[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
La nonviolenza e' in cammino. 1140
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1140
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 10 Dec 2005 00:25:08 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1140 del 10 dicembre 2005 Sommario di questo numero: 1. Bruna Peyrot: Lo spirito dei luoghi 2. Umberto Santino: Borghesia mafiosa e societa' contemporanea 3. Enrico Peyretti: Un commento a Galtung 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. BRUNA PEYROT: LO SPIRITO DEI LUOGHI [Ringraziamo Bruna Peyrot (per contatti: brunapeyrot at terra.com.br) per questo intervento. Bruna Peyrot, torinese, scrittrice, studiosa di storica sociale, conduce da anni ricerche sulle identita' e le memorie culturali; collaboratrice di periodici e riviste, vincitrice di premi letterari, autrice di vari libri; vive attualmente in Brasile. Si interessa da anni al rapporto politica-spiritualita' che emerge da molti dei suoi libri, prima dedicati alla identita' e alla storia di valdesi italiani, poi all'area latinoamericana nella quale si e' occupata e si occupa della genesi dei processi democratici. Tra le sue opere: La roccia dove Dio chiama. Viaggio nella memoria valdese fra oralita' e scrittura, Forni, 1990; Vite discrete. Corpi e immagini di donne valdesi, Rosenberg & Sellier, 1993; Storia di una curatrice d'anime, Giunti, 1995; Prigioniere della Torre. Dall'assolutismo alla tolleranza nel Settecento francese, Giunti, 1997; Dalla Scrittura alle scritture, Rosenberg & Sellier, 1998; Una donna nomade: Miriam Castiglione, una protestante in Puglia, Edizioni Lavoro, 2000; Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita', Citta' Aperta, 2002; La democrazia nel Brasile di Lula. Tarso Genro: da esiliato a ministro, Citta' Aperta, 2004] Pur lavorando in Brasile, ho seguito quasi in diretta le drammatiche vicende della Val Susa, grazie a internet e alle lettere degli amici. Il mio cuore era lassu'. Per tanti motivi, principalmente perche' le "Valli", da quella dove sono nata, la Val Pellice, alla Val Susa, sono un fazzoletto di Occitania italiana densa di storia di autonomia e interculturalita' frontaliera. Questa storia ha comunicato anche un modo di pensare e di essere, ha formato delle personalita'-ponte, abituate a parlare con la loro e con l'altrui diversita'. Non e' stato facile per le popolazioni alpine imparare a essere italiani, ma e' avvenuto, con la grandezza del saper portare in se' altre anime importanti, altre identita'. Negli ultimi decenni, soprattutto in Europa, si e' assistito alla valorizzazione dei "luoghi". Considerati preziosi atlanti d'orientamento, sono stati sfogliati per riabilitare la loro sapienza antica, proprio come i cerchi alla base dei tronchi tagliati degli alberi, fino a proclamare gli "Statuti dei luoghi", che molte municipalita' italiane hanno considerato alla stregua di una carta costituzionale a tutela dei loro diritti. I luoghi sono il frutto di un dialogo continuo fra uomo e natura, fra uomini e donne, fra genere umano e altre specie, fiori e animali che evolvono uniti nel destarli. Molto si e' gia' scritto sull'attacco alla sapienza ambientale, sulla sostenibilita' del territorio, che "non e' un asino", come dice Alberto Magnaghi, sull'ecocompatibilita' e sulla necessita' di riterritorializzare lo spazio nell'armonia fra le entita' che lo abitano, per far capire, in primo luogo agli umani, la necessita' di prenderli in cura con lo stesso amore con cui si accudisce alla prole. Il risveglio dei luoghi e' stato associato anche al "fare societa' locale", un modo per riconsegnare a chi li abita la facolta' di governarli con forme di democrazia partecipativa diretta. Mi sembra che, oltre alla battaglia politica che con intelligenza amministratori, religiosi, popolazione locale della Val Susa da sempre, ed e' da sottolineare, da sempre, stanno conducendo, sia da portare alla luce questa dimensione profonda e forte di "cultura della montagna" che rivela anche nella battaglia politica la sua particolarita'. Non e' una semplice battaglia noglobal quella della Val Susa, e non e' radicata sulla cultura dei noglobal che affluiscono la' dove si opera uno strappo alla globalizzazione. La Val Susa lotta per la tav, ma anche perche' non sia distrutta la radice della sua cultura piu' antica. Questa cultura appartiene a tutte le valli e alla montagna europea che tradizionalmente sono state sconfitte sul piano economico, soprattutto con lo spopolamento alpino degli ultimi anni sessanta. In questi mesi e' in ballo pero' un'altra sconfitta ancora piu' dura: l'offesa alla spiritualita' di luoghi che avevano ancora la possibilita' di creare comunita'. Sono luoghi che se restassero sulla scena sarebbero irritanti per il vivere caotico globalizzato. Questo io percepisco sul piano culturale: l'irritazione verso un popolo alpino che insiste nel vivere e vivere bene, e che si ama solo quando canta e balla e vende formaggi ai turisti. Invece questo popolo e' sede di personalita' moderne, e' una "personalita'" moderna perche' e' sempre stato sulla frontiera. Il suo spirito e' il mio, il nostro. La democrazia resiste se resistono queste capacita' di essere - e resistere - con il proprio territorio. 2. RIFLESSIONE. UMBERTO SANTINO: BORGHESIA MAFIOSA E SOCIETA' CONTEMPORANEA [Dal sito del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" (www.centroimpastato.it) riprendiamo la seguente relazione di Umberto Santino presentata al convegno su "Mafia e potere" promosso da Magistratura Democratica e svoltosi a Palermo il 18-19 febbraio 2005. Umberto Santino (per contatti: csdgi at tin.it) ha fondato e dirige il Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo. Da decenni e' uno dei militanti democratici piu' impegnati contro la mafia ed i suoi complici. E' uno dei massimi studiosi a livello internazionale di questioni concernenti i poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia, politica e criminalita'. Tra le opere di Umberto Santino: (a cura di), L'antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, Franco Angeli, Milano 1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura, L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli, Milano 1992 (seconda edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura, Dietro la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La borghesia mafiosa, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia come soggetto politico, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Casa Europa. Contro le mafie, per l'ambiente, per lo sviluppo, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1995; Sicilia 102. Caduti nella lotta contro la mafia e per la democrazia dal 1893 al 1994, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1995; La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1997; L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. Su Umberto Santino cfr. la bibliografia ragionata "Contro la mafia. Una breve rassegna di alcuni lavori di Umberto Santino" apparsa su questo stesso foglio nei nn. 931-934] Premessa Quando concordavo con gli organizzatori del convegno il titolo della relazione sapevo perfettamente che mi condannavo al ruolo del San Sebastiano che offre il suo corpo nudo al bersaglio delle frecce. L'espressione "borghesia mafiosa" e' stata esplicitamente contestata da studiosi e politici, preoccupati di un'eccessiva dilatazione e diluizione dell'idea di mafia se non di una criminalizzazione generalizzata della societa' siciliana (il vecchio "tutto e' mafia", su cui ammoniva Leonardo Sciascia) e allarmati dalla riproposizione di schemi ideologici ormai coralmente considerati obsoleti, come un peccato di gioventu' che e' preferibile archiviare. Nel mio catalogo delle idee di mafia, pubblicato sotto il titolo La mafia interpretata (1995), riportavo le critiche di uno storico (Pezzino) e di un economista (Centorrino) che quasi con le stesse parole facevano un'obiezione di fondo alla mia analisi fondata sul concetto di borghesia mafiosa: se il concetto di aggregato mafioso si dilata fino a comprendere intere classi sociali, non resta che sperare in un cambiamento sociale e politico generale. Bisogna invece limitarsi a considerare la mafia come Cosa nostra, cioe' una struttura militare armata, colpendo cosi' il polo piu' debole del pactum sceleris tra mafia e poteri legittimi (istituzioni ed economia) che ha consentito alla prima di affermarsi. Come si vede, si sostiene, si da' quasi per scontato, che l'affermazione di Cosa nostra sia dovuta al patto con il mondo istituzionale ed economico, ma l'idea di mafia dovrebbe limitarsi all'organizzazione mentre dovrebbero rimanere nebulosi e imprecisati quei soggetti che avrebbero stipulato il patto con gli affiliati alla "struttura militare armata". Erano i tempi in cui si assisteva a un mutamento di paradigma, o piu' esattamente di stereotipo: si passava da una visione secondo cui la mafia-organizzazione non esisteva, la mafia era soltanto mentalita', subcultura, come affermavano testi che ebbero una notevole fortuna, come quello dell'antropologo tedesco Henner Hess (1973), a un'altra secondo cui la mafia era soltanto Cosa nostra, cioe' l'organizzazione superstrutturata, piramidale e verticistica, disvelata dai mafiosi collaboratori di giustizia, in particolare da Buscetta. Fino a quel momento anche il mafiologo piu' gettonato (Arlacchi) sosteneva che la mafia-organizzazione non esisteva e avrebbe continuato a sostenerlo finche' il mafioso-pentito Antonino Calderone non gli avrebbe rivelato l'arcano (Arlacchi 1992). Dopo le rivelazioni dei pentiti si transitava (riprendo alcune espressioni usate in altri scritti) dall'"indigestione di informale" (i non corporate groups, il disorganized crime) all'"overdose del superstrutturato", da una mafia amebica a una mafia cartesiana. La torsione veniva acriticamente accolta dagli studiosi che traghettavano da una polarizzazione all'altra. Rimanevo tra i pochissimi, se non l'unico, a parlare di mafia come fenomeno composito, in cui l'organizzazione, che non era una scoperta dei pentiti ma era documentabile fin dal XIX secolo, si saldava con i codici culturali e il consenso sociale e i gruppi criminali venivano visti in stretto collegamento con un sistema relazionale; idea che e' andata facendosi strada negli anni piu' recenti, ma in modo a mio avviso inadeguato e all'insegna di piu' o meno innocenti fraintendimenti. * Precedenti e puntualizzazioni La mia analisi imperniata sul concetto di borghesia mafiosa ha dei precedenti, remoti e prossimi. Il precedente storico piu' remoto e' dato dalle riflessioni di Franchetti (1877-1993) che com'e' noto parlava di "facinorosi della classe media" che praticavano "l'industria della violenza" e sosteneva che tutti i capi della mafia erano "persone di condizione agiata" e che il capomafia, rispetto ai "facinorosi della classe infima", esecutori dei delitti, svolgeva "la parte del capitalista, dell'impresario e del direttore". Sciascia in uno scritto del 1968 parla di "una categoria sociale, se non di una classe, che approssimativamente si puo' dire borghese, borghese-mafiosa piu' esattamente", che si forma dentro il calderone del sicilianismo (Sciascia 1970, p. 77). L'economista e dirigente politico Mario Mineo in un documento del novembre 1970 parlava di "borghesia capitalistico-mafiosa" come strato dominante della societa' siciliana, diffusa in tutta l'isola, Sicilia orientale compresa, e proponeva con dodici anni di anticipo sulla legge antimafia l'esproprio della proprieta' mafiosa. Tesi che incontro' la disattenzione completa del Manifesto nazionale, a cui il gruppo diretto da Mineo aveva appena aderito ma restando sostanzialmente un corpo estraneo; suscito' le critiche di militanti siciliani dello stesso gruppo, che consideravano la mafia un residuo arcaico gia' emarginato se non seppellito dallo sviluppo capitalistico e per la Sicilia orientale parlavano di una borghesia imprenditoriale che niente aveva a che fare con la mafia (dopo si sarebbe visto di che pasta erano fatti i cosiddetti "cavalieri" di Catania). Critiche radicali da parte dell'allora segretario regionale del Pci Achille Occhetto, impegnato ad avviare il "patto autonomistico", versione siciliana del compromesso storico, con i "ceti medi produttivi", secondo cui il gruppo palermitano del Manifesto vedeva dappertutto mafia (Santino 2000a, pp. 233 s.). In linea con quelle valutazioni le critiche di Emanuele Macaluso, storico dirigente comunista, che ritiene che lo "schema estremista di 'borghesia mafiosa'" sia stato adottato "dalla pubblicistica antimafiosa: quella colta e contorta e quella dozzinale" e abbia portato a identificare la lotta alla mafia con quella contro la "borghesia imprenditrice e delle professioni", con il risultato di giustificare "l'espansione oltre misura dell'industria pubblica, non come stimolo alla crescita dell'industria privata e di una borghesia imprenditrice, ma come alternativa ad essa. E questa 'cultura antiborghese' metteva insieme la sinistra radicale antimafiosa e la Dc che esercitava il potere pubblico usando anche la mafia". E aggiunge: "La borghesia siciliana nel dopoguerra tento', usando l'autonomia regionale e i poteri dello statuto, l'emancipazione, ma venne schiacciata, negli anni del boom capitalistico, dalla grande industria del Nord, dalla 'nuova classe' democristiana siciliana e dal radicalismo di sinistra" (Macaluso 1999, pp. 33 s.). Avendo vissuto in prima persona le esperienze di quegli anni, posso solo ricordare che l'analisi di Mineo e del gruppo del Manifesto di Palermo non fu condivisa neppure all'interno del gruppo siciliano, trovo' la piu' completa disattenzione presso le altre componenti della nuova sinistra, troppo occupate a "fare la rivoluzione" per accorgersi della mafia, e che all'esterno trovo' soltanto indifferenza o rifiuto. Non si vede come le si possano addebitare conseguenze cosi' rilevanti come le politiche che favorirono la crescita dell'industria pubblica, su cui peraltro esprimevano un giudizio pesantissimo, giudicandola una serie di carrozzoni parassitari. Mettere insieme la "sinistra radicale antimafiosa" e la Dc collusa con la mafia e considerare il "radicalismo di sinistra" corresponsabile della sconfitta della borghesia siciliana vuol dire soltanto rinverdire l'atteggiamento dei dirigenti comunisti del tempo, pronti a vedere tradimenti e "pidocchi nella criniera del purosangue" anche nella piu' esile delle opposizioni alla linea dominante. Eravamo poche migliaia e la campagna per una petizione popolare per l'espropriazione della proprieta' mafiosa si apri' e si chiuse con un comizio di chi scrive in provincia di Agrigento. Non c'erano le condizioni per continuare. Andiamo ai nostri giorni. Negli ultimi tempi l'espressione "borghesia mafiosa" e' stata rilanciata da qualche magistrato (in particolare da Pietro Grasso e da Roberto Scarpinato), che nel corso di indagini ha rilevato la presenza di soggetti del mondo imprenditoriale e professionale legati ai mafiosi e ne ha tratto l'idea che c'e' una borghesia che si puo' definire mafiosa, per la consistenza dei legami, la condivisione di interessi e di comportamenti. Ma le critiche non sono mancate anche di recente. Salvatore Lupo ha parlato di "suggestione": "In nessun modo la mafia puo' essere considerata una classe sociale (e viceversa) e dunque tale suggestione non aiuta nella necessaria distinzione tra i vari elementi costitutivi del network mafioso" (Lupo 2004, p. 41). Quindi: il network c'e' ma non e' analizzabile con la "suggestione" borghesia mafiosa. Meglio parlare di "richiesta di mafia nella societa' italiana", di "bisogno di mafia" (Lupo 2002, p. 505 s.). Giovanni Fiandaca contesta espressioni come "richiesta di mafia" e "voglia di mafia", parla di "equivoche metafore", richiama la necessita' di "analisi piu' puntuali dell'attuale modo di funzionare della politica, dell'economia e piu' in generale della societa' siciliana", ma giudica l'espressione "borghesia mafiosa" uno "pseudoconcetto comodo proprio per la sua indistinta genericita' e vaghezza". Considera una favola una borghesia "sempre intenta a ordire trame affaristiche in quei famosi e intramontabili 'salotti buoni' rievocati e ridemonizzati da Leoluca Orlando. Sara' la mia pedanteria professorale, ma non mi rassegno a considerare strumenti validi di conoscenza e interpretazione della realta' quelli che non sono altro che comodi e usurati slogan" (Fiandaca 2005, p. 66). Ora, che il piu' delle volte si parli di borghesia mafiosa in modo generico e onnicomprensivo non ci sono dubbi, ma solo una lettura preconcetta e frettolosa puo' scambiare per slogan un'analisi che ha cercato di leggere la realta' con strumenti complessi e articolati, a fronte di stereotipi senza nessuna reale funzione conoscitiva eppure recepiti anche dalla letteratura piu' accreditata (dalla subcultura senza organizzazione di Hess alla mafia tradizionale in competizione per l'onore che solo negli anni '70 scopre la competizione per la ricchezza, di Arlacchi). * Ruolo della violenza privata e sistema relazionale Con l'espressione "borghesia mafiosa", piu' che fare riferimento alla composizione sociale dei gruppi criminali (Franchetti come abbiamo visto rilevava l'appartenenza alla classe agiata dei capimafia), intendo denotare due fenomeni: 1) ruolo della violenza privata e dell'illegalita' nei processi di accumulazione e di formazione dei rapporti di dominio e di subalternita'; 2) sistema relazionale entro cui si muovono i gruppi criminali organizzati e senza di cui essi non potrebbero agire o comunque avere il ruolo che hanno avuto e continuano ad avere. Riporto l'ipotesi definitoria che compendia questi due aspetti e i corollari che ne discendono: "Mafia e' un insieme di gruppi criminali, di cui la piu' importante ma non l'unica e' Cosa nostra, che agiscono all'interno di un contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalita' finalizzato all'accumulazione del capitale e all'acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale" (Santino 1995, p. 129 s.). I gruppi criminali hanno composizione transclassista, altrettanto si puo' dire del blocco sociale che ruota attorno ad essi, che percorre trasversalmente il tessuto sociale, dagli strati piu' svantaggiati a quelli intermedi e ai piu' alti, ed e' dominato dai soggetti illegali-legali piu' ricchi e potenti, definibili come borghesia mafiosa: capimafia, professionisti, imprenditori, amministratori, politici, che risultano in rapporto continuativo con i criminali. * Accumulazione e dominio Quando dico che la violenza e l'illegalita' hanno avuto un ruolo decisivo nei processi di accumulazione e nei rapporti sociali faccio riferimento a fasi storiche determinate, anche se non si possono tagliare con l'accetta: il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, l'affermazione del modo di produzione capitalistico, il tardo capitalismo o posdtfordismo e la globalizzazione. Un'analisi che usa criticamente categorie e strumenti di un marxismo non economicistico, ma aperto all'ibridazione con modelli scientifici di vario orientamento (Weber, per esempio), permette di individuare la funzione di soggetti e pratiche formalmente criminali nelle dinamiche sociali che hanno contrassegnato le varie fasi. Nello studio del processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo ritengo utilizzabile lo schema proposto da Wallerstein (centro, periferia, semiperiferia): la Sicilia come periferia anomala vede lo sviluppo di quelli che ho chiamato "fenomeni premafiosi": l'impunita' di delinquenti garantiti perche' legati a soggetti di potere; reati con funzione accumulativa che implicano un dominio territoriale, come le estorsioni e l'abigeato (Santino 2000b). Nella fase di affermazione del capitalismo con caratteri specifici (si e' parlato di capitalismo di mediazione) la violenza mafiosa ha un ruolo fondamentale nel controllo della forza lavoro, con la repressione sanguinosa del movimento contadino, legittimata dall'impunita', e nel contrasto ai processi di rinnovamento, che arriva fino ai decenni scorsi, con le stragi e i delitti politico-mafiosi (di cui non sono mai stati individuati i mandanti). Qui ci sono utili anche riflessioni propriamente criminologiche, come quelle di Sutherland sui colletti bianchi (1949-1987) e quelle piu' recenti sulla criminalita' dei potenti (Ruggiero 1999). Nella fase attuale, designata correntemente come "globalizzazione", il crimine organizzato non e' un intruso sporadico o marginale ma un protagonista dei processi di modernizzazione, che utilizza le occasioni offerte dai processi di emarginazione dei quattro quinti della popolazione mondiale e dai processi di finanziarizzazione dell'economia (Santino 2002). Contrariamente a quello che sostengono alcuni studiosi che parlano tout court di globalizzazione criminale propendo per la tesi della criminogenicita' dei processi di globalizzazione. Questa analisi percorre una via alternativa alle due strade che mi sembrano dominate da eccessi di polarizzazione, tra il "tutto e' mafia" delle piovre planetarie e il riduzionismo che vede i fenomeni criminali come marginali e puntuali, entrambe lontane dalla realta'. E non pretende di essere l'unica possibile ma chiede che venga considerata nelle sue implicazioni teoriche e per la base di documentazione su cui si regge. Che queste analisi si rifacciano a modelli obsoleti e' tutto da dimostrare. L'analisi di classe e' stata piu' proclamata che praticata, piu' ridotta a schemi generalizzanti che articolata con studi di contesti reali. Nello stesso Marx e' rimasta allo stato di frammento; il cinquantaduesimo capitolo del terzo libro del Capitale dedicato alle classi contiene solo una pagina e mezza e l'accenno alle "tre grandi classi della societa' moderna", cioe' gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, e' accompagnato da un'avvertenza: c'e' un "infinito frazionamento di interessi e di posizioni" (Marx 1965, pp. 1003 s.). Il Marx storico (Il 18 brumaio, Lotte di classe in Francia) ha analizzato in concreto quel "frazionamento", individuando una stratificazione articolata in classi e frazioni: aristocrazia finanziaria, proprieta' fondiaria, borghesia industriale, piccola borghesia, contadini, proletariato industriale, sottoproletariato. E il concetto marxiano di "formazione economico-sociale" richiama una totalita' formata di soggetti sociali, mezzi di produzione, modelli culturali, che puo' essere utile anche oggi, con una realta' piu' complessa (si pensi alle varie forme di lavoro, con prevalenza del precario e del sommerso), ma pure con divari tra ricchi e poveri che tendono ad aumentare. Nel nostro Paese l'analisi delle classi sociali non ha avuto molti cultori e gli studi di Sylos Labini rimangono tra i pochi esempi che possono ricordarsi (Sylos Labini 1974, 1986). In ogni caso, mi chiedo cosa ci sia in circolazione di significativo sul piano teorico e di rilevante per la documentazione raccolta e interpretata per lo studio della mafia-organizzazione e dei suoi rapporti con il contesto sociale. Non mi pare che il panorama offerto dalle scienze sociali sia molto affollato. Dopo la sbornia culturalista si parla di Cosa nostra in termini subalterni alle tesi giudiziarie, ma tornano ad affiorare tesi culturaliste (Santoro 1998); per quanto riguarda il contesto si parla di relazioni esterne e di capitale sociale, di voglia di mafia. Sul piano politico-istituzionale si e' proposto di mettere in luce accanto alla responsabilita' giudiziaria la responsabilita' politica. * Il capitale sociale Il concetto di capitale sociale e' importato dalla sociologia americana, in particolare dagli studi di James S. Coleman che fa riferimento "all'insieme di risorse di cui dispone un individuo sulla base della sua collocazione in reti di relazioni sociali" (in Sciarrone 1998, p. 44). Lo studioso, di orientamento neoclassico, nel tentativo di temperare l'impostazione individualistica delle sue teorizzazioni, introduce il riferimento all'organizzazione sociale che costituirebbe il cosiddetto capitale sociale. Nasce cosi' una concettualizzazione bivalente, per cui il capitale sociale e' insieme attributo del sistema e risorsa individuale. Sotto questo ombrello concettuale c'e' di tutto: "dalle relazioni di autorita' alla fiducia, dalle norme sociali alla densita' degli scambi esistenti in un determinato ambiente" (Bianco - Eve 1998, p. 3). Quale utilita' presenta l'uso del concetto di capitale sociale nell'analisi del fenomeno mafioso? Sciarrone scrive che "una lettura del fenomeno mafioso in termini di capitale sociale presuppone di focalizzare l'attenzione sulla capacita' e sulle risorse relazionali dei mafiosi". La forza della mafia "e' conseguenza anche della sua capacita' di networking: cio' permette ai mafiosi di porsi, a seconda delle circostanze, come mediatori, patroni, protettori in strutture relazionali di natura diversa che essi riescono a utilizzare per i propri obiettivi" (Sciarrone 1998, p. 47). I gruppi mafiosi avrebbero una struttura organizzativa caratterizzata da una dualita': centralizzazione interna e fluidita' esterna. La prima tendenza riguarda gli affiliati, la seconda le reti di alleanze dei mafiosi con altri soggetti. Ci sarebbero pertanto legami forti verso l'interno e legami deboli verso l'esterno. Questa visione mi pare inadeguata a rappresentare la complessita' e la consistenza dei legami di quello che preferisco chiamare "sistema relazionale", al cui interno si realizzano i rapporti, piu' forti che deboli, piu' persistenti nel tempo che episodici e sporadici, informali ma non per questo labili e sfuggenti, dei criminali di professione con il contesto sociale e in particolare con alcuni soggetti. Nella ricerca pubblicata nel volume L'impresa mafiosa abbiamo ricostruito il sistema relazionale di Francesco Vassallo, promosso da carrettiere a costruttore principe sulla scena palermitana, indicando i soggetti che lo componevano: parenti mafiosi, tecnici, liberi professionisti, imprenditori, direttori di banche, funzionari della pubblica amministrazione, politici. Un quadro di cointeressenze senza di cui il costruttore non avrebbe potuto neppure muovere i primi passi della sua carriera imprenditoriale (Santino-La Fiura 1991). Piu' recentemente, nel 1998, uno studente dell'Universita' di Messina, Antonello Mangano, ha ricostruito nella sua tesi di laurea attivita', interessi, soggetti che compongono la "borghesia mafiosa" di quella citta', che ha il suo terreno privilegiato nell'Universita' e non per caso la tesi ha incontrato l'aperta avversione dell'accademia locale, fino al ritiro della firma da parte del correlatore, l'economista Mario Centorrino che ha scritto vari volumi sull'economia mafiosa. Evidentemente questo tipo di ricerca non interessa i cattedratici dello Stretto, che hanno negato la lode a una tesi fuori dagli schemi. Solo con l'omicidio del professore Bottari il "caso Messina" e' emerso nelle cronache italiane e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia ma non nella riflessione di studiosi e docenti, tolte poche eccezioni (Comitato messinese per la pace 1998). I capimafia attuali, a cominciare da quelli che vengono indicati come capi dei capi, Riina e Provenzano, sono quasi analfabeti e tutte le attivita' che si attribuiscono loro, da quelle illegali, come il traffico di droghe, a quelle legali (imprese, appalti ecc.) non sarebbero possibili, neppure a livello di ideazione, senza la collaborazione di altri soggetti del mondo delle professioni, dell'imprenditoria e delle istituzioni. Le riflessioni sul capitale sociale e sulle relazioni esterne anche se mi sembrano inadeguate sono indubbiamente apprezzabili sul piano teorico, mente parlare di richiesta o di bisogno di mafia o di voglia (espressione adoperata nell'uso corrente per i desideri alimentari delle donne incinte, che lascerebbero il segno sui corpi dei nascituri) di mafia, vuol dire soltanto usare espressioni ad effetto, buone per il titolo di libri di carattere giornalistico, anche ben documentati, ma prive di rilevanza scientifica. * Responsabilita' giudiziaria e politica La legislazione attuale, dopo la legge antimafia del 1982 (approvata una settimana dopo l'assassinio di Dalla Chiesa), e' tutta all'insegna dell'emergenza. Comunque, per quanto riguarda l'organizzazione criminale, e' servita per condannare gli affiliati, capi e gregari, rompendo con una prassi d'impunita' che rimonta ai primi anni dello Stato unitario. Per cio' che riguarda il sistema relazionale, la creazione della fattispecie giurisprudenziale del concorso esterno ha dato vita a varie vicende processuali, con risultati diversi. Il processo che ha dominato la scena giudiziaria degli ultimi anni, quello ad Andreotti, si e' concluso con una sentenza di prescrizione del reato commesso (l'associazione a delinquere semplice) fino al 1980 e di assoluzione per il periodo successivo. Mi pare una sentenza all'italiana, buona per contentare tutti. Il termine del 1980 appare calcolato in modo da far scattare la prescrizione e aprire la strada all'assoluzione, che l'opinione pubblica quasi unanimemente ha considerato come esito unico del processo, in realta' bivalente. Non so se la fattispecie di associazione fosse la piu' adatta a rappresentare i rapporti effettivi di Andreotti con Lima e con mafiosi notori, comunque questi rapporti, almeno con Lima, sono perdurati ben oltre quella data, certamente fino alla morte del parlamentare europeo (marzo 1992) e se non sono stati considerati come criminosi dalla magistratura rimangono gravemente censurabili sul piano etico e politico. Avrei delle perplessita' sull'esito di alcuni processi a professionisti e politici, assolti anche in presenza di elementi consistenti come la collaborazione al riciclaggio del denaro sporco o l'ospitalita' a mafiosi latitanti. Forse l'ipergarantismo di alcuni magistrati ha pesato sulle decisioni finali. Com'e' noto rimangono avvolti nel mistero, ed e' fortemente probabile che lo rimarranno, i cosiddetti mandanti esterni dei delitti e delle stragi politico-mafiosi ed e' rimasta interamente sulla carta la responsabilita' politica di cui parlava la relazione su mafia e politica della Commissione parlamentare antimafia approvata a larga maggioranza nel 1993, sull'onda dell'emozione suscitata dalle stragi. In mancanza di sanzioni la responsabilita' politica e' destinata a restare un pio desiderio che nessuna autoregolazione si propone di soddisfare. Nelle ultime elezioni politiche si e' arrivati a candidare personaggi sotto processo per concorso esterno (Marcello Dell'Utri a Milano e Calogero Giudice a Palermo, entrambi eletti) e negli anni piu' recenti l'attacco alla magistratura ha avuto accenti inusitati, in piena delegittimazione della funzione giurisdizionale, bollata come persecutoria e gestita da uomini politicizzati (le "toghe rosse") e antropologicamente tarati. Nella storia dello Stato italiano non si era mai arrivati a tanto, ma l'opposizione non e' andata al di la' di reazioni timide e precarie. Un governo e una maggioranza in cui abbondano personaggi sotto inchiesta per mafia o per corruzione, affiancati da avvocati difensori di potenti incriminati, diventati parlamentari per meriti acquisiti nelle aule dei tribunali, con una politica esplicitamente intesa a tutelare interessi personali, avrebbero meritato un'analisi adeguata. Concetti poco rassicuranti come quello di borghesia mafiosa o della mafia come soggetto politico, in proprio attraverso la signoria territoriale e in interazione con le istituzioni (Santino 1994), forse avrebbero avuto una maggior presa sulla realta' di quanto ne abbiano avuto teorizzazioni appiattite sugli aspetti organizzativi e militari. I pochi che hanno provato a disegnare un quadro allarmato dell'attuale sistema di potere sono giornalisti e intellettuali che in gran parte non provengono dalle file di una sinistra in piena crisi d'identita'. Anche i docenti e gli intellettuali impegnati nella stagione dei girotondi non hanno prodotto analisi convincenti e in ogni caso non sono riusciti ad andare al di la' di colorite manifestazioni di protesta. In questo contesto la Commissione parlamentare antimafia non ha fatto sentire la sua voce, se non per indicare i rischi di un'"analisi politica", anche distorcendo le analisi di chi scrive (Commissione parlamentare 2003, pp. 510 ss.). La mia proposta di continuare sul cammino intrapreso nella precedente legislatura con la relazione sul depistaggio, ad opera di rappresentanti delle istituzioni, per il delitto Impastato (Commissione parlamentare 2001), che poteva essere il primo capitolo di una storia dell'impunita', che avrebbe dovuto affrontare il problema delle stragi neofasciste e mafiose, non e' stata accolta, certo per l'indisponibilita' della maggioranza, ma anche per l'inerzia dell'opposizione, per cui ho preferito dare le dimissioni da consulente. Il quadro politico attuale costituisce a mio avviso il contesto piu' favorevole dall'Unita' d'Italia a oggi per l'inserimento della cosiddetta mafia sommersa, che ha rinunciato ai delitti eclatanti dopo gli effetti boomerang che essi hanno causato. Siamo di fronte alla legalizzazione dell'illegalita', a un'illegalita' sistemica che va in scena quotidianamente e che mira a permeare d'illegalita' il quadro istituzionale, sottraendolo alle prescrizioni costituzionali, e il modello di accumulazione, abolendo o riducendo i controlli, per cui il nemico non puo' non essere chi esercita il controllo di legalita'. A fronte di un simile scenario l'approccio formalistico-legalitario delle attivita' di educazione alla legalita' di gran parte dell'attivismo antimafia, dentro e fuori dalle scuole, e' condannato alla predicazione ininfluente sui processi in atto. Se tutto si risolve nel rispetto delle leggi, a prescindere dalla valutazione del loro contenuto, anche le leggi razziali di Hitler e di Mussolini dal punto di vista formale-procedurale sono leggi a tutti gli effetti, e anche le leggi ad personam degli ultimi anni lo sono. Mentre sarebbero da escludere tutte le forme di disobbedienza civile, dalle occupazioni delle terre del movimento contadino alle pratiche piu' recenti (su cui c'e' da dire che troppo spesso si riducono a forme discutibili di ribellismo estemporaneo, senza preparazione adeguata e con scarsa partecipazione). Le pratiche generose della societa' civile organizzata, efficacemente impegnata sul terreno dell'uso sociale dei beni confiscati e dell'antiracket, ancora scarsamente diffuso sul territorio nazionale, non sono riuscite a elaborare un progetto complessivo e non c'e' un'analisi condivisa, soprattutto sul rapporto mafia-politica, spesso inteso come rapporto privatistico di qualcuno con qualcuno. * Quale strategia per il futuro? La strategia mirata a colpire i mafiosi ha conseguito risultati storici, incrinando la tradizione dell'impunita', ma ormai mostra la corda, per l'attenuazione e cancellazione di una legislazione tarata sull'emergenza ("la mafia esiste quando spara") e le esperienze giudiziarie basate sul concorso esterno hanno avuto esiti pressoche' fallimentari. Una strategia adeguata non pretende certo di avviare la palingenesi sociale, come vorrebbero i critici delle teorizzazioni sulla borghesia mafiosa, ma dovrebbe essere capace di colpire i mafiosi a prescindere dalle congiunture delittuose e di disarticolare il blocco sociale, con fattispecie penali che regolino esplicitamente i rapporti all'interno del sistema relazionale. Ovviamente la repressione da sola non basta. E anche la prevenzione abbisogna di teorie e pratiche non suggestive e improvvisate. Occorrono politiche integrate che incoraggino la fuoruscita dall'illegalita' sistemica degli strati popolari e anche degli strati borghesi. Il movimento antiracket ha difficolta' a estendersi e a radicarsi, non solo per l'efficacia dell'intimidazione mafiosa ma soprattutto perche' prassi e metodi mafiosi, adattati al contesto attuale, continuano ad essere vie d'accesso al sistema di potere. Non e' il desiderio di protezione, su cui si attardano studiosi attratti da formulazioni piu' o meno raffinate che orecchiano la teoria dei giochi, a richiamare sotto l'ala mafiosa commercianti e imprenditori, ma la consapevolezza che la mafia e' soggetto di potere, con cui e' conveniente convivere (l'affermazione del ministro Lunardi piu' che una gaffe e' una voce dal sen fuggita che richiama una tangibile realta'), per le opportunita' che offre e le strade che apre. Vuoto quasi completo per quanto riguarda gli strati popolari. La mafia e le sue sorelle non producono sviluppo ma distribuiscono reddito e offrono occasioni di arricchimento e di scalata sociale, e questo lo sanno benissimo gli abitanti dello Zen di Palermo e di Scampia a Napoli. Poco importa se il denaro si tinge di morte: la convivenza con la morte fa parte della vita quotidiana, della cultura e della religiosita' popolare, piu' acclimatata ai venerdi' santi che alle pasque, certamente molto piu' del rispetto per la vita. Se l'antimafia non fa tutt'uno con la lotta per la democrazia (insidiata da forme piu' o meno mascherate di leaderismo carismatico, piu' presunto che reale) e per un diverso modello di sviluppo che soddisfi i bisogni di tutti e non aggravi squilibri territoriali e divari sociali, la sconfitta e' certa, fatta salva l'anima di testimoni controcorrente. Anche se da piu' parti si insiste su un'antimafia pre-condizione della vita civile e lasciapassare alla normalita', che pertanto dovrebbe essere accolta e praticata da tutti, senza distinzione di colore politico, la lotta contro la mafia storicamente ha molti protagonisti esplicitamente schierati e pochi singoli personaggi che hanno pagato la colpa di avere cercato di staccarsi dalle politiche praticate dalle formazioni governative di cui facevano parte (da Pasquale Almerico, sindaco di Camporeale ucciso nel 1957 perche' voleva impedire l'ingresso dei mafiosi del paese nella Democrazia cristiana, a Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana, ucciso nel 1980). Le formazioni di sinistra attraversano una crisi epocale che non si risolvera' ne' con nostalgie del passato e rifondazioni piu' verbali che sostanziali, ne' con pratiche di neoliberismo temperato. Entrambe non hanno risposte adeguate ai problemi indotti dai processi di emarginazione che globalizzano la poverta' e militarizzano i supermercati riservati a pochi privilegiati. Si potranno trovare risposte ai problemi del nostro tempo, dentro cui c'e' il problema del lievitare dell'accumulazione illegale, della simbiosi tra legale e illegale e del proliferare delle mafie, solo ricostruendo una capacita' di analisi che non comincia da zero ma deve saper correre il rischio di inventare nuovi paradigmi e nuovi percorsi. Se ci si guarda in giro, non c'e' molto da rallegrarsi. Neppure per i comportamenti di quelli che dovrebbero essere i soggetti di un rinnovamento possibile, delle riflessioni e delle pratiche. Parlo dei centri studi e delle associazioni antimafia. Si parla di impegno comune, ma spesso si procede con ottiche di bottega. Soprattutto quando si tratta di assicurarsi i finanziamenti pubblici. Come e' accaduto recentemente alla Regione siciliana, dove alcuni centri studi hanno chiesto il ripristino di vecchie leggine-fotografie, isolando il Centro Impastato, operante da molti piu' anni, che e' rimasto solo a chiedere una legge di carattere generale che fissi criteri oggettivi. Il primo esempio di cambiamento di rotta rispetto al sistema clientelare di spartizione del denaro pubblico dovrebbe venire dall'associazionismo antimafia, ma da questo orecchio non pare che siano in molti a volerci sentire. * Riferimenti bibliografici - Arlacchi Pino, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Mondadori, Milano 1992. - Bianco Maria Luisa - Eve Michael, I due volti del capitale sociale. Il capitale sociale individuale nello studio delle diseguaglianze, dattiloscritto, 1998. - Comitato messinese per la pace e il disarmo unilaterale, Le mani sull'Universita'. Borghesi, mafiosi e massoni nell'ateneo messinese, Armando Siciliano, Messina 1998. - Commissione parlamentare antimafia, relatore Giovanni Russo Spena, Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio, Editori Riuniti, Roma 2001. - Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalita' mafiosa o similare, Relazione annuale, Roma 2003. - Fiandaca Giovanni, La magistratura non e' la bocca della verita', in "Limes. Come mafia comanda", n. 2, 2005, pp. 63-68. - Franchetti Leopoldo, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, in La Sicilia nel 1876, per Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Tip. Barbera, Firenze 1877, ristampato da Donzelli, Roma 1993. - Hess Henner, Mafia, Laterza, Roma-Bari 1973. - Lupo Salvatore, L'evoluzione di Cosa nostra: famiglia, territorio, mercati, alleanze, in "Questione giustizia", n. 3, 2002, pp. 499-506; Storia della mafia, Donzelli, Roma 2004. - Macaluso Emanuele, Mafia senza identita'. Cosa Nostra negli anni di Caselli, Marsilio, Venezia 1999. - Mangano Antonino, Mafia come sistema, tesi di laurea, Universita' di Messina, anno accademico 1996-'97. - Marx Karl, Il Capitale. Libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1965. - Ruggiero Vincenzo, Delitti dei deboli e dei potenti. Esercizi di anticriminologia, Bollati Boringhieri, Torino 1999. - Santino Umberto, La mafia come soggetto politico. Ovvero: la produzione mafiosa della politica e la produzione politica della mafia, in Fiandaca G. - Costantino S., La mafia, le mafie, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 118-141; La mafia come soggetto politico, Centro Impastato, Palermo 1994; La mafia interpretata, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000a; La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000b; Modello mafioso e globalizzazione, in Marco Antonio Pirrone - Salvo Vaccaro (a cura di), I crimini della globalizzazione, Asterios, Trieste 2002, pp. 81-110. - Santino Umberto - La Fiura Giovanni, L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990. - Santoro Marco, Mafia, cultura e politica, "Rassegna Italiana di Sociologia", n. 4, dicembre 1998, pp. 441-476. - Sciascia Leonardo, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Einaudi, Torino 1970. - Sciarrone Rocco, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, Roma 1998. - Sutherland Edwin H., Il crimine dei colletti bianchi, Giuffre', Milano 1987 (ed. or. 1949). - Sylos Labini Paolo, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974; Le classi sociali negli anni '80, Laterza, Roma-Bari 1986. - Wallerstein Immanuel, Il sistema mondiale nell'economia moderna, il Mulino, Bologna 1978. 3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: UN COMMENTO A GALTUNG [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario. Johan Galtung, nato in Norvegia nel 1930, fondatore e primo direttore dell'Istituto di ricerca per la pace di Oslo, docente, consulente dell'Onu, e' a livello mondiale il piu' noto studioso di peace research e una delle piu' autorevoli figure della nonviolenza. Una bibliografia completa degli scritti di Galtung e' nel sito della rete "Transcend", il network per la pace da lui diretto, cui rinviamo: www.transcend.org] Johan Galtung e' un maestro dei maggiori nella ricerca della pace. Ascoltarlo e' un nutrimento dell'intelligenza e della creativita', nel pensare e analizzare i conflitti per trasformarli in forme nonviolente e positive. In un bel convegno a Torino sulla mediazione, organizzato dal Centro studi "Sereno Regis", il 3 dicembre, ha detto, en passant, che al termine "nonviolenza", che suona ancora negativo, preferisce l'espressione "pace con mezzi pacifici" (titolo di uno dei suoi libri piu' importanti, Edizioni Esperia, Milano 2000). Credo che il suggerimento vada raccolto ma anche discusso. Il termine "nonviolenza", oltre la nobilta' della tradizione, ha il merito di conservare in se' l'elemento negativo - la violenza - sempre da guardare e conoscere per superarla, nelle nostre persone e nella storia umana. Gandhi propose e diffuse (quasi cento anni fa) il termine "satyagraha", che possiamo tradurre con "forza della verita'", "forza dell'anima". Martin Luther King parlo' di "forza di amare". Sono termini chiaramente positivi, che affermano la differenza essenziale tra forza, che e' virtu' umana e costruttiva, e violenza, che e' offesa, distruzione, male causa di mali. Su questa linea si possono fare altri tentativi (una piccola proposta, che feci tempo fa, era "forzavera"). Ma credo che diffondere l'uso di "satyagraha" nella nostra lingua, mantenendo pero' anche "nonviolenza", sarebbe la soluzione migliore. * In un altro punto di questa sua ultima ricca conversazione torinese, Galtung ha detto di cercare la pace per motivi non morali o religiosi, ma pragmatici: ridurre i mali e le sofferenze. Mi pare giusto, ma del tutto non sufficiente. La questione della violenza e della pace ha a che fare con la questione massima del male e del bene, per quanto ardua questa si presenti agli esseri umani: ardua ma centralissima nell'esistenza e assolutamente chiara e primaria e ineludibile per vivere in modo degno. Cosi', la violenza e la pace sono una essenziale questione religiosa: cioe' di significato e di salvezza dell'esistenza umana. Non solo salvezza dalla catastrofe fisica totale, preparata e programmata dalla logica di guerra, dagli armamenti odierni e dall'antropologia violenta, ma soprattutto salvezza dalla catastrofe morale. Le religioni non hanno sempre e tutte messo al loro centro questa questione, e hanno persino santificato la guerra, con una bestemmia gigantesca, ma questa loro grave colpa non fa altro che denunciare e segnalare nuovamente la necessaria vocazione e impegno di pace di ogni via religiosa, sotto pena di perdere ogni senso. A mio parere convinto, la pace ha un bisogno essenziale di criticare le infedelta' delle religioni per potere ottenere il loro apporto necessario e prezioso alla mutazione pacifica delle culture e delle politiche umane, dalla competizione dura alla cooperazione. 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazion e, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1140 del 10 dicembre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1139
- Next by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1141
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1139
- Next by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1141
- Indice: