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La nonviolenza e' in cammino. 1179
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1179
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 18 Jan 2006 00:24:10 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1179 del 18 gennaio 2006 Sommario di questo numero: 1. Norberto Bobbio: Non uccidere 2. Antonio Gnoli intervista Raimon Panikkar 3. Nanni Salio: Una proposta politica nonviolenta 4. Augusto Cavadi: Religioni in dialogo, in Sicilia 5. Riletture: Enza Biagini, Simone de Beauvoir 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. MAESTRI. NORBERTO BOBBIO: NON UCCIDERE [Il testo seguente, che nuovamente riproponiamo, e' quello del discorso pronunciato a conclusione del dibattito sull'omonimo film di Claude Autant-Lara (Torino, 4 dicembre 1961), pubblicato in "Resistenza", XV, n. 12, dicembre 1961, p. 4; successivamente ristampato in Norberto Bobbio, Il terzo assente, Edizioni Sonda, Milano-Torino 1989, pp. 139-142. Norberto Bobbio e' nato a Torino nel 1909 ed e' deceduto nel 2004, antifascista, filosofo della politica e del diritto, autore di opere fondamentali sui temi della democrazia, dei diritti umani, della pace, e' stato uno dei piu' prestigiosi intellettuali italiani del XX secolo. Opere di Norberto Bobbio: per la biografia (che si intreccia con decisive vicende e cruciali dibattiti della storia italiana di questo secolo) si vedano il volume di scritti autobiografici De Senectute, Einaudi, Torino 1996; e l'Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997; tra i suoi libri di testimonianze su amici scomparsi (alcune delle figure piu' alte dell'impegno politico, morale e intellettuale del Novecento) cfr. almeno Italia civile, Maestri e compagni, Italia fedele, La mia Italia, tutti presso l'editore Passigli, Firenze. Per la sua riflessione sulla democrazia cfr. Il futuro della democrazia; Stato, governo e societa'; Eguaglianza e liberta'; tutti presso Einaudi, Torino. Sui diritti umani si veda L'eta' dei diritti, Einaudi, Torino 1990. Sulla pace si veda Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, varie riedizioni; Il terzo assente, Sonda, Torino 1989; Una guerra giusta?, Marsilio, Venezia 1991; Elogio della mitezza, Linea d'ombra, Milano 1994. A nostro avviso indispensabile e' anche la lettura di Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, 1977; Profilo ideologico del Novecento, Garzanti, Milano 1990; Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993. Opere su Norberto Bobbio: segnaliamo almeno Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante, Bollati Boringhieri, Torino 1989; Piero Meaglia, Bobbio e la democrazia: le regole del gioco, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1994; Tommaso Greco, Norberto Bobbio, Donzelli, Roma 2000; AA. VV., Norberto Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005. Per la bibliografia di e su Norberto Bobbio uno strumento di lavoro utilissimo e' il sito del Centro studi Piero Gobetti (www.erasmo.it/gobetti)] Mi propongo di chiarire il significato storico e il significato attuale dell'obiezione di coscienza. Parto dalla definizione piu' generale: l'obiettore di coscienza e' colui che rifiuta incondizionatamente la guerra. Si badi: incondizionatamente, cioe' senza condizioni. In altre parole: e' colui che non accetta nessuno dei tentativi che sono stati fatti per giustificare la guerra. Si dira': nulla di nuovo. Tutti condannano la guerra. La condannano, ma la fanno. E poi, e' vero che tutti condannano la guerra? Siamo proprio sicuri di essere tutti d'accordo che la guerra e' cosa da condannarsi incondizionatamente? Guardiamo la storia, la storia della nostra civilta' cristiana, illuministica, umanitaria. Abbiamo sempre giustificato la guerra. Moralisti, filosofi, teologi sono andati a gara a escogitare teorie per giustificare la guerra. E la guerra, sinora, c'e' sempre stata. Noi l'abbiamo giustificata proprio perche' c'e' sempre stata. E, del resto, come e' possibile resistere alla tentazione di dare una giustificazione di quello che e' un elemento costitutivo, essenziale, della nostra storia? Poiche' parte della storia e' storia di guerre, se noi non riuscissimo a giustificare la guerra, la storia ci apparirebbe o come un immenso errore o come una assurda follia. Per non dover credere che la storia umana sia una storia sbagliata o assurda, filosofi, moralisti e teologi hanno dovuto giustificare la guerra. E' stata giustificata in tanti modi. Ne indico quattro. Anzitutto con la distinzione, accolta per alcuni secoli dalla teoria del diritto internazione, tra guerre giuste e ingiuste. Si dice: non tutte le guerre sono uguali; vi e' guerra e guerra. Alcune guerre sono un male, altre non lo sono. Sono un male, per esempio, soltanto le guerre di conquista, non le guerre di difesa. Seconda giustificazione: la guerra e' un male minore. Tutte le guerre sono un male, ma vi possono essere malanni peggiori della guerra, la perdita della liberta', dell'onore nazionale, della fede avita. Qui siamo di fronte a un conflitto di valori. La guerra rappresenta solo la negazione di un valore, quello della pace. Ma la pace e' il valore supremo? Non vi sono altri valori piu' alti della pace? La liberta', la giustizia, l'onore, la religione? Terza giustificazione: la guerra e' un male (non si dice se maggiore o minore, e non si fa piu' un confronto con qualche altro valore) ed e' un male necessario. Necessario perche' senza guerra non c'e' progresso, non c'e' sviluppo storico. La storia procede per affermazioni e negazioni: se non ci fosse la negazione, non ci sarebbe neppure l'affermazione. E' la concezione dialettica della storia, oppure la concezione della guerra come molla del progresso. Il pacifista Kant aveva fatto l'elogio dell'antagonismo e della guerra. Chi volesse raccogliere un bel florilegio di elogi della guerra come momento necessario dello sviluppo storico, non avrebbe che l'imbarazzo della scelta. Quarta giustificazione: la guerra non e' ne' un bene ne' un male. E' un fatto. Essendo un fatto, e' quello che e'. Non si discute: lo si accetta. Fa parte del nostro destino o se volete, del disegno della provvidenza. Anche Croce si inchinava alla tremenda maesta' della guerra, e l'immanentista Gentile la chiamava "dramma divino". Se la guerra e' inevitabile, non possiamo far nulla contro di essa. Magari non provocarla, ma quando scoppia per ragioni imprevedibili e insondabili, bisogna fare il proprio dovere. Riflettiamo su questa frase: fare il proprio dovere. Fare il proprio dovere significa in questo contesto accettare il proprio destino, accettare la condanna di essere uomini. Ho voluto soffermarmi brevemente sulle principali ideologie della guerra, perche' solo cosi' entriamo nel vivo del problema agitato dagli obiettori di coscienza. In termini generali, si puo' dire che l'obiettore di coscienza e' colui che non accetta in principio nessuna di queste, e di altre possibili giustificazioni. L'obiettore di coscienza e' colui che, affermando che la guerra e' violenza e che la violenza e' un male assoluto, conclude che la guerra e' un male assoluto. Primo: per l'obiettore non vi sono guerre giuste e ingiuste. E la guerra di difesa? Anche la guerra di difesa e' violenza. E poi chi ha il diritto di distinguere la guerra di offesa da quella di difesa? Esiste nella storia dei rapporti tra gli stati l'innocente? Chi e' stato il primo colpevole? Chi sara' l'ultimo innocente? O non e' forse vero che la ferrea catena di guerre, in cui consiste la nostra storia, ci rende impossibile risalire alla prima radice del male? E allora non bisogna spezzare questa catena? Ma per spezzarla occorre pure che qualcuno cominci. L'obiettore di coscienza e' colui che dice: comincio io, e accada quel che deve accadere. Secondo: la guerra non e' un male minore; e' puramente e semplicemente un male. Non bisogna fare il male, ecco tutto. E poi non e' il male minore, perche' tutti i mali si generano dalla violenza. E non vi e' bene che possa essere barattato con la perdita della pace, perche' la pace e' la condizione stessa del fiorire di tutti gli altri valori. Terzo: la guerra non e' un male necessario. Puo' ben darsi che, dopo la guerra, la storia umana faccia un passo innanzi. Ma quanti ne ha fatti indietro per causa della guerra? Tanto orrenda e' la situazione di guerra, che, tornata la pace, ci sembra di aver fatto un passo innanzi. Ma come possiamo sapere quale sarebbe stato il destino dell'uomo se non ci fossero state guerre? Come possiamo saperlo se le guerre ci sono sempre state? Come possiamo paragonare il progresso storico attraverso le guerre col progresso storico attraverso la pace, se sino ad ora l'umanita' ha conosciuto soltanto il primo e non anche il secondo di questi due corsi? Quarto: la guerra non e' un fatto inevitabile. Dipende da noi, dalle nostre passioni che possiamo reprimere, dai nostri interessi che possiamo conciliare, dai nostri istinti che dobbiamo correggere e frenare. Se abbiamo saputo eliminare le guerre tra individui, tra comuni, perche' dovrebbe continuare a sussistere la guerra tra gli stati? Perche', dal semplice fatto che un evento e' sempre stato, dobbiamo dedurne che sempre sara'? Dov'e' scritto e chi l'ha scritto? Ho voluto riassumere brevemente (e imperfettamente) alcuni eterni motivi dell'obiezione di coscienza, perche' oggi ci troviamo di fronte a una situazione nuova, a una vera e propria svolta della storia umana, di fronte alla quale l'obiezione di coscienza, il dir di no alla guerra, assume un significato piu' attuale, piu' vasto, piu' universale. La situazione nuova e' quella che e' determinata dalla corsa spaventosa verso gli armamenti atomici. La situazione e' nuova, perche' per la prima volta nella storia la guerra totale puo' portare all'annientamento della vita sulla terra, cioe' della storia stessa dell'uomo. Ci vuole un certo sforzo d'immaginazione per comprendere che questo puo' accadere: ma questo sforzo dobbiamo farlo. Di fronte all'evento possibile della distruzione della storia, ogni giustificazione della guerra diventa impossibile. Siamo in una condizione in cui non possiamo piu' accettare la guerra. Il che significa che siamo diventati, che dobbiamo diventare tutti quanti potenzialmente obiettori di coscienza. L'alternativa e' questa: o l'obiezione di coscienza, nel senso di impossibilita' morale di accettare la guerra, o la possibile distruzione del genere umano. Se vi paiono un po' troppo apocalittiche queste mie considerazioni, vi invito a ragionarvi su. Primo: di fronte alla possibile catastrofe atomica non vi sono piu' guerre giuste o ingiuste; una guerra, qualunque essa sia, che puo' provocare la scomparsa della vita sulla terra, e' ingiusta. Secondo: e' semplicemente stolto considerare la guerra, che puo' avere una simile conseguenza, come un male minore: non ci sono alternative possibili. Di fronte alle guerre del passato puo' avere ancora un senso parlare di alternativa tra la pace e la liberta', tra la pace e la giustizia, tra la pace e l'onore. Ma di fronte alla guerra atomica, quale alternativa potrebbe ancora concepirsi? O la liberta' o il suicidio universale? Chi beneficerebbe di questa liberta'? Terzo: la guerra non puo' piu' essere considerata come un male necessario, come uno strumento di bene. Quale bene, se dopo non c'e' piu' nulla? La guerra atomica non e' un mezzo per raggiungere qualche altra cosa, ma un fine, anzi, meglio, e' la fine. Quarto: la guerra non puo' piu' essere considerata come un fatto inevitabile, a meno che si accetti come fatto inevitabile (badate, inevitabile), l'autodistruzione dell'uomo. Forse qualcuno potrebbe considerare che con questa considerazione io sia andato fuori tema. Ma riflettiamo: obiezione di coscienza significa rifiuto di portare armi. Ora quando nel concetto di arma rientra una bomba che, come si legge nei giornali, ha da sola il potere esplosivo di meta' di tutte le bombe gettate nell'ultima guerra, mi domando se il portar armi non sia diventato un problema di coscienza non solo per l'obiettore che protesta in nome della sua fede religiosa, ma per ciascuno di noi, in nome dell'umanita'. Obiezione di coscienza significa letteralmente quella situazione in cui la nostra coscienza ci vieta col suo imperativo di compiere un'ingiustizia. Se interroghiamo la nostra coscienza, non possiamo piu' rifiutarci di riconoscere che oggi - questa e' dunque la conclusione cui volevo giungere - siamo, almeno in potenza, tutti quanti obiettori. 2. RIFLESSIONE. ANTONIO GNOLI INTERVISTA RAIMON PANIKKAR [Dal quotidiano "La Repubblica" del 7 gennaio 2006. Antonio Gnoli e' giornalista della pagina culturale del quotidiano "La Repubblica" e saggista; ha anche curato l'edizione italiana di testi di Alexandre Kojeve per Adelphi e di Carl Jacob Burckhardt per Bompiani. Opere di Antonio Gnoli: con Bruce Chatwin, La nostalgia dello spazio, Bompiani 2000. Raimon (Raimundo) Panikkar e' nato a Barcellona nel 1918 da madre spagnola e padre indiano; laureato in chimica, filosofia e teologia, ha insegnato in molte universita' europee, asiatiche ed americane; e' uno dei principali esperti di studi interculturali. Opere di Raimon Panikkar: tra i suoi numerosi libri cfr. Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988; Trinita' ed esperienza religiosa dell'uomo, Cittadella, Assisi 1989; La torre di Babele, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1990; La sfida di scoprirsi monaco, Cittadella, Assisi 1991; Ecosofia: la nuova saggezza, Cittadella, Assisi 1993; Saggezza stile di vita, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1993; La pienezza dell'uomo. Una cristofania, Jaca Book, Milano 1999; Pace e interculturalita', Jaca Book, Milano 2002; Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003; La nuova innocenza, tre volumi, Servitium, Palazzago (Bg); L'esperienza della vita, Jaca Book, Milano 2005; La porta stretta della conoscenza, Rizzoli, Milano 2005. Si vedano anche gli atti del seminario animato da Panikkar su Pace e disarmo culturale, L'altrapagina, Citta' di Castello (Pg) 1987 (con interventi tra gli altri di Ernesto Balducci, Fabrizio Battistelli, Luigi Cortesi, Antonino Drago, Achille Rossi). Opere su Raimon Panikkar: Achille Rossi, Pluralismo e armonia: introduzione al pensiero di Raimon Panikkar, L'altrapagina, Citta' di Castello (Pg) s. d. ma 1990] Raimon Panikkar e' un uomo coltissimo, i cui interessi spaziano dalla filosofia alla religione, alla scienza. Nato a Barcellona, da padre indiano e madre spagnola, Panikkar ha vissuto per lungo tempo in India. E' considerato il piu' autorevole studioso in grado di mettere a confronto religioni diverse. E' un fautore del dialogo interculturale. Splendide le sue traduzioni dal vedico. Il suo nuovo libro La porta stretta della conoscenza (a cura di Milena Carrara Pavan, Rizzoli, Milano 2005) e' un tentativo di far dialogare scienza e religione. * - Antonio Gnoli: Professor Panikkar e' davvero possibile il dialogo fra due forme di sapere che per il fatto di voler essere dominanti, tendono a escludersi? - Raimon Panikkar: Perche' sia un dialogo sensato e alla pari, ambedue le parti devono spogliarsi dalla pretesa di esclusivita'. Occorre, insomma, maggiore umilta'. E l'umilta' e' una virtu' intellettuale, non solo morale. * - Antonio Gnoli: Come si fa a essere umili se i linguaggi di scienza e religione parlano di oggetti diversi? La scienza lascia fuori dio, la teologia a sua volta guarda al regno delle quantita' con occhio severo. - Raimon Panikkar: Siamo esseri storici e come tali subiamo i pregiudizi. E' un pregiudizio immaginare che la scienza possa risolvere ogni cosa. Cosi' come e' un pregiudizio della tradizione occidentale identificare la religione con la chiesa. Da un punto di vista indu' sarebbe inconcepibile. * - Antonio Gnoli: Per un indu' cos'e' una religione? - Raimon Panikkar: Una forma di vita, meglio: la consapevolezza di una forma di vita. * - Antonio Gnoli: Ma un teologo e uno scienziato come possono parlarsi? - Raimon Panikkar: Al teologo direi di non dimenticare il mondo fisico che e' altrettanto reale del mondo teologico. Allo scienziato suggerirei di non ridurre tutto all'esperimento. C'e' qualcosa di piu' profondo dello sperimentabile. * - Antonio Gnoli: E perche' la scienza dovrebbe rinunciare all'idea di avere un punto di vista piu' persuasivo sul mondo? - Raimon Panikkar: Perche' non c'e' un solo modo per avvicinarsi alla verita'. E soprattutto percha' la vita umana non si lascia strumentalizzare. Siamo talmente abituati al dominio della tecnica scientifica, da considerarla lo strumento principe per comprendere la vita umana. Ma non e' cosi'. * - Antonio Gnoli: Lei dice basta con la dittatura del pensiero strumentale che fonda la sua forza sul calcolo. Che cos'e' che non va nel suo metodo? - Raimon Panikkar: Bisogna liberarsi dall'ossessione dei perche', e dall'idea che esista una causa finale. La ragione se e' presa in senso assoluto toglie la liberta'. Non la favorisce. * - Antonio Gnoli: Ma e' piuttosto difficile vivere in un mondo come il nostro e non chiedersi mai perche'. - Raimon Panikkar: Attenzione. Sono le azioni ultime, come l'amore autentico, che si fanno senza un perche'. * - Antonio Gnoli: Liberta' da tutto tranne che dal proprio cuore? - Raimon Panikkar: Si e' liberi in quanto non diamo una ragione alle nostre decisioni. * - Antonio Gnoli: Siamo nel campo della fede o della follia. - Raimon Panikkar: E' solo l'Occidente che vuole giustificare ogni cosa, trovare una spiegazione per tutto. * - Antonio Gnoli: E' il primato del logos. - Raimon Panikkar: Ma anche il rifiuto dello spirito. L'Occidente ha creduto che passando dal mito al logos acquisisse una forma di conoscenza superiore. In realta' non si e' accorto che ha solo mitizzato la ragione. Bisogna decostruire le proprie certezze. Sapendo che le nostre conoscenze sono relative. * - Antonio Gnoli: C'e' differenza tra relativita' e relativismo? - Raimon Panikkar: Enorme. Il relativismo distrugge se stesso. Ai suoi occhi una cosa vale l'altra. Ma non e' cosi'. La relativita' invece e' la consapevolezza che qualsiasi cosa io possa dire ha un senso e ha una pretesa di verita' in relazione a un contesto del quale io non sono completamente consapevole. * - Antonio Gnoli: E che ruolo gioca la fede? - Raimon Panikkar: Ogni uomo ha fede. Solo gli animali non ne hanno. Ogni uomo e' consapevole di non sapere tutto, sa che davanti a lui c'e' l'ignoto. Non capisce il mistero ma ne e' profondamente consapevole. E questa consapevolezza e' la descrizione fenomenologica della fede. * - Antonio Gnoli: Lei distingue la fede dalla credenza. - Raimon Panikkar: La credenza e' l'interpretazione culturalmente, psicologicamente e personalmente condizionata della nostra apertura al mistero. * - Antonio Gnoli: La fede ha bisogno della credenza? - Raimon Panikkar: Puo' farne a meno. Mentre la credenza ha bisogno della fede. Il guaio e' che se io identifico la mia fede con la mia credenza allora divento un fanatico. Di qui le crociate, l'inquisizione, l'intolleranza, l'assolutismo. Detto in modo filosofico, la fede non ha oggetto. Capisco che per un occidentale che ha sposato in pieno il pensiero razionale questo puo' sembrare una bestemmia. * - Antonio Gnoli: Se si puo' arrivare a dire che la fede non ha oggetto, allora possiamo anche affermare che Dio non esiste. - Raimon Panikkar: Lo possiamo dire. E' solo idolatria immaginare che Dio sia un oggetto. Io non posso dire ne' che Dio esiste ne' che non esiste. * - Antonio Gnoli: Con quest'ultima affermazione verrebbe da concludere: di che cosa stiamo parlando? - Raimon Panikkar: Vede, c'e' subito lo smarrimento, il tono liquidatorio. E' ovvio che stiamo discutendo del mistero. Ma non possiamo parlarne se nei nostri discorsi non c'e' amore. Nel senso piu' ampio amore e' uscire da se stessi. L'amore e' centrifugo, la conoscenza e' centripeta. E' un doppio movimento senza il quale non riusciremo mai a penetrare il mistero. * - Antonio Gnoli: Lei parla di tre occhi: quello dell'intelletto, della sensibilita' e della fede. Qual e' il piu' importante? - Raimon Panikkar: Devono funzionare insieme. Guai a ridurre un essere umano solo alla parte razionale. * - Antonio Gnoli: Ma se la ragione non guida c'e' il rischio che le passioni, anche le peggiori, prendano il sopravvento. Come le tiene a bada? - Raimon Panikkar: Diro' che sono troppo indiano: non reprimendole, rendendomi conto che siccome questi istinti e queste forze stanno in me occorre prenderne coscienza. Questa e' la vera contemplazione. Che non ha niente a che vedere con il vuoto. Ho vissuto tanti anni fuori dal mondo occidentale e ho capito che l'Occidente non e' un modello da imitare. C'e' una felicita' innata altrove che qui non trovo. * - Antonio Gnoli: E' l'elogio dei poveri di spirito? - Raimon Panikkar: Beati coloro che non dipendono dalla volonta', il dogma fondamentale dell'occidente. In sanscrito non esiste la parola "volonta'". La famosa preghiera: "padre nostro che sei nei cieli, sia fatta la tua volonta'...", presuppone un Dio volenteroso, legislatore. Per l'India e' un controsenso. L'insegnamento del buddismo tende a escludere la volonta'. * - Antonio Gnoli: Il buddismo chiama la volonta' desiderio. Come si fa a non desiderare? - Raimon Panikkar: Distinguo tra aspirazione e desiderio. Il desiderio e' condizionato dall'esterno. Mentre l'aspirazione e' qualcosa che viene da dentro ed esce fuori. E' chiaro che se il mio cuore non e' puro, il desiderio finira' con il prevalere. * - Antonio Gnoli: Lei non usa mai la parola etica. Perche'? - Raimon Panikkar: Primo perche' non sono un esperto di etica. E poi in ogni etica vedo la tentazione di assolutizzare le proprie regole. Abbiamo certamente bisogno di un ethos ma questo non va legalizzato ne' assolutizzato. Dio non e' un legislatore, non c'e' una legge ultima che egli ha proclamato e alla quale attenersi. * - Antonio Gnoli: Detta da un sacerdote e' un'affermazione paradossale. - Raimon Panikkar: Dio non fa leggi, non ho detto che non esiste. * - Antonio Gnoli: Da' l'impressione di avere abbracciato una forma di panteismo. E' cosi'? - Raimon Panikkar: A mio parere il panteismo e' un errore per difetto. Per il panteismo tutto e' divino. Che poi cio' che noi chiamiamo la divinita' si esaurisca in quel tutto aperto alla consapevolezza, questo e' cio' che rende il panteismo piccolo. Quando i vecchi presocratici dicevano che microcosmo e macrocosmo si corrispondono sapevano quello che volevano dire. Sapevano che ogni uomo non e' un mondo in piccolo, ma un piccolo mondo, nel quale vive tutta la realta'. E' questa la divinita' umana, e in tal senso la divinita' e' in ciascuno di noi. Come dice il Vangelo: "voi siete dei". 3. RIFLESSIONE. NANNI SALIO: UNA PROPOSTA POLITICA NONVIOLENTA [Ringraziamo Nanni Salio (per contatti: info at cssr-pas.org) per averci messo a disposizione come anticipazione il testo estratto dalla registrazione del suo intervento al convegno su "Come intervenire nella realta' per superare i conflitti e costruire percorsi di pace. La ricerca e la metodologia della nonviolenza si confrontano con la politica", svoltosi a Pontedera il 14 maggio 2005, i cui atti sono in corso di pubblicazione a cura del Centro per la pace di Pontedera. Giovanni (Nanni) Salio, torinese, nato nel 1943, ricercatore nella facolta' di Fisica dell'Universita' di Torino, segretario dell'Ipri (Italian Peace Research Institute), si occupa da alcuni decenni di ricerca, educazione e azione per la pace, ed e' tra le voci piu' autorevoli della cultura nonviolenta in Italia; e' il fondatore e presidente del Centro studi "Domenico Sereno Regis", dotato di ricca biblioteca ed emeroteca specializzate su pace, ambiente, sviluppo (sede: via Garibaldi 13, 10122 Torino, tel. 011532824 - 011549005, fax: 0115158000, e-mail: regis at arpnet.it, sito: www.cssr-pas.org). Opere di Giovanni Salio: Difesa armata o difesa popolare nonviolenta?, Movimento Nonviolento, II edizione riveduta, Perugia 1983; Ipri (a cura di Giovanni Salio), Se vuoi la pace educa alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983; con Antonino Drago, Scienza e guerra: i fisici contro la guerra nucleare, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Le centrali nucleari e la bomba, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Progetto di educazione alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1991; Ipri (introduzione e cura di Giovanni Salio), I movimenti per la pace, vol. I. Le ragioni e il futuro, vol. II. Gli attori principali, vol. III. Una prospettiva mondiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Le guerre del Golfo e le ragioni della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1991; con altri, Domenico Sereno Regis, Satyagraha, Torino 1994; Il potere della nonviolenza: dal crollo del muro di Berlino al nuovo disordine mondiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995; Elementi di economia nonviolenta, Movimento Nonviolento, Verona 2001; con D. Filippone, G. Martignetti, S. Procopio, Internet per l'ambiente, Utet, Torino 2001] I. Relazione Cominciamo da una osservazione preliminare, di carattere generale, che prende spunto dal titolo stesso del nostro incontro. Non si tratta di "superare i conflitti", ma di imparare a trasformarli creativamente e costruttivamente con i metodi della nonviolenza. Il conflitto e' una condizione specifica della natura umana, individuale e sociale. Nell'ambito della ricerca per la pace non si attribuisce un significato negativo al termine conflitto: non e' sinonimo ne' di violenza ne' di guerra, ma un rischio e un'opportunita' che devono essere gestiti e trasformati positivamente. A partire da queste precisazioni, proponiamo un confronto che non e' tanto con la politica in astratto, quanto con uomini e donne che hanno compiti e responsabilita' specifiche nell'ambito della politica istituzionale. Cosa vuol dire trasformare i conflitti con il metodo della nonviolenza? Dobbiamo tutti quanti intraprendere un percorso di alfabetizzazione se vogliamo acquisire competenze che ci permettano di confrontarci concretamente su questo tema. Osserviamo infatti che normalmente i nostri rappresentanti politici pensano che la modalita' prevalente per affrontare i conflitti sia l'uso dello strumento militare. Anche quando si spingono sino a invocare il dialogo, lo fanno in modo retorico. In realta', in tempo di pace essi preparano solo ed esclusivamente lo strumento militare, che prima o poi viene impiegato nel fare la guerra. Se vogliamo uscire dalle ambiguita', dobbiamo quindi rivolgere all'intera classe politica la seguente domanda: "Siete intenzionati o meno a realizzare concretamente le condizioni perche' in tempo di pace si costruiscano delle alternative che rendano possibile l'intervento di prevenzione della guerra, di interposizione nel caso in cui essa comunque esploda e di riconciliazione quando sia finita?". In altre parole ancora: "Volete abbandonare la logica del 'si vis pacem para bellum' e imboccare la strada opposta: 'se vuoi la pace prepara la pace'?" Questa e' una domanda previa, alla quale ci aspettiamo venga data una risposta positiva che comporti un impegno concreto per affrontare la questione anche in termini economici. Quasi quindici anni fa, a partire dal 1991-1992, alcuni gruppi di base avviarono una campagna internazionale "Per la prevenzione della guerra in Kosovo". Essa opero', anche con qualche parziale successo, nella quasi totale indifferenza e ignoranza della classe politica: una ignoranza tanto abissale quanto funesta. Quando infatti si giunse al 1998, dopo le recrudescenze della guerra tra governo serbo e Uck, quel che fu fatto lo sappiamo: ci fu un intervento esclusivamente militare, promosso dalla Nato, con giustificazioni del tutto infondate. Oggi la situazione e' sempre tesa, sull'orlo perenne della guerra, ma ancora una volta nessuno di coloro che caldeggiarono l'intervento militare se ne preoccupa piu' di tanto (per un aggiornamento si veda la serie di articoli "ex-Yugoslavia-Kosovo" nel sito: http://www.transnational.org/sitemap.html). La violenza ha prodotto altra violenza e la guerra non ha risolto nessun problema. * Non possiamo limitarci a fare della retorica su questi temi, ma dobbiamo concretamente avviare un progetto di vera e propria "transizione" dallo strumento militare, prevalentemente offensivo, ad altri strumenti di intervento che siano, almeno in un primo momento, anche misti, ovvero militari e civili, ma esclusivamente difensivi. Non siamo infatti in grado di abolire da un giorno all'altro l'intero, mastodontico, complesso militare-industriale costruito nel corso degli anni, ma possiamo innescare un processo di riconversione, progettabile in tempi concreti e ragionevoli. Per limitarci a un solo esempio, osserviamo che il lavoro dei Corpi Civili di Pace italiani e internazionali e' stato avviato da oltre vent'anni, con risultati a dir poco sorprendenti, esclusivamente dal basso, con modestissime risorse senza alcun appoggio istituzionale. Basti pensare ai molteplici gruppi dalle Pbi (Peace Brigades International), che sono intervenuti con successo in Guatemala, e oggi sono presenti nello Sri Lanka e in Colombia, un paese dilaniato da una endemica guerra civile dove ciononostante e' sorta l'importante esperienza delle Comunita' di pace, di cui quella di San Jose' de Apartado' e' la piu' nota. Oppure, si pensi alla straordinaria esperienza delle Donne in nero, presenti nelle principali aree di guerra, dai Balcani al Medio Oriente, in Israele-Palestina, per limitarci ai casi piu' noti. * Una seconda riflessione, anch'essa di ordine generale, riguarda il grande arcipelago dei movimenti per la pace considerato nel suo insieme. Se da un lato esso ha realizzato una ricchissima molteplicita' di iniziative, grandi e piccole, dall'altro non ha saputo finora elaborare una piattaforma politica congiunta. Questo e' un grosso limite. Ci sono ovviamente molte proposte, forse persino troppe, ma non sono assunte in modo unitario e coerente da quell'insieme variegato di gruppi che costituiscono il cosiddetto movimento per la pace. Non esiste sinora un vero e proprio progetto politico su cui far convergere tutte le nostre modeste energie. Si assiste invece a una dispersione di iniziative, che non riescono a creare in tempi ragionevoli quella "massa critica" necessaria per far breccia nel muro di gomma della politica. * Infine intendo sottolineare un terzo e ultimo aspetto: il nostro ruolo non puo' limitarsi a quello dei pompieri che intervengono solo quando il fuoco e' stato appiccato. Certamente anche questa funzione e' importante, ma dobbiamo renderci conto che alla radice dei processi che portano alle guerre ci sono cause molto evidenti, che oggi sono ancor piu' manifeste che in passato. Una delle prime e piu' importanti e' il ben noto complesso militare-industriale-scientifico-corporativo, cosi' chiamato perche' e' una rete di interessi che comprende molteplici soggetti. Esso e' particolarmente potente e ramificato negli Usa, ma possiede una notevole influenza anche nel nostro Paese. Fu nientemeno che il presidente Eisenhower a denunciare sin dagli anni '60 del secolo scorso, il pericolo crescente che tale complesso comportava per la democrazia. Oggi e' sotto gli occhi di tutti che cosa e' successo: propaganda, complotti, bugie, promozione della guerra, colpi di stato, violazione delle leggi internazionali, torture, massacri, sono all'ordine del giorno di questa mostruosa struttura. Ma c'e', anche in casa nostra, anche nella cosiddetta sinistra, chi ritiene che si debba sostenere e rilanciare l'industria bellica, invece che riconvertirla, e aumentare ancora la spesa militare perche' "negli ultimi anni... per la difesa si e' speso poco e alla difesa si e' chiesto molto" (si veda l'intervento di Marco Minniti al convegno indetto dai Ds su "Le nuove sfide della difesa italiana", in www.vita.it/attach/61273.pdf). Questa strada e' la ricetta sicura per il fallimento e il disastro. * Una seconda causa di ordine strutturale e' la non sostenibilita' dell'attuale modello di sviluppo, sorretto da una concezione economica del tutto astratta, slegata dalla realta' e funzionale prevalentemente a una operazione di dominio dei paesi ricchi su quelli impoveriti e delle classi sociali ricche su quelle emarginate. Tutta la storia del Medio Oriente degli ultimi cinquant'anni e' sostanzialmente legata alla necessita' di controllare le fonti petrolifere, indispensabili per alimentare il folle e insostenibile progetto di crescita economica dei paesi industrializzati. Con l'ingresso di Cina e India nello scenario internazionale, questa necessita' e' diventata ancora piu' impellente e problematica. Anche l'Italia, nel suo piccolo, vi partecipa, come rivela il dossier ufficiale secondo il quale l'intervento in Iraq e la nostra presenza a Nassirya siano stati sollecitati e motivati dall'interesse dell'Eni al petrolio iracheno. La cortina fumogena di spiegazioni false, di menzogne colossali e di propaganda e' di una superficialita' tale che ci si dovrebbe indignare doppiamente: per la falsita' in se' e perche' siamo trattati come degli imbecilli privi di capacita' di intendere e di volere. * Rivolgiamo allora un'altra domanda ai politici, e a noi stessi: abbiamo intenzione, o meno, di progettare e avviare una seconda "transizione", che ci permetta di sganciare la nostra economia dal petrolio e piu' in generale dalle fonti fossili e nucleari? Le ragioni sono tante e sempre piu' impellenti: climatiche, di equilibrio, indipendenza e sicurezza internazionale, di stabilita' economica. Sapremo agire per tempo, per evitare di ritrovarci nell'arco di qualche decennio in una situazione ingovernabile, o continueremo con i soliti bla bla inconcludenti? * II. Risposte nel dibattito In un arguto articolo pubblicato sull'"Unita'" qualche anno fa, Giangiacomo Migone ricorda che quando era al liceo lui e i suoi compagni si preparavano spesso per un'interrogazione all'ultimo momento e il professore di latino li rimproverava dicendo loro "Bisogna avere studiato", intendendo che non basta studicchiare all'ultimo momento per essere preparati. Rivolgendosi a proposito della vicenda del Kosovo ai suoi colleghi di partito e piu' in generale a tutti i politici, Migone dice loro la stessa cosa: bisogna avere studiato, ovvero non si possono affrontare le questioni di politica estera all'ultimo minuto, senza neppure sapere dov'e' e cos'e' il Kosovo! L'ignoranza non paga. Da un'indagine fatta tra i parlamentari europei risultava che la stragrande maggioranza non sapeva neppure dove fosse il Kosovo. Questa ignoranza fa il paio con la totale mancanza di attenzione e di conoscenza verso quanto e' stato pensato, elaborato e studiato, da almeno quattro decenni, nel campo della peace research su scala internazionale. Non pretendo che si prendano per oro colato questi studi, ma almeno che non vengano ignorati, e se non si e' d'accordo si dica perche', in modo argomentato e non generico. La responsabilita' di questo atteggiamento si estende oltre che ai politici anche agli accademici che raramente sono disposti a mettere in discussione le loro idee e i paradigmi acquisiti. Per quanto riguarda il Kosovo, occorre ricostruire correttamente i fatti. Nell'ottobre del 1998, quando ormai una parte dei giochi era gia' precostituita, vennero create artificiosamente le condizioni per intervenire militarmente, perche' quella era la posizione caldeggiata dagli Stati Uniti per i loro interessi geostrategici (si veda la gigantesca base aerea di Blondsteel, la piu' grande del mondo fuori dai confini nazionali, costruita dagli Usa in tre mesi, nel 1999, subito dopo l'intervento e oggi adibita a prigione per sospetti terroristi, cfr. l'articolo Una Guantanamo in Kosovo, ne "La Repubblica" del 28 novembre 2005). La situazione era pesante, persino drammatica, ma non si trattava certo di genocidio. Sarebbe stato possibile inviare una consistente forza di interposizione civile, non armata, o anche mista, ma ci si e' ben guardati dal farlo. Non si invio' neppure un numero sufficiente di osservatori, e molti di quelli inviati si seppe poi che erano agenti al servizio della Cia per individuare gli obiettivi da colpire. Le commissioni d'inchiesta che dopo la guerra avevano il compito di stabilire il numero delle vittime accertate ne trovarono, per fortuna, un numero di gran lunga inferiore, di almeno un fattore dieci, rispetto a quanto ventilato a sostegno della propaganda interventista. Il grande esodo dei kosovari di lingua albanese, che sembro' giustificare l'ordine di intervento, fu provocato dai bombardamenti della Nato e non dall'esercito o dalle milizie serbe. La popolazione fu costretta e invitata a fuggire proprio per giustificare ulteriormente l'intervento. E gli aerei Nato colpirono piu' volte obiettivi civili, definiti, al solito, come "effetti collaterali". Un bellissimo video, Women in Black, da' un'idea concreta di cosa sarebbe stato possibile fare sin dal capodanno di due anni prima per abbattere il regime di Milosevic, che certamente non intendiamo difendere o giustificare, ma che non e' stato affatto l'unico responsabile di quanto e' accaduto. Il video mostra le sequenze di una straordinaria manifestazione a Belgrado che avrebbe potuto essere l'avvio di una transizione democratica, se fosse stata sostenuta opportunamente a livello internazionale. Il che avvenne dopo l'attacco militare ad opera del movimento Otpor (resistenza, in serbo), certamente discutibile, parzialmente cooptato e finanziato dalla Cia, che tuttavia seppe rovesciare Milosevic dopo le fallimentari elezioni che seguirono alla fine della guerra. In seguito, questa esperienza e' stata esportata altrove (Georgia, Ucraina, Kirghizistan) con le cosiddette "rivoluzioni colorate". Sembra che la Cia abbia scoperto che qualche volta conviene esportare la democrazia con movimenti pseudo-nonviolenti: costa meno che fare la guerra. Nonostante tutti i limiti di queste rivoluzioni manipolate dall'alto, si puo' ritenere pragmaticamente che sono pur sempre il male minore rispetto alla guerra. Ma in Iraq non e' stata scelta questa strada, che pure era ampiamente praticabile. Come ha scritto giustamente qualche giornalista, i missili in Iraq, come quelli in Kosovo, "sono partiti cinquant'anni fa", perche' non si possono combattere guerre di questo genere se non progettandole con largo anticipo. I sistemi d'arma impiegati richiedono decenni per essere realizzati, non sono certo disponibili all'ultimo momento. Sono frutto di una pianificazione, di una strategia che coinvolge l'intero complesso militare-industriale-scientifico-corporativo. La guerra non e' affatto l'extrema ratio, come sostengono farisaicamente i politici, ma la prima e unica ratio. * Per queste, e altre, ragioni e' assolutamente indispensabile modificare l'attuale modello di difesa, seppure attraverso obiettivi intermedi. Ai politici chiediamo dunque se nei prossimi programmi elettorali del 2006 sono o meno disposti a impegnarsi per trasferire il 5 % del bilancio delle spese militari alla costruzione di Corpi Civili di Pace, alla realizzazione di un modello di difesa difensivo e nonviolento, alla costruzione e diffusione di una autentica cultura della pace e della nonviolenza in tutti i settori della societa'. Questa modesta percentuale e' pari a circa un miliardo di euro. Pur essendo irrisoria per il bilancio dello stato, e' una somma incredibile per i modestissimi bilanci dei movimenti per la pace che mai hanno avuto a disposizione risorse istituzionali di tale entita' per realizzare i loro progetti. Chiediamo dunque impegni precisi e concreti, che permettano di avviare qui e ora la transizione dalla difesa offensiva a quella esclusivamente difensiva e parallelamente a quella nonviolenta. Le forze politiche devono esprimersi su questi tematiche. * Questo sarebbe un primo e decisivo passo per avviare la riconversione del complesso militare industriale, che oggi e' il pericolo numero uno delle democrazie. Nel corso di un seminario che si e' svolto qualche tempo fa presso il Centro "Sereno Regis" di Torino, un noto e autorevole docente di relazioni internazionali, Luigi Bonanate, intervenuto durante la presentazione di uno dei suoi ultimi lavori (La politica internazionale tra guerra e terrorismo, Laterza, Roma-Bari 2005) osservo' che e' indispensabile abolire il segreto militare, uno strumento che oggi viene usato per falsificare tutta quanta l'informazione relativa alla politica internazionale, per tramare nell'ombra, per mettere in pericolo le nostre democrazie, per promuovere occasioni di guerra, per perpetrare l'ingiustizia, i massacri, gli omicidi mirati. Le strutture militari in generale, e i servizi segreti in particolare, sono di fatto entite' criminali, dove si salvano solo poche persone, che vengono emarginate e talvolta uccise. Per un funzionario onesto come Nicola Calipari, ve ne sono altri mille prezzolati che complottano. I nostri parlamentari non possono limitarsi a dichiarare la loro buona fede (quando esiste). Hanno l'obbligo di documentarsi e di rispondere puntualmente alle nostre richieste, nonche' alle critiche che provengono dalle fonti piu' autorevoli e informate. Non ho mai sentito nessuno di loro, nessuno dei dirigenti e dei segretari di partito rispondere alle documentatissime critiche di autori come Johan Galtung (Ci sono alternative!, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989; Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000), William Blum (Rapporto dall'impero, Fazi, Roma 2005), Ekkehart Krippendorff (Critica della politica estera, Fazi, Roma 2004). Forse e' chiedere troppo, ma per fare politica estera, e non solo, "bisogna avere studiato!". 4. INCONTRI. AUGUSTO CAVADI: RELIGIONI IN DIALOGO, IN SICILIA [Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti:acavadi at lycos.com) per averci messo a disposizione questo suo articolo apparso nell'edizione palermitana del quotidiano "La Repubblica" il 17 gennaio 2006. Augusto Cavadi, prestigioso intellettuale ed educatore, collaboratore del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo, e' impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano di problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, nuova edizione aggiornata e ampliata Dehoniane, Bologna 2003; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003; Gente bella, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004; Strappare una generazione alla mafia, DG Editore, Trapani 2005. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori riviste antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito: http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa)] Hans Kueng, il teologo fieramente critico da decenni nei confronti di Joseph Ratzinger e che comunque il neo-eletto papa ha voluto invitare a cena in segno di stima, lo ha ribadito da decenni (anche nel recentissimo Scontro di civilta' ed etica globale, Datanews, Roma 2005): "Non c'e' pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c'e' pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni". La sua preoccupazione e' condivisa da quanti intuiscono che la dimensione simbolico-culturale s'intreccia, inestricabilmente, con la dimensione socio-politica ed entrambe concorrono a determinare il corso effettivo della storia. Se e' vero che la nostra isola ha costituito nel passato e continua a costituire un crocevia di migrazioni (ufficiali ed ufficiose), il compito di favorire questo dialogo interreligioso le spetta in maniera peculiare. Non e' dunque strano che, in queste settimane, Palermo ospitera' una serie di iniziative centrate proprio su questo obiettivo. * Si e' iniziato domenica 15 nella chiesa di S. Mamiliano in Santa Cita (via Squarcialupo, 1): alcuni salmi biblici commentati a turno, con intermezzi musicali e poetici, da esponenti di varie comunita' cristiane (cattolici, greco-ortodossi, valdesi-metodisti, anglicani ed evangelici della riconciliazione). Laddove, nell'immaginario collettivo, cristiano equivale a cattolico, e' stato possibile (direi quasi scenograficamente) rendersi conto della pluralita' di presenze cristiane nel nostro territorio. Il fatto poi che queste diverse organizzazioni religiose, non di rado in sana dialettica reciproca, riescano a trovare momenti di riflessione comune non puo' che costituire un segno incoraggiante per chi e' convinto che le differenze non vadano percepite come minaccia bensi' come risorsa. Per quanto importante, il dialogo all'interno dell'arcipelago cristiano sarebbe drasticamente insufficiente se si fermasse davanti alle frontiere con le altre religioni. Per questo e' stato rilevante l'incontro di ieri, presso il Liceo "Umberto I", con Bruno Segre su "Ebraismo e laicita'". Il relatore non e' solo un noto studioso dell'ebraismo in Italia, ma anche attivo presidente dell'associazione "Amici di Neve' Shalom". E' questo il nome ebraico di un villaggio (situato in Israele, su una collina a meta' strada tra Gerusalemme e Tel Aviv) che ha anche il nome arabo Wahat al-Salam: entrambe le denominazioni significano "osai di pace". E' infatti il laboratorio pionieristico in cui venticinque famiglie di ebrei e venticinque famiglie di palestinesi, in tutto centosessanta uomini e donne, da trent'anni coabitano e lavorano gomito a gomito. Con l'orgoglio, ma anche la fatica, di considerare Neve' Shalom / Wahat al-Salam la loro casa comune. Dal ceppo ebraico-cristiano e' derivata, grazie alla creativita' di un geniale mercante arabo del VII secolo, la terza grande religione del Libro. Molto opportunamente, dunque, il dialogo fra ebrei e cristiani si allarga all'islam, la versione del monotesimo che maggiori preoccupazioni - talora fondate, molto spesso infondate - sta suscitando in Occidente. Oggi, sempre nella nostra citta' (questa volta nell'Auditorium del "Centro educativo ignaziano" di via Piersanti Mattarella) avra' luogo un dibattito a due voci (tra il gesuita Samir Kalil Samir e l'editorialista di "Repubblica" Khaled Fuad Allam) su "Cristianesimo e islam: conflitto di civilta' o integrazione pacifica?". * Come e' stato acutamente osservato dal filosofo Luigi Lombardi Vallauri, sarebbe da ingenui rallegrarsi per la sola notizia che ebrei, cristiani e islamici imparino a parlarsi. Non e' secondario, infatti, sapere cosa si dicono. Qualora infatti la convergenza, teorica ed operativa, dovesse avvenire verticisticamente tra le gerarchie piu' conservatrici delle tre confessioni religiose, il risultato sarebbe una temibile triade cementata da una comune ispirazione integralista, se non addirittura fondamentalista. Ben diverso si squadernerebbe il panorama qualora il dialogo si realizzasse anche, e soprattutto, a livello di base e con uno spirito di ricerca, di autocritica, di apertura alle ricchezze altrui. Senza la convinzione che la propria tradizione teologica possieda tutta la verita' e soltanto la verita'. In una parola: se tra credenti nell'unico Dio ci si incontrasse per approfondire, insieme alla fede, la propria piu' genuina laicita'. 5. RILETTURE. ENZA BIAGINI: SIMONE DE BEAUVOIR Enza Biagini, Simone de Beauvoir, La Nuova Italia, Firenze 1982, pp. 192. Una bella monografia su una delle pensatrici e delle testimoni piu' rilevanti della cultura del Novecento. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini@t in.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1179 del 18 gennaio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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