Nonviolenza. Femminile plurale. 42



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 42 del 15 dicembre 2005

In questo numero:
1. Francesca Cutarelli intervista Naila Ayyesh Zaqout
2. Sharon LaFraniere: Bambine
3. Paola Mancinelli: Franz Rosenzweig e la questione dell'essere (parte
terza)
4. Letture: Maria Laura Lanzillo, Il multiculturalismo

1. ESPERIENZE. FRANCESCA CUTARELLI INTERVISTA NAILA AYYESH ZAQOUT
[Da Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int) riceviamo e
volentieri diffondiamo la seguente intervista a Naila Ayyesh Zaqout, a cura
di Francesca Cutarelli.
Francesca Cutarelli e' una giornalista di "Europa news".
Naila Ayyesh Zakout, palestinese di gaza, fa parte della "Commissione
Internazionale di donne per una pace giusta e sostenibile in Palestina e
Israele" ( International Women Commission, in signa Iwc), della Icw fanno
parte donne palestinesi, israeliane e internazionali ed e' la prima
commissione che si forma sulla base della risoluzione 1325 del Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite.
Luisa Morgantini, parlamentare europea, presidente della delegazione del
Parlamento Europeo al Consiglio legislativo palestinese, fa parte delle
Donne in nero e dell'Associazione per la pace; il seguente profilo di Luisa
Morgantini abbiamo ripreso dal sito www.luisamorgantini.net: "Luisa
Morgantini e' nata a Villadossola (No) il 5 novembre 1940. Dal 1960 al 1966
ha lavorato presso l'istituto Nazionale di Assistenza a Bologna occupandosi
di servizi sociali e previdenziali. Dal 1967 al 1968 ha frequentato in
Inghilterra il Ruskin College di Oxford dove ha studiato sociologia,
relazioni industriali ed economia. Dal 1969 al 1971 ha lavorato presso la
societa' Umanitaria di Milano nel settore dell'educazione degli adulti. Dal
1970 e fino al 1999 ha fatto la sindacalista nei metalmeccanici nel
sindacato unitario della Flm. Eletta nella segreteria di Milano - prima
donna nella storia del sindacato metalmeccanico - ha seguito la formazione
sindacale e la contrattazione per il settore delle telecomunicazioni,
impiegati e tecnici. Dal 1986 e' stata responsabile del dipartimento
relazioni internazionali del sindacato metalmeccanico Flm - Fim Cisl, ha
rappresentato il sindacato italiano nell'esecutivo della Federazione europea
dei metalmeccanici (Fem) e nel Consiglio della Federazione sindacale
mondiale dei metalmeccanici (Fism). Dal novembre del 1980 al settembre del
1981, in seguito al terremoto in Irpinia, in rappresentanza del sindacato,
ha vissuto a Teora contribuendo alla ricostruzione del tessuto sociale. Ha
fondato con un gruppo di donne di Teora una cooperativa di produzione, "La
meta' del cielo", che e' tuttora esistente. Dal 1979 ha seguito molti
progetti di solidarieta' e cooperazione non governativa con vari paesi, tra
cui Nicaragua, Brasile, Sud Africa, Mozambico, Eritrea, Palestina,
Afghanistan, Algeria, Peru'. Si e' misurata in luoghi di conflitto entro e
oltre i confini, praticando in ogni luogo anche la specificita' dell' essere
donna, nel riconoscimento dei diritti di ciascun essere umano: nelle
rivendicazioni sindacali, con le donne contro la mafia, contro l'apartheid
in Sud Africa, con uomini e donne palestinesi e israeliane per il diritto
dei palestinesi ad un loro stato in coesistenza con lo stato israeliano, con
il popolo kurdo, nella ex Yugoslavia, contro la guerra e i bombardamenti
della Nato, per i diritti degli albanesi del Kosovo all'autonomia, per la
cura e l'accoglienza a tutte le vittime della guerra. Attiva nel campo dei
diritti umani, si e' battuta per il loro rispetto in Cina, Vietnam e Siria,
e per l'abolizione della pena di morte. Dal 1982 si occupa di questioni
riguardanti il Medio Oriente ed in modo specifico del conflitto
Palestina-Israele. Dal 1988 ha contribuito alla ricostruzione di relazioni e
networks tra pacifisti israeliani e palestinesi. In particolare con
associazioni di donne israeliane e palestinesi e dei paesi del bacino del
Mediterraneo (ex Yugoslavia, Albania, Algeria, Marocco, Tunisia). Nel
dicembre 1995 ha ricevuto il Premio per la pace dalle Donne per la pace e
dalle Donne in nero israeliane. Attiva nel movimento per la pace e la
nonviolenza e' stata portavoce dell'Associazione per la pace. E' tra le
fondatrici delle Donne in nero italiane e delle rete internazionale di Donne
contro la guerra. Attualmente e' deputata al Parlamento Europeo... In Italia
continua la sua opera assieme alle Donne in nero e all'Associazione per la
pace". Opere di Luisa Morgantini: Oltre la danza macabra, Nutrimenti, Roma
2004]

- Naila Ayyesh Zakout: Voglio subito dire che questa e' la prima volta che
esco da Gaza attraverso il confine di Rafah senza vedere i soldati
israeliani e passare attraverso il loro controllo. Non potete immaginare il
sollievo. Prima era cosi' difficile andare da Gaza a Rafah attraversando i
check point. Ci volevano molte ore e dopo una lunga attesa spesso c'era il
rischio di non passare lo stesso, quando in realta' e' solo un'ora di
viaggio.
*
- Francesca Cutarelli: Quindi oggi e' meglio di ieri?
- Naila Ayyesh Zakout: Va certamente meglio, ma la situazione, si sa, rimane
drammatica. Per partecipare alla prsentazione dell'Iwc, l'International
Women's Commission, alle istituzioni europee io stessa ho impiegato due
giorni per arrivare a Bruxelles da Gaza, due ore solo per passare il confine
a Rafah. Ora la gente da una parte e' felice di potersi muovere dal nord al
sud di Gaza, ma dall'altra rimane infelice perche' la liberta' di movimento
e' comunque limitata. Lo stesso confine di Rafah e' aperto solo 4 ore al
giorno - dalle 12 alle 16. I controlli sono in mano ad egiziani, europei e
palestinesi. I palestinesi in particolare lavorano in modo molto
professionale perche' sentono la responsabilita' di quello che stanno
facendo e quanto e' costato. Ma la frontiera per le merci e' ancora in mano
israeliana, malgrado gli accordi fatti, e soprattutto la costruzione del
porto per il quale anche se c'e' un accordo richiedera' molto tempo prima di
poterne usufruire, mentre per l'aeroporto e' ancora tutto in alto mare.
*
- Francesca Cutarelli: Com'e' la situazione delle altre frontiere di Gaza?
- Naila Ayyesh Zakout: Non facile. A  Eretz, nel nord di Gaza, ancora oggi
nessuno puo' passare senza il permesso israeliano. Un malato ha difficolta'
ad arrivare agli ospedali di Gerusalemme se non ha i permessi. Qualche volta
li ottiene, ma deve aspettare molto tempo. Lo stesso problema lo hanno gli
universitari che vogliono continuare i loro studi e andare all'universita'
nella West Bank, molti di loro sono a Ramallah e non possono nenache tornare
a casa;  per non parlare poi dei lavoratori: fino a 5 anni fa erano 100.000
le persone che ogni giorno si recavano in Israele per lavorare ed
aspettavano ore per ottenere un permesso dagli israeliani. Oggi Israele
concede solo circa 5.000 permessi per lavoro con la promessa di aumentarli
di numero, ma anche questi sono sottoposti agli umori dei soldati al check
point. Quindi a rimetterci sono i malati, i lavoratori, gli studenti e le
donne, come al solito.
*
- Francesca Cutarelli: Lei ha definito Gaza una prigione a cielo aperto.
Puo' farci qualche esempio?
- Naila Ayyesh Zakout: Si'. Gaza e' come una prigione a cielo aperto. Cosi'
ci sentiamo di vivere, in una prigione a cielo aperto. Non ci sono
aeroporti, non c'e' liberta' di movimento. Gli israeliani non ci sono, ma di
fatto controllano tutto: spostamenti, commercio, tutto. Ad esempio, la mia
famiglia e' a Ramallah e se succede qualcosa non ho la possibilita' di
andare a trovarla. E quando vogliono, dicendo che lo fanno in risposta ad
attacchi di alcuni estremisti palestinesi, bombardano o fanno esplodere le
bombe del suono, potete chiederlo a Luisa Morgantini che e' stata con noi a
Gaza. Anche incontrarsi come donne e attiviste non e' stato facile, anzi
molto spesso impossibile, Khan Yunis al sud era tagliata fuori dai check
point dal nord della striscia di Gaza. Come membro dell'Iwc ritengo che
questi due giorni di incontri con le Istituzioni europee sono stati una
grande opportunita' non solo per conoscere i rappresentanti delle
Istituzioni, ma anche per incontrare le altre donne palestinesi e
israeliane, visto che in Palestina e' ancora problematico.
*
- Francesca Cutarelli: Quindi e' soddisfatta del lancio ufficiale dell'Iwc,
l'International Women's Commission, qui a Bruxelles?
- Naila Ayyesh Zakout: Questi due giorni di incontri, per me, sono stati
molto fruttuosi, perche' ci siamo proposte come interlocutrici per una
giusta e duratura pace tra israeliani e palestinesi. E' stata una grande
opportunita'. Un segnale importante. Il nostro sentimento, pero', e' che
l'Europa puo' fare di piu'. Gaza non e' la soluzione conclusiva. Noi, donne
palestinesi, israeliane e internazionali, chiediamo una soluzione basata su
due Stati riconosciuti ed autonomi, la fine della costruzione del muro a
Gerusalemme e la fine reale dell'occupazione israeliana.
Il presidente del Parlamento Europeo Josep Borrell ci ha ricevuto non
fugacemente e si e' dimostrato molto interessato alle nostre testimonianze.
Ci dispiace che non sia stato  possibile, malgrado fosse in agenda,
incontrare l'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione Javier
Solana che ha disdetto all'ultimo momento e  preferito incontrare il
Segretario di stato americano Condoleeza Rice, ma e' stato utile avere il
sostegno della commissaria Benita Ferraro Waldner e dei gruppi politici del
parlamento europeo, anche se gli incontri sono stati brevi. Abbiamo avuto
modo di passare il messaggio che dicevo sopra e soprattutto di far capire ai
rappresentati europei di non accontentarsi di aver aperto per qualche ora
Rafah. La Palestina non e' solo Gaza, e' anche la Cisgiordania dove si
continua ad espandere le colonie israeliane e a costruire il muro. Anche se
ci saranno le elezioni in Palestina e Israele, non bisogna fermarsi, Sharon
continua con la politica del fatto compiuto, e quando saranno passate le
elezioni restera' ben poco territorio palestinese.
*
- Francesca Cutarelli: L'Europa quindi puo' fare di piu'?
- Naila Ayyesh Zakout: L'Europa puo' e deve fare di piu', lo abbiamo detto a
tutti quelli che abbiamo incontrato, l'Europa ha piu' potere di quello che
pensa di avere. A volte pero' pensa che basta darci aiuti economici, e noi
dobbiamo davero ringraziare l'Europa per questo, ma la soluzione e'
politica. Se Mahomud Abbas non riuscira' a dimostrare con i fatti che si
puo' cambiare la situazione economica e politica della popolazione
palestinese, a guadagnarci, gia' alla prossime elezioni, sara' Hamas che
distribuisce cibo e soldi ai piu' poveri, riuscendo cosi ad ottenere il
consenso della gente.
Abbiamo posto l'urgenza della ripresa dei negoziati, di rifiutare
l'unilatelarismo di Sharon, e di finirla con l'occupazione militare.
Per quel che riguarda la nostra Commissione, abbiamo chiesto ed  avuto
risposte positive, per esempio che l'Iwc, la prima commissione di donne nata
dalla risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, venga
considerata un interlocutore quando le delegazioni dell'Unione Europea si
recano in Palestina e Israele, e sia incontrata alla stregua dei ministri.
Sara' un passo per prendere parte ad ogni tavolo negoziale per una pace
giusta e duratura tra Israele e Palestina.
*
- Francesca Cutarelli: Quali i passi futuri dell'Iwc?
- Naila Ayyesh Zakout: Dovremo impegnarci molto per conquistare le menti e i
cuori delle altre donne palestinesi, israelian' e internazionali. Abbiamo
lanciato la nostra Commissione a Gerusalemme, poi siamo venute in Europa, a
fine febbraio ci presenteremo a Washington e a New York, all'amministrazione
Usa e alle Nazioni Unite. Dovremo poi incontrarci tra noi per definire un
programma di lavoro. Siamo tante, 20 palestinesi, 20 israeliane e 20
internazionali di opinioni politiche trasversali cosi' come di diverse
estrazioni sociali; siamo femministe, attiviste, parlamentari, perfino
ministre. E' questa la sfida, diverse ma insieme per risolvere i conflitti
senza guerre e violenze, e per avere voce e potere nei negoziati. Ma vorrei
dire che la gran parte della possibilita' che abbiamo avuto per il lancio
dell'Iwc e' dovuto alla presenza e sopratutto al lavoro di Luisa Morgantini
al Parlamento Europeo. Ancora di piu' abbiamo verificato cio' che gia'
sapevamo di lei in tutti questi anni in cui e' stata con noi in Palestina e
in Israele. Noi diciamo sempre che e' un bulldozer, ma Luisa si arrabbia e
dice che l'immagine del bulldozer la fa rabbrividire perche' pensa subito
alle case demolite, agli alberi sradicati o al bulldozer che ha ucciso
Rachel Corrie a Gaza, ma noi vogliamo dire invece che non si ferma mai e la
sua energia si trasmette anche a noi.
*
La delegazione a Bruxelles era composta da Haifa Abu Ghazaleh, Luisa
Morgantini, Osnat Lubrani, Simone Susskind, Naomi Chazan, Anat Saragusti,
Aida Touma Sliman, Zaheera Kamal, Samia Bamieh, Romy Shapira, Leila Chahid,
Antigoni Karali-Dimitriadi, Naila  Zaqout, Jacqueline Hunt.

2. MONDO. SHARON LAFRANIERE: BAMBINE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione in seguente articolo di
Sharon LaFraniere apparso sul "New York Times" del 27 novembre 2005. Sharon
LaFraniere e' una notissima giornalista]

Chikutu, Malawi. I problemi di Mapendo Simbeye cominciarono presto lo scorso
anno, quando le colline spoglie sul confine a nord fra la Tanzania ed il
Malawi non risposero ai suoi tentativi di coltivarle. Percio', per dar da
mangiare alla moglie ed ai cinque figli, racconta, ando' dal suo vicino
Anderson Kalabo, e gli chiese un prestito. Il signor Kalabo gli diede 2.000
kwacha (circa 16 dollari). La famiglia avrebbe mangiato. Ma ora sorgeva un
altro problema: come poteva il signor Simbeye, agricoltore senza un soldo,
ripagare il debito? La risposta puo' apparire sconcertante, ma nell'Africa
subsahariana rurale e patriarcale si tratta di un'usanza comune. Il signor
Simbeye mando' la propria figlia undicenne, Mwaka, un bimba timida che
frequentava il primo anno di scuola, a casa del vicino, dove la bambina
divenne la serva della prima moglie del signor Kalabo e, come essa stessa
racconta, la sua nuova compagna di letto. Ora dodicenne, Mwaka dice che i
suoi genitori non le avevano spiegato che sarebbe diventata la seconda
moglie del vicino. "Mi dissero che avrei dovuto cacciare gli uccelli dal
campo di riso", mormora con gli occhi fissi a terra, "Non sapevo niente del
matrimonio". Mwaka fuggi'. Sei mesi dopo la fuga, i genitori la ripresero in
casa.
*
Numerose bambine come Mwaka sono costrette a fare un salto dall'infanzia al
matrimonio su ordine dei loro padri, e molto spesso quest'ordine arriva anni
prima che esse raggiungano la puberta'. Le conseguenze di tali matrimoni
forzati sono strazianti: un'adolescenza non vissuta, frequenza scolastica
interrotta per sempre, gravidanze precoci e parti difficili, eta' adulta
condannata alla sottomissione. La lista include il rischio di contagio da
Hiv, ad un'eta' in cui le ragazzine non comprendono cosa l'aids comporti.
Sempre di piu' educatori, insegnanti, personale sanitario ed anche
legislatori cercano di scoraggiare o proibire tali matrimoni. In Etiopia,
per esempio, dove le statistiche mostrano che un terzo delle ragazze si
sposano sotto i 15 anni, un'azione e' stata intrapresa l'aprile scorso. 56
matrimoni di ragazzine tra i 12 e i 15 anni sono stati annullati, e contro
circa meta' dei genitori e' stato avviato un procedimento legale per averle
forzate.
Ma dal Ghana al Kenya allo Zambia, i matrimoni di bambine continuano: l'eta'
media per il matrimonio in questi paesi e' fra le piu' basse del mondo e la
percentuale di madri adolescenti la piu' alta in assoluto. "Si fanno un
sacco di chiacchiere", commenta Seodi White, avvocata del Malawi e
coordinatrice di un fondo di ricerca sulle donne, "Ma la verita' e' che la
societa' si interessa ancora esclusivamente al figlio maschio, e vede la
figlia femmina come un oggetto di scambio. Nel nord, bambine di dieci anni
vengono date via per il guadagno della famiglia. Dopo di che diventano
proprieta' dei mariti e sono prive di potere nei villaggi di costoro". In
tale villaggi le bimbe vengono fatte sposare prima della puberta', a
discrezione dei loro padri, a volte con uomini che possono avere anche
cinquant'anni piu' di loro.
Uness Nyambi, del villaggio di Wiliro, dice che stata promessa quando era
ancora infante, di modo che i suoi genitori potessero finanziare suo
fratello che doveva scegliersi una sposa. Oggi ha 17 anni, due figli il cui
maggiore ne ha circa cinque, e un marito di 70 anni. "E' solo per via di
questi due bambini che non posso lasciarlo", dice.
Beatrice Kitamula, diciannovenne, fu costretta a sposare il benestante
vicino cinque anni orsono, perche' suo padre era in debito di una mucca con
un altro uomo. Oggi suo marito ha 63 anni. "Io sono stata la vittima per il
sacrificio", dice Beatrice ingoiando le lacrime. Paragona la casa del marito
ad un penitenziario. "Quando sei in prigione", mi spiega, "non hai diritti".
Lyson Morenga, un vedovo, raccolse il denaro per risposarsi due anni fa
dando via la figlia Rachel, di dodici anni, ad un conoscente cinquantenne,
avendone in cambio un toro. Il signor Morenga consegno' il toro alla
famiglia della nuova moglie, quale parziale pagamento. Paghera' il resto del
prezzo, ha promesso, quando dara' via la sorella minore di Rachel.
*
I funzionari governativi del Malawi dicono che si stanno sforzando per
proteggere le ragazzine come Rachel. In Parlamento si sta dibattendo una
legge che portera' a 18 anni l'eta' minima per contrarre matrimonio. Le
attiviste per i diritti delle donne danno il benvenuto a questa proposta, ma
aggiungono che i suoi effetti saranno limitati, perche' moltissimi matrimoni
non vengono stipulati secondo la legge civile, ma secondo i costumi
tradizionali. Il governo ha formato circa 230 volontari, lo scorso anno, sui
modi per proteggere i minori, in special modo le bambine. A cercare di
intervenire ci sono anche i volontari della Commissione per i diritti umani
del Malawi, i lavoratori cattolici e le unita' di polizia addestrate allo
scopo.
Nel villaggio di Iponga, Mbohesha Mbisa evito' di essere sposata per forza,
a tredici anni, a suo zio, camminando per mezzo miglio sino alla locale
stazione di polizia. Gli ufficiali persuasero suo padre ad abbandonare il
progetto di farle rimpiazzare come moglie e madre la zia deceduta. "Ero
molto spaventata", narra Mbohesha, che oggi frequenta le scuole medie, "Ma
volevo proteggere me stessa".
Pure, in questa regione la poverta' cresce, peggiorata dall'aids e dalla
recente siccita', e cio' aumenta per le ragazzine il pericolo di essere
sposate per forza. "La pratica e' qui da parecchio tempo, ma ora le cose
stanno peggiorando, perche' c'e' disperazione", dice Penston Kilembe,
direttore dei servizi sociali del Malawi, "In particolare, nelle comunita'
che sono state colpite dalla carestia, le famiglie non ce la fanno a
sostenersi economicamente, e vendono le loro bambine a case piu' ricche". "I
risultati che avevamo ottenuto rispetto ai matrimoni precoci li abbiamo
perduti", conferma Andrina Mchiela, prima segretaria al Ministero del
Genere.
Le attiviste per i diritti delle donne vorrebbero abolire il pagamento per
il matrimonio, detto "lobolo", perche' sostengono che esso crea un incentivo
per i genitori nel forzare le figlie a sposarsi. Nella sua forma piu'
benigna, il lobolo e' un segno di apprezzamento dato dalla famiglia dello
sposo a quella della sposa. Nella sua forma piu' maligna, trasforma le
ragazze nell'equivalente umano del bestiame. Nella maggior parte del Malawi,
le negoziazioni sul lobolo sono discussioni esclusivamente fra maschi, e
vanno dalle rateizzazioni all'occasionale risarcimento per la moglie
fuggita.
*
Jimmy Mwanyongo, quarantacinquenne capo del villaggio di Karonga, mi spiega
il matrimonio di sua figlia Edah come una qualsiasi altra transazione
commerciale.
Molti anni fa, racconta seduto su un materasso di paglia, promise al vicino
Simfukwe di curarsi di due mucche. Ma poi le vendette per pagare gli studi
al suo figlio adottivo. Quando il vicino, nel 2002, resto' vedovo, il signor
Mwanyongo si senti' in dovere di offrirgli la figlia. "Avevo venduto le due
mucche. Non avevo scelta". La figlia Edah aveva 17 anni, e una bellezza in
cui spiccavano gli occhi da cerbiatta. Pur avendo un figlio illegittimo,
raccontano parenti e vicini, aveva uno stuolo di corteggiatori. Il signor
Simfukwe aveva 63 anni, nove figli adulti ed uno stuolo di nipoti. Dice che
considerava Edah un po' giovane, per lui: "Tuttavia, suo padre aveva deciso
che sebbene fossi anziano, ero la persona giusta. Credo fosse un
riconoscimento al mio carattere. Edah non e' stata forzata. Non le ho legato
una corda attorno al collo per portarla via". Edah replica che suo padre ha
fatta tutto tranne questo. Per nove mesi, racconta, si oppose alla decisione
del padre e venne continuamente cacciata di casa. "Pensavo che sarei morta
di dolore. Mio padre si rifiutava di lasciarmi mangiare, mi rincorreva per
tutte le stanze. Diceva: Va' a trovarti un posto dove dormire! Va' da tuo
marito! Se non vuoi andare la', ti frustero' sino a farti morire". La madre
di Edah, Tabu Harawa, sostenne la figlia, ma senza risultato: "Gli dissi che
era come se la stesse uccidendo. E' stata una vergogna. Se succede di nuovo,
divorziero' da lui".
Ora Edah ha vent'anni, una nuova bimba di 11 mesi ed e' consumata dalla
paura del futuro. "Mio marito e' vecchio. Potrebbe morire presto. E'
probabile che mi lascera' dopo che avro' avuto altri bambini. E dove andro'
allora?". La sua vita, commenta, e' libera quanto quella dei buoi pregiati
che suo padre aggioga all'aratro. "Sono una schiava".
Alcuni vicini la compiangono. Altri la prendono in giro dicendo che ha
sposato suo nonno. Tali reazioni sono un indizio che anche gli africani piu'
tradizionalisti cominciano a non vedere di buon occhio il matrimonio fra
ragazzine e uomini anziani per, come dice la madre di Edah, "il bene delle
mucche".
*
Mwaka Simbeye, la ragazzina del villaggio di Chikutu, e' stata bene accolta
al suo ritorno nella casa dei genitori. Ora frequenta la seconda classe
elementare ed e' ancora abbastanza piccola per lasciarsi incantare da un
semplice gioco a testa o croce. Il suo corpo e' ancora quello di una bimba.
Dal signor Kalabo, dice in un sussurro che si ode a stento, "Dovevo fare
tutti i lavori di casa. Lavare i piatti, pulire, prendere l'acqua,
raccogliere la legna. Quando la prima moglie non c'era dovevo cucinare". Suo
padre, Mapendo Simbeye, che ha ripagato il debito di 16 dollari, dice che
l'ha ripresa con se' quando ha saputo che la polizia avrebbe potuto
arrestarlo. Aggiunge che l'ha stimata poco: "Mia figlia vale di piu' di
2.000 kwacha. L'ho fatto per ignoranza. Cinque figli, niente soldi, niente
cibo. Percio' ho pensato di vendere mia figlia a Kalabo. Non sapevo di star
abusando di lei".
La madre di Mwaka, Tighezge Simkonda, e' una versione piu' anziana della
figlia, e non e' meno timida. "Mi sono opposta", dice in un mormorio, dando
occhiate nervose al marito che chiacchiera poco distante, "Gli ho detto: mia
figlia e' molto giovane. Ma il controllo lo ha l'uomo. Le figlie sono di
proprieta' dell'uomo".

3. RIFLESSIONE. PAOLA MANCINELLI: FRANZ ROSENZWEIG E LA QUESTIONE
DELL'ESSERE (PARTE TERZA)
[Ringraziamo Paola Mancinelli (mancinellipaola at libero.it) per averci messo a
disposizione il seguente saggio su "Rosenzweig e la questione dell'essere:
pensare l'inizio in una terra altra" che anticipa alcuni temi del suo volume
di prossima pubblicazione su Rivelazione e linguaggio. Ripensare l'essere
con Franz Rosenzweig.
Paola Mancinelli, nata ad Osimo (An) il 28 giugno 1963, dottore di ricerca
in filosofia teoretica e docente di scuola superiore, saggista e poetessa,
si e' occupata tra l'altro del rapporto fra mistica e filosofia e la
violenza del sacro in Rene' Girard, del pensiero di Rosenzweig e
dell'influenza dell'ebraismo nel rinnovamento dell'ontologia; collabora alle
riviste "Filosofia e teologia" e "Quaderni di scienze religiose" ed alla
rivista telematica di filosofia "Dialeghestai". Fra le opere di Paola
Mancinelli: Vibrazioni, Pentarco, Torino 1985; Come memoria di latente
nascita, Edizioni del Leone, Venezia, 1989; Oltre Babele, Edizioni del
Leone, Venezia, 1991; Cristianesimo senza sacrificio. Filosofia e teologia
in Rene' Girard, Cittadella, Assisi 2001; Homo revelatus, homo absconditus,
di alcune tracce kierkegaardiane in Rene' Girard, in AA. VV., "Nota Bene,
Quaderni di studi kierkegaardiani", Citta' Nuova, Roma 2002; La metafisica
del silenzio, Stamperia dell'Arancio, Grottammare, 2003; Rivelazione e
linguaggio. Ripensare l'essere con Franz Rosenzweig (di prossima
pubblicazione).
Franz Rosenzweig, filosofo illustre, nato a Kassel nel 1886, muore nel 1929
a Francoforte; con Martin Buber ha realizzato la traduzione tedesca della
Bibbia ebraica. Opere di Franz Rosenzweig: Hegel e lo stato (1920), Il
Mulino, Bologna 1976; La stella della redenzione (1921), Marietti, Casale
Monferrato 1981 (il suo capolavoro, come e' noto); Il nuovo pensiero (1925),
Arsenale, Venezia 1983. Opere su Franz Rosenzweig: segnaliamo almeno i saggi
di Scholem, Levinas, Cacciari; un'agile sintesi introduttiva (con una
perspicua bibliografia) e' quella di Giovanni Fornero nella Storia della
filosofia fondata da Nicola Abbagnano, IV volume, secondo tomo, Utet, Torino
1994, poi vol. IX, Tea, Milano 1996 (ivi alle pp. 3-19)]

Haya: parola ed evento dell'altro: motivi da Es. 3, 14
La tradizione biblica ha in se' un locus, che si e' mostrato sempre fertile
oggetto di un contendere ermeneutico, via via invocato a sostegno di
un'interpretazione metafisica che deponeva a favore di Dio come Ipsum esse
subsistens, di cui celebre e' l'elaborazione della metafisica dell'Esodo
nella filosofia medievale, nonche' a confutazione di una lettura
ontoteologica, sulla base del discriminante fra il Dio divino ed il Dio
causa sui. Preziosi, a riguardo, anche gli studi di Martin Buber, traduttore
insieme a Rosenzweig della Bibbia in tedesco, o quelli di Ernst Bloch nel
suo Das Prinzip Hoffnung. Rosenzweig stesso, avvalendosi delle sue
conoscenze filologiche, si attesta su queste posizioni di contestazione
rispetto ad una sorta di lettura platonizzante che verrebbe ad inficiare
l'esatto significato del passo dell'Esodo.
Procederemo, pertanto, citando innanzi tutto il testo in questione e facendo
riferimento alla controversia interpretativa che ne ha caratterizzato la
ricezione. Di seguito accosteremo lo stesso passaggio attraverso commenti e
saggi del nostro autore, cercando di evidenziare ancora meglio il ruolo
portante di un'interpretazione grammaticale del nuovo pensiero, nonche'
quello altrettanto incidente che l'esperienza di fede esercita su di esso.
Il passo e' tratto da Es. 3, 14-15, nella traduzione italiana a cura della
Cei, corredata di note e commenti tratti dalla Bible de Jerusalem.
"Dio disse a Mose': 'Io sono colui che sono!'. Poi disse: 'Dirai agli
Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi'. Dio aggiunse: 'Dirai agli
Israeliti: il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di
Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo e' il mio nome per
sempre, questo e' il titolo con cui saro' ricordato di generazione in
generazione'".
La controversia ermeneutica sta nella rivelazione del nome di Dio, Io sono
colui che sono; essa diviene tanto piu' forte se si legge questa espressione
ebraica ehjeh asher ehjeh alla luce del tetragramma Jhwh. L'infinito
d'ehjeh, e' haya, che significa essere, ma anche divenire, e non implica mai
un presupposto ontologico-metafisico atto a definire un'essenza, anche se il
concetto di essere, inteso nel modo di una presenza relazionale, appartiene
alla lingua ebraica. L'incontro fra filosofia greca e mondo biblico ha di
fatto contribuito alla denominazione di Dio come essere; prova ne sia la
traduzione dei Settanta, che traduce il celebre passo di Es. 3,14 con "ego
eimi o on", determinando quella che e' stata definita da Gilson una
metafisica dell'Esodo. Questa traduzione permette ai medievali di pervenire
alla conclusione secondo la quale essere e' il nome di Dio, o meglio il suo
autodenominarsi. Il problema che viene a crearsi, tuttavia, inerisce al
fatto che la traduzione dei Settanta rinvierebbe all'immutabilita' in quanto
essenza, e si muoverebbe dunque nell'orizzonte greco che pone l'inizio del
sapere nella domanda cos'e'.
Il versetto 14 del capitolo 3 del libro dell'Esodo, tuttavia, evidenzia un
altro aspetto importante; Dio si rivela come "Io sono" a Mose' ma allo
stesso tempo si presenta come il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, inverando,
cosi', il senso dell'essere come evento storicamente accaduto e dantesi
nella relazione. Il verbo haya, se pur tradotto con essere, non sottende
dunque l'essere nel senso filosofico-metafisico della definizione
dell'essenza, quanto invece nel senso di una presenza che e' sempre accanto
all'uomo, dinanzi a cui si e' costituiti nella propria identita'
responsoriale. Per questo il passo di Esodo 3, 14 non si pone in nessun
senso come risposta alla domanda cos'e'. Da questo punto di vista si tende
oggi a privilegiare la traduzione "Io sono quello che sono".
C'e' pero' da tenere conto di un altro aspetto, altrettanto fondamentale; se
Io-sono e' colui che accompagna e procede nella e con la storia dell'uomo,
Dio e' colui che in ogni tempo, oggi, come nel futuro, cosi' come nel
passato e' accanto all'uomo. Questa e' l'esperienza dell'esser-ci storico,
che afferma la presenza del Dio dei padri, capace di chiamare, al vocativo,
mio Dio. Vorremmo sostare dunque sul valore della temporalita' nella
tradizione ebraica e sulla sua incidenza nel filosofico. A tal fine puo'
esserci prezioso l'aiuto della filologia che ricostruisce il farsi del
linguaggio in rapporto ad un universo significante.
Il tetragramma Jhwh potrebbe, secondo una suggestiva ipotesi filologica,
costituire la risultante di un acrostico, o sigla che si riferisce alle
iniziali delle tre forme verbali dell'infinito haya, indicanti il presente
(colui che sono), il futuro, (colui che saro'), il passato (colui che sono
stato) (26). Questo e' quanto attesta altresi' la filologia
veterotestamentaria che ravvisa nella radice verbale un indicatore
temporale, sul quale distinguere tre livelli: quello copulativo, per cui e'
possibile tradurre il tetragramma come io saro' con, quello esistenziale,
che implica un'apertura ed un'attesa del futuro, ed infine un livello di
transizione, che rende percettibile l'azione di Dio (27). Tenendo conto di
cio', ci sembra pregnante la scelta di Martin Buber, il quale traduce il
tetragramma e l'espressione rivelata di Dio "hejeh asher hejeh": Io saro'
presente (accanto a te) cosi' come io saro' presente; traduzione accettata e
condivisa da Rosenzweig. Egli motiva inoltre questa traduzione evidenziando
che quel futuro del verbo essere non puo' venir compreso come il latino
esse, quanto invece come adesse (28).
Rosenzweig stesso sottolinea questo aspetto fondamentale in una lettera
scritta a Martin Goldner nella quale osserva che: "Solo poiche' colui che ti
si fa presente, ti si fara' sempre presente quando ne hai bisogno e lo
invochi - io saro' presente - solo in virtu' di questo fatto egli e', poi,
per la nostra riflessione, anche il sempre esistente, l'assoluto, l'eterno,
as-solto dunque dalla mia necessita' e dal mio istante, ma soltanto da
as-solvere, poiche' ogni futuro istante potrebbe stare al posto di quello
attuale" (29).
Ci sembra importante sottolineare la ricorrenza del verbo tedesco werden,
che sottende non solo l'azione del divenire, quanto anche quella del farsi
prossimo da parte di Dio, presente nell'invocazione e nella necessita'
dell'uomo. Presente, certo, nella relazione, non nella presenza immutabile
di una categoria sostanzialista, di una causa sui, dinanzi a cui non si puo'
danzare o produrre musica; presente, quindi, nella testimonianza del suo
oggi con l'uomo. Si deduce cosi' che il nome di Dio assume un valore
teofanico e performativo (30). In effetti, la rivelazione del nome e'
accompagnata dall'efficacia dell'azione divina che e' proprio dell'uomo
sperimentare ed inverare nella vita. L'appellativo di eterno come esistente
da sempre segue, dunque, questa esperienza che accade nella centralita'
dell'esserci umano ed e' il prodotto di una riflessione che semplicemente
ri-conosce. In termini filosofici si tratta del riconoscimento di un dass
anteriore al pensiero e di un'alterita' manifestata nella sua
interpellazione gratuita che rende libera la testimonianza, pur affidando ad
essa il suo divenire presente. Cio' implica l'impossibilita' di ridurre il
tetragramma ad una formula dogmatico-filosofica; il tetragramma JHWH e',
infatti, un nome orientato all'azione. Possiamo altresi' concludere che esso
e' un Botenspruch (31), il nome di un invio che necessita della memoria
dell'uomo.
Esso sottende altrettanto una presenza che si manifesta nella narrazione e
nell'invocazione, nel dialogo, nella preghiera corale, siano esse coniugate
al presente o al passato o al futuro, alla seconda o alla terza persona,
eterna, certo, ma nella fedelta' alla parola, nel rinnovarsi della
Rivelazione. E qui si gioca anche la sua trascendenza: essa, infatti,
implica un appello proveniente da un'alterita' capace di relazione, ovvero
di una relazione in ogni tempo, in ogni esperienza e momento della storia
dell'uomo. L'esperienza della liberazione nella storicita' di Israele
permette il riconoscimento di  un'alleanza eterna quale atto costitutivo del
mondo, che puo' fondarsi essenzialmente sul passato della creazione, come
garanzia e promessa del futuro dell'uomo e di Dio.
Rosenzweig sottolinea come il Dio che egli chiama dir Daseiende (colui che
ti e' accanto), e' esperito ad un tempo come Immerseiende (Il sempre
esistente). Il ricorso a questi termini ci pare sia assolutamente fedele
alla radice ebraica del verbo haya, in quanto determinazione di una
presenza, ma a questo riguardo non poche sono state le difficolta'
ermeneutiche. Il nostro autore ne sottolinea alcune, specie in un saggio,
compreso nei Kleinere Schriften, dal titolo Der Ewige, L'Eterno, nel quale
polemizza con la traduzione di Mendelssohn. La traduzione mendelssohniana di
Es. 3, 14 reciterebbe pertanto: "Dio parlo' a Mose': 'Io sono l'essere che
e' eterno'. Egli disse infatti: 'Cosi' devi parlare ai figli di Israele:
L'essere eterno che si chiama io sono eterno mi ha mandato a voi'" (32).
La traduzione "l'eterno" dovrebbe, all'avviso di Rosenzweig, esprimere
questa esperienza originaria del Dio che e' presente in ogni tempo accanto
all'uomo, e dunque della sua esistenza perenne e necessaria. Qui, tuttavia,
si darebbe un passaggio filosofico che coniugherebbe la tradizione ebraica
con un'istanza piu' razionalistica- classicistica, che risente
dell'influenza di Maimonide. Un passaggio problematico, che sottende ancora
un'accezione metafisica con la quale Mendelssohn si accosta alla tradizione
midrashica. In effetti, sottolinea Rosenzweig riprendendo una citazione di
Mendelssohn da Giobbe: "In un Midrash si dice: Il Santo, benedetto sia,
disse a Mose'. Di' loro: 'Io sono colui che era e ora sono il medesimo, e
saro' il medesimo nel futuro'. E inoltre i nostri maestri, la loro memoria
sia benedizione, dicono: 'Io saro' con loro in questa afflizione, poiche' io
saro' con loro nella schiavitu' anche sotto tutti gli altri regni. Con cio'
intendono dire quanto segue: 'Poiche' nel creatore il tempo passato e quello
futuro sono del tutto un presente, poiche' presso di Lui non esiste alcun
mutamento o dipendenza e dei suoi giorni non vi e' trascorrere, percio' in
Lui tutti i tempi vengono chiamati con un nome che comprende il passato, il
presente e il futuro. Mediante questo nome accenna alla necessita'
dell'esistenza e nel contempo alla provvidenza che dura ininterrottamente"
(33).
E' evidente qui un'interpretazione di tipo ontologico, da cui procede una
sorta di conseguenza filosofica che soggiace alla rivelazione del Nome, la
quale si pone, da questo punto di vista, sotto il segno della necessita'
dell'esistenza come fondamento del mondo.
Questa opzione deriverebbe dall'esigenza di coniugare l'istanza del Dio
sempre presente accanto a, con quella della necessita' dell'esistenza; ma
essa si rivela cosi' come altamente ambigua. Sembra quasi che vi si voglia
ravvisare una sorta di prova ontologica, facendo venir meno quella
differenza da Rosenzweig indicata come assolutamente essenziale, fra
l'indogermanico Sein e l'ebraico haya.
Riteniamo opportuno, quindi, ricorrere nuovamente ad un passaggio
particolarmente pregnante del nostro, che, dopo aver preso in esame un altro
commentario, in cui non e' estranea l'influenza della Guida degli smarriti
di Maimonide, e che spiega la rivelazione del Nome di Es. 3, 14, asserisce:
"Da questo commentario scaturisce innanzi tutto il fatto sorprendente che
questa decisione a favore del nome di Dio astratto, 'filosofico', che e'
stata cosi' gravida di conseguenze per l'ebraismo moderno, sia stata in
Mendelssohn spesso appesa ad un filo. L'Essere 'eternamente necessario' e
'L'Essere provvidente', entrambi sentiti nel nome, il primo dai filosofi
della religione classici, il secondo dalla tradizione autenticamente
popolare - Onkelos, Talmud, Raschi - presi in se stessi hanno per lui il
medesimo valore, l'uno e l'altro sono significati pensati dal testo. Nella
sua decisione e' incluso un frammento di quella fede del XVIII secolo, per
noi ormai non piu' praticabile (dopo lo 'spaccatutto', come proprio
Mendelssohn ha definito Kant), nella possibilita' di una teologia razionale,
per la quale - in flagrante contraddizione con l'esperienza della storia
della filosofia - 'dall'Essere necessariamente esistente' deriverebbe per
deduttivita' logica il 'provvidente'" (34).
Questo passaggio ci appare molto importante, in quanto mette in luce quale
forzatura ermeneutica deriverebbe dal ravvisare nella pericope di Es. 3, 14
un'istanza di teologia razionale, che legittimerebbe una deduzione
razionalistica di Dio, dando come necessaria la connessione fra provvidente
ed esistente, e racchiudendo nella fissita' dell'essere l'istanza di una
presenza, quella divina appunto, che implica al contrario il divenire e la
relazione dialogica, il percorso storico e la temporalita', e si presenta
all'uomo in quanto Alterita' loquente e liberta' del comandamento.
Ci sembra inoltre significativa la presa di distanza rosenzweighiana da
questo tipo di interpretazione; una presa di distanza che non puo' non
implicare una rilettura kantiana ed un punto di contatto con la critica
ontoteologica. Ritorna infatti, qui, l'istanza secondo la quale la
tradizione ed il retaggio dell'ebraismo contribuiscono ad illuminare
criticamente la filosofia, apportandovi significativi sviluppi. L'unita' fra
essere eterno ed essere necessario, che risente del retaggio aristotelico e
razionalista, non dice della vera essenza dell'ebraismo che si riconosce
nella Bibbia, e che e' costituita dalla Rivelazione del Nome e dal
significato che questo nome assume.
Alla luce di cio' comprendiamo per quale motivo il verbo haya si discosti da
ogni ist-frage, attestandosi al contrario sulla linea di un evento
dell'Altro, invocato al vocativo, nel dialogo e nella preghiera che celebra
la memoria rinnovata del suo rivelarsi, narrato nella terza persona, nel
racconto della creazione, e riconosciuto nel passaggio dal Tu all'Egli nella
sua identita' di Dio creatore e Dio presente a me. Sulla base di cio'
potremo certamente concludere che si tratta non tanto di sostantivo secondo
il genere e la specie, ma di un'alterita' agente, rivelata gia' ab initio
come relazione.
Da questo punto di vista, ascoltiamo ancora una volta Franz Rosenzweig: "E
proprio questo farsi tutt'uno e' cio' che, con il levarsi della sua fiamma
dal roveto ardente a partire dall'annuncio 'Io sono qui', forgia mediante il
nome di Dio, l'intera Bibbia in un'unica unita', compiendo ovunque
l'identificazione del Dio della creazione con il Dio presente a me, a te, a
ognuno. Identificazione questa il cui fuoco arde piu' che mai acceso nei
passi in cui il nome di Dio e la parola Dio cozzano l'uno contro l'altra
come nel capitolo del paradiso in Genesi, oppure nella proclamazione
dell'unita' dello shemah Israel" (35).
Il nominar-si di Dio in un movimento che, dal vocativo tende all'accusativo
di un'azione relazionale originaria, intesa nel senso di fatto dell'amore,
esclude ogni forma di oggettivismo che possa, in ultima analisi, convergere
in una teologia del Summum Ens; al contrario essa sottende una sorta di
theo-logica basata sul dono della parola come dono di senso e vocazione in
virtu' dell'apertura in-fondata ed autofondantesi della rilevazione, tale
che si configuri in essa l'ordine e l'orientamento della realta'.
Dunque la rivelazione e' la struttura trascendentale a partire da cui
l'essere accade come Erhellung, chiarificazione di senso, avente
un'incidenza esistenziale nell'esser-ci umano ed esigente altresi' un
inveramento fattuale nell'ordine della relazione che configura l'ad-venire
costante della redenzione. La Seinsfrage, ovvero quella che abbiamo posto
come questione dell'essere, in Rosenzweig si connette col termine entro cui
la stessa linguisticita' assurge a Begegnung, incontro, nonche' allo stesso
metodo della filosofia rosenzweighiana.
*
L'altrimenti essere e l'escatologia sempre realizzata
La ricognizione della Seinsfrage nell'opera di Rosenzweig ci ha condotti a
comprendere l'importanza delle categorie del tempo e della storicita' nella
formulazione di una nuova riflessione filosofica che vede nell'esperire e
nell'accadere l'istanza di un pensiero ins Leben, orientato e centrato sulla
vita. D'altro canto, in quanto luogo dialogico del riconoscimento
dell'eventuarsi della Rivelazione come interpellazione dell'altro, il
pensiero stesso si attesta non solo sull'esperire e sull'accadere, quanto
anche sull'orizzonte del supplicare, riconoscendo, cosi', come la
Rivelazione richiami la redenzione, e come - in ultima analisi - questa sia
essenzialmente un dono dell'altro con cui l'uomo puo' e deve cooperare,
nella liberta' e nel dovere della supplica. Possiamo cosi' comprendere
perche' il senso multiforme dell'essere si attesti sull'azione e su di un
tempo che accade in modo diacronico.
Porre l'attenzione su questa sorta di diacronia ci sembra necessario per
meglio individuare quella correlazione fra temporalita' ed essere,
rintracciabile nella Stella.
Concetto cardine per questo rischiaramento del senso e' proprio quello della
creaturalita', per cui la fatticita' dell'uomo invera un evento che si
rinnova nell'attimo sempre compiuto della decisione per il comandamento e
nel volgersi al prossimo, nonche' nel costituirsi del noi della comunita'
orante, ove si attesta la radice dell'eternita' piantata da Dio in mezzo al
Suo popolo.
"L'eternita' dell'uomo e' piantata nel terreno della creazione. La creazione
sarebbe l'"e" tra i due istanti della vita dell'uomo separati davanti a Dio
e tuttavia nell'uomo riuniti: quello dell'essere amato e quello dell'amare.
Il primo, che gli viene da Dio, il secondo, che si rivolge al mondo, come
potrebbero valere per lui come un solo amore, come potrebbe essere
consapevole di amare Dio amando il prossimo, se non perche' egli nel piu'
profondo e fin dal principio sa che il prossimo e' creatura di Dio e il suo
amore del prossimo e' amore per le creature?" (36).
Dio e prossimo, nonche' Dio e mondo fondano l'esperienza della creaturalita'
intesa come evento dell'Amore che accade nell'istante in cui Dio e uomo si
riconoscono come l'Io ed il Tu del dialogo, ma necessita di inverarsi nel
riconoscimento del Noi e del mondo, sottratto dal pervicace silenzio
dell'illud, proprio dal noi comunitario. Se fra Dio e l'uomo, o meglio fra
Dio e l'anima amante/amata si da' il tempo eterno di un dialogo che si
rinnova, fra l'uomo, il prossimo ed il mondo si esplica questa stessa
eternita', in virtu' della quale Dio si fa presente come memoria e promessa.
L'esser-ci della creatura ed il suo aprirsi nel linguaggio al tempo del
mondo e del prossimo anticipa l'eternita' attuata di Dio e la redenzione
come pienezza di essere totalmente realizzato.
Temporalita' ed escatologia non si fronteggiano od oppongono: si danno
accadendo nel kairos del linguaggio, si danno, soprattutto, come chiavi di
comprensione dell'essere nella centralita' dell'esser-ci, inteso non come
mera gettatezza quanto invece come testimonianza e risposta ad un dono
dell'altro.In questo senso ci sembrano preziose le osservazioni di Franz
Rosenzweig nella Cellula originaria de la Stella della Redenzione:
"L'Altissimo invece di esigere la nostra donazione totale, si da' Egli
stesso a noi; invece di innalzarci alla sua altezza discende fino a noi, e,
ancora, invece di prometterci come ricompensa il nostro se' ("diventa cio'
che sei") ci promette profeticamente l'esodo dal se' (Entselbstigung),
prossimita' di Dio come beatitudine. Dunque l'uomo cui Dio si affida, verso
cui Egli, che e' nobile e umile insieme, si china, mentre fa spazio a Dio
dentro di se' riceve tutto cio' che si e' donato totalmente a Dio e anche se
stesso, l'uomo. Nel mondo ogni dono di se' culmina in Dio in quanto Egli e'
idea delle idee, e Dio, donandosi ora a sua volta all'uomo nella
rivelazione, gli porta come dote tutta la dedizione del mondo" (37).
L'interpellazione e l'appello dell'alterita' divina si fanno evento della
stessa deposizione di Dio nel suo dono all'uomo e permettono all'uomo di
spogliarsi del suo se' nella dedizione al mondo che - anticipando la
redenzione - attesta l'eternita' piantata come seme al centro della
creatura. Dunque l'opera dell'uomo nel mondo e l'amore del prossimo
sottendono, nella testimonianza sempre nuova della rivelazione,
l'anticipazione dell'eschaton, gia' presente nello stesso rivelarsi di Dio
come esser-ci accanto all'uomo. E' importante, tuttavia, sostare sul senso
della deposizione di Dio che  e' specularmene connesso alla dedizione
dell'uomo, dopo il suo esodo da se'. Nell'esodo duplice di Dio e dell'uomo,
che segna l'evento della rivelazione, e che sancisce il kairos della
redenzione, e' possibile cogliere il senso dell'accadere dell'essere nel
tempo dell'esserci come prossimita' all'appello dell'altro, per mezzo di cui
si rinnova il potere della dedizione al mondo. Si darebbe, altresi' una
sorta di deontologizzazione del linguaggio, che recupera non solo la
dimensione speculativa, nel senso humboldtiano ed espressivistico (38), ma
traccia anche l'orizzonte di una nuova ermeneutica dell'essere, finalmente
liberato dalle catture di una comprensione meramente fenomenico-coscienziale
(39). Una tale ermeneutica permetterebbe davvero di ripensare l'essenza
dell'essere a partire dalla categoria della donazione che emerge chiaramente
nel testo rosenzweighiano. Ben lo evidenzia anche Bernhard Casper, nel
momento in cui osserva: "L'essenza dell'essere nella tradizione del pensiero
occidentale e' stata compresa sempre come essere vero, ossia illuminato per
la ragione ordinatrice del mondo, e come esser-buono, da affermare, per la
volonta' di dominio del mondo. Ma la radice del senso della realta' non si
trova, ancor prima che questa si mostri nella correlazione fra ragione e
volonta', nel fatto che l'essere si esplica come dono?" (40).
Il rapporto fra essere e dono lascia aperto un orizzonte altro, che - a
partire dall'evento biblico della Rivelazione del nome di Dio - permette di
riformulare la questione in termini di un pensiero della gratuita'.
L'esplicarsi dell'essere come dono risulta una chiave ermeneutica del tutto
inedita per affrontare il testo di Rosenzweig. Esso emerge con chiarezza a
partire dall'evento della rivelazione che implica ad un tempo il dono del
linguaggio in quanto evento che accade tra me e l'altro, e la possibilita'
del mondo redento, gia' donata nello stesso discendere di Dio.
La stessa comprensione biblica dell'essere lascia intravedere la
possibilita' di formulare un'ontologia dell'evento, che costituisce peraltro
l'assoluta novita' nell'ambito della stessa ontologia contemporanea. A tale
proposito, l'interpretazione casperiana merita una particolare attenzione.
Se e' vero che, da un lato egli legge Rosenzweig ben consapevole dei
contributi heideggeriani sia di Essere e tempo che di Tempo ed essere, egli
pero' sottolinea come la comprensione biblica della rivelazione possa
rendere ragione di un'esperienza piu' originaria di quella dell'essere in
quanto presenza, essa concerne appunto il pensiero dell'essere in quanto
evento accaduto sulla scorta di cui interpretare la realta'. L'evento
accaduto e' la rivelazione biblica, ma questa istanza fondamentale permette
una trascrizione filosofica del senso dell'essere come dono e gli conferisce
le coordinate ermeneutiche: quelle del tempo e quelle del linguaggio. Esse
non si riducono mai a mero dominio di chi parla, ne' a suo mero strumento,
rinviano bensi' ad una verita' che esige inveramento, che e' azione di Dio e
dell'uomo nella dedizione al mondo.
In quanto l'essere, nel suo senso biblico, sottende l'evento accaduto che ha
avuto origine nella rivelazione, esso fonda una comprensione piu' originaria
rispetto a quella della semplice presenza. In base ad essa si puo' parlare
autenticamente di Dio. Tale presupposto implica, pero', che l'essere si
attesti nuovamente come evento, non piu' solo accaduto, ma in grado di
accadere sempre nuovamente nella relazione con l'altro. Nello zwischen di
questa relazione si ridisegna pero' anche la figura di un tempo diacronico,
nel quale e' anticipata l'irruzione dell'eschaton come dono dell'essere
sempre indisponibile, il cui accesso e' aperto solo mediante l'uomo di cui
ne va dell'essere (41).
Ancora una volta, dunque, e' la rivelazione, con la sua capacita' di
origine, a determinare la possibilita' di un pensiero filosofico nel quale,
grazie all'apporto critico della teologia, l'essere possa attestarsi, ben
oltre la condizione di gettatezza, come futuro aperto e inveramento della
verita'.
*
Note
26. Dobbiamo questa interessante osservazione filologico-ermeneutica al
prof. Carmine Di Sante, teologo ed esperto di ebraismo, cui esprimiamo i
nostri ringraziamenti.
27. A. LaCoque, P. Ricoeur, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998, p. 313.
Quest'opera ci sembra preziosa per comprendere i rapporti fra mondo
ebraico-biblico e riflessione filosofica.
28. Rimandiamo su questo al prezioso studio di M. Buber, La fede dei
profeti, cit., p. 134.
29. Rosenzweig, GSI/2, p. 1161. Il testo tedesco recita come segue: "Nur
weil dieser dir gegenwaertig Werdende dir immer gegenwaertig, wenn du ihn
brauchst und rufst- ich werde dasein-, nur deshalb ist es dann unserm
Nachdenken, Nachdenken, freilich auch der Immerseiende, der Absolute, der
Ewige, losgehst dann von meiner Beduerftigkeit und meinem Augenblick, aber
doch nur loszuloesen, weil jeder zukuenftige Augenblick eines jeden an der
Stelle dieses meines jetzigen stehen koennte".
30. A. LaCoque, P. Ricoeur, Penser..., cit., p. 315.
31. Ivi, p. 314.
32. Rosenzweig, Die Schrift..., trad. it. cit, La Scrittura, p. 101.
33. Ivi, p. 102.
34. Ivi, p. 103.
35. Ivi, p. 109.
36. SR, 288-289, 278.
37. Rosenzweig, Urzelle..., trad. it. di G. Bonola, Cellula originaria...,
cit., p. 251.
38. Per questo rimandiamo all'opera di A. E. Bauer, cit.
39. Su questi temi, rispettivamente del linguaggio, dell'essere, del tempo e
del soggetto decentrato sarebbe interessante fare un confronto con Levinas,
cosa che non e' possibile in questa sede.
40. Casper, Das Ereignis des Betens, Alber, Freiburg 1998, p. 27. Il testo
tedesco recita come segue:"Das Wesen von Sein ist in der ueberlieferung des
abendlaendischen Denkens durchgaengig als Wahr-sein, Gelichtetsein fuer die
weltordnende Vernunft und als Gut-sein, Bejahbarsein fuer den
weltbewaeltigenden Willen verstanden worden. Aber liegt die Wurzel des
Sinnes der Wirklichkeit, noch bevor diese sich in der Korrelation zu
Vernunft und Willen zeigt, nicht darin, dass Sein sich als Gabe
erschliesst?".
41. Casper, La sfida di Franz Rosenzweig al pensiero cristiano, in
"Filosofia e Teologia", cit., p. 248.
(Parte terza - segue)

4. LETTURE. MARIA LAURA LANZILLO: IL MULTICULTURALISMO
Maria Laura Lanzillo, Il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. X +
154, euro 10. Nella bella collana della "Biblioteca essenziale", un'accurata
monografia introduttiva su un tema oggetto di un vivacissimo dibattito, ed
ineludibile. L'autrice insegna storia delle dottrine politiche
all'Universita' di Bologna (sede di Forli').

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 42 del 15 dicembre 2005

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