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La nonviolenza e' in cammino. 1176
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1176
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 15 Jan 2006 01:46:45 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1176 del 15 gennaio 2006 Sommario di questo numero: 1. Ida Dominijanni: Il silenzio 2. Renato Raffaele Martino: La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori 3. Enrico Peyretti: La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori. Un commento al testo che precede 4. Wislawa Szymborska: Il poeta e il mondo 5. Un incontro con Cindy Sheehan a Roma il 18 gennaio 6. Due incontri con Cindy Sheehan e Alice Mahon a Torino il 19 e 20 gennaio 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: IL SILENZIO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 gennaio 2006. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005] "Usciamo dal silenzio", lo slogan che ha accompagnato la preparazione delle manifestazione sull'aborto di sabato a Milano in concomitanza con quella sui Pacs a Roma, e' uno slogan da discutere. In verita' sull'aborto, e su una vasta materia connessa che riguarda la procreazione e la sessualita', dal silenzio le donne sono uscite piu' di trent'anni fa, e non ci sono mai piu' rientrate. Non va scambiata per silenzio una produzione di parola e di sapere che manca la scena politica e mediatica ufficiale; perche' proprio con la battaglia di trent'anni fa sull'aborto, che non fu fatta solo di manifestazioni ma soprattutto di elaborazione, e' diventato chiaro una volta per tutte che l'ordine del discorso della politica delle donne eccede quello della politica ufficiale, delle sue parole d'ordine riduttive, dei suoi schieramenti rigidi. Il che non vuol dire che questa distanza vada incoraggiata - al contrario, andrebbe ridotta; vuol dire pero' prendere bene le misure del conflitto in corso sull'aborto, sulla procreazione, sulla sessualita'. Letizia Paolozzi, ad esempio, giustamente si chiede (www.donnealtri.it) se a essere sotto attacco oggi sia l'aborto come tale, o non piuttosto "la parola delle donne, giudicata poco credibile, poco seria, irresponsabile". E chiunque abbia seguito le argomentazioni zelanti dei teocon nostrani in questi mesi, nonche' la debole risposta della cultura laica, sa quanto l'una e l'altra si avvalgano di una sistematica adulterazione della parola femminile (la riduzione dell'aborto a diritto, del desiderio a capriccio, del primato femminile nella procreazione a strapotere autarchico e via dicendo). Un effetto auspicabile della manifestazione di sabato e' che questa parola torni piu' potentemente in circolo e contamini esperienze e generazioni diverse, anche al di la' della manifestazione stessa e del suo impatto immediato. Non si tratta di "trasmettere" ad altre l'esperienza degli anni settanta: la genealogia femminile non vive di trasmissione ma di scommesse, non si nutre solo di continuita' ma anche e soprattutto di differenze. Cio' che scarta dalla battaglia per l'aborto di trent'anni fa e' rilevante quanto cio' che le assomiglia; e dunque e' tanto importante ricostruire il discorso sull'aborto di allora, quanto rilanciarlo all'altezza delle domande di oggi. Ed e' infatti su questo crinale fra continuita' e discontinuita' che molte si interrogano nei siti femministi (un segno non trascurabile del mutamento intervenuto nelle forme della comunicazione e della scrittura). Il rifiuto di ridurre l'aborto a un diritto; la consapevolezza del carattere compromissorio della 194 di quante volevano che l'aborto fosse semplicemente depenalizzato; l'autocoscienza sui legami fra aborto e sessualita' maschile: le "scoperte" degli anni settanta (una utilissima ricostruzione in un interv ento di Laura Colombo, www.libreriadelledonne.it) possono funzionare da griglia per non affidarsi oggi alla grammatica dei diritti, per non attestarsi su una trincea puramente difensiva (Luisa Muraro, stesso sito), per squarciare il silenzio sulla sessualita', e soprattutto sulla sessualita' maschile e sullo stato attuale dei rapporti fra donne e uomini, che il rumore sull'aborto copre. Giacche' se silenzio c'e', e' soprattutto nel campo degli uomini che va denunciato. Ancora Letizia Paolozzi si chiede se nell'aggressivita' politica maschile di oggi contro l'aborto sia piu' giusto vedere "un desiderio di revanche contro la liberta' femminile o la spinta ad assumersi una nuova responsabilita'", che pure non trova le parole per dirsi. Lea Melandri (in un articolo su "Liberazione" riportato nel gia' citato sito della Libreria delle donne di Milano) mette in guardia dal rischio che la pura riaffermazione del primato femminile nella procreazione presti il fianco "alla misoginia di ogni tipo", e alle "paure profonde" che riattivano negli uomini "il fantasma di una madre distruttiva e poco accogliente" (Sara Gandini). La stessa Gandini, con l'intento di "interpretare il presente partendo dalle conquiste del passato", traccia una discriminante interessante fra ieri e oggi: se ieri la riappropriazione del desiderio femminile richiedeva il taglio della separazione dagli uomini, oggi viceversa la liberta' femminile guadagnata consente e domanda una relazione piu' forte con l'altro sesso. Nella quale gli uomini accettino lo squilibrio del primato femminile nella procreazione, ma mettano in gioco la loro esperienza. La prima parola e l'ultima restano femminili, ma in mezzo non puo' esserci vuoto di parola maschile. 2. RIFLESSIONE. RENATO RAFFAELE MARTINO: LA PACE TRA PACIFICI, PACIFISTI E PACIFICATORI [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci inviato - insieme al suo commento di seguito riprodotto - il seguente testo del cardinal Martino su "La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori" estratto da Renato Raffaele Martino, Pace e guerra, Cantagalli, 2005. Renato Raffaele Martino, cardinale, e' presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace; dal sito www.vatican.va riprendiamo i seguenti brevi cenni biografici a cura della sala stampa della Santa Sede: "Il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, e' nato a Salerno il 23 novembre 1932. E' stato ordinato sacerdote il 20 giugno 1957 e ha conseguito la laurea in diritto canonico. E' entrato nella diplomazia vaticana nel 1962 ed ha lavorato nelle nunziature di Nicaragua, Filippine, Libano, Canada e Brasile. Tra il 1970 e il 1975 e' stato responsabile della sezione per le organizzazioni internazionali della Segreteria di stato. Il 14 settembre 1980 e' stato nominato arcivescovo titolare di Segerme e pro-nunzio in Thailandia, delegato apostolico in Singapore, Malaysia, Laos e Brunei, ricevendo l'ordinazione episcopale il 14 dicembre dello stesso anno dalle mani dell'allora segretario di stato, cardinale Agostino Casaroli, nella basilica romana dei Santi Dodici Apostoli. Nel 1986 ha ricevuto l'incarico di osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite di New York. E' stato il terzo ecclesiastico a ricoprire questo alto mandato, dopo mons. Alberto Giovanetti e l'arcivescovo, poi cardinale, Giovanni Cheli. In questa veste ha partecipato attivamente alle maggiori Conferenze internazionali promosse dall'Onu, in particolare a New York (Usa) nel 1990 al Summit mondiale sull'infanzia; a Rio de Janeiro (Brasile) nel 1992 al Vertice su ambiente e sviluppo; nel 1994 alle Barbados alla Conferenza sui piccoli stati insulari in via di sviluppo, e nello stesso anno al Cairo (Egitto) alla Conferenza su popolazione e sviluppo; a Pechino (Cina) nel 1995 alla Conferenza sulle donne; a Istanbul (Turchia) nel 1996 a quella sull'habitat; a Roma nel 1998 alla Conferenza diplomatica dei plenipotenziari per l'istituzione della Corte penale internazionale; a New York nel 2000 per il summit del millennio; a Monterrey (Messico) nel 2002 alla Conferenza sul finanziamento per lo sviluppo. Ancora nel 2002 a Madrid (Spagna) all'Assemblea sugli anziani e, sempre nello stesso anno, a Johannesburg (Sud Africa) alla Conferenza sullo sviluppo sostenibile. Notevole eco poi hanno avuto costantemente i suoi numerosi interventi alle Assemblee dell'Onu dal 1987 al 2002, trattando i piu' vari argomenti, dal disarmo allo sviluppo, dalla poverta' alla difesa dei diritti dei minori, dalla Palestina ai rifugiati, alla liberta' religiosa e alla promozione dei diritti umani. Nel 1991, nell'ambito delle sue funzioni alle Nazioni Unite, ha istituito la "Path to Peace Foundation" allo scopo di sostenere e potenziare le iniziative della Missione della Santa Sede all'Onu. Dopo sedici anni passati alle Nazioni Unite a New York come osservatore permanente della Santa Sede, e' stato chiamato da Giovanni Paolo II il I ottobre 2002 a guidare il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. E' succeduto in questo incarico a personalita' prestigiose come il cardinale francese Roger Etchegaray e il compianto cardinale vietnamita Francois-Xavier Nguyen Van Thuan. Gia' all'inizio del mandato ha rivolto il suo interesse alla difficile situazione in Venezuela e al grave conflitto civile in Costa d'Avorio. Soprattutto non ha fatto mancare la sua voce sulla tragica situazione in Medio Oriente. Nel XL anniversario dell'enciclica Pacem in terris, durante tutto l'anno 2003, e' stato impegnato in numerose sedute di studio, dibattiti e conferenze sull'attualita' e sull'importanza dell'enciclica di Giovanni XXIII. Il 25 ottobre 2004, il dicastero guidato dal cardinal Martino ha pubblicato l'atteso Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. Nel marzo 2005 il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, in collaborazione con diversi Istituti universitari cattolici si e' fatto promotore di un congresso internazionale in Vaticano per celebrare il XL anniversario della costituzione conciliare Gaudium et spes. Per la sua costante attivita' in favore delle pacifiche e proficue relazioni tra i popoli, della promozione umana e della cultura, al cardinal Martino sono state conferite numerose lauree honoris causa ed onorificenze. Da Giovanni Paolo II e' stato creato e pubblicato cardinale nel Concistoro del 21 ottobre 2003, diacono di S. Francesco di Paola ai Monti. E' altresi' membro della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli; del Pontificio Consiglio 'Cor Unum'; dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica; della Pontificia Commissione per lo Stato della Citta' del Vaticano"] 1. La pace e' un patrimonio della persona, una sua qualita' etica e spirituale. Pacifiche non sono primariamente le istituzioni, i trattati internazionali, le relazioni fra le cancellerie. Pacifico e' prima di tutto l'uomo, ogni singola persona capace, per dono di Dio e per virtu' propria, di vivere un rapporto non conflittuale con se stessa e con gli altri. La pace e' la ricchezza umana propria degli uomini di pace, dei "pacifici" di cui parla Gesu' nel discorso della montagna: "Beati gli operatori di pace, perche' saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5, 9). Il messaggio di salvezza di Cristo riguarda anche tutte le realta' secolari, ma la sua proposta si rivolge innanzitutto e direttamente al cuore dell'uomo e da li' passa anche alle relazioni interpersonali e alle strutture. Non avremo mai strutture di pace senza uomini di pace, persone pacifiche. Troppo spesso, in passato, ci si e' illusi che a garantire un mondo di pace bastassero dei meccanismi e dei processi strutturali senza piu' bisogno di uomini pacifici. Quale e' la principale risorsa per la pace? Certamente le intese internazionali, il prevalere del diritto e della legge, gli organismi e le agenzie che operano per essa sono tutte risorse importanti, e tuttavia secondarie e indirette. Cause strumentali, potremmo dire, perche' la principale risorsa sono gli uomini di pace, i pacifici. * 2. L'uomo di pace semina la pace attorno a se', da lui essa si diffonde in cerchi concentrici alle persone vicine, all'ambiente di lavoro e via via a tutte le relazioni in cui egli e' impegnato, alla societa'. L'uomo di pace e' pacifico sempre, in ogni occasione della vita, in quanto la pace appartiene al suo essere, e' un habitus che egli non dismette. Gli atteggiamenti di pace gli vengono spontanei ed egli vive con grande serenita' una moralita' della pace tale che la lotta e la guerra non trovano nemmeno udienza al suo cospetto. * 3. Pacifista e', invece, chi si mobilita per la pace e ne fa un progetto sociale e politico. Il pacifismo e' una cosa buona ma puo' anche degenerare. Esso trae tutti i propri frutti positivi solo se e' portato avanti da uomini di pace. Si puo' dire che l'autentico pacifismo dipende dall'essere pacifici. Il pacifismo senza protagonisti pacifici rischia addirittura di tradire lo scopo della pace. Puo' diventare una ideologia, manichea nei suoi giudizi e perfino intollerante, insensibile alla complessita' delle situazioni, alle responsabilita' in gioco, ai tempi che talvolta sono richiesti perche' una prospettiva maturi progressivamente. Questo pacifismo non si accontenta di testimoniare, vuole convincere, acquisire consenso, tradursi in proposta vincente e, quindi, anche di potere. Si tratta di aspettative e di processi legittimi che possono pero' adoperare, per raggiungere i risultati, la violenza delle parole e degli atteggiamenti, l'esclusione e il facile giudizio, la scelta di parte assolutizzata come l'unica espressione di un autentico pacifismo. IL pacifismo e' utile perche' diffonde una passione per la pace e crea occasioni di educazione vicendevole all'ideale della pace, ma ha bisogno di essere continuamente emendato, ricondotto alle sue ragioni piu' profonde, ossia alla pace che alberga nei cuori degli uomini pacifici. A ben rileggere la storia del pacifismo, ci si accorge, in effetti, che esso ha avuto tanto piu' successo quanto piu' e' riuscito a incarnarsi in uomini pacifici. E' riuscito a mobilitare le coscienze e a ottenere anche concreti risultati politici proprio in quanto i suoi protagonisti hanno saputo guidare il movimento pacifista mediante le loro qualita' di uomini pacifici, liberi e disponibili al richiamo della pace. * 4. Il pacifismo nel senso ora descritto non va confuso con la testimonianza profetica per la pace, di cui parlero' piu' avanti. Il Concilio Vaticano II elogia "coloro che, rinunciando all'azione violenta nel rivendicare i diritti, ricorrono a mezzi di difesa che sono alla portata anche dei piu' deboli, purche' cio' si possa fare senza lesione dei diritti e dei doveri degli altri o della comunita'" (Gs, 78). Nella chiesa e' sempre esistito un atteggiamento decisivo e audace che punta esclusivamente all'utilizzo di forme di difesa non violenta e si assume il compito di una testimonianza profetica della pace e della comunione del Regno. Chi compie tali scelte viene spesso chiamato "pacifista", ma io preferirei definirlo "testimone profetico della pace", in quanto egli si ispira immediatamente alle parole di Cristo e non si pone nell'ottica del movimento politico cui la parola "pacifismo" allude. Il testimone profetico della pace e' piuttosto affine al pacifico di cui si e' detto in precedenza, solo vi aggiunge una chiara testimonianza esterna, disposto a pagarne le conseguenze. * 5. Nell'ultimo decennio del millennio scorso e in questi primi anni del presente la Chiesa e il papa Giovanni Paolo II hanno levato fortemente la propria voce contro la guerra, ma, come e' stato giustamente osservato, "il papa non puo' essere qualificato come pacifista" (A. Riccardi, Governo carismatico. 25 anni di pontificato, Mondadori, 2003, p. 165). Innanzitutto perche' egli ha sempre reso onore a chi ha offerto la propria vita per la salvezza della patria; secondariamente perche' non ha mai condannato a senso unico le guerre, ma sempre e solo "la" guerra, ed e' stato, spesso, l'unico a rammentare alla coscienza dell'umanita' anche tante guerre "dimenticate"; in terzo luogo perche' e' stato tra i primi a ipotizzare anche forme adeguate di intervento umanitario e di interposizione (cfr Messaggio per la pace 2000). Ma soprattutto Giovanni Paolo II non puo' essere annoverato tra i pacifisti per via di quella sapienza del realismo cristiano secondo cui l'unico modo di servire la pace e' di non impossessarsene, ma di lasciarsi, invece, da essa conquistare. Nel pacifismo militante c'e', in fondo, una volonta' di possedere la pace e di imporla. Non c'e' dubbio che essa debba anche essere posta e, entro certi limiti, imposta, ma e' altrettanto vero che la pace deve germinare e crescere. La si puo' coltivare, produrla e' difficile. La sapienza del realismo cristiano sa bene che la pace e' un dono di Dio prima che una conquista umana, sa anche che la pace piena non e' cosa di questo mondo e, quindi, con pazienza, spinge a lasciarsi conquistare dalla pace piuttosto che a conquistarla. Non si diventa "operatori di pace" se non ci si e' resi capaci di accogliere la pace dentro di se'. * 6. Eccoci, cosi', al pacificatore. Egli trae alimento da suo essere un uomo di pace per collegarsi ad altri uomini di pace e, come tale, inserirsi dentro le situazioni storiche di conflitto per portare parole, atteggiamenti e soluzioni di pace. Se quello del pacifico e' un modo di essere e il pacifismo un processo, quella pacificatrice e' un'azione. Quanto il pacifismo puo' essere utopistico e astratto, tanto l'azione pacificatrice e' concreta e realistica. Quanto il pacifismo semplifica, giudica e talvolta condanna, tanto l'azione pacificatrice vuole invece capire la complessita', aiutare a crescere, proporre soluzioni migliorative, convertire alla pace convertendosi ad essa. Il pacificatore entra nei conflitti della storia e si fa lievito. Se il pacifismo e' guidato spesso dall'ideologia e percorre un progetto politico, il pacificatore, "operatore di pace", e' guidato prima di tutto dall'amore, perche', come scriveva Agostino, "avere la pace significa amare". In questo senso, davanti ai molteplici conflitti verificatisi durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, e specialmente in occasione della guerra in Iraq, il Santo Padre ha piu' volte invitato ad essere uomini di pace e a farsi pacificatori. Proprio lui, infatti, stabili' una netta distinzione fra "pacifismo" e "apostolato della pace" (cfr A. Riccardi, Governo carismatico, p. 166). Per essere seminatori di pace (cfr Gc. 3, 18) occorre essere personalmente pacifici: "Vivete in pace e il Dio dell'amore e della pace sara' con voi" (2 Cor 13, 11; cfr anche Rom 12, 18; 1 Ts 5, 13). * 7. La distinzione fra i tre termini - pacifico, pacifista, pacificatore - trova alimento nel primato della pace intesa come dono di Dio rispetto alla pace concepita come conquista dell'uomo. Senza la distinzione di questi due livelli complementari non si capirebbe mai perche' i primi pacificatori sono gli uomini di preghiera. Ne' si capirebbero le due grandi iniziative di preghiera proposte da Giovanni Paolo II e attuate ad Assisi nel 1986 e nel 2002. la pace e' prima di tutto un dono di Dio: "Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace. Non come la da' il mondo, io la do a voi" (Gv 14, 27). La consapevolezza che gli uomini da soli non sanno darsela pone in crisi il pacifismo ideologico e apre lo spazio per i pacifici e i pacificatori. * 8. Nel discorso del 1987 al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Giovanni Paolo II immaginava una probabile domanda alla quale subito dava risposta. Ecco la domanda: "Alcuni diplomatici si chiederanno forse: come puo' la preghiera per la pace promuovere la pace?". Ed ecco la risposta: "Il fatto e' che la pace e' innanzitutto un dono di Dio". * 9. C'e' bisogno di uomini pacifici e pacificatori perche' la pace non sara' mai solo un frutto di funzionamenti strutturali o di meccanismi giuridici e politici. Una pace "impersonale", frutto di logiche indipendenti dalla persona, e' una contraddizione in termini. Nelle pagine precedenti non si e' inteso altro che profilare, in alcune delle sue linee essenziali, la prospettiva - concettuale, spirituale e relazionale - di una umanita' "pacifica e pacificatrice". 3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: LA PACE TRA PACIFICI, PACIFISTI E PACIFICATORI. UN COMMENTO AL TESTO CHE PRECEDE [Ringraziamo Enrico Peyretti per questo intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario] Un amico impegnato in un movimento cattolico per la pace mi chiede un'opinione su una pagina del libro "Pace e guerra" del presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, card. Renato Raffaele Martino. Ho trascritto la pagina aggiungendovi la numerazione dei singoli capoversi per semplificare i riferimenti. Faro' alcune osservazioni che sono correnti nella cultura di pace intesa come nonviolenza attiva. * E' ben vero che la pace e' una qualita' delle persone (capoverso 1), ma non meno e' una qualita' della relazione tra le persone. Ha radici interiori, ma fiorisce nella relazione. Solo la pace interiore, la pace con se stessi, di chi non e' intimamente scisso, e' una qualita' tutta personale, sebbene anch'essa dipenda non poco dalla qualita' delle relazioni che si hanno o si sono avute con gli altri, e si manifesti principalmente nella buona relazione con gli altri. La beatitudine evangelica non parla di persone "in pace", ma di coloro che "fanno pace", operano per la pace, costruiscono pace: "eirenepoioi" (Matteo 5, 9). Riguarda direttamente la pace delle giuste relazioni sociali, non principalmente la tranquillita' individuale (che, anzi, Gesu' e' venuto a turbare). L'odierna cultura di pace non e' cosi' ingenua e superficiale da affidarsi solo agli strumenti giuridici e politici. Sa bene che la pace si radica dentro la persona, nella educazione interiore, nella sanita' psicologica, nella comunicazione aperta e rispettosa. Per tutto questo, la pace va vista come una realta' allo stesso tempo personale e sociale. Il rapporto tra le due dimensioni mi sembra debba essere visto come circolare, senza un prima e un dopo. Ognuno dei due momenti nasce dall'altro e produce l'altro. * "L'uomo di pace semina la pace attorno a se'" (capoverso 2): questo e' un fatto, ma non e' tutta la verita'. Una generosa ingenuita' delle persone buone fa loro pensare che basti essere buoni perche' ci sia pace nelle relazioni, nella societa'. Non basta. Persone buone in strutture cattive fanno cose cattive. Un buon padrone di schiavi non odia e non maltratta i suoi schiavi, ma, fin quando non li riconosce liberi come lui, mantiene la struttura della schiavitu', che e' in se' un rapporto ingiusto, diseguale, percio' una struttura violenta. Quel padrone e' buono, ma fa una cosa cattiva. Un buon marito, ama e rispetta la moglie, ma, se la ritiene per natura e diritto inferiore a se', e' un marito buono nelle azioni e violento nelle idee. Ma le idee violente producono sempre, qua o la', fatti violenti. La violenza non e' solo quella fisica, ma, piu' profondamente, quella strutturale e, ancor piu', quella culturale. Vedere la radice culturale (mentale, interiore) della violenza, non permette di perdere di vista le concrezioni della violenza nelle strutture sociali e tradizionali, che producono violenza oggettiva degli atti. E viceversa: la bonta' dei singoli atti e comportamenti, non deve far perdere di vista la violenza consolidata in strutture e forme sociali ingiuste, giustificate da idee ingiuste e violente. Bisogna che le persone spirituali, preziose per la pace, si guardino dallo spiritualismo, che riduce la visione intera della realta'. Lo spirito puo' essere forte, ma la carne - cioe' le forme sociali storiche - possono essere deboli, scarse di giustizia, ingiuste. Altrimenti, ecco che i potenti violenti onorano i discorsi spirituali di pace personale e privata e continuano nella loro violenza pubblica. * Del pacifismo, l'Autore di questa pagina parla soprattutto con sospetto (capoverso 3): puo' degenerare, tradire lo scopo della pace, diventare una ideologia, voler vincere, farsi un potere violento. Eh! Sembra piu' pericoloso della guerra! E' utile il pacifismo, dice Martino, diffonde passione per la pace e educa alla pace, ma deve essere sempre "emendato", cioe' ricondotto alla pace interiore. Ora, se un pacifismo e' coerente, se cioe' non condanna solo alcune guerre, ma tutte, e' buona cosa. Sara' meno credibile se non e' un'azione di persone giuste, e tuttavia chiede alla politica una cosa giusta. Il suo limite e' di essere unicamente contro la guerra, che e' solamente la forma piu' grossolana e vistosa di violenza, ma non la piu' profonda e grave. Percio' la nonviolenza vale piu' del pacifismo, perche' lo include ma lotta soprattutto contro le piu' profonde violenze, strutturali e culturali, coi mezzi forti dell'umanita' e della verita'. * "Testimone profetico della pace" (capoverso 4) e' il termine con cui questo testo chiama, senza nominarli, i nonviolenti (citando il Concilio, Gaudium et Spes 78). Sembra pero' che la loro ispirazione sia soltanto religiosa cristiana, il che non e' giusto, perche' ci sono molti nonviolenti di altre religioni, o senza religione, ma con forte sensibilita' umana. Scrive Martino che "nella chiesa e' sempre esistito un atteggiamento decisivo e audace che punta esclusivamente all'utilizzo di forme di difesa non violenta". Due osservazioni doverose: scrivendo "non violenta" in due parole staccate, l'idea che si esprime e' negativa: difesa senza uso di mezzi violenti. Ma la "nonviolenza" - che, per questa ragione, si scrive ormai correntemente negli studi specifici in parola unica - e' idea e pratica positiva: dice la resistenza e la lotta giusta con mezzi giusti (le molte tecniche e le regole morali dell'azione nonviolenta), piu' profondamente forti ed efficaci della violenza che vuole difendere alcuni con l'offendere e l'uccidere altri. Seconda osservazione: e' vero che nella chiesa ci sono sempre state persone individualmente nonviolente, ma non e' proprio vero che nella chiesa abbia avuto consistenza e riconoscimento la nonviolenza come forma di difesa collettiva; normalmente l'istituzione ecclesiale, fino ad oggi, assolve le coscienze che obbediscono all'autorita' politica anche nel fare la guerra e, fino al Concilio, condannava per superbia morale e presunzione chi facesse obiezione di coscienza al dovere militare di uccidere. La dottrina morale ufficiale non condannava ne' criticava le teorie e le pratiche politiche che con tutta facilita' giustificavano le guerre. L'autorita' religiosa si e' per lo piu' dimostrata piu' delicata coi potenti che con le coscienze dei "testimoni profetici della pace". Molti di questi testimoni sono stati lasciati soli o, peggio, condannati. Oggi l'autorita' ecclesiastica esorta i potenti a non fare la guerra, ma non accompagna le coscienze pacifiche ad opporre disobbedienza civile ai comandi di guerra. E' vero o non e' vero? Questo non si puo' negare per amor di chiesa. * Nella giusta rivendicazione dell'azione degli ultimi papi per la pace (capoverso 5; ma si doveva cominciare da Giovanni XXIII), la prima strana preoccupazione di Martino e' difendere i papi - specialmente Giovanni Paolo II - dalla qualifica di "pacifisti", per tre ragioni (proposte da Andrea Riccardi). La prima e' questa: ha sempre reso onore a chi e' morto per la patria, cioe' ai militari. Vale a dire: non ha messo in discussione la difesa militare. Chi muore militare, muore dopo aver ucciso, o perche' non e' riuscito ad uccidere. Senza mancare di pieta', e senza giudicare le coscienze, bisogna pure, nella ricerca della pace, giudicare l'uso del dare la morte per comando politico. Che ne e' del comandamento di "non uccidere" in questa sbrigativa assoluzione, attribuita a papa Wojtyla, dell'azione militare, per timore di vederlo accomunato ai "pacifisti", cioe' appunto a coloro che, credenti o non credenti in Dio, in nome del "non uccidere", vogliono che anche nelle contese politiche si obbedisca a questa sua parola? La seconda ragione per cui il papa non e' pacifista, secondo Riccardi e Martino, e' che non ha mai condannato "a senso unico" le guerre, come se tutti i pacifisti, per definizione, condannassero alcune guerre e non altre, a loro comodo. Questo discorso non e' giusto ne' corretto. La terza ragione e' che quel papa, tra i primi, ha ipotizzato nel 2000 forme di intervento umanitario e di interposizione. Si puo' dire questo solo ignorando, o volendo ignorare, per dare lustro indebito al papa, che tali azioni sono ben precedenti, per iniziative dal basso del popolo della pace. Papa Wojtyla ha veri meriti nella ricerca della pace e non merita che gli si attribuiscano primati non suoi. Ma c'e' una quarta ragione (ripresa dal capoverso 3): il pacifismo e' soprattutto una cosa brutta, perche' non ha la "sapienza del realismo cristiano", e perche' e' volonta' di imporre la pace (che sarebbe, ohibo', impedire al proprio governo di fare la guerra), invece di attenderla come dono di Dio e lasciarsene conquistare nell'intimo. Cosi' siamo di nuovo allo spiritualismo iniziale, riduzione unilaterale della spiritualita' pacifica staccata dall'azione civile e politica, che ne e' il sano frutto. * Siamo, cosi', alla figura del "pacificatore" (capoverso 6), o "operatore di pace": e' colui che agisce in modo concreto e realistico nei conflitti storici portando parole, atteggiamenti e soluzioni di pace. Confrontata col pacifismo, mosso spesso da "ideologia" e "progetto politico" (e' forse un male?), l'azione pacificatrice e' invece mossa dall'amore (perche', nel pacifismo non c'e' amore?). Questa insistenza stucchevole a denigrare il pacifismo (i nonviolenti ne criticano i limiti, ma non lo disprezzano) e a prenderne accuratamente le distanze, costringe a sospettare che il diplomatico ecclesiastico si preoccupi di non trovarsi tra i critici dei governi dalle politiche bellicose. Aggiungo: stiamo attenti almeno al linguaggio: il titolo di "pacificatore" spesso e' stato fatto proprio da azioni militari che hanno violentemente represso moti popolari anche giusti. "Pacificazione" e' nella storia per lo piu' il nome dato alla conquista, e dunque quella "imposizione di pace" che Martino attribuisce invece stranamente al pacifismo. Ricordiamo tutti Tacito: "Dove fanno un deserto lo chiamano pace" (De vita et moribus Julii Agricolae, cap. 30). E ricordiamo "L'ordine regna a Varsavia", detto alla Camera dal ministro degli esteri francese dopo la durissima repressione russa, nel settembre 1831. Anche la guerra statunitense in Vietnam ebbe il nome di "pacificazione". * L'Autore afferma semplicemente (capoverso 7) "il primato della pace intesa come dono di Dio rispetto alla pace concepita come conquista dell'uomo" e che "i primi pacificatori sono gli uomini di preghiera". La prima cosa, io dico che si puo' pensare anche della salute fisica, ma non per questo vedo meno necessaria la nostra cura attiva della salute. Dio ha messo il mondo nella nostre mani, affidato alla nostra responsabilita': mentre crediamo e invochiamo il suo aiuto interiore, dobbiamo gestire il mondo come se dipendesse esclusivamente da noi. Io credo davvero nell'efficacia storica della preghiera, che da' forza spirituale all'azione, eppure quando la preghiera e' - come e' spesso - restituire a Dio il compito che egli ha dato a noi, allora non e' con questa preghiera che si opera per la pace. La Chiesa cattolica ha colpe storiche e meriti recenti riguardo alla pace. Farebbe bene, per giustizia, a non rivendicare troppo e, sempre nella forma propria delle sue funzioni e competenze, ad affiancarsi, senza paternalismi ne' strumentalizzazioni, ma anche senza ingiusti sospetti, al movimento mondiale per la pace, piuttosto che agli stati armati. Grazie a Dio, tanti cristiani sono dentro quel movimento, attivi e pensanti, senza le preoccupazioni anguste delle diplomazie istituzionali. 4. RIFLESSIONE. WISLAWA SZYMBORSKA: IL POETA E IL MONDO [Dal sito de "Il porto ritrovato" (www.ilportoritrovato.net) riprendiamo il discorso tenuto da Wislawa Szymborska il 7 dicembre 1996 in occasione del conferimento del premio Nobel per la letteratura. Il testo e' estratto da Wislawa Szymborska, Vista con granello di sabbia. Poesie 1957-1993, Adelphi, Milano 1998. Wislawa Szymborska, poetessa, premio Nobel per la letteratura 1996, e' nata a Bnin, in Polonia, nel 1923; ha studiiato lettere e sociologia a Cracovia, dove risiede; dal 1953 al 1981 collaboro' alla rivista "Vita letteraria", nel 1980, sotto lo pseudonimo di Stancykowna, alle riviste "Arka" e "Kultura"; ltre al Nobel ha ricevuto per la sua opera poetica altri importanti riconoscimenti: nel 1954 il Premio per la letteratura Citta' di Cracovia, nel 1963 il Premio del ministero della cultura polacco, nel 1991 il Premio Goethe, nel 1995 il Premio Herder e la Laurea ad honorem dell'Universita' di Poznan "Adam Mickiewicz", nel 1996 il Premio "Pen - Book of the Month Club Translation Prize". Trale opere di Wislawa Szymborska in edizione italiana: La fiera dei miracoli, Scheiwiller, Milano 1994; Gente sul ponte, Scheiwiller, Milano 1996; La fine e l'inizio, Scheiwiller, Milano 1997; Trittico: tre poesie di Wislawa Szymborska, tre collage di Alina Kaczylska, Scheiwiller, Milano 1997; 25 poesie, Mondadori, Milano 1998; Vista con granello di sabbia, Adelphi, Milano 1998; Taccuino d'Amore, Scheiwiller, Milano 2002; Discorso all'Ufficio oggetti smarriti, Adelphi, Milano 2004] In un discorso, pare, la prima frase e' sempre la piu' difficile. E dunque l'ho gia' alle mie spalle... Ma sento che anche le frasi successive saranno difficili, la terza, la sesta, la decima, fino all'ultima, perche' devo parlare della poesia. Su questo argomento mi sono pronunciata di rado, quasi mai. E sempre accompagnata dalla convinzione di non farlo nel migliore dei modi. Per questo il mio discorso non sara' troppo lungo. Ogni imperfezione e' piu' facile da sopportare se la si serve a piccole dosi. * Il poeta odierno e' scettico e diffidente anche - e forse soprattutto - nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta - quasi se ne vergognasse un po'. Ma nella nostra epoca chiassosa e' molto piu' facile ammettere i propri difetti, se si presentano bene, e molto piu' difficile le proprie qualita', perche' sono piu' nascoste, e noi stessi non ne siamo convinti fino in fondo... In questionari o in conversazioni occasionali, quando il poeta deve necessariamente definire la propria occupazione, egli indica in genere "letterato" o nomina l'altro lavoro da lui svolto. La notizia di avere a che fare con un poeta viene accolta dagli impiegati o dai passeggeri che sono con lui sull'autobus con una leggera incredulita' e inquietudine, Suppongo che anche un filosofo susciti un eguale imbarazzo. Egli si trova tuttavia in una situazione migliore, perche' per lo piu' ha la possibilita' di abbellire il proprio mestiere con un qualche titolo scientifico, professore di filosofia - suona molto piu' serio. Ma non ci sono professori di poesia. Se cosi' fosse, vorrebbe dire che si tratta d'una occupazione che richiede studi specialistici, esami sostenuti con regolarita', elaborati teorici arricchiti di bibliografia e rimandi, e infine diplomi ricevuti con solennita'. E questo a sua volta significherebbe che per diventare poeta non bastano fogli di carta, sia pure riempiti dei versi piu' eccelsi, ma che e' necessario, e in primo luogo, un qualche certificato con un timbro. Ricordiamoci che proprio su questa base venne condannato al confino il poeta russo, poi premio Nobel, Iosif Brodskij. Fu ritenuto un "parassita" perche' non aveva un certificato ufficiale che lo autorizzasse ad essere poeta... Anni fa ebbi l'onore e la gioia di conoscerlo di persona. Notai che a lui solo, tra i poeti che conoscevo, piaceva dire di se' "poeta", pronunciava questa parola senza resistenze interiori, perfino con una certa liberta' provocatoria. Penso che cio' fosse dovuto alle brutali umiliazioni da lui subite in gioventu'. Nei paesi felici, dove la dignita' umana non viene violata con tanta facilita', i poeti ovviamente desiderano essere pubblicati, letti e compresi, ma non fanno molto, o comunque assai poco, per distinguersi quotidianamente fra gli altri esseri umani. Ma fino a non molto tempo fa, nei primi decenni del nostro secolo, ai poeti piaceva stupire con un abbigliamento bizzarro e un comportamento eccentrico. Si trattava pero' sempre di uno spettacolo destinato al pubblico. Arrivava il momento in cui il poeta si chiudeva la porta alle spalle, si liberava di tutti quei mantelli, orpelli e altri accessori poetici, e rimaneva in silenzio, in attesa di se stesso, davanti a un foglio di carta ancora non scritto. Perche', a dire il vero, solo questo conta. * E' significativo che si producano di continuo molti film sulla biografia di grandi scienziati e grandi artisti. Registi di una qualche ambizione intendono rappresentare in modo verosimile il processo creativo che ha condotto a importanti scoperte scientifiche o alla nascita di famosissime opere d'arte. E' possibile mostrare con un certo successo il lavoro di taluni scienziati: laboratori, strumentazione varia, meccanismi attivati riescono per un po' a catturare l'attenzione degli spettatori. Ci sono inoltre momenti molto drammatici in cui non si sa se l'esperimento ripetuto per la millesima volta, solo con una leggera modifica dara' finalmente il risultato atteso. Possono essere spettacolari i film sui pittori - e' possibile ricreare tutte le fasi della nascita di un quadro, dal tratto iniziale fino all'ultimo tocco di pennello. I film sui compositori sono riempiti dalla musica - dalle prime battute che l'artista sente in se', fino alla partitura completa dell'opera. Tutto questo e' ancora ingenuo e non dice nulla su quello strano stato d'animo popolarmente detto "ispirazione", ma almeno c'e' di che guardare e di che ascoltare. Le cose vanno assai peggio per i poeti. Il loro lavoro non e' per nulla fotogenico. Una persona seduta al tavolino o sdraiata sul divano fissa con lo sguardo immobile la parete o il soffitto, di tanto in tanto scrive sette versi, dopo un quarto d'ora ne cancella uno, e passa un'altra ora in cui non accade nulla... Quale spettatore riuscirebbe a reggere un simile spettacolo? * Ho menzionato l'ispirazione. Alla domanda su cosa essa sia, ammesso che esista, i poeti contemporanei danno risposte evasive. Non perche' non abbiano mai sentito il beneficio di tale impulso interiore. Il motivo e' un altro. Non e' facile spiegare a qualcuno qualcosa che noi stessi non capiamo. Anch'io talvolta, di fronte a questa domanda, eludo la sostanza della cosa. Ma rispondo cosi': l'ispirazione non e' un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C'e', c'e' stato e sempre ci sara' un gruppo di individui visitati dall'ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro puo' costituire un'incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficolta' e le sconfitte, la loro curiosita' non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L'ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante "non so". Di persone cosi' non ce ne sono molte. La maggioranza degli abitanti di questa terra lavora per procurasi da vivere, lavora perche' deve. Non sono essi a scegliersi il lavoro per passione, sono le circostanze della vita che scelgono per loro. Un lavoro non amato, un lavoro che annoia, apprezzato solo perche' comunque non a tutti accessibile, e' una delle piu' grandi sventure umane. E nulla lascia presagire che i prossimi secoli apporteranno in questo campo un qualche felice cambiamento. Posso dire pertanto che se e' vero che tolgo ai poeti il monopolio dell'ispirazione, li colloco comunque nel ristretto gruppo degli eletti dalla sorte. A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi ascolta. Allora anche carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il potere con l'aiuto di qualche slogan, purche' gridato forte, amano il proprio lavoro e lo svolgono altresi' con zelante inventiva. D'accordo, loro "sanno". Sanno, e cio' che sanno gli basta una volta per tutte. Non provano curiosita' per nient'altro, perche' cio' potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti. E ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita. Nei casi piu' estremi, come ben ci insegna la storia antica e contemporanea, puo' addirittura essere un pericolo mortale per la societa'. Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: "non so". Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui e' sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto "non so", le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta "non so" sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attivita', peraltro onesta. Ma si ripeteva "non so" e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca. Anche il poeta, se e' vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso "non so". Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere gia' lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta d'una risposta provvisoria e del tutto insufficiente. Percio' prova ancora una volta e un'altra ancora, finche' gli storici della letteratura non legheranno insieme le prove della sua insoddisfazione di se', chiamandole "patrimonio artistico"... * Mi capita di sognare situazioni irrealizzabili. Nella mia temerarieta' immagino ad esempio di avere l'occasione di conversare con l'Ecclesiaste, autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanita' di ogni agire umano. Mi inchinerei profondamente di fronte a lui, perche' si tratta - almeno per me - di uno dei poeti piu' importanti. E poi gli prenderei la mano. "Nulla di nuovo sotto il sole" hai scritto, Ecclesiaste. Pero' Tu stesso sei nato nuovo sotto il sole. E il poema di cui sei autore e' anch'esso nuovo sotto il sole, perche' prima di Te non lo ha scritto nessuno. E nuovi sotto il sole sono tutti i Tuoi lettori, perche' quelli che sono vissuti prima di Te, dopotutto non hanno potuto leggerlo. Anche il cipresso, alla cui ombra stavi seduto, non cresce qui dall'inizio del mondo. Gli ha dato inizio un qualche altro cipresso, simile al Tuo, ma non proprio lo stesso. E inoltre vorrei chiederti, o Ecclesiaste, che cosa intendi scrivere, adesso, di nuovo sotto il sole. Qualcosa con cui contemplerai ancora i Tuoi pensieri, o non sei forse tentato di smentirne qualcuno? Nel Tuo poema precedente hai intravisto la gioia - che importa se passeggera? Forse dunque e' di essa che parlera' il Tuo nuovo poema sotto il sole? Hai gia' degli appunti, degli schizzi iniziali? Non credo che dirai: "Ho scritto tutto, non ho nulla da aggiungere". Nessun poeta al mondo puo' dirlo, figuriamoci uno grande come Te. Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensita' e dalla nostra impotenza di fronte ad esso, amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali (di uomini, animali, e forse piante, perche' chi ci da' la certezza che le piante siano esenti dalla sofferenza?), qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi trapassati dalle radiazioni delle stelle, stelle intorno a cui si sono gia' cominciati a scoprire pianeti (gia' morti? Ancora morti?), qualunque cosa pensiamo di questo smisurato teatro, per cui abbiamo si' il biglietto d'ingresso, ma con una validita' ridicolmente breve, limitata dalle due date categoriche, qualunque cosa ancora noi pensassimo di questo mondo - esso e' stupefacente. Ma nella definizione "stupefacente" si cela una sorta di tranello logico. Dopotutto ci stupisce cio' che si discosta da una qualche norma nota e generalmente accettata, da una qualche ovvieta' a cui siamo abituati. Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste affatto. Il nostro stupore esiste per se stesso e non deriva da nessun paragone con alcunche'. D'accordo, nel parlare comune, che non riflette su ogni parola, tutti usiamo i termini: "mondo normale", vita normale, normale corso delle cose... Tuttavia nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c'e' piu' nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo. A quanto pare i poeti avranno sempre molto da fare. 5. INCONTRI. UN INCONTRO CON CINDY SHEEHAN A ROMA IL 18 GENNAIO [Da varie persone amiche riceviamo e diffondiamo] In occasione del viaggio in Italia di Cindy Sheehan, portavoce di "Gold Star families for Peace", simbolo del movimento Usa dei familiari dei caduti per la cessazione della guerra e il ritiro immediato delle truppe dall'Iraq la Provincia di Roma promuove un incontro pubblico con Cindy Sheehan mercoledi' 18 gennaio 2006, alle ore 12-14, a Palazzo Valentini, nella sala della pace " Giorgio La Pira", via IV Novembre 119/A a Roma. Cindy Sheehan ha 48 anni ed e' madre di quattro figli. Suo figlio maggiore, Casey, e' stato ucciso in Iraq il 4 aprile 2004. Da allora sta viaggiando negli Stati Uniti per denunciare l'illegalita' e l'immoralita' dell'occupazione dell'Iraq. Durante l'estate del 2005 si e' accampata davanti alla residenza estiva di Bush in Texas e ha aspettato per piu' di un mese di essere ricevuta dal presidente; l'estate calda del movimento pacifista si e' conclusa con la manifestazione di Washington del 24 settembre, la piu' grande dalla guerra del Vietnam. E' stata definita dalla stampa statunitense la "mamma della pace". Nel gennaio 2005 ha fondato "Gold Star Families for Peace", un'organizzazione composta dalle famiglie che hanno perso persone care in guerra, il cui obiettivo principale e' il ritiro delle truppe per evitare che altre famiglie debbano soffrire come loro. 6. INCONTRI. DUE INCONTRI CON CINDY SHEEHAN E ALICE MAHON A TORINO IL 19 E 20 GENNAIO [Da varie persone amiche riceviamo e diffondiamo] Giovedi' 19 gennaio, presso la Camera del Lavoro di Torino, salone "Pia Lai", in via Pedrotti 5, alle ore 20,30 si terra' un incontro pubblico sul tema: "Iraq, una tragedia senza fine". Programma: - Proiezione del video "Fallujah la strage nascosta" di Sigfrido Ranucci (Rai news 24). - Testimonianza di Cindy Sheehan (Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di chiedergli per quale "grande causa" e' morto suo figlio, e chiedergliene conto. Intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra). - Testimonianza di Alice Mahon (la parlamentare inglese Alice Mahon, del Labour Party, aveva presentato numerose interrogazioni al ministro della difesa inglese, chiedendo se corrispondesse al vero la notizia dell'uso del napalm o di agenti chimici da parte degli Stati Uniti in Iraq. Il ministero aveva sempre negato, fino a quando, il 13 giugno del 2005, con stile tipicamente inglese, chiede ufficialmente scusa di aver risposto il falso e ammette l'uso dell'mk77, l'ordigno incendiario che ha gli stessi effetti del napalm. Alice Mahon esce dal parlamento perche' non vuole far parte di una coalizione che copre i crimini di guerra). - Intervento di Maria Grazia Turri, dell'associazione "Un ponte per...". - Intervento di Ugo Mattei, docente di diritto anglosassone dell'Universita' di Torino. * Per chi non potesse partecipare alla serata di giovedi' 19 gennaio sara' possibile ascoltare le testimonianze di Cindy Sheehan e di Alice Mahon il giorno venerdi' 20 gennaio alle ore 14,30 al Politecnico di Torino, nella sala del Consiglio di Facolta', corso Duca degli Abruzzi 24. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1176 del 15 gennaio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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