Possessions, 1996; Sens et non-sens de la revolte, 1996; La revolte intime, 1997; presso Gallimard, Soleil noir, 1987; Le temps sensible, 1994; presso Denoel: Histoires d'amour, 1983; presso Mouton, Le texte du roman, 1970; presso le Editions des femmes, Des Chinoises, 1974; presso Hachette: Au commencement etait l'amour, 1985. Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (www.emsf.rai.it) riprendiamo la seguente scheda: "Julia Kristeva e' nata il 24 giugno 1941 a Silven, Bulgaria. Nel 1963 si diploma in filologia romanza all'Universita' di Sofia, Bulgaria. Nel 1964 prepara un dottorato in letteratura comparata all'Accademia delle Scienze di Sofia; nel 1965 ottiene una borsa di studio nel quadro di accordi franco-bulgari e dopo il 1965 prosegue gli studi e il lavoro di ricerca in Francia all'Ecole Pratique des Hautes Etudes. Nel 1968 consegue il dottorato sotto la direzione di Lucien Goldmann (con Roland Barthes e J. Dubois). Sempre nel 1968 e' eletta segretario generale dell'Association internationale de semiologie ed entra nel comitato di redazione del suo organo, la rivista 'Semiotica'. Nel 1973 consegue il dottorato di stato in lettere sotto la direzione di J. C. Chevalier. Dal 1967 al 1973 e' ricercatrice al Cnrs di linguistica e letteratura francese, al Laboratoire d'anthropologie sociale, al College de France e all'Ecole des Hautes Etudes en sciences sociales. Nel 1972 tiene un corso di linguistica e semiologia all'Ufr di Letteratura, scinze dei testi e documenti dell'Universita' Paris VII 'Denis Diderot'. E' nominata direttore del Dea di Etudes Litteraires. Nel 1974 viene eletta Permanent visiting professor al Dipartimento di letteratura francese della Columbia University, New York. Nel 1988 e' responsabile del Draps (Diplome de recherches approfondies en psycopathologie et semiologie). Nel 1992 e' nominata direttore della Scuola di dottorato "Langues, litteratures et civilisations, recherches transculturelles: monde anglophone - monde francophone", all'Universita' di Paris VII 'Denis Diderot' e Permanent Visiting Professor al Dipartimento di Letteratura comparata dell'Universita' di Toronto, Canada. Nel 1993 e' nominata membro del comitato scientifico, che affianca il ministro dell'educazione nazionale. Attualmente e' professoressa all'Universita' Paris VII 'Denis Diderot'. Dal 1978 dopo una psicoanalisi personale e una analisi didattica presso l'Institut de psychanalyse, esercita come psicoanalista. Gli interessi scientifici di Julia Kristeva vanno dalla linguistica alla semiologia, alla psicoanalisi, alla letteratura del XIX secolo. Esponente di spicco della corrente strutturalista francese e in particolare del gruppo di 'Tel Quel', che ha sviluppato in Francia le ricerche iniziate dai formalisti russi negli anni Venti e continuate dal Circolo linguistico di Praga e da Jakobson, Julia Kristeva ritiene che la semiotica sia la scienza pilota nel campo delle cosiddette 'scienze umane'. Pervenuta oggi a un'estrema formalizzazione, in cui la nozione stessa di segno si dissolve, la semiotica si deve rivolgere alla psicoanalisi per rimettere in questione il soggetto senza di cui la lingua come sistema formale non si realizza nell'atto di parola, indagare la diversita' dei modi della significazione e le loro trasformazioni storiche, e costituirsi infine come teoria generale della significazione, intesa non come semplice estensione del modello linguistico allo studio di ogni oggetto fornito di senso, ma come una critica del concetto stesso di semiosi. Opere di Julia Kristeva: Semeitike'. Recherche pour une semanalyse, Seuil, Paris l969; Le texte du roman, Mouton, La Haye l97l; La revolution du language poetique. L'avant-garde a' la fin du XIX siecle: Lautreamont et Mallarme', Seuil, Paris l974; Des chinoises, Editions des femmes, Paris l974; Polylogue, Seuil, Paris l977; Pouvoirs de l'horreur. Essai sur l'abjection, Seuil, Paris l980; Le language, cet inconnu. Une initiation a' la linguistique, Seuil, Paris l98l; Soleil noir. Depression et melancolie, Gallimard, Paris l987; Les Samourais, Fayard, Paris l990; Le temps sensible. Proust et l'experience litteraire, Gallimard, Paris l994. Numerosi articoli di Julia Kristeva sono apparsi sulle riviste 'Tel Quel', 'Languages', 'Critique', 'L'Infini', 'Revue francaise de psychanalyse', 'Partisan Review', 'Critical Inquiry' e molte altre. Tra le opere della Kristeva tradotte in italiano, ricordiamo: Semeiotike'. Ricerche per una semanalisi, Feltrinelli, Milano l978; La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia 1979; Storia d'amore, Editori Riuniti, Roma 1985; Sole nero. Depressione e melanconia, Feltrinelli, Milano l986; In principio era l'amore. Psicoanalisi e fede, Il Mulino, Bologna 1987; Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano; Poteri dell'orrore, Spirali/Vel, Venezia; I samurai, Einaudi, Torino 1991; La donna decapitata, Sellerio, Palermo 1997". Sidonie-Gabrielle Colette (1873-1954) e' stata la piu' apprezzata scrittrice francese della prima meta' del Novecento] Colette, donna dalla natura libertaria e creativa, nella vita prima che nell'arte. Anche per questo Julia Kristeva, linguista, scrittrice, psicoanalista, semiologa allieva di Roland Barthes, le ha dedicato l'ultimo parte della sua trilogia sul "genio femminile", pubblicata da Donzelli. Un'occasione per rileggere con nuovi stimoli la sua ricca scrittura metamorfica, spesso messa in ombra dalle bizzarrie autobiografiche. Autrice di culto del primo Novecento francese, Colette scrisse piu' di cinquanta romanzi: tra i molti titoli ricordiamo la serie dedicata a Claudine, poi La vagabonde, che ando' vicinissimo al prestigioso premio Goncourt; Sido, Il grano in erba, Gigi - anche film di successo con Audrey Hepburn - e Cheri. * - Cristina Bolzani: C'e' qualcosa che accomuna le protagoniste della sua trilogia sul "genio femminile", Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette? - Julia Kristeva: Quello che hanno in comune e' che sono tre donne - Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette - che hanno segnato il ventesimo secolo, per quello che chiamo il loro genio, cioe' una singolarita' stravagante che ha permesso loro di portare delle visioni diverse, delle pratiche diverse, dei progetti diversi, in tre campi che mi sembrano essenziali nel ventesimo secolo: la filosofia politica, per Hannah Arendt, la psicoanalisi per Melanie Klein, e per Colette la scrittura. * - Cristina Bolzani: Simone de Beauvoir ha scritto che donna non si nasce: si diventa. E' cambiata, e cos'e' diventata, la sua visione dello specifico femminile dopo questo suo lavoro? - Julia Kristeva: Ho dedicato la trilogia a Simone de Beauvoir, per due ragioni. Innanzitutto perche' ammiro molto il suo lavoro, e poi perche' non sono affatto d'accordo con lei. L'ammiro perche' la frase che ha citato - Donna non si nasce: si diventa - mette l'accento sulla costrizione sociale che marginalizza le donne come una sorta di "secondo sesso", come lei dice: cioe' come quello che viene dopo l'uomo, come una coscienza sempre trascesa dalla coscienza dell'uomo. Dunque le donne sono nella fatticita', dice lei, e si batte violentemente contro questa visione delle cose, e la sua battaglia consiste nel considerare e far ammettere che c'e' un'uguaglianza, e una fraternita', tra uomini e donne. E' il secondo grande periodo della lotta delle donne per l'emancipazione. Dopo le suffragette, dunque, abbiamo Simone de Beauvoir. La mia generazione viene per terza. Noi abbiamo voluto mostrare, in sede di psicoanalisi, che se c'e' fraternita' a livello di diritto, cioe' sul piano dell'uguaglianza, e direi sul piano dell'uguaglianza del lavoro... ebbene, puo' esserci, deve esserci ed e' necessario che ci sia una differenza nella quale la creativita' e la specificita' delle donne si mostrano: ed e' la' che dobbiamo chiederci in che modo ciascuna donna, e non "tutte" le donne, puo' contribuire alla cultura umana. Da qui e' nata l'iperbole un po' provocatoria del "genio" femminile, che di fatto e' un appello perche' ciascuna donna si cimenti in prima persona, e si finisca con il femminismo "di massa" per cercare di far sorgere la creativita', il genio di ciascuna. * - Cristina Bolzani: In Italia e' appena uscito l'ultimo dei tre volumi, dedicato a Colette. Una donna per la quale scrivere - lei dice - "non e' tanto una fantasia personale, ma un'immersione esistenziale nella carne del mondo". Intende dire che la sua creazione nasce piu' da un incontro con l'esterno che dalla necessita' di dare forma a una realta' interiore? - Julia Kristeva: Colette e' stata una donna straordinaria. Per niente femminista, si burlava delle suffragette, ma e' stata celebrata dopo la sua morte dalle femministe americane, per cominciare, che hanno scoperto in lei una donna ribelle, con una sessualita' stravagante: si definiva un'ermafrodita mentale. Ma quello che mi ha affascinato di lei e' che ha sempre rifiutato di essere considerata una scrittrice, sebbene sia stata, come si sa, celebrata al vertice del pantheon della letteratura francese, e sia stata presidente del Prix Goncourt. Ebbene, lei diceva: "Come, la piu' grande scrittrice, io? Ma no". E quello che lei rivendicava era di avere scritto "l'alfabeto del mondo". E questo si collega alla sua domanda, perche' per lei il linguaggio scritto non e' un esercizio retorico; e' un'immersione nella carne del mondo, come dico in effetti nel mio libro. Il che significa che le parole, le cose, le sensazioni, sono un'unita'. Quando si legge Colette, si "sentono" i gatti, i cani, le donne, gli uomini, i profumi, i fiori. E si e' immersi nel mondo. Si e' trasportati nella sua propria esperienza, che e' stata anche molto dolorosa - e' una donna che ha vissuto molti tradimenti, un film recente della televisione francese ha mostrato essenzialmente la sua parte malinconica. E tuttavia non e' stata una malinconica, ma ha cantato l'arte di vivere. E io penso che il femminile puo' essere una specie di "gioco permanente", un'arte di vivere. E' una cultura francese, beninteso, e' giovialita', ma e' specificamente colettiano. * - Cristina Bolzani: Colette irrompe nella letteratura francese con la sua sensualita', nell'arte come nella vita, polifonica, provocatoria, della quale pero' non fa una militanza. Cosa puo' ancora trasmettere il suo stile libertario e senza etichette "politicamente corrette" al lettore, alla lettrice di oggi? - Julia Kristeva: Credo che il femminismo, che oggi attraversa una crisi, sia indebolito da un messaggio politico spesso molto schematico, e che non abbia tenuto conto della "singolarita'" delle donne, di questa specificita' - che e' la nostra - che fa si' che la vita, l'oggetto d'amore, il tempo, il pensiero, il corpo, la scrittura, siano un'unita' costante, una specie di osmosi; e' quello che chiamo "la carne del mondo". Ebbene, Colette con quella sua scrittura, con i suoi messaggi molto stravaganti, molto singolari, molto sensuali, molto ribelli, si distanzia da questo schematismo, e percio' e' una sorta di appello alla liberta'. Poi sono molto sensibile al contesto europeo perche' abbiamo bisogno di fare intendere che il messaggio femminile non e' morto, ma abbiamo bisogno di donargli una nostra risonanza, ed e' questa singolarita' che tutte noi sentiamo necessario affermare. * - Cristina Bolzani: Colette ammira Proust, scrive che e' "delizioso", che ci "si immerge". C'e' qualcosa che accomuna i due scrittori? - Julia Kristeva: L'ammirazione di Colette per Proust ci ha messo del tempo a manifestarsi. Nei suoi primi libri era un po' scettica, un po' ironica, e forse anche con dei piccoli accenti di antisemitismo che suo marito ha corretto. Loro hanno due cose in comune. Da una parte la presenza della memoria infantile; sappiamo che Proust e la Recherche, attraverso la madeleine, rievoca questi "tempi perduti" dell'infanzia. Anche Colette. Ma lei dice che non ricerca il suo tempo; perche' e' sempre la'. Lei non ha trasgredito, non e' stata blasfema, non ha fatto scandalo per trovare questa infanzia. Per lei l'infanzia e' sempre presente, nella purezza. Del testo magnifico di Proust che e' Sodoma e Gomorra lei ha scritto la versione femminile, ed e' Il puro e l'impuro. Colette pensa che l'omosessualita' femminile abbia una purezza che richiama la relazione madre-figlia. E poi, la seconda particolarita' che avvicina i due autori e' che attraverso questa esperienza della bisessualita' arrivano a rendere il linguaggio vicino alla sensualita'. Quella di Proust e di Colette sono lingue non astratte, ma imbevute di sensazioni. Il mio libro su Proust si chiama Il tempo sensibile, e Colette e' "la carne del mondo", sempre alla ricerca di una sensualita'. In maniera molto diversa, ma che e' anche convergente. E' una stessa esperienza, forse specifica in modo diverso per i due sessi. * - Cristina Bolzani: Lei si sofferma molto sul rapporto della scrittrice con la madre, Sido. In che modo la natura di questo rapporto si riverbera poi sull'opera di Colette? - Julia Kristeva: La relazione tra Colette e Sido e' al tempo stesso centrale e complicata. I primi testi di Colette, quelli con Claudine, sono del tutti privi della madre. Claudine e' orfana di madre. E molte dei biografi sono restii a mostrare che Colette aveva dei rapporti molto tesi con sua madre, una passione molto complicata. Nella sua esperienza personale, ha avuto bisogno di due cose: la sua maternita', il fatto di avere lei stessa dei figli; e la sua esperienza di una sorta di perversione - e uso questa parola senza connotazioni negative, semplicemente per dire che sono esperienze che non sono "classiche", non sono normative. Lei ha avuto tutti i piaceri del mondo, e ha potuto riavvicinarsi a sua madre, ha potuto mettersi al suo posto e creare il personaggio di Sido, nel quale non sappiamo troppo bene se si tratta di Sido o di Colette. E abbiamo, a partire da qui, una sorta di "dea-madre" della letteratura, che piu' che una donna e' una sorta di inno, di cantico dei cantici del cosmo, una sorta di lettera, anche. Questa Sido e' forse uno dei migliori personaggi di Colette. * - Cristina Bolzani: Lei ha incontrato due personalita' che, seppure in modi diversi, nel linguaggio hanno visto l'espressione, l'incarnazione del desiderio: Roland Barthes e Jacques Lacan. Che ricordo conserva di loro? - Julia Kristeva: Difficile dirlo rapidamente. Ma Roland Barthes forse e' il solo professore che ho conosciuto che non voleva che i suoi studenti ripetessero quello che lui diceva, e che apprezzava la creativita' dei suoi studenti. E' stato molto generoso con me, mi ha sostenuto molto, diceva anche che utilizzava il mio valore di giovane studiosa; ed e' vero che dei concetti, se si puo' dire, come l'intertestualita' o il mio interesse per l'esperienza amorosa, vengono assimilati alla sua maniera. E quanto a Lacan, quello che ricordo di lui e' forse questa maniera barocca, se non surrealista, di concepire la cura analitica; che e' a volte contestabile, a volte leggera, ma che ha sollevato un vento di liberta', e di ribellione direi, sulla psicoanalisi. 3. RITRATTI. UN PROFILO BIOGRAFICO DI DACIA MARAINI [Dal sito www.dacia-maraini.it riprendiamo il seguente profilo biografico. Dacia Maraini, nata a Firenze nel 1936, scrittrice, intellettuale femminista, e' una delle figure piu' prestigiose della cultura democratica italiana. Tra le opere di Dacia Maraini segnaliamo particoalrmente: L'eta' del malessere (1963); Crudelta' all'aria aperta (1966); Memorie di una ladra (1973); Donne mie (1974); Fare teatro (1974); Donne in guerra (1975); (con Piera Degli Esposti), Storia di Piera (1980); Isolina (1985); La lunga vita di Marianna Ucria (1990); Bagheria (1993)] Dacia Maraini nasce a Firenze. La madre, siciliana, appartiene a un'antica famiglia, gli Alliata di Salaparuta. Il padre, Fosco Maraini, per meta' inglese e per meta' fiorentino, e' un etnologo conosciuto che ha scritto diversi libri sul Tibet e sul Giappone. La famiglia Maraini si trasferisce in Giappone nel '38 poiche' il padre portava avanti uno studio sugli Hainu, una popolazione in via di estinzione che viveva nell'Hokkaido. Nel '43 il governo giapponese che aveva fatto un patto di alleanza con l'Italia e la Germania, chiese ai coniugi Maraini di firmare l'adesione alla repubblica di Salo'. Sia Topazia che Fosco rifiutarono di firmare e furono percio' rinchiusi in un campo di concentramento nei pressi di Tokio assieme alle tre figlie bambine. Ci rimasero fino alla fine della guerra quando furono liberati dagli americani. Rientrati in Italia, andarono ad abitare in Sicilia, presso i nonni, nella Villa di Valguarnera di Bagheria, dove le bambine cominciarono gli studi. La poverta' e' una costante di quegli anni di difficile adattamento al nuovo ambiente. Qualche anno dopo la famiglia si divide. Il padre va ad abitare a Roma, la madre resta a Palermo con le tre figlie che frequentano le scuole della citta'. Sono gli anni della prima formazione letteraria e dei sogni di fuga. La fuga avverra' quando Dacia Maraini compie i diciotto anni e decide di andare a vivere a Roma con il padre. Qui prosegue il liceo, si arrangia per guadagnare, facendo l'archivista, la segretaria, la giornalista di fortuna. A ventuno anni fonda, assieme con altri giovani, una rivista letteraria, "Tempo di letteratura", edita da Pironti a Napoli. Prende a collaborare, con racconti, a riviste quali "Paragone", "Nuovi Argomenti", "Il Mondo". Nel 1962 pubblica il primo romanzo presso l'editore Lerici: La vacanza. Intanto si sposa con Lucio Pozzi, pittore milanese, da cui si divide dopo quattro anni di vita in comune e un figlio perso poco prima di nascere. Nel 1963 esce il suo secondo romanzo, L'eta' del malessere, che ottiene il premio internazionale degli editori Formentor. Il terzo e' del 1967 e si intitola A memoria: viene pubblicato da Bompiani. Intanto Nanni Balestrini le chiede per la Feltrinelli le sue poesie che escono nel 1966 con il titolo Crudelta' all'aria aperta; il libro viene recensito con molto favore dallo scrittore Guido Piovene. In questi anni Dacia Maraini comincia ad occuparsi di teatro. Fonda, assieme con altri scrittori, il Teatro del porcospino, in cui si rappresentano solo novita' italiane: da Gadda a Parise, da Moravia a Wilcock, da Siciliano a Tornabuoni. Proprio in quel periodo Dacia Maraini si mette a vivere con Alberto Moravia; sara' una convivenza che durera' fino agli anni settanta. Nel 1968 esce un libro di racconti, Mio marito, edito da Bompiani; due anni dopo Einaudi pubblica il suo libro di teatro Ricatto a teatro e altre commedie. Nel 1973 fonda, assieme con Lu' Leone, Francesca Pansa, Maricla Boggio e altre, il teatro della Maddalena, gestito e diretto da donne. Nel 1978 vi si rappresenta Dialogo di una prostituta con un suo cliente (pubblicato da Images di Padova). Il testo verra' tradotto e rappresentato negli anni seguenti prima a Bruxelles, poi a Parigi, e quindi a Londra e ancora in quattordici paesi diversi. Un altro romanzo viene pubblicato nel 1972: Memorie di una ladra. Monica Vitti ne ricava un film fra i suoi piu' riusciti, Teresa la ladra. Nel 1975 esce Donna in guerra, edito da Einaudi; negli anni seguenti viene pubblicato in sei lingue. Di quegli anni il testo teatrale Maria Stuarda, che viene tradotto e rappresentato in quindici paesi e ancora si continua a rappresentare. Nel 1980 esce Storia di Piera, scritto in collaborazione con Piera Degli Esposti; il libro avra' otto edizioni, Marco Ferreri ne ricavera' un film con Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla e Isabelle Huppert. Del 1984 e' il romanzo Il treno per Helsinki, edito da Einaudi; il libro viene tradotto in cinque lingue. Nel 1985 segue lsolina, pubblicato da Mondadori e che riceve il premio Fregene; questo romanzo e' stato ripubblicato da Rizzoli nel 1992. Nel 1990 esce La lunga vita di Marianna Ucria, accolto molto positivamente dalla critica e dal pubblico; il libro riceve, il premio Supercampiello; pochi mesi dopo gli sara' assegnato il premio per il "Miglior libro dell'anno", Napoli; seguono i premi: Quadrivio (Rovigo), Apollo (Salerno), "Reggio Calabria". Viene tradotto in quindici lingue. Nel 1991 esce una raccolta di poesie dal titolo Viaggiando con passo di volpe, Rizzoli; il libro riceve il premio "Citta' di Penne" 1992. Ancora nel 1991 viene pubblicato il libro di teatro Veronica, meretrice e scrittora, che riceve il premio "Fondi La Pastora" nel 1992. Nel 1993 esce, presso Rizzoli, il libro Bagheria, che conosce subito un buon successo di pubblico e di critica. Frattanto il Teatro Stabile di Catania rappresenta la versione teatrale di Marianna Ucria con l'adattamento dell'autrice, la regia di Lamberto Pugelli, la partecipazione di Paola Mannoni e Umberto Ceriani. Nel 1994 viene pubblicato il romanzo Voci. Nel 1996 esce il saggio Un clandestino a bordo. Nel 1997 un altro romanzo: Dolce per se'. Nel 1998 viene pubblicata l'antologia di poesia"Se amando troppo. Nel 1999 viene pubblicato il libro di racconti Buio. Sempre pubblicati dall'editore Rizzoli seguono Fare teatro (1966-2000), che raccoglie quasi tutta l'opera teatrale di Dacia Maraini; Amata scrittura, un libro sulla trasmissione televisiva condotta dall'autrice, nel 2000; e nel 2001 La nave per Kobe. Nello stesso anno Fabbri pubblica il libro di favole La pecora Dolly. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 47 del 19 gennaio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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