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La nonviolenza e' in cammino. 1126
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1126
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 26 Nov 2005 04:48:44 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1126 del 26 novembre 2005 Sommario di questo numero: 1. Cindy Sheehan: Una lettera aperta a Barbara Bush 2. Diane Wilson: L'arte di uscire dal seminato 3. Giuliana Sgrena: Complici 4. Franco Lorenzoni: L'educazione ambientale dopo Alexander Langer 5. Enzo Traverso presenta "I fantasmi della storia" di Regine Robin 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: UNA LETTERA APERTA A BARBARA BUSH [Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int) per averci trasmesso il seguente intervento di Cindy Sheehan apparso sul quotidiano "L'Unita'" del 25 novembre 2005. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey in Iraq; per tutto il mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio. Intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra. Barbara Bush e' la madre dell'attuale presidente degli Stati Uniti d'America] Cara Barbara, il 4 aprile 2004 suo figlio maggiore ha ucciso mio figlio maggiore, Casey Austin Sheehan. A differenza del suo figlio maggiore, il mio era una persona meravigliosa e si era arruolato per servire il suo Paese e per cercare di rendere il mondo migliore. Casey non voleva andare in Iraq, ma conosceva il suo dovere. Suo figlio si assento' senza permesso dalla sua unita' speciale. George non riusciva nemmeno a sopportare l'Alabama Air National Guard. Casey si e' arruolato nell'esercito prima che suo figlio ne diventasse il comandante in capo. Sappiamo tutti che suo figlio pensava di invadere l'Iraq gia' nel 1999. Casey era un uomo morto ancor prima che George diventasse presidente e ancor prima di arruolarsi nell'esercito nel maggio 2000. * Ho educato Casey e gli altri miei figli ad usare le parole per risolvere i problemi e i conflitti. Fin da quando erano molto piccoli ho detto ai miei quattro figli che e' sempre sbagliato tirare calci, mordere, picchiare, graffiare, tirare i capelli ecc. Se i piu' piccoli non riuscivano a trovare le parole per risolvere i loro conflitti senza fare ricorso alla violenza, li ho sempre incoraggiati a ricorrere ad un mediatore come, ad esempio, un genitore, un compagno piu' grande o un insegnante che li aiutasse a trovare le parole adatte. Lei ha insegnato a George ad usare le parole e non la violenza per risolvere i problemi? Lei gli ha insegnato che uccidere altre persone per ricavarne dei profitti e per il petrolio e' sempre sbagliato? Ovviamente no. Ero anche solita lavare la bocca dei miei figli con il sapone nelle rare occasioni in cui mentivano... ha fatto la stessa cosa con George? Puo' farlo ora? Ha mentito e continua a mentire. Saddam non aveva ne' armi di distruzione di massa ne' legami con Al Qaeda, e i promemoria di Downing Street provano che suo figlio lo sapeva benissimo prima di invadere l'Iraq. * Il 3 agosto 2005 suo figlio ha dichiarato di aver ucciso mio figlio e altri coraggiosi e onesti americani per una "nobile causa". Ebbene, Barbara, da madre a madre, questa dichiarazione mi ha mandato su tutte le furie. Invadere e occupare un altro Paese che, come e' stato dimostrato, non costituiva una minaccia per gli Stati Uniti non la considero una "nobile causa". Non credo che invadere un Paese, ucciderne i cittadini innocenti e distruggerne le infrastrutture per far arricchire i profittatori di guerra della sua famiglia e degli amici della sua famiglia sia una nobile causa. Cosi' ad agosto sono andata a Crawford per chiedere a suo figlio per quale nobile causa ha ucciso mio figlio. Non ha voluto parlarmi. E' stato un gesto di incredibile maleducazione. Ritiene che un presidente, si tratti pure di suo figlio, debba essere cosi' inaccessibile ai suoi datori di lavoro? In particolare se si tratta di una persona la cui vita George ha completamente devastato? Da agosto sono stata diverse volte alla Casa Bianca per cercare di incontrare George e la settimana prossima saro' nuovamente a Crawford. Pensa di poterlo chiamare e chiedergli di fare cio' che e' giusto ritirando le truppe da questa guerra illegale e immorale da lui insensatamente iniziata? Mi dicono che lei e' una delle poche persone con cui ancora parla. Non parla con suo padre che ben conosceva le difficolta' e l'impossibilita' di invadere l'Iraq e per questa ragione decise di non farlo in occasione della prima guerra del Golfo. Se non puo' dirgli di ritirare le truppe puo' almeno sollecitarlo ad incontrarmi? * Ecco quanto lei stessa disse nel 2003, poco piu' di un anno prima che il mio caro, dolce Casey fosse assassinato dalle politiche di suo figlio: "Perche' dovremmo sentir parlare di sacchi di plastica con dentro i cadaveri e di morti? Intendo dire che non e' rilevante. Perche' dovrei sprecare il mio prezioso cervello per occuparmi di cose del genere?" (Good Morning America, 18 marzo 2003). Debbo dirle qualcosa, Barbara. Nemmeno io volevo sentire parlare di morti e di sacchi di plastica con dentro i cadaveri. Il 4 aprile 2004 tre ufficiali dell'esercito sono venuti a casa mia per dirmi che Casey era morto in Iraq. Sono caduta a terra urlando e pregando il crudele Angelo della Morte di prendere anche me. Ma l'Angelo della Morte che ha preso mio figlio e' suo figlio. Casey e' tornato a casa il 10 aprile in una bara avvolta da una bandiera. La mia mente e' piena di immagini del suo corpo bellissimo in un feretro e del ricordo di aver sepolto il mio coraggioso e onesto figliolo ancor prima che la sua vita avesse inizio. La mente meravigliosa di Casey e' stata spenta dal proiettile di un insorto che lo ha colpito al capo, ma a tirare il grilletto avrebbe potuto essere benissimo suo figlio. * Oltre che incoraggiare suo figlio a mostrare un po' di onesta' e di coraggio facendo finalmente cio' che e' giusto, non crede di dovere a me e a tutti gli altri genitori della Gold Star Families for Peace [un'organizzazione che riunisce i parenti di soldati morti in Iraq - ndt] delle scuse per il suo crudele e avventato commento? Le politiche sorprendentemente ignoranti, arroganti e sconsiderate di suo figlio in Iraq sono responsabili di molto dolore e di molti problemi in tutto il mondo. Puo' farlo fermare? Lo faccia prima che altre madri abbiano a soffrire in modo insensato e crudele. Ce ne sono gia' state molte in tutto il mondo. 2. TESTIMONIANZE. DIANE WILSON: L'ARTE DI USCIRE DAL SEMINATO [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente testo di Diane Wilson estratto dal libro di AA. VV., Stop the Next War Now: Effective Responses to Violence and Terrorism, a cura di Medea Benjamin e Jodie Evans. Diane Wilson e' madre di cinque figli e una spina nel fianco delle compagnie chimiche sulla costa del Golfo del Texas; attraverso scioperi della fame ed altre azioni dirette nonviolente, ha fatto pressione sulle compagnie sino a costringerle spesso a smettere di inquinare la baia; ambientalista e pacifista di lunga data, e' cofondatrice del gruppo pacifista femminista "Codepink"; e' appena uscito il suo nuovo libro, "An Unreasonable Woman" (Una donna irragionevole)] Sono andata in Iraq con un gruppo di donne di "Codepink" poco prima dell'invasione statunitense, nel marzo 2003. Prima di partire, avevo sentito molti commenti su come gli iracheni odiassero gli americani e ci invidiassero il nostro stile di vita e la nostra liberta'. A Baghdad pero', invece di odio e sospetti e mugugni, incontrai invece persone curiose e generose. Quando chiesi loro se erano arrabbiati con gli americani, che erano sul punto di bombardare il loro paese, tutti mi risposero: "Sappiamo che la colpa non e' del popolo americano, ma del suo governo". A differenza di troppe persone negli Usa, che pensano che tutti gli arabi siano terroristi, gli iracheni capivano la differenza fra il popolo americano e le politiche del suo governo. Nonostante questa gentilezza, che non venne mai meno, gli iracheni erano terribilmente spaventati dalla prospettiva dell'invasione. I camerieri dell'albergo in cui alloggiavamo a Baghdad ci pregarono di non partire. I bambini che incontravamo ogni giorno dopo il caffe' del mattino, e che ci incantarono e che ci vendettero pasticcini e scarpe, si aggrapparono alle nostre braccia il giorno della partenza e piansero lacrime di disperazione. Agivano come se in qualche modo, se fossimo rimaste, le bombe non sarebbero cadute. Il popolo iracheno non aveva idea di come difendersi e, in un gesto inutile, incollava nastro adesivo alle finestre. La stessa cosa accade dove io vivo, sulla costa, quando un uragano ci minaccia: le reazioni sono surreali. Un evento monumentale si sta preparando ad accadere, e non c'e' molto che tu possa fare per prepararti ad esso, eppure sai che cambiera' la tua vita. * Prima di arrivare a Baghdad ero gia' contraria alla guerra. Sono cresciuta in un piccolo paese di pescatori, in uno stato in cui avere pistole in casa e' legale e la caccia e' equiparata a un rituale. Ma ho sviluppato una totale avversione all'uccidere. Durante la guerra del Vietnam io ero ufficiale medico, ed ho visto con i miei occhi cio' che accade ai soldati di diciotto anni mandati in guerra: la loro discesa dall'innocenza e dall'entusiasmo all'inferno di droghe, violenza, e fuga nell'oblio. Negli ospedali dove ho lavorato, questi pazienti rubavano gli aghi per praticarsi le iniezioni. Il fumo degli spinelli stazionava nell'aria come prodotto da un fuoco inestinguibile. Perdemmo un'intera generazione di ragazzi. E'una cosa che non voglio vedere mai piu'. Percio', prima che la guerra avesse inizio, andai a Washington con Medea Benjamin, ad interrompere una conferenza in cui Donald Rumsfeld, il segretario della difesa, sosteneva le ragioni della guerra contro l'Iraq. Fu un'azione spontanea, dettata dal momento e dal nostro desiderio di fare qualcosa per fermare la guerra, e fini' sui media nazionali perche' la facemmo mentre le telecamere delle tv erano in funzione. Il mese successivo, assieme a donne provenienti da tutto il paese, cominciammo una veglia ed uno sciopero della fame nel Lafayette Park di fronte alla Casa Bianca. Restammo la', nel pieno dell'inverno, a protestare contro la guerra e a promuovere la pace per parecchi mesi. Durante la protesta, io scalai la barriera di fronte alla Casa Bianca e vi appesi uno striscione pacifista. Rimasi accanto allo striscione per cinque minuti, dopo di che fui trascinata via dagli uomini dei servizi segreti. Per tale azione sono stata arrestata, imprigionata e bandita per un anno da Washington. I servizi segreti erano cosi' spaventati dalle nostre dimostrazioni nonviolente che mi pedinavano persino nella mia cittadina, Seadrift. Ad ogni modo, mi sentivo spinta a fare qualcosa di piu' che restare seduta nella mia casa a Seadrift e provare dolore. Percio', il giorno prima che mezzo milione di americani prendessero le strade a New York e in tutto il globo si manifestasse contro l'invasione, una delegazione di donne di "Codepink" si raduno' davanti alla sede dell'Onu. Io scalai di nuovo una barriera e mi incatenai ad essa. Fui arrestata e processata. Successivamente, in Texas, io ed altri due dimostranti presenziammo ad una riunione del governo dello stato e contestammo la sua risoluzione di sostenere la guerra. Per questo ho avuto quattro giorni di detenzione in una prigione correzionale per donne, fuori Austin. * Ma ancora non avevo fatto molto. Non che mi sia lasciata prendere dallo sconforto ad ogni fallimento. Quando una guerra infuria, bambini muoiono, famiglie vengono distrutte, e noi siamo ancora troppo tiepidi, questo si'. Io sono una pescatrice della quarta generazione della mia famiglia, nata e cresciuta in Texas e battezzata in un fiume da un predicatore pentecostale. Sono anche un'ambientalista e ho lottato contro la distruzione della baia del Texas per anni. Il mio attivismo ecologista e' confluito nel movimento per la pace, e in "Codepink". Come nell'ecosistema che io difendo, tutto e' connesso. Le Corporations come Formosa, Dupont e Dow hanno ripreso a distruggere la baia e uccidono le piccole comunita' come quella in cui vivo, il governo federale bombarda un intero paese per il controllo del suo petrolio: e' la stessa mentalita' distruttiva che e' all'opera. Se diciamo che non vogliamo la guerra, queste non possono essere solo parole. Fermare una guerra implica un impegno reale, e significa esporre noi stessi a qualche rischio. Dobbiamo perseguire la pace con la stessa determinazione con cui altri vogliono la guerra. Dobbiamo essere orgogliosi, fantasiosi e coraggiosi. Nella nostra storia americana abbiamo esempi di persone che hanno messo in gioco la loro vita per cio' in cui credevano. Per parafrasare uno di essi, Martin Luther King Jr.: "Se nella tua vita non c'e' qualcosa per cui varrebbe la pena morire, allora non c'e' neppure qualcosa per cui vale la pena vivere". 3. RIFLESSIONE. GIULIANA SGRENA: COMPLICI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 novembre 2005. Giuliana Sgrena, giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005] Il velo dell'omerta' sull'uso del fosforo bianco si e' squarciato persino negli Stati Uniti, l'ultimo strappo e' stata la testimonianza di Darrin Mortenson, un giornalista americano embedded. Preceduto dalla ancor piu' importante ammissione sull'uso delle micidiali armi chimiche da parte del Pentagono. Ma per il portavoce del Pentagono, Barry Venable, non si tratta di armi chimiche e poi sono state usate contro i combattenti: bastano le terribili immagini delle vittime di Falluja - soprattutto donne e bambini - mostrati nell'inchiesta di Rainews24 a smentirli. Per gli Stati Uniti quella polvere che corrode la carne degli esseri umani non e' nemmeno proibita visto che non hanno firmato il protocollo della Convenzione su alcune armi convenzionali. Cosi' come per gli Stati Uniti e' stato legittimo, quel 4 marzo del 2005, sparare su un'auto su cui viaggiavano due agenti del Sismi e una giornalista, uccidendo Nicola Calipari. Sparare per uccidere come ha confermato la perizia della magistratura. E' la guerra. Una guerra che non rispetta piu' nemmeno le convenzioni internazionali. In cui sono coinvolti anche coloro che hanno mandato le proprie truppe ipocritamente sotto il nome di "missione di pace". Una guerra che Bush ha scatenato contro Saddam perche' - diceva - aveva le armi di distruzione di massa - ben sapendo che non le aveva piu' e quando le aveva usate contro i kurdi nel 1988 non aveva suscitato grande scalpore. Invece le armi di distruzione di massa - napalm e fosforo bianco - le ha portate Bush e le ha usate contro la popolazione civile. Chi resta in Iraq a fianco degli americani e' complice di chi usa queste armi, di chi ha torturato ad Abu Ghraib e ha addestrato gli iracheni a usare gli stessi metodi. E' questo il processo democratico da sostenere in Iraq oppure quello dei 170 prigionieri torturati e rinchiusi dentro il ministero degli interni iracheno? E' questo Iraq che le nostre truppe devono difendere? C'e' chi sostiene che bisogna rimanere per combattere il terrorismo, ma i terroristi, proprio come le micidiali armi, sono arrivati insieme alla guerra di Bush. Solo un ritiro delle truppe puo' spezzare la spirale guerra-terrorismo. O ancora, si dice che senza i marine scoppierebbe la guerra civile. La guerra civile purtroppo c'e' gia' in Iraq e ha gia' mietuto migliaia di vittime, ignorate come tutte le altre. E non sono certo le truppe a ostacolare i regolamenti di conti, la violenza sulle donne, i rapimenti o lo scontro sanguinoso tra sunniti e sciiti. Anzi, quest'ultimo, favorendo la spartizione dell'Iraq, gli Usa l'hanno alimentato. Non si puo' escludere che un ritiro delle truppe provochi nell'immediato un acuirsi dello scontro tra le varie componenti irachene, ma ormai e' l'unico modo per aprire la via a una soluzione vera e duratura della crisi. L'occidente se vuole aiutare l'Iraq distrutto non puo' farlo con i cannoni ma ricostruendo il paese. 4. RIFLESSIONE. FRANCO LORENZONI: L'EDUCAZIONE AMBIENTALE DOPO ALEXANDER LANGER [Dalla bella rivista diretta da Goffredo Fofi, "Lo straniero", n. 65, novembre 2005 (sito: www.lostraniero.net). Franco Lorenzoni, maestro elementare, da oltre venti anni anima l'esperienza della casa-laboratorio di Cenci. Tra le opere di Franco Lorenzoni: Con il cielo negli occhi. Imparare a guardare lo spazio e il tempo. Corpo, osservazione, disegno, geometria e racconti di miti, Marcon, 1991; con Marco Martinelli, Saltatori di muri. La narrazione orale come educazione alla convivenza. Esperienze interculturali di incontro tra stranieri e italiani, nella scuola e nel teatro, Macro edizioni, 1998; L'ospite bambino. L'educazione come viaggio tra le culture nel diario di un maestro, Era Nuova, 2002; a cura di, con Amaranta Capelli, La nave di Penelope. Educazione, teatro, natura ed ecologia sociale, Giunti, 2002. Per contattare la casa-laboratorio di Cenci: e-mail: cencicasalab at tiscali.it, sito: www.prospettiva.it/cenci. Alexander Langer e' nato a Sterzing (Vipiteno, Bz) nel 1946, e si e' tolto la vita nella campagna fiorentina nel 1995. Promotore di infinite iniziative per la pace, la convivenza, i diritti, l'ambiente. Per una sommaria descrizione della vita cosi' intensa e delle scelte cosi' generose di Langer rimandiamo ad una sua presentazione autobiografica che e' stata pubblicata col titolo Minima personalia sulla rivista "Belfagor" nel 1986 (poi ripresa in La scelta della convivenza). Opere di Alexander Langer: Vie di pace. Rapporto dall'Europa, Arcobaleno, Bolzano 1992; dopo la sua scomparsa sono state pubblicate alcune belle raccolte di interventi: La scelta della convivenza, Edizioni e/o, Roma 1995; Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio, Palermo 1996; Scritti sul Sudtirolo, Alpha&Beta, Bolzano 1996; Die Mehrheit der Minderheiten, Wagenbach, Berlin 1996; Piu' lenti, piu' dolci, piu' profondi, suppl. a "Notizie Verdi", Roma 1998; The Importance of Mediators, Bridge Builders, Wall Vaulters and Frontier Crossers, Fondazione Alexander Langer Stiftung - Una Citta', Bolzano-Forli' 2005; Fare la pace. Scritti su "Azione nonviolenta" 1984-1995, Cierre - Movimento Nonviolento, Verona, 2005; Lettere dall'Italia, Editoriale Diario, Milano 2005. Opere su Alexander Langer: Roberto Dall'Olio, Entro il limite. La resistenza mite di Alex Langer, La meridiana, Molfetta 2000; AA. VV., Una vita piu' semplice. Biografia e parole di Alexander Langer, Terre di mezzo - Altreconomia, Milano 2005. Si sta ancora procedendo alla raccolta di tutti gli scritti e gli interventi (Langer non fu scrittore da tavolino, ma generoso suscitatore di iniziative e quindi la grandissima parte dei suoi interventi e' assai variamente dispersa). Si vedano comunque almeno i fascicoli monografici di "Azione nonviolenta" di luglio-agosto 1996, e di giugno 2005; l'opuscolo di presentazione de La Fondazione Alexander Langer - Stiftung, suppl. a "Una citta'", Forli' (per richieste: tel. 054321422; fax 054330421, e-mail: unacitta at unacitta.it, sito: www.unacitta.it), ed il nuovo fascicolo edito dalla Fondazione nel maggio 2000; una nuova edizione ancora e' del 2004 (per richieste: tel. e fax 00390471977691, e-mail: info at alexanderlanger.org, sito: www.alexanderlanger.org); la Casa per la nonviolenza di Verona ha pubblicato un cd-rom su Alex Langer (per informazioni: tel. 0458009803; fax 0458009212; e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org). Indirizzi utili: Fondazione Alexander Langer Stiftung, via Portici 49 Lauben, 39100 Bolzano-Bozen, tel. e fax 00390471977691; e-mail: info at alexanderlanger.org, sito: www.alexanderlanger.org] La domanda irrisolta di Alex Sono passati dieci anni dalla morte di Alexander Langer e il nodo cruciale dell'educazione ambientale per me continua a condensarsi in questa sua domanda irrisolta: "Come puo' risultare desiderabile una civilta' ecologicamente sostenibile?". Credo non sia un caso che Alex parli di "civilta' ecologicamente sostenibile". Si parla molto di confronto o di scontro tra civilta', meno di quanto e di come le civilta' si evolvano. Cosa aiuta a costruire o a trasformare una civilta'? A partire da quali frammenti possiamo partire per una impresa cosi' complessa? * Costruttori di ponti C'e' un grande bisogno di "costruttori di ponti". Fare analisi corrette e avere buone ragioni non serve molto, se non riusciamo a stabilire collegamenti con coloro che non sono "persuasi". Essere "persuasi" (secondo l'espressione del nonviolento e obiettore civile Capitini) vuol dire testimoniare con il proprio corpo e i propri comportamenti prima che con le parole. La coerenza sta alla base di ogni pratica ecologica. Da anni lo diciamo. Ma e' poi davvero cosi'? Quanto autenticamente, nel metodo e nel comportamento, testimoniamo cio' che auspichiamo e che tentiamo di andar insegnando? * Retorica Riguardo all'ambiente abbiamo stravinto. Nessuno si oppone, tutti ne parlano. E' la retorica corrente in ogni luogo, dalla politica alla scuola alla tv. Ma viviamo in Italia, paese cattolico e mediterraneo, culturalmente impermeabile a ogni etica della responsabilita' individuale. Siamo tutti figli delle "case delle liberta'", dove si defeca sul divano, si rompono per gioco i vetri e si edifica ogni sorta di costruzione abusiva. Se vogliamo elaborare un progetto non dimentichiamo mai il contesto culturale in cui ci muoviamo. Nel nostro paese nulla e' mai acquisito, nemmeno un parco protetto. Ogni cosa va riconquistata ogni volta, forse anche dentro di noi. * Dopo l'11 settembre Sono tra quelli che pensano che l'11 settembre abbia davvero cambiato il mondo. Lo pensavo anche prima, ma ora mi pare davvero indispensabile pensare l'educazione ambientale come elemento dell'educazione all'intercultura, dell'educazione al nord e al sud, all'est e all'ovest, come educazione all'equilibro impossibile... Troviamo nomi adeguati ma resta la sostanza. Qualsiasi difesa dell'ambiente e' impossibile senza pensare ai suoi abitanti umani e a cio' che pensano, che patiscono, che provocano. * Educare alla vulnerabilita' Dobbiamo essere maggiormente vulnerabili. Accettare di essere feriti da cio' che accade nel mondo e accettare anche di non capire molto di cio' che accade. Tutte le corazze che ci costruiamo, talvolta necessarie, ci accecano sempre un po'. * La creativita' individuale Scavando un poco mi accorgo sempre piu' che la creativita' nasce in ciascuno di noi da proprie ferite, da esperienze difficili, da vuoti, da scarti. Da piccole o grandi sofferenze interne e da insofferenze che proviamo verso il mondo. Che tutto cio' generi creativita' e desiderio di trasformazione e non avvilimento deriva da tante circostanze, molte delle quali misteriose. Dai contesti in cui ci troviamo, da coloro che incontriamo, dalla fortuna. Mi piacerebbe, in un percorso di formazione per operatori ambientali, ricercare sui contesti, sugli ambienti che ci rendono creativi, cioe' vicini a noi stessi. * Insegnanti e operatori Per anni ho sognato che l'educazione ambientale, proponendo incontri e condivisioni di percorsi tra insegnanti e operatori ambientali, avrebbe potuto costituire un terreno di scambio capace di mettere un po' in crisi gli uni e gli altri. Non e' accaduto, se non in ridottissima misura. Ci si usa reciprocamente, poi, subito ciascuno di corsa a casa propria. Raramente ci si ruba qualche suggerimento, senza farsene accorgere. Perche'? * Portatori di speranza? Ogni educatore ambientale deve essere, necessariamente, un "portatore di speranza". Talvolta e' difficile, talvolta impossibile. Dove si pesca la speranza? La si puo' tenere in vita proteggendola dalle intemperie? Alex Langer ci ha lasciato parole angosciose sulla fatica di reggere a lungo le aspettative che gli altri affidano ai portatori di speranza. * L'handicap assente L'educazione ambientale ha incrociato assai di rado la questione dell'handicap. E' un peccato. Per chi pone tanta attenzione alle biodiversita' sarebbe di grande interesse ascoltare e osservare come la comunita' umana cerca di proteggere le sue diversita'. Ci si accorgerebbe, ad esempio, che si coinvolgono molto nel creare un ambiente capace di accogliere e proteggere le difficolta' di chi nasce diverso, soprattutto genitori, parenti e, talvolta, coloro che hanno un incontro diretto con i disabili. Le istituzioni seguono a fatica, se non nel caso di alcune leggi lungimiranti, la cui applicazione chiede sforzo e fatica. Proteggere le diversita' dei disabili comporta una opzione etica, culturale, che in qualche modo si oppone e cerca di mitigare i danni della natura. Nel caso della protezione delle biodiversita' vegetali o animali, noi umani "aiutiamo" la natura aggredita dall'uomo a tornare a essere se stessa. Nel caso in cui sosteniamo la "vita diversa" di alcuni esseri umani noi lottiamo "contro" la natura, che li vorrebbe persi. Sarebbe interessante ragionarci su. * Una variante dell'educazione stradale La Moratti ha affiancato nei nuovi programmi l'educazione ambientale all'educazione stradale. Facendolo, ha compiuto un atto di riparazione storica riguardo ai tanti allarmi suscitati dai conflitti di interesse berlusconiani. Il piu' vasto conflitto di interessi in Italia, infatti, e' molto piu' antico e ha letteralmente ammorbato il nostro paese fin dal dopoguerra. E' costituito dalla straordinaria penetrazione politica e culturale avuta da sempre dalla famiglia Agnelli e dalla Fiat. Scelte decisive riguardo a strade, autostrade, ferrovie e trasporti, che hanno condizionato e condizionano irreparabilmente il nostro paese e le nostre citta', dipendono dal ruolo che ha l'automobile nell'immaginario collettivo italiano. * Sottrazione Tra le quattro operazioni mi piacerebbe che l'educazione ambientale scegliesse sempre di essere amica della sottrazione. Meno rumore attorno alle cose, meno parole, meno oggetti, meno pretese, meno intrusioni, meno possessi, forse anche meno ambizioni (difficile questo, per noi ambiziosissimi "trasformatori del mondo"). * Luoghi creativi e trasmissione delle conoscenze Ci sono coloro che hanno fortemente voluto o inventato o costruito nuovi luoghi educativi. Possono essere oasi, centri di educazione ambientale, case-laboratorio, fiere, riviste, associazioni culturali che difendono il territorio... Passano gli anni, scorre sullo sfondo la grande storia. In tutt'altra epoca alcuni giovani si trovano a lavorare in quelle strutture. Il loro lavoro e' precario, spesso mal pagato. Ospiti di una struttura non loro, abitanti di un luogo costruito da altri, come si sentono? E, viceversa, come vengono percepiti da coloro che all'impresa hanno partecipato fin dall'inizio? Talvolta nascono difficolta', qualche volta conflitti. Cosa resta della vocazione originaria? Come si concilia quella vocazione con la precarieta' dell'occupazione e il bisogno di garanzia di un salario? Quali condizioni ci sono per una trasmissioni dei saperi legati ai luoghi tra diverse generazioni di operatori? E infine, saranno state poi davvero "profetiche" le intuizioni dei tanti "piccoli fondatori" di cui e' costellata l'educazione ambientale nel territorio, perche' valga la pena che durino nel tempo? * Precauzione Il principio di precauzione e' frutto di una grande battaglia ambientalista. Prevede che, nel caso di un esito incerto, si esiti o, piu' coraggiosamente, si rinunci. Mi sembra un ottimo principio. Ad applicarlo alla lettera, pero', forse dovremmo chiudere un gran numero di scuole e universita' del nostro paese. * Immagini Chiunque lavori per delle istituzioni sa che, se realizza un progetto, dovra' dare spazio adeguato (e tempo e soldi) all'immagine. Anche nelle piccole istituzioni, anche nelle scuole, ormai non si puo' fare nulla senza curare l'immagine. Il problema e' che l'immagine non solo e' spesso lontana dalla cosa, ma spesso la snatura e la tradisce. Senza andare lontano, basta leggere un "piano dell'offerta formativa" di una scuola e poi verificare come in quella scuola opera la maggioranza degli insegnanti per accorgersene. * Immaginari Accolgo a Cenci un gruppo di ragazzi di Bahia. Mi commuove ascoltarli perche' parlano del teatro come forma di rivolta, di riconoscimento, di costruzione di coscienza collettiva, di utopia. Non sono tanto le loro parole a commuovermi, quanto la convinzione con cui credono nel loro progetto di emancipazione sociale e di costruzione di un nuovo Brasile negli anni di Lula presidente, a cui lavorano alacremente. La costruzione di un immaginario collettivo a volte e' uno sfondo capace di moltiplicare le energie, talvolta e' la vera leva capace di sollevare pesi impossibili. * Immaginazioni Nella Palermo del sindaco Orlando come nella Napoli del primo Bassolino si visse qualcosa di simile. Piu' delle cose fatte, il convergere di tante buone tensioni e intenzioni sembro' avere la forza di sollevare il mondo. Cose interessanti se ne fecero (non poi cosi' tante) ma il quadro poi si e' rapidamente rovesciato. La relazione tra piccole iniziative concrete e grandi immaginari condivisi sarebbe da discutere a fondo, perche' e' una strada obbligatoria se si vogliono coltivare speranze di trasformazione dei comportamenti. * Il dono della parola Ascolto Serge Latouche. Da Parigi, dove insieme ad altri ha fondato il Movimento anti utilitarista di scienze sociali (Mauss), guarda l'Africa ed elogia lo straordinario ruolo che ha ancora il dono in quel continente. A partire dal riconoscimento delle straordinarie potenzialita' insite nel dono, propone di rovesciare l'immaginario economico in cui siamo immersi. Il discorso e' lucido, coerente, coinvolgente, estremista e molto francese. Al termine si alza un ragazzo del Senegal e ribatte: non mi convince l'economia del dono che secondo la tua descrizione funziona cosi' bene nel mio paese, perche' io sono dovuto emigrare e perche' a me piacerebbe, a Dakar, avere soldi per comprare le cose che voi qui ritenete indispensabili. Perche' noi ci dovremmo rinunciare? La domanda e' stringente e mi aspetto un dibattito accalorato. Latouche, invece, fa finta di non avere udito e risponde ad altre domande che non intaccano il suo quadro d'insieme. * Il bello trasgressivo Con acume e sottovoce un mio amico sostiene che si puo' fare educazione ambientale in tutti i luoghi, anche conversando in treno. Che l'educazione ambientale consiste nel sostenere una tesi diversa senza litigare. Per lui, comunque, l'educazione ambientale parte sempre dal senso della bellezza, che e' forza trainante di emozioni e sentimenti. La bellezza e' un valore terribile, scomodo, incommensurabile. Puo' riguardare le grandi armonie o le cose minime e, quando la si incontra davvero, da' scandalo. Per questo e' tanto importante. Generalmente l'esteta viene presentato come vizioso o decadente rammollito, come pigro o schifoso egoista. Eppure il suo amore per il bello lo rende profondamente trasgressivo e permeabile alla pedagogia del dolore. Di quel dolore che si prova vedendo il bello distrutto. * Se Se la bellezza e la sostenibilita' coincidono possiamo uscire dal discorso di rinuncia. Non "dobbiamo" utilizzare meno risorse, ma "vogliamo" utilizzare meno risorse. Questa affascinante ipotesi, espressa da anni in molteplici forme da Wolfgang Sachs, si scontra, pero', con alcuni ostacoli non indifferenti. * Pubblicita' La pubblicita' e' il fascismo della nostra epoca. L'affermazione e' di un grande artista: il regista Jean-Luc Godard. Proviamo a prenderla sul serio, pensando all'imponente peso coercitivo che esercita nell'orientare sogni e desideri dei bambini, fin dalla piu' tenera eta', e pensando a quanto riesca efficacemente ad allontanare la bellezza dalla sostenibilita'. Se bello e' cio' che acquisto, e piu' acquisto piu' sono circondato dal bello, inesorabilmente divengo insostenibile (tanto insostenibile che non mi accorgo neppure di essere insostenibile). * Quando guardo la natura cosa guardo? Quando guardo la natura cosa guardo? Esiste uno sguardo non metaforico? * La durata Un grande alleato di ogni buona educazione ambientale potrebbe essere il senso della durata. * L'ascolto Da anni coltivo il senso della durata ricercando attorno alla narrazione orale, che e' un territorio elementarmente umano, capace di far dialogare donne e uomini delle piu' diverse provenienze. Se devo dire cio' che piu' mi emoziona nei nostri laboratori di narrazione e' la profondita' e la qualita' di ascolto reciproco che talvolta si realizza. * Politica "Ho imparato che il problema degli altri e' uguale al mio. Sortirne tutti insieme e' la politica. Sortirne da soli e' l'avarizia" (dalla Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, 1967). * Politica oggi La sensazione e' che la politica, nell'occidente opulento, sia sempre piu' incapace di progettare il futuro, costretta com'e' a seguire la maggioranza. In questo caso, per chi si rende conto che stiamo sottraendo aria, acqua e futuro ai nostri figli, non resta che l'educazione. Per noi educatrici ed educatori quanta responsabilita'! Da soli non possiamo farcela. * Sacralita' dell'infanzia Ho cominciato l'anno guardando con i bambini della mia scuola le immagini della strage di Beslan... Questa strage, come le innumerevoli stragi di bambini perpetrate da eserciti piu' o meno regolari in molte regioni del mondo, lontano da ogni riflettore, mostrano che, in troppi casi, non esistono tabu' in grado di proteggere l'inviolabilita' dell'infanzia. Le enormi difficolta' nell'applicare l'assai modesto accordo di Kyoto sulle emissioni dannose nell'atmosfera, cioe' l'incapacita' assoluta di porre dei limiti al nostro sistema di vita e di consumi, mostra quanto i governi siano incapaci di qualsiasi progetto di lungo respiro, in grado di proteggere il pianeta e le generazioni future. E poiche' i governi degli stati maggiormente inquinanti sono eletti democraticamente, e' l'intera societa' adulta che mostra le sua incapacita' di tenere presente l'infanzia. * Prestami ascolto Iperprotetta e rinchiusa nel grande ghetto del consumo nel nord, vilipesa ed esposta alle peggiori violazioni nel sud, l'infanzia appare sempre piu' costretta e confinata in territori angusti. Ripartire con persuasione da alcuni valori di base, come quello della salvaguardia di cio' che di piu' fragile vive sul nostro pianeta, e' compito primario dell'educazione ambientale. Il problema sta nel trovare forme semplici, elementari ed efficaci per compiere questo cammino. "Prestami ascolto" e' la prima domanda che rivolge ciascuno di noi al mondo, nascendo. Solo imparando a prestare ascolto ci possiamo riconnettere a quel bisogno primario inestinguibile. 5. LIBRI. ENZO TRAVERSO PRESENTA "I FANTASMI DELLA STORIA" DI REGINE ROBIN [Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 novembre 2005. Enzo Traverso, storico (nato nel 1957), docente all'Universita' della Picardie "Jules Verne" di Amiens, saggista, acuto studioso della Shoah e del totalitarismo. Tra le opere di Enzo Traverso. Gli ebrei e la Germania: Auschwitz e la simbiosi ebraico-tedesca, Il Mulino, Bologna 1994; La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna 2002; Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, il Mulino, Bologna 2004; (con Marina Cattaruzza, Marcello Flores e Simon Levis Sullam), Storia della Shoah, Utet, Torino 2005; in francese: Les marxistes et la question juive, La Breche-Pec, Montreuil 1990; Les Juifs et l'Allemagne, de la "symbiose judeo-allemande" a' la memoire d'Auschwitz, La Decouverte, Paris 1992; L'Histoire dechiree. Essai sur Auschwitz et les intellectuels, Editions du Cerf, Paris 1997; Pour une critique de la barbarie moderne. Ecrits sur l'histoire des Juifs et l'antisemitisme, Editions Page deux (Cahiers libres), Lausanne 2000; Le totalitarisme. Le XXeme siecle en debat, Seuil, Paris 2001; La violence nazie. Essai de genealogie historique, La Fabrique, Paris 2001; La pensee dispersee, Ed. Leo Scheer, Paris, 2004. Regine Robin, professoressa emerita presso l'Universita' del Quebec a Montreal, vive tra il Canada, New York, Parigi e Berlino; saggista, traduttrice e autrice di romanzi, ha pubblicato piu' di una quindicina di opere, tra cui si segnalano L'Amour du yiddish (1984), Le Realisme socialiste: une esthetique impossible (1986), Kafka (1989), L'Immense fatigue des pierres (1996), Berlin chantiers (2001), La memoire saturee (2003)] I fantasmi della storia e' un libro che va salutato per diverse ragioni. Innanzitutto perche' si tratta della prima traduzione italiana di Regine Robin, una studiosa alla quale si devono lavori di grande importanza sulla storia della lingua yiddish, sull'estetica del realismo socialista, sull'identita' problematica degli scrittori ebrei della Mitteleuropa, da Kafka a Canetti, e infine, in questi ultimi anni, sulla memoria. La memoria nelle sue diverse dimensioni, dal ricordo dei testimoni alla "postmemoria" dei loro discendenti, segnati da eventi che non hanno vissuto e che trasforma, per riprendere le parole di Reinhart Koselleck, "il passato saturo di esperienze" dei testimoni in "un passato puro, sottratto al vissuto", e forse proprio per questo oggetto di proiezioni, catalizzatore di inquietudini e paure. I fantasmi della storia (Ombre corte, pp. 175, euro 16,50) si presenta come un'ammirevole incursione nella memoria tedesca, luogo di condensazione di tutte le ferite dell'Europa, sismografo sensibile delle scosse generate da un secolo di sangue e di fuoco. Se la memoria tedesca e' al centro del libro, l'osservatorio scelto dall'autrice e' Berlino, monumento vivente delle lacerazioni del Novecento. Francese di origine ebreo-polacca, da oltre una ventina d'anni stabilita a Montreal, Regine Robin non si e' mai stancata di frequentare la capitale tedesca. Molteplici fili biografici la legano a questa citta', tra cui, come confessa in Berlin chantiers (Stock, Parigi, 2001), il ricordo del padre che durante la repubblica di Weimar vi aveva vissuto e collaborato a "Die Rote Fahne", il quotidiano comunista, e un amore giovanile, negli anni Settanta, quando il quartiere di Kreutzberg era la capitale della scena alternativa. Accanto a queste vicende, una lunga frequentazione della lingua tedesca, lingua di cultura considerata, durante la sua infanzia, incontestabilmente "piu' nobile" dello yiddish, la lingua famigliare, ma al contempo messa al bando come lingua del nemico, della distruzione e del lutto; una lingua sempre letta e amata ma tenuta a distanza, quasi impronunciabile, proibita. Insomma, Regine Robin ha buone ragioni per detestare la Germania federale del dopoguerra, il paese che ha raccolto l'eredita' del nazismo, in cui il vecchio "Volk ohne Raum" si e' trasformato in impaziente "Volk ohne Zeit" lanciato verso il decollo economico e mercantile, ma ha anche buone ragioni per amare Berlino, questa "citta' palinsesto" che non ha cancellato le tracce del suo passato e che riunisce in se', mescolandole in diversi strati ben visibili, le ferite della storia e le contraddizioni del presente. Questo libro, ormai dovrebbe essere chiaro, non rientra nei canoni degli studi germanici; non ci invita all'ennesima rievocazione della capitale dell'impero guglielmino e della repubblica di Weimar, ne' a una riflessione nostalgica sull'eta' dorata dell'ebraismo tedesco che aveva trovato in questa metropoli il suo centro di irradiazione. Il fatto e' che, a differenza di Vienna, Berlino non e' una citta' imbalsamata in un passato morto, conservata ed esibita come una reliquia. Agli antipodi di una citta'-museo, Berlino porta con se' il suo passato come un coacervo di ferite ancora aperte in seno a un tessuto urbano in continuo mutamento. E' uno dei rari luoghi in Europa in cui il passato non e' pietrificato ma, come una materia composita e movente, s'insinua nel presente, lo interroga, lo perseguita, lo trasforma. * E' quindi a partire da questo osservatorio che Regine Robin esplora la memoria tedesca. Con un rigore e un equilibrio poco comuni, passa in rassegna i grandi dibattiti storici, politici e letterari degli ultimi vent'anni, dall'Historikerstreit sulla singolarita' dell'Olocausto che aveva opposto Nolte a Habermas, intorno alla meta' degli anni Ottanta, alle piu' recenti polemiche sull'inaugurazione, durante la primavera scorsa, nel cuore della capitale tedesca, a due passi dal Bundestag, di un memoriale dedicato agli ebrei d'Europa sterminati dal nazismo. Tra questi due poli si inserisce una serie interminabile di polemiche che hanno acceso gli animi e riempito le pagine dei giornali: dalle tesi provocatorie di Daniel J. Goldhagen sul genocidio degli ebrei come "progetto nazionale" tedesco all'indignazione per una mostra dell'Institut fuer Sozialforschung di Amburgo sui crimini della Wehrmacht; dallo scandalo di un discorso incompreso del presidente del Bundestag Philipp Jenninger, nel 1989, allo scontro tra lo scrittore Martin Walser e il rappresentante della comunita' israelitica Ignaz Bubis sull'utilita' delle commemorazioni pubbliche, dieci anni dopo; dalle critiche ai romanzi di Guenther Grass ispirati dal ricordo della guerra alle catarsi collettive suscitate dai libri sui bombardamenti delle citta' tedesche; dall'enorme successo del nuovo museo ebraico disegnato da Daniel Liebeskind a quello de La caduta, il film di Oliver Hirschbiegel che rievoca gli ultimi giorni di Hitler nel suo bunker di Berlino. Regine Robin si muove con eleganza e disinvoltura in questo labirinto, suggerendo una riflessione critica non certo distante o indifferente, anzi emotivamente coinvolta, ma senza a priori ne' risentimento, e quasi sempre riesce a convincere. La chiave per interpretare questo impietoso e inesauribile esame di coscienza nazionale si trova forse nel romanzo di Guenther Grass Il passo del gambero, ispirato alla tragedia del Wilhelm Gustloff, la nave carica di migliaia di profughi tedeschi dell'Est che fu affondata da un siluro sovietico nel gennaio del 1945. Gli eroi del romanzo, tedeschi di oggi che rievocano questa triste vicenda, incarnano l'atteggiamento della nazione posta di fronte al suo passato, divisa tra una volonta' espiatoria spinta all'estremo e la tentazione di rivestire i panni della vittima. Questa tentazione, a dire il vero, e' sempre esistita, fin dai tempi della guerra fredda. Regine Robin ne vede affiorare le premesse nel discusso film di Edgar Reitz Heimat, saga della Germania profonda, autentica, quasi bucolica, senza ebrei e senza il deprecabile American way of life del dopoguerra (anch'esso stigmatizzato dal regista come tipicamente ebraico). Oggi questa tendenza si esprime piu' apertamente, sia nei romanzi e nei film che raccontano le sofferenze della popolazione tedesca durante la guerra, culminate nell'espulsione di dodici milioni di Ostdeutsche dai territori annessi all'Urss, alla Polonia e alla Cecoslovacchia, sia nella pubblicistica che ricorda i terribili bombardamenti che distrussero le citta' tedesche, uccisero seicentomila civili e lasciarono milioni di senzatetto. Come spiegare il lungo silenzio che ha coperto per anni queste dolorose vicende, isolate in seno alle associazioni di profughi (vicine alla Cdu) o rimosse da una letteratura per altro non indifferente alla storia? Lo scrittore W. G. Sebald aveva tentato una risposta, poco prima della sua prematura scomparsa, in un bellissimo saggio, Luftkrieg und Literatur, giustamente citato da Regine Robin: le macerie andavano sgomberate al piu' presto e il dolore interiorizzato, in silenzio, perche' i milioni di tedeschi che subivano questa ondata di violenza sapevano di appartenere a una nazione che aveva accettato un regime colpevole di crimini ben peggiori, ancora piu' estesi e feroci. Questa coscienza storica scissa tra espiazione e vittimizzazione si esprime oggi nelle oscillazioni di una politica della memoria estremamente dinamica ma sempre prigioniera delle sue contraddizioni. Da un lato il futuro museo ai Vertriebene, i profughi dell'Est, voluto dalla Cdu, dall'altro il gigantesco memoriale dell'Olocausto, che occupa un immenso spazio di ventimila metri quadrati nel cuore di Berlino, come un ammonimento permanente alla nazione. Passando in rassegna i diversi progetti presentati al concorso per questo memoriale, Regine Robin lascia intendere di preferirne alcuni finalmente respinti, piu' originali e critici benche' meno impressionanti e massicci. Cita anche le voci dissidenti di chi - come molti intellettuali di sinistra - avrebbe preferito un memoriale per tutte le vittime del nazismo e non per i soli ebrei, evitando cosi' il rischio di creare una gerarchia tra le vittime e una concorrenza tra le loro memorie. In uno dei capitoli piu' anticonformisti di questo libro, Regine Robin prende le difese di Martin Walser, accusato di voler respingere il ruolo di colpevole assegnato alla Germania e di volersi sbarazzare della "clava morale" rappresentata dalla memoria di Auschwitz. In realta', nel testo messo sotto accusa del suo discorso di Francoforte del 1998, Walser affermava di "non aver mai pensato di abbandonare il banco degli imputati". La sua polemica era diretta contro una "monumentalizzazione della vergogna" tesa a creare una "buona coscienza" fatta di giaculatorie ritualizzate, sottratta cosi' alle pene di una coscienza personale che non delega il lutto e la vergogna (Schande) ma li fa propri, dolorosamente. Non tutti condivideranno questo giudizio, ma l'argomentazione di Regine Robin e' incontestabilmente interessante. * Rimane il fatto che la Germania di oggi assume il suo passato, e questo la distingue da altri paesi europei e occidentali. A cominciare dagli Stati Uniti dove, come ricordava Susan Sontag nel suo ultimo saggio Di fronte al dolore degli altri, si preferisce ricordare l'Olocausto che avvenne in Europa anziche' la schiavitu' e il genocidio degli indiani, due eventi fondatori della nazione americana. Per arrivare alla Francia, dove il governo ha promulgato nel gennaio scorso una legge tesa a riconoscere il "ruolo storicamente positivo" del colonialismo, oggi al centro di feroci contestazioni. E infine all'Italia, dove la moltiplicazione delle giornate della memoria tese a commemorare le nostre vittime (dell'Olocausto, delle foibe, del comunismo) non si accompagna quasi mai al ricordo dei nostri crimini (ad esempio quelli perpetrati dal fascismo in Libia, in Etiopia e in Jugoslavia). Ricordare le vittime delle bombe angloamericane su Dresda e Amburgo non ha nulla di indecente, per quanto possa rivelare uno stato d'animo e inscriversi in un progetto di "normalizzazione" dell'identita' nazionale tedesca. Altra cosa e' la commemorazione pubblica, in presenza delle piu' alte autorita' dello Stato, dei "ragazzi di Salo'". * Un ultimo capitolo, "La discarica della storia", e' dedicato alla memoria della Ddr, demolita sotto i colpi di una "normalizzazione" ancor piu' radicale di quella del 1933 o del 1945, dalla quale e' nata una comunita' di nuovi "senzapatria", stranieri nel loro stesso paese, privati del loro passato e costretti a fabbricarsi un'identita' fatta di ricordi. Non si tratta di nostalgia - l'"Ostalgia" non si riduce a quello - perche' ben pochi rimpiangono il socialismo reale. I tedeschi orientali si aggrappano a oggetti, luoghi e simboli che potevano un tempo apparire banali, brutti o irritanti, come i semafori, i lampioni, la toponomastica o i monumenti agli eroi del socialismo che troneggiavano nelle piazze, ma che hanno iniziato a percepire come "propri" quando le autorita' hanno deciso di eliminarli senza neppure chiedere il loro parere. Prima di essere trasformato in ideologia di Stato dalla Ddr - e stigmatizzato come ideologia totalitaria da Adenauer -, l'antifascismo e' stato l'ethos civile e politico dei tedeschi che hanno deciso di combattere Hitler e salvato l'onore della Germania. Questa tradizione rischia oggi di conoscere un'eclissi totale nel paese della proliferazione commemorativa. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1126 del 26 novembre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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