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Nonviolenza. Femminile plurale. 35
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 35
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 27 Oct 2005 13:23:07 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 35 del 27 ottobre 2005 In questo numero: 1. Cindy Sheehan: Duemila morti: non uno di piu' 2. Luigi Onori ricorda Shirley Horn 3. Lea Melandri: Eros e polemos 4. Daniela Padoan intervista Ruth Klueger 5. Valeria Magnani: Olive Schreiner 1. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: DUEMILA MORTI: NON UNO DI PIU' [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di Cindy Sheehan. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey in Iraq; per tutto il mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio. Intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra] "La disobbedienza civile diventa un dovere sacro, quando lo stato diventa illegale e corrotto" (Mahatma Gandhi). Sfortunatamente, il duemillesimo americano morto in Iraq e' arrivato fin troppo presto (1). In aggiunta alle giovani vite perdute in Iraq, 246 dei nostri uomini e donne sono stati uccisi in Afghanistan. La guerra e le nostre truppe laggiu' ottengono, se possibile, ancora meno attenzione di quelle in Iraq. Io sono a Washington, ora, con una coalizione di gruppi pacifisti ed attivisti locali. Terremo veglie davanti alla Casa Bianca per il resto della settimana, da mezzogiorno alle otto di sera. Ogni giorno distribuiremo braccialetti neri di stoffa, e faremo scrivere su di essi, ad ogni persona che li prendera', il nome di un soldato "ucciso in azione" ed il suo numero. Ogni braccialetto simboleggia anche 50 innocenti iracheni uccisi. Ogni giorno, alle 18, terremo un "die in", ovvero chiederemo alle persone presenti di sdraiarsi a terra e rappresentare un soldato morto. A quel punto, la polizia presente ci dara' tre avvisi prima di arrestarci. Noi non chiediamo a nessuno di lasciarsi arrestare: questa e' una decisione del tutto personale. Io ho pianificato di non alzarmi da terra, il giorno dopo il duemillesimo soldato ucciso. Potrebbero arrestarmi (2). Poi, quando mi lasceranno andare, tornero' li' e mi sdraiero' di nuovo. Noi in America abbiamo permesso a questa amministrazione criminale di cavarsela con gli omicidi per troppo tempo. Ora basta. E' tempo di cominciare a praticare la disobbedienza civile nonviolenta su larga scala. Martedi' 25 ottobre digiuneremo per tutto il tempo della veglia, in solidarieta' con gli iracheni e gli americani che soffrono durezze ogni giorno. Chiediamo all'America di digiunare in solidarieta' con noi. Mercoledi' 26 ottobre, alle 10,30 del mattino, ci recheremo al cimitero di Arlington per deporre una corona sulla tomba del Milite Ignoto. Poi torneremo alla Casa Bianca per la nostra veglia. Giovedi' 27 ottobre, sempre alle 10,30, consegneremo una corona e biglietti di solidarieta' all'ambasciata irachena. Chiediamo alle persone che si uniscono alla nostra veglia nel Lafayette Park di portare biglietti scritti da loro stesse. Poi torneremo alla Casa Bianca per la nostra veglia. Venerdi' 28 ottobre, sempre alle 10,30, consegneremo fiori e biglietti d'auguri all'ospedale "Walter Reed". Poi torneremo alla Casa Bianca per la nostra veglia. Domani chiedero' ancora al presidente Bush di rispondere alla mia domanda: "Per quale nobile causa?" Non ce n'e' nessuna. I nostri figli e il popolo iracheno stanno morendo e soffrendo senza causa alcuna, se si eccettuano il potere ed i criminali avidi di denaro. I numeri sono scioccanti. Nei 32 mesi dell'Iraq sono stati uccisi in azione piu' soldati statunitensi che nei quattro primi anni del Vietnam. Questo non e' un altro Vietnam, gente. Questo e' peggio. Non possiamo permettere alle persone che dirigono il nostro paese di continuare a dirigerlo verso una tomba. E' venuto il momento di esercitare il nostro sacro dovere come esseri umani. Vediamo di diventare pacificamente radicali. * Note 1. Si tratta del Sergente George T. Alexander Jr., 34 anni di Killeen, Texas. E' morto a causa delle ferite riportare il 17 ottobre 2005 (ndt). 2. Decisa a farsi arrestare con Cindy Sheehan c'e' Ann Wright, una dei tre diplomatici del Dipartimento di Stato ad aver rassegnato le dimissioni per protesta contro la guerra in Iraq. (ndt). 2. LUTTI. LUIGI ONORI RICORDA SHIRLEY HORN [Dal quotidiano "Il manifesto" del 23 ottobre 2005. Luigi Onori e' critico musicale e pubblicista, collabora dal 1981 al quotidiano "il manifesto", dal 1985 scrive per la rivista mensile "Musica jazz" (vi ha pubblicato, tra l'altro, inserti monografici dedicati a Duke Ellington, John Coltrane, Abdullah Ibrahim, al jazz sudafricano e al jazz in Russia); e' autore di vari libri, tra cui un volume di studi dedicato all'analisi dei rapporti tra musica, culture afroamericane e continente nero: Jazz e Africa. Griot, musicisti e fabulatori, De Rubeis, 1996. Shirley Horn, straordinaria musicista jazz deceduta alcuni giorni fa, era nata a Washington il primo maggio del 1934. Dopo aver studiato pianoforte classico fondo' il suo primo trio jazz nel 1954; la notorieta' la raggiunse agli inizi degli anni '60 grazie alla collaborazione con Miles Davis; dopo una lunga pausa torno' sulle scene all'inizio degli anni '80 e a incidere dischi nel 1986; e' dell'88 il disco tributo a Miles Davis "I remember Miles", che ottenne il Grammy quale miglior disco vocale di jazz dell'anno] Shirley Horn non regalera' piu' meravigliose canzoni e significativi versi, accompagnati dal suo pianoforte essenziale quanto ricco di sfumature oppure da un elegante trio. La cantante - nata a Washington nel maggio 1934 - e' morta giovedi' notte nella sua casa nella capitale statunitense; da molti anni era su una sedia a rotelle dopo aver subito un'amputazione a causa del diabete, come accadde a Ella Fitzgerald. Si e' purtroppo, cosi', ammutolita una voce raffinata che "personalizza in una chiave emotiva e insieme dignitosa e sensuale, dalle argute venature bluesy", come ha sapientemente scritto Luciano Federighi. Eppure la Horn ha vissuto una carriera anomala, con il successo giunto negli anni '90, sancito dal quarto album inciso per la Verve (Here's to Life, 1991) che suggello' la sua rinnovata e piena visibilita' sulla mutevole scena del jazz. L'artista si forma come pianista e compositrice e studia a Howard sino ai diciotto anni; all'epoca i suoi musicisti di riferimento sono Oscar Peterson e Ahmad Jamal insieme a Claude Debussy e Sergej Rachmaninoff. Si sposa a 21 anni e la sua carriera rallenta, svolgendosi soprattutto nei club della zona tra Washington e Baltimora. Uno dei suoi album - Embers and Ashes - seduce Miles Davis e tra i due artisti nasce un'amicizia, basata sulla stima reciproca, destinata a durare a lungo. Il trombettista offre visibilita' alla giovane pianista-cantante ed ella gli restera' sempre legata. Il 13 agosto 1990 Miles Davis accetta di suonare in un brano cantato dalla Horn ed e' You Won't Forget Me, una ballad: sono anni che il divino trombettista non esegue standard ma la sua interpretazione e' colma di passione, tanto da essere considerata da svariati critici - tra cui il davisologo Enrico Merlin - come il suo canto del cigno (il trombettista muore il 28 settembre 1991; nel 1998 la musicista di Washington registro' un album-tributo in ricordo dell'amico scomparso). Shirley Horn, Miles Davis e Chet Baker - fatte salve le notevoli differenze - hanno in comune l'amore per le canzoni, la capacita' di rendere poesia, ritmo e sostanza i versi e le melodie; spesso hanno agito in maniera minimale, con tocchi impercettibili che riescono a conferire agli standard una dimensione assolutamente nuova e un sottile, inarrestabile swing. Tra i due trombettisti e la pianista/cantante c'e', ancora, in comune l'economia dei mezzi - che non vuol dire limite tecnico, tutt'altro - coniugata alla portata massima del risultato espressivo. Baker e Davis hanno, pero', sempre vissuto in notorieta' mentre la Horn ha condotto un'esistenza appartata e continuato a far musica senza preventivare, ne' cercare, una fama giunta in ritardo. Nel 1987 una serie di incisioni per l'etichetta Verve (I Thought about You e Close Enough for Love, oltre alle gia' citate) rilancia la cantante che, grazie anche all'appoggio e alle collaborazioni con Davis e Wynton Marsalis, ottiene grandi consensi di pubblico e di critica. L'album Here's to Life corona uno dei sogni di Shirley Horn, quello di collaborare con il compositore e arrangiatore Johnny Mandel, produttore anche dell'album; sara' ospite dell'orchestra di Mandel, insieme al suo inossidabile trio con Charles Ables al contrabbasso e Steve Williams alla batteria (un bel disco in trio e' quello inciso dal vivo At North Sea nel 1981, con Billy Hart al posto di Williams). La classe e la poesia di Shirley Horn risultano grandissime quand'ella e' sola con il suo pianoforte come in Loving You, Should I Surrender e It Amazes Me, registrati nel 1996: pochi e raffinati accordi e una voce che scava, attraverso il suono, nel senso. 3. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: EROS E POLEMOS [Dal quotidiano "Liberazione" del 22 ottobre 2005. Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista, redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, poi Manifestolibri, Roma 1997. Cfr. anche Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996. Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni: L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997); Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991; La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato, insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'"] Che tra amore e odio, amore e morte, ci sia un legame che li fa apparire inseparabili, e' una di quelle evidenze che sono rimaste per lungo tempo "invisibili", poco interrogate e di conseguenza non soggette a cambiamenti. Cio' che li accomuna, infatti, e' innanzitutto il loro carattere di "invarianti" o "permanenze": azioni che si riproducono quasi inalterate nel tempo e nello spazio, come se avessero una vita propria, fuori dalla storia. Nel Disagio della civilta', Freud parla di una "coppia antagonista" di pulsioni originarie - Eros e Thanatos - che spingono in direzioni opposte: verso la conservazione e l'allargamento della vita, il primo, verso la distruzione e il ritorno all'inanimato, l'altro. Barbara Ehrenreich (Riti di sangue, Feltrinelli 1998) vede nella guerra un "modello di comportamento autoreplicante", dotato di un proprio dinamismo interno, una "unita' culturale" contagiosa e dotata di una forte capacita' riproduttiva. Cio' che la civilta' torna a mettere in scena, in quel "rito sacrificale" cruento che e' la guerra, avrebbe a che fare con il "trauma originario", il passaggio dell'uomo da preda a predatore, dalla posizione di chi e' minacciato all'esercizio della violenza, sia pure in difesa del gruppo. James Hillman (Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2004) considera la guerra una "forza archetipica", una componente primordiale dell'essere, ubiquitaria e senza tempo. Astorica sarebbe anche la congiunzione con l'amore, la bellezza, la spettacolarita'. In tutti e tre i casi, si conferma la tendenza diffusa a vedere in queste passioni umane il segno di una "fatale necessita'". * Un'altra ipotesi e' che la coppia amore e violenza abbia a che fare con tutti i dualismi che conosciamo - natura e storia, individuo e societa', ecc. -, e prima di tutto con quello che ha diviso, come poli opposti e complementari, il maschile e il femminile. L'"enigma della guerra", di cui parla Einstein nel carteggio con Freud del 1932, l'"enigma del sesso" su cui va a urtare la ricerca psicanalitica, l'"enigma del dualismo" che Otto Weininger mette al centro del pensiero filosofico occidentale, e, si potrebbe aggiungere, l'"enigma della storia" di Marx, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, rivelano parentele inequivocabili, se solo si scosta il velo di misteriosita' che li ha fatti precipitare in una natura immobile e sconosciuta. La differenziazione che ha collocato su sponde opposte la donna e l'uomo, la famiglia e la civilta', ancorandoli nel medesimo tempo a logiche d'amore, di armonioso ricongiungimento, e di ostilita', rifiuto e cancellazione del diverso, non poteva che venire dall'interno della storia, come sdoppiamento di quell'unico sesso che se ne e' fatto protagonista. Quando si definiscono le figure del maschile e del femminile, si puo' pensare che la donna, nel suo essere reale, sia gia' sparita dall'orizzonte, che sia gia' avvenuta quella riduzione al medesimo che ha permesso all'uomo di proiettare su di lei aspetti contrastanti della sua umanita': minaccioso deve essergli parso il corpo con cui e' stato tutt'uno, in un rapporto mai estinto di dipendenza e attrazione, salvifica la possibilita' di farne il custode di tutti i valori che non riusciva a trovare in se stesso e nei suoi simili. Sul luogo che e' rimasto a rappresentare il "modello di ogni felicita'" - la madre, l'origine, l'infanzia - convergono nostalgia e violenza dominatrice, idealizzazione e svilimento, bisogno di appartenenza e di fuga. * Se l'amore ha conservato cosi' a lungo il suo carattere di "anelito originario", sogno di "comunione" con un altro essere, riconoscibile nell'innamoramento, ma anche nell'Ideale che ogni volta trasforma una pluralita' di individui in un'organismo unico e omogeneo (nazione, etnia, classe, ecc.) - "l'essenza dell'Eros", dice Freud, "e' di fare di piu' d'uno uno" -, e' anche perche' la comunita' storica degli uomini si e' lasciata a fianco, separata, sottomessa ma pur sempre disponibile, la sua infanzia: una donna destinata a restargli per sempre madre, una casa, una famiglia, un luogo di appartenenza intima. Ma e' proprio questo aspetto fusionale dell'amore, che arriva a spingersi fin dentro le faticose costruzioni della societa', a muovere sentimenti contraddittori, di amore e odio. Pierre Bourdieu (Il dominio maschile, Feltrinelli 1998) si chiede se l'amore sia una sorta di "tregua miracolosa", uno stato di comunione che non esclude il riconoscimento reciproco, la sola eccezione alla legge del dominio maschile, una messa tra parentesi della violenza simbolica, "o la forma suprema, perche' la piu' sottile, la piu' invisibile, di tale violenza". Forse la distruttivita' e' gia' dentro la diade amorosa, quell'unita' sociale elementare che da millenni rivaleggia con la vita pubblica. Sandor Ferenczi (Thalassa, Cortina 1993) vede nel coito una sorta di agguerrita reinfetazione, "la felice vittoria sul trauma della nascita", "una festa commemorativa che celebra la liberazione da una situazione difficile". Le immagini guerresche non sono solo metafore. Il privilegio del ritorno al corpo materno sarebbe l'esito di una lotta tra i sessi che vede il trionfo del maschio, del suo modello di sessualita' penetrativa e generativa, per cui alla donna non resta che subire l'atto sessuale e ripiegare su piaceri compensatori: l'allattamento, il parto, l'identificazione con l'uomo "vittorioso". * Ma dove le contraddizioni legate alla persistenza del modello originario dell'amore appaiono piu' evidenti, e' nell'analisi che Freud fa del "disagio" della civilta'. Dopo aver tentato di idealizzare la coppia madre-figlio come "esente da ambivalenze", Freud e' costretto a riconoscere che "l'uomo non e' una creatura mansueta": "Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressivita', a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo". Se Eros appare inizialmente come il fondamento di sempre piu' ampie aggregazioni umane, dall'altro e' impossibile non accorgersi che esso entra presto in conflitto con la civilta'. Una volta che e' riuscito a "fare di piu' d'uno uno", a costruire unioni ideali, l'amore non vuole andare oltre, e ogni esterno gli appare minaccioso o superfluo: "La coppia degli amanti basta a se stessa". Famiglia e vita pubblica, non solo non si pongono su una linea di continuita', ma finiscono per rappresentare l'una per l'altra un pericolo: "La civilta' si comporta verso la sessualita' come una stirpe o uno strato di popolazione che ne abbia sottomesso un altro per sfruttarlo, e che vive percio' nel timore costante dell'insurrezione". La raccolta in un gruppo chiuso, omogeneo, e' strettamente imparentata con la separazione da tutto cio' che dal di fuori sembra ostacolarla. Niente come la figura di un nemico serve a stringere aggregazioni forti e compatte. "L'essere vivente protegge, per cosi' dire, la propria vita distruggendone un'altra". Sotto questo profilo, che vede insieme apparentemente indistricabili amore e odio, conservazione e distruzione, si puo' leggere anche la nascita della comunita' storica degli uomini, il bisogno del sesso dominatore di darsi una genealogia in proprio, una discendenza di padre in figlio, cancellando quell'origine "eterogenea" che lo lega al corpo della donna. Prima, o insieme alle "pulizie etniche", l'umanita' ha conosciuto una "pulizia sessuale", l'espulsione del primo "diverso" che ogni vivente incontra nascendo e con cui e' stato, sia pure per un breve tragitto, in una stato di assorbimento o di indistinzione. Ma nella spinta ad ingrandire la sua famiglia sociale, era inevitabile che l'uomo conoscesse altri movimenti analoghi, di accomunamento e chiusura, inclusione e settarizzazione. I legami che lo hanno visto nel privato come marito, padre, figlio, amante, si trasferiscono, a volte con accresciuta intensita', nelle sue relazioni pubbliche, in particolare la' dove la vita del gruppo appare piu' minacciata. "L'intensita' dell'amore di guerra - scrive Hillman - nasce dal crollo di tutti gli altri... la disperazione di una vita vissuta insieme comprime tutto l'amore umano in questi pochi con cui faccio la ronda, oltre a mangiarci, pisciarci, dormirci insieme". * La' dove si costituisce una comunita'/persona, quasi fosse un'unita' organica, in guerra ma anche nei nazionalismi, nelle costruzioni identitarie, negli arroccamenti etnici, nell'assolutizzazione delle differenze, si puo' ipotizzare che si riattualizzi, come replica cieca o come ripresa aperta a nuove soluzioni, l'unione originaria con la madre, un modello d'amore immaginario, esclusivo, che vede l'apertura e la diversita' come un pericolo. Nel libro curato da Maria Bacchi e Melita Richter, Le guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo (Rubbettino 2203), il legame tra differenziazione dei sessi e pulizia etnica, costruzioni di genere e nazionalismi, e' al centro di un interrogativo ricorrente e della elaborazione originale che ne hanno fatto le associazioni femministe, in modo particolare le Donne in nero di Belgrado, strette tra l'attivismo e la solidarieta' richiesti dalle ferite della guerra, e il bisogno di capire perche', a parte una stretta minoranza, le donne abbiano dato il loro appoggio a un'ideologia cosi' dichiaratamente patriarcale e guerriera. Il nazionalismo, scrive Tanja Rener, fa leva sulla comunita' e sul sentimento, sulle categorie premoderne della terra, del sangue, della famiglia. Le donne, relegate da sempre in queste zone di frontiera della storia, ma pronte a riemergere in ogni crisi o mutamento della civilta', vengono sollecitate a riprendersi antiche prerogative, quelle che le hanno viste come custodi della casa, della prole, ma anche dei valori piu' alti della comunita': madri di eroi e baluardo delle virtu' della nazione. Negate sempre e comunque come individui, tuttavia, osserva Rener, mentre lo stato socialista le aveva considerate solo come "soggetti sociali" svantaggiati, da proteggere ed emancipare, i nuovi stati nazionali le riportano a quella "differenza specifica" che e' stata contraddittoriamente il loro asservimento e la loro esaltazione immaginaria. "Le metafore nazionaliste della famiglia parlano di uomini come figli, padri e amanti della casa, patria, nazione... regressione, ritorno al seno materno del figlio che nella 'fratellanza fra le nazioni' aveva perduto la vera madre". Se la nazione e' un'idea tutta maschile, e la sua nascita e' coincisa con il dominio di una comunita' "omogenea", in quanto fondata su una genealogia patriarcale, e' innegabile, tuttavia, che il richiamo alla patria come "coesione organica", rimanda al corpo materno e a quella irripetibile "fusione" di cui resta, amato e temuto, protagonista. * La coscienza che ha sottratto a una millenaria naturalizzazione il rapporto tra i sessi, oggi puo' tentare di riportare alla storia - e cioe' alla cultura e alla politica - altri enigmatici indicibili annodamenti, primo fra tutti quello che imbrigliando vita e morte, amore e violenza, ha impedito finora una messa in discussione radicale dell'uno e dell'altra, e quindi la presa di distanza dall'immaginario che li sostiene. Anche se ancora lontana, comincia a profilarsi la fine di una parentela (dialettica?) rovinosa. 4. MEMORIA. DANIELA PADOAN INTERVISTA RUTH KLUEGER [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 ottobre 2005. Daniela Padoan e' una prestigiosa giornalista e saggista femminista. Dalla bella rivista "Via Dogana" riprendiamo la seguente scheda di presentazione: "Daniela Padoan collabora con la televisione e la stampa, in particolare con "Il manifesto". Nel pensiero della differenza ha trovato un tassello mancante, degli elementi in piu' per la lettura di avvenimenti attuali e storici come la vicenda delle Madres de la Plaza de Mayo ("la lotta politica forse piu' radicale di questi decenni"), o la Shoah, che Daniela ha indagato, nel suo ultimo libro, attraverso tre conversazioni con donne sopravvissute ad Auschwitz (Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano 2004)". Opere di Daniela Padoan: Miti e leggende del mondo antico, Sansoni scuola, Firenze 1996; Miti e leggende dei popoli del mondo, Sansoni scuola, Firenze 1998; (a cura di), Un'eredita' senza testamento, Quaderni di "Via Dogana", Milano 2001; (a cura di), Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti delle Madres de Plaza de Mayo, Quaderni di "Via Dogana", Milano 2003; Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano 2004; Le Pazze. Un incontro con le Madri di Plaza de Mayo, Bompiani, Milano 2005. Ruth Klueger "nata a Vienna nel 1931, aveva dodici anni quando venne deportata prima a Theresienstadt, poi ad Auschwitz e infine a Christianstadt. Dopo la liberazione, nel 1947, si e' trasferita negli Stati Uniti. Ha insegnato letteratura tedesca all'universita' di Irvine (California); a meta' degli anni `80 e' stata la prima donna a capo del dipartimento di germanistica a Princeton; e' autrice di saggi e articoli sulla letteratura tedesca. 'Vivere ancora', tradotto in moltissime lingue e ora riproposto in Italia da SE, ha ottenuto molteplici riconoscimenti tra cui il premio Grimmelshausen per la letteratura"] Vivere ancora, l'autobiografia di Ruth Klueger - un classico della letteratura di testimonianza della Shoah pubblicato dieci anni fa da Einaudi - da molto tempo non era piu' andato in ristampa. Fatto incomprensibile, se si pensa che in Germania la prestigiosa casa editrice Reclam ha pubblicato un libro di commenti e documenti su questo testo, come e' d'uso con i classici. A colmare un'imbarazzante lacuna ha pensato l'editore SE, che lo ha recentemente dato alle stampe nella stessa, accurata traduzione di Andreina Lavagetto (pp. 240, euro 19). Ruth Klueger, nata a Vienna, aveva sette anni quando, nel 1938, Hitler proclamo' l'Anschluss. A dodici anni venne deportata a Theresienstadt e poi ad Auschwitz. Dopo la liberazione si trasferi' negli Stati Uniti, dove divenne docente di germanistica in prestigiose universita' della California. Oltre alla sua autobiografia, ha scritto preziosi saggi sulla letteratura tedesca. * - Daniela Padoan: In apertura del suo libro lei scrive che "la fuga e' sempre la cosa piu' bella". E, piu' avanti, "Vienna e' stata il primo carcere da cui non sono riuscita a fuggire". Cos'e' la fuga, nella sua vita? - Ruth Klueger: Quando, ormai da anni negli Stati Uniti, ho cominciato questo libro, ho voluto scriverlo in tedesco, e ogni volta che non trovavo le parole, chiedevo alla bambina austriaca che era in me di ricordarmele. In fin dei conti, e' vero, non sono mai andata via da Vienna, e' una citta' dalla quale non sono mai davvero scappata, ma al tempo stesso non posso stare troppo a lungo in un posto, forse perche' non mi sono mai sentita a casa da nessuna parte. Se riesci ad andartene, puoi trovare posti migliori, e la maggior parte delle volte funziona. La nostra e' stata una generazione di rifugiati, che si e' spostata nel mondo come mai prima di allora; io sono solo una di quegli innumerevoli rifugiati. La fuga e' diventata l'espressione del mio mondo e del periodo nel quale sono vissuta; sono interamente una persona del XX secolo. E nel XXI continueremo ad avere masse di rifugiati, intere generazioni di rifugiati. * - Daniela Padoan: Nel suo caso, si tratta anche di una fuga dai luoghi comuni. Il suo e' un libro antiretorico, scarnificato. - Ruth Klueger: Ho sempre evitato il sentimentalismo. Quello che mi fa paura, nelle persone sentimentali, e' che mentono sulle cose. Credere che il mondo possa andare meglio, e' fare del sentimentalismo. Certo, anch'io vorrei che le cose andassero diversamente, e quando, guardando i miei nipoti, penso a un mondo migliore per loro, divento sentimentale. Ma nel mio libro e, credo, nella mia vita, ho sempre cercato di analizzare in profondita' le relazioni che le persone intrattengono tra loro, specie nell'amicizia e nella famiglia. In Vivere ancora - e questo ha dato fastidio a qualcuno - descrivo come, durante l'esperienza dei campi, le relazioni non diventassero piu' forti, ma continuassero invece a essere difficili e nevrotiche. La Shoah, la catastrofe, non e' stata un beneficio per le relazioni familiari, e' piuttosto ovvio. Eppure molta gente crede che, nelle difficolta', gli esseri umani diventino migliori. Perche' mai circostanze peggiori dovrebbero rendere migliori le persone? Auschwitz non e' stata una scuola di niente, men che meno di umanita' e tolleranza. Mi e' capitato di parlare con uno studente tedesco che si stupiva di aver conosciuto a Gerusalemme un ebreo ungherese sopravvissuto ad Auschwitz che detestava gli arabi. Perche', ho reagito io, quell'esperienza avrebbe dovuto renderlo piu' tollerante? i campi di concentramento sono stati distruttivi dell'animo umano e non solo dei corpi; certo non una scuola di umanita'. * - Daniela Padoan: Lei parla della tentazione di identificarsi e assentire alla persecuzione. Racconta di quando guardava le facce del Rassenschaender, "I profanatori della razza", ritratti nel giornale: "erano uguali identiche a quelle dei miei zii, e io cercavo di immedesimarmi nello sguardo di coloro che ne erano inorriditi". - Ruth Klueger: Gli ebrei, a Vienna, cercavano di trovare le ragioni per cui i non ebrei li odiavano, e uno dei luoghi comuni ricorrenti era che avessero troppo denaro e che lo ostentassero. Mia zia diceva che non bisognava indossare gioielli per strada, per non fare "antisemitismo". Si cercava di non suscitare aggressivita', si assumeva su di se' lo sguardo dell'altro. Era un vedersi riflessi nello specchio di occhi cattivi, per usare le parole di Yeats nel Mirror of Malicious Eyes. Non si sfugge dall'immagine che ti viene ritorta contro, si finisce per crederle. E questo e' forse il veleno piu' profondo e insidioso del razzismo. * - Daniela Padoan: Lo scrittore israeliano Aaron Appelfeld, anch'egli sopravvissuto, sostiene che, a differenza di tutte le discipline che si occupano della Shoah, la letteratura e' in grado di creare "quel genere di intimita' che ci tocca personalmente". Cosa pensa della contrapposizione che spesso si e' venuta a creare tra testimoni e storici? - Ruth Klueger: Appelfeld ha ragione, ma avrei qualcosa da aggiungere; la letteratura della Shoah e' una letteratura di sopravvissuti, di scampati, e questo da' la confortevole sensazione che tutti ce l'abbiano fatta, ma non dobbiamo dimenticare che la maggior parte delle persone, invece, sono morte nei campi. E' solo questa evidenza a poter davvero parlare della morte, e non delle sofferenze che i pochi sopravvissuti hanno patito per pochi anni; parliamo di circa sei milioni di persone che sono state uccise, e questo e' cio' che i sociologi e gli storici raccontano, e non la letteratura, cosi' abbiamo bisogno di entrambe. * - Daniela Padoan: Nella sua scelta di cambiare nome c'e' un indissolubile legame femminile. Ruth emigro' non per fede ma per amore della suocera Naomi. - Ruth Klueger: Il mio vero nome era Ruth, il mio secondo Susan, ma da bambina tutti mi chiamavano Susi. Quando sono arrivati i nazisti, pero', ho voluto il mio nome ebraico; allora non sapevo che anche Susanna lo fosse. Quando piu' tardi lessi Il libro di Ruth ne fui molto felice, mi parve di essermi riappropriata del nome giusto per me. Amo questo libro della Bibbia. Nel Libro di Esther tutti i nemici degli ebrei vengono uccisi, il Libro di Ruth e' scritto contro questo genere di nazionalismo. Ruth non e' ebrea, e' una mahabita che diventa ebrea, che decide di emigrare perche' stima di piu' l'amicizia con la suocera Naomi che l'appartenenza alla stirpe. * - Daniela Padoan: "Volevo che la vita continuasse", si legge nel suo libro. "Non volevo, come la moglie di Lot, diventare pietra volgendomi a guardare la citta' dei morti". - Ruth Klueger: E' stato proprio dopo la guerra, quando era una questione di ricordare e raccontare, o di dimenticare e andare avanti; io volevo andare avanti, scoprire il mondo con tutte le cose belle che mi erano state precluse. Non volevo guardare indietro. Volevo avere la mia vita, come tutti gli altri. Cominciare quel genere di esistenza che avevo tanto desiderato nei campi; ma ovviamente, al tempo stesso, volevo preservare quello che mi era successo. Era un sentimento ambivalente. * - Daniela Padoan: Si puo' parlare di questa ambivalenza come di una doppia cittadinanza, nel mondo dei vivi e nel mondo dei morti? - Ruth Klueger: Le docce riguardano i morti, l'orrore delle docce riguarda i molti che sono stati uccisi, e non i pochi superstiti che sono stati reintegrati nel mondo dei vivi. Noi non abbiamo mai costituito un pericolo per la societa', abbiamo solo cercato di integrarci e, qualunque ferita o dramma avessimo dentro di noi, abbiamo cercato di interiorizzarlo e conviverci. Si', abbiamo una grande parte di noi che e' tra i viventi, in forma separata da quelli che sono morti; ma una piccola parte di noi e' due contemporaneamente. Io sono piu' fantasma di quanto lei non sia, ma io appartengo a lei piu' di quanto appartenga al mondo di mio fratello, che e' morto quando aveva 17 anni. E' molto triste, ma e' cosi'. Pero' c'e' una differenza tra il ricordare i morti e l'essere morti: chi ricorda i morti e' ancora vivo. Io ho un grande vantaggio, sono viva; mio fratello e' morto e non ha avuto una vita, dopo. Senza vita, nessuna altra cosa e' possibile, nessuna cosa puo' essere pensata o sentita. Ho vissuto fino a 73 anni, e ricordare mio fratello e' solo un minimo tributo. Si tratta di un senso di morte, e del senso di colpa che abbiamo verso i morti. I miei figli non hanno potuto sapere chi era mio padre; era un giovane uomo, io sono molto piu' vecchia di quanto lui sia mai arrivato ad essere. Mio fratello era un ragazzo... cosi', davvero, apparteniamo a due diversi regni, a due diverse categorie di persone, loro appartengono a quelli che hanno perso tutto quello che c'e', la vita, nelle docce; e' per loro che le docce sono state quello che sono state, il piu' orrendo evento del XX secolo. * - Daniela Padoan: Lei ha scritto che e' importante quale dolore si soffre. Cosa significa convivere con il dolore del ricordo, la consapevolezza che gli uomini sono capaci di questo? - Ruth Klueger: E' un bilico. Un giorno guardavo mia nuora con i suoi bambini, i miei amati e meravigliosi nipoti, e ho pensato: e se qualcuno venisse a prenderli, a strapparli da lei? E poi ho pensato, no, e' una cosa che non le potra' mai accadere, questa donna californiana e' qui al sicuro, non accadra'... e per me questo e' un regalo. Non gliel'ho detto perche' immagino che mi avrebbero preso per pazza, ma in quel momento ero nel mio vecchio mondo, dove potevano venire uomini in uniforme e prendere i bambini. Questo non passa, questo e' sempre qui. Possiamo perdere tutto. E' un sentimento di fondo molto forte in me: essenzialmente niente mi appartiene, tutto mi puo' essere tolto, anche la vita dei miei piu' piccoli familiari. * - Daniela Padoan: "Pensavo che dopo la guerra avrei avuto qualcosa di interessante e importante da raccontare", lei scrive. "Ma la gente non ha voluto sentirlo, oppure soltanto in una certa posa, non come interlocutori, ma come persone che si sottopongono a un compito spiacevole, con una sorta di rispetto che facilmente si capovolge in nausea, due sensazioni che comunque si completano, perche' gli oggetti del rispetto, come quelli della nausea, li si tiene lontani da se'". - Ruth Klueger: Credo che la parola che ho usato in tedesco fosse piu' forte di "rispetto", qualcosa come "venerazione", o "timore reverenziale". Si tratta di un sentimento molto vicino alla nausea, al disgusto. Dopo la guerra, molti affermarono che i sopravvissuti non erano credibili, cosi' noi divenimmo sospetti; la gente si allontano' da noi e da allora siamo diventati una sorta di generazione di martiri. Siamo stati in un certo senso esaltati, e questo e' cio' che voglio dire con il contrasto tra la nausea e il timore reverenziale. * - Daniela Padoan: Quando scriveva che nulla l'ha mai ferita quanto l'accusa che i reduci dai lager fossero moralmente corrotti, aveva in mente il giudizio di Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo? - Ruth Klueger: Allora non conoscevo quel passaggio delle Origini del totalitarismo, ma subito dopo la guerra - perche' poi, ne La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme, Arendt cambio' opinione - anche lei fu partecipe di un comune sentimento di rigetto nei confronti dei sopravvissuti. Non e' stata l'unica, anche se e' stata la piu' importante. Uno tra i profughi allora piu' in vista disse che ci sarebbero voluti istituti di rieducazione per i bambini come me, perche' eravamo completamente corrotti ed eticamente inferiori. Quando ho sentito queste affermazioni, ho pensato che gli istituti di rieducazione avrebbero dovuto essere organizzati per quelli che avevano perpetrato i crimini, i colpevoli, e non per le vittime. Ho molto riflettuto su questo argomento e penso che davvero fossimo innocenti; quello che avveniva nei campi non era un crimine, ma un profondo istinto di sopravvivenza. Rubare il cibo a qualcun altro faceva parte di quella realta', e in ogni libro sui campi di concentramento si puo' leggere che era del tutto comune coalizzarsi in due, tre persone, per sopravvivere: Elie Wiesel e suo padre, Primo Levi e i suoi due compagni. Lo stesso accadde a me, a mia madre e a Susan, la ragazza che mia madre adotto' nel campo, e che nel libro ho chiamato Ditha. Ovunque, la gente ha continuato a cercare di essere umana, e bisogna giudicare caso per caso. Ma molti pensavano che i campi avessero avuto un'influenza totalmente corruttrice. Ovvio che non fosse stata un'esperienza edificante: volevano ridurci a niente. Ma non e' cosi' facile distruggere le persone. Dipende da chi sono. E gli ebrei che arrivavano la', spesso avevano alle spalle un bagaglio solido - famiglie amorevoli, tradizioni intellettuali -, che dava loro una certa forza. Bisogna giudicare caso per caso. * - Daniela Padoan: Con parole ironiche, dissacranti, e che pure vibrano di passione, lei passa in rassegna i luoghi comuni della letteratura sulla Shoah: l'uso retorico che troppo spesso viene fatto di Celan, i "piagnistei di Erich Kaestner sulle scarpe ammucchiate dei bambini morti" ("una scarpa non e' un'adeguata pars pro toto"), la buona coscienza della visita ad Auschwitz. - Ruth Klueger: Sono convinta che i fatti non parlino mai per se stessi ma vadano sempre interpretati, e che le semplificazioni non mostrino nulla. I mucchi delle piccole scarpe diventate un simbolo dell'uccisione dei bambini ebrei vanno sempre interpretate, altrimenti si rischia di guardarle con un sentimentalismo che finisce col rispecchiarsi in se stesso. E, per questo, i sopravvissuti sono gli interpreti piu' legittimi. Dobbiamo guardarci dai sentimentalismi, dalla tentazione di osservare e limitarci a dire "che brava persona sono perche' mi vengono le lacrime agli occhi nel vedere queste cose". Bisogna che continuiamo a focalizzare la nostra attenzione su quello che e' la' da capire, e non su noi stessi. * - Daniela Padoan: Oggi si parla continuamente del dovere della memoria. Cos'e' la memoria, per lei? - Ruth Klueger: Credo che anche la memoria passi da una generazione all'altra, e che cambi, proprio come cambiano i ricordi nell'arco delle nostre vite. Ogni generazione ricordera' quello che vorra' ricordare. Lei non ricordera' quello che a me sembra piu' importante; adesso potrei raccontarle quello che a me sembra piu' importante, e sperare che lei lo integri nella sua memoria, ma la cosa essenziale e' che lei cerchera' e scegliera', e i suoi figli cercheranno e sceglieranno qualcos'altro. Non possiamo imporre la nostra esperienza alle generazioni future. Nell'Ottocento tutti pensavano che le guerre napoleoniche sarebbero state la cosa piu' importante per secoli, ma ora c'e' molto di piu' nella nostra memoria collettiva. La Shoah e' differente, in molti modi, ma anche li' la memoria collettiva diventera' selettiva man mano che passera' il tempo, e anche se continuiamo a dire ai nostri figli "non dimenticate, non fate che possa ripetersi ancora", loro dimenticheranno, e in qualche modo perdoneranno, perche' perdonare e' parte del dimenticare. Dimenticare e' altrettanto importante che ricordare. C'e' cosi' tanto materiale nella mente umana, e il modo in cui lo sistematizziamo dipende dalle circostanze della vita di ciascuno. * - Daniela Padoan: Se Auschwitz non e' comunicabile, al fallimento della comprensione lei sembra offrirci un appiglio: la forza del paragone. - Ruth Klueger: Molte persone dicono che questa esperienza e' talmente incomparabile, inattingibile, che non si dovrebbero neppure tentare paragoni; bisognerebbe insistere sul fatto che si e' trattato di un evento unico. Ma la mia convinzione e' che tutto puo' essere comparato, e che solo la comparazione porta a una qualche comprensione. Quando parlo del mio trasporto sul carro bestiame, penso che le persone che, chiuse in locali angusti, hanno conosciuto la paura di morire, possiedano un ponte per comprendere quello che dico. Quanto a me, anche se so che non potro' mai pienamente capire cosa significhi essere gasati insieme a una massa di altre persone - che e' la morte piu' umiliante che posso immaginare - faccio appello al ricordo del mio trasporto su un carro bestiame sovraffollato. E' un punto di paragone, anche se sono consapevole che non capiro' mai fino in fondo. Ci sono molte esperienze di guerra fatte non all'interno dei campi che possono essere usate come paragone, purche' non si pensi che le cose siano identiche. Non potremmo comprendere nulla, se non attraverso la comparazione con qualcosa che gia' sappiamo; non abbiamo altri modi. La riflessione sulle condizioni umane non puo' prescindere da cio' che si puo' riconoscere come affine, dall'immedesimazione, altrimenti non si puo' che finire col mettere la cosa agli atti. 5. FIGURE. VALERIA MAGNANI: OLIVE SCHREINER [Dal quotidiano "Liberazione" del 20 ottobre 2005. Valeria Magnani e' operatrice culturale e giornalista. Olive Schreiner (1855-1920), scrittrice sudafricana, impegnata per i diritti delle donne e contro il colonialismo e il razzismo. Tra le opere di Olive Schreiner: Storia di una fattoria africana, Giunti, Firenze 1986; 1899, Edizioni Lavoro, Roma 1988, Feltrinelli, Milano 1991] L'Inghilterra vittoriana, con la sua corazza di ferro e mondanita', l'accolse per i lunghi anni della sua formazione; ma quando Olive Schreiner mori' nel 1920 la seppellirono nello stesso luogo che nel 1855 l'aveva vista nascere: la landa semidesertica e desolata di quel karoo dalla terra rossa cui appartenne la sua parte piu' viva, il suo nerbo pulsante di donna e la sua penna di scrittrice. L'estrema frangia nera dove crebbe, si gettava nell'oceano Atlantico, mentre al confine superiore premeva l'onnivoro impero britannico, che voleva togliere ai boeri cio' che loro per primi avevano gia' usurpato alle popolazioni boscimane. Olive fu uno dei tanti rami divelti della storia sudafricana, una tra le tante vittime delle guerre occidentali per la conquista di paesi che non appartenevano loro per diritto. Era una vittima, ma non era nera: era una bambina boera fagocitata da quel miscuglio di razze e religione che era il suo popolo. Visse l'insediamento della sua gente venuta per l'evangelizzazione protestante di quelli che con disprezzo chiamavano cafri; e visse le migrazioni centrifughe cui il suo popolo fu costretto dall'incalzare del colonialismo inglese, venuto con ferro, fuoco e miraggi capitalistici. * La sua famiglia si aspettava da lei che fosse l'evidenza dell'indottrinamento protestante: il padre missionario metodista tedesco e la madre discendente da predicatori inglesi, costituivano un nucleo religiosamente ingombrante, che la costrinse a portare la vertigine del suo pensiero e a segmentare la sua vita in continue diaspore migratorie per sfuggire agli inglesi. Olive divorava i libri con fame ostinata e insaziabile; voleva conoscere orizzonti che attraverso le pagine altri potevano mostrarle, voleva leggere altro dalla Bibbia calvinista che non poteva neppure cercare di interpretare. Leggeva tutto, leggeva a perdifiato; ma era una donna, e non le fu dato di disciplinare la sua inclinazione alla conoscenza con lo studio: la costanza nell'applicazione che aveva dato il nome a quel ramo di chiesa calvinista cui apparteneva, il metodo quindi, una donna doveva usarlo per rendere irreprensibile la propria vita, ma non poteva servirsene per accedere all'istruzione, rigorosamente maschile. Se ne andra' nel continente un giorno Olive, e apprendera' da trentenne le regole libere del mondo; ma ora e' l'adolescenza ad imporre le sue norme d'apprendimento fatto di solitarie letture, di tramonti infuocati sulla rossa terra del karoo, di umane figure nere, lucenti e misteriose, che si imprimono nella sua coscienza con un caleidoscopio di significati. Le crisi religiose sgorgano spontanee, la tradizione le appare il fragile involucro che avvolge un Dio inoperoso davanti alle ingiustizie, silenzioso alle preghiere. Olive scandaglia e pensa, razionalizza domande che si concatenano in un pensiero strutturato, come i grani rossi della sabbia si legano nell'organica armonia del deserto. Armonia e unita': in breve comprende come questi siano gli elementi che intersecano i massimi sistemi dell'universo con il piu' piccolo microcosmo; si impadronisce di loro pian piano, sotto il nerbo di crisi e riappacificazioni interiori che la conducono al piano sopraelevato del pensiero, dove si abbraccia l'insieme vivo e consequenziale di tutte le cose. * In Storia di una fattoria africana, il suo primo importante lavoro letterario, trovano spazio tutti i passaggi psicologici che l'hanno fatta crescere, e i personaggi, poliedrici e diversi, rappresentano ognuno una particella della sua personalita'. Lo sfondo e' l'ipocrita rapporto tra colonizzatori e colonizzati, dove affiora la mancanza di spessore del culto fine a se stesso che farisaicamente privilegia la forma e calpesta la sostanza, dove i rapporti sono di sudditanza palese e sfruttamento. Significativo in questo senso e' il fatto che nel romanzo i neri non parlano mai, non entrano nel discorso narrativo ma rimangono figure scultoree quasi a testimoniare il loro nulla nell'economia della parola bianca. Si stagliano figure importanti di uomini e donne, su cui aleggia l'atmosfera del romanticismo europeo, che si dividono senza indecisione i ruoli del buono e del cattivo. Vengono cosi' stilizzati comportamenti sociali e aspirazioni, desideri e bisogni che intagliano un mosaico rappresentativo di grande spessore. Ma Olive e' pur sempre una donna di meta' ottocento, una donna che ha bisogno di liberta' di pensiero e di respiro, nell'asfittico mondo coloniale che scimmiotta a Colonia del Capo il conformismo vittoriano del vecchio continente. E' nata forse nel secolo sbagliato, e il pedaggio che deve pagare e' la solitudine. Lontana ormai dalla sua famiglia per le scelte sociali e ideologiche che ha fatto, conosce uomini, tanti e diversi; sembrano aperti e intelligenti, ma arriva sempre il momento in cui il suo bisogno di autonomia si scontra con istanze maschili sepolte sotto la volonta' di cambiamento ma resistenti alla cultura secolare. Olive peregrinera' tutta la vita tra derive d'affetto mai riscaldate da un rapporto definitivo. Dopo aver perorato la causa dei boeri contro il capitalismo inglese si accorge che la guerra non ha nulla di ideale ma si gioca esclusivamente sul monopolio dello sfruttamento nella scacchiera di popolazioni povere su terre ricche. Allora si schiera definitivamente a fianco degli indigeni vivendo in diretta le deportazioni e le stragi di civili. * Dopo Storia di una fattoria africana scrivera' tanto ancora: racconti, lettere, saggi, diari, appunti. La solitudine e' ormai per lei l'abito che indossa per passeggiare sopra la realta' contingente, sulla mulattiera dei sogni e degli ideali meta-umani. Lo spessore letterario ed umano di Olive Schreiner sta nell'aver rielaborato, da sola e con fatica, le superstizioni degli insegnamenti dottrinali: li ha trascinati dall'antico credo cristiano biblico allo scetticismo razionale del cristiano del XIX secolo; ha frugato tra le risposte trascendentaliste per chiudere infine il cerchio sul ritorno alla dimensione primigenia. Ad uno dei suoi personaggi, uno tra i piu' cari, fara' dire infatti che la grandezza non e' altro che saper prendere le cose della vita e camminare tra esse con sincerita' e coraggio. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 35 del 27 ottobre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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