Nonviolenza. Femminile plurale. 28



==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 28 dell'8 settembre 2005

In questo numero:
1. Beatriz Cruz: Distruggendo le armi in Brasile si sono gia' salvate
migliaia di vite umane
2. Federica Giardini intervista Francoise Collin
3. George Kateb: Il pensiero politico di Hannah Arendt

1. LETTERE. BEATRIZ CRUZ: DISTRUGGENDO LE ARMI IN BRASILE SI SONO GIA'
SALVATE MIGLIAIA DI VITE UMANE
[Attraverso Francesco Comina (per contatti: f.comina at ladige.it) e padre
Ermanno Allegri (ermanno at adital.com.br) riceviamo e diffondiamo questa
lettera di Beatriz Cruz, coordinatrice del progetto "Rete per il disarmo"
dell'Instituto Sou da Paz (per contatti: rua Luiz Murat, 260, Vila Madalena,
Sao Paulo, tel. e fax: 3812-1333). La campagna promossa dal presidente Lula
per la consegna volontaria delle armi detenute dai cittadini alle autorita'
affinche' siano distrutte avra' come termine il 23 ottobre e come sviluppo
il referendum attraverso cui quel giorno l'intero popolo brasiliano sara'
chiamato a decidere se proibire il commercio delle armi. E' un referendum di
importanza decisiva per l'umanita' intera. Per sostenere la campagna per il
"si'" al referendum brasiliano per vietare il commercio delle armi, si puo'
contattare Francesco Comina in Italia (e-mail: f.comina at ladige.it) e padre
Ermanno Allegri in Brasile (e-mail: ermanno at adital.com.br, sito:
www.adital.com.br), si visiti anche l'utilissimo sito:
www.referendosim.com.br]

Care e cari partecipanti e sostenitori del Comitato per il disarmo di Sao
Paulo,
vi scrivo per un motivo molto speciale: il Ministero della salute ha
recentemente diffuso i dati [della ricerca sull'indice dei morti per arma da
fuoco dall'inizio della "Campagna per il disarmo" promossa dal governo Lula
e consistente nella consegna volontaria delle armi da parte dei cittadini
alle autorita' affinche' siano distrutte  - ndr -]: per la prima volta da
tredici anni si riduce il numero del morti per arma da fuoco in Brasile. Sao
Paulo e' lo stato in cui si sono salvate piu' vite.
Facciamo circolare la notizia, facciamola conoscere ovunque.
Vorremmo fare una manifestazione pubblica di celebrazione di questo
evento...
Un abbraccio a tutte e tutti con tanta allegria.
*
Allegato
La ricerca del Ministero della salute rivela che l'indice nazionale dei
decessi per arma da fuoco in Brasile si e' ridotto dell'8,2% nel 2004, anno
in cui ha avuto inizio la "Campagna per il disarmo" [promossa dal governo
Lula - ndr-]. E' la prima volta da tredici anni che in Brasile e' diminuito
il numero dei morti per questa causa.
Il risultato e' stato comparato con i dati del 2003: nel 2004 ci sono state
3.234 vittime in meno...

2. RIFLESSIONE. FEDERICA GIARDINI INTERVISTA FRANCOISE COLLIN
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 giugno 2001 riportiamo questa
intervista realizzata in occasione della pubblicazione del volume "Les
femmes de Platon a' Derrida", un'antologia curata da Francoise Collin,
Evelyne Pisier e Eleni Varikas.
Federica Giardini e' docente di filosofia politica presso l'Universita' Roma
Tre. Tra le opere di Federica Giardini: Relazioni. Fenomenologia e pensiero
della differenza sessuale, Luca Sossella Editore, Roma 2004.
Francoise Collin, filosofa e saggista, una delle protagonista del femminismo
francese, e' stata tra l'altro fondatrice della rivista "Les Cahiers du
Grif"]

Les femmes de Platon a' Derrida (Plon, pp. 830, ff. 198) di Francoise
Collin, Evelyne Pisier e Eleni Varikas e' una corposa antologia critica che
ha una prima notevole caratteristica, il gioco tra la sintesi estrema e la
profusione dei materiali testuali. Sintetiche ed efficaci sono infatti
l'introduzione generale all'opera e le introduzioni alla scelta dei testi
dei singoli autori. Nella prima vengono messe a fuoco le questioni che
un'opera di tali dimensioni comporta - l'invisibilita' della questione della
differenza tra i sessi in filosofia, la necessita' di compiere un'opera di
recupero di testi e passaggi della tradizione filosofica in cui tale
questione viene affrontata, la scelta del 1970 come data limite
dell'indagine, "data che traduce simbolicamente una rottura nella presa in
carico della questione dei sessi", e infine l'indicazione dei limiti del
progetto che non mira all'esaustivita' ma a mostrare la pertinenza
dell'interrogazione rivolta ai testi.
Da questa posizione, precisa e autorevole, viene subito capovolto un luogo
comune: nella tradizione filosofica il problema della differenza tra i sessi
non e' ne' assente, ne' marginale, ne' trattato solo da autori minori.
L'invisibilita' della questione e' piuttosto data dalle scelte della
tradizione universitaria ed e' bastato, dicono le autrici, portare un nuovo
sguardo su quelle stesse opere per far emergere un ambito esteso e
diversificato della questione. E' nelle singole introduzioni ai materiali
testuali che questo sguardo si mostra in pratica e rende conto del
sottotitolo dell'opera, che si presenta come una "antologia critica". Di
ogni autore vengono offerti elementi biografici, teorici e, soprattutto, una
messa in prospettiva della posizione che dai quei testi emerge, oltre ad
alcune indicazioni bibliografiche per una sua lettura sessuata, da integrare
con le oltre cento pagine della bibliografia finale. Da Guglielmo di Occam a
Pierre Bayle, da David Hume a Cesare Beccaria, il libro offre numerose
scoperte come base per ulteriori ricerche e riflessioni.
Di Les femmes de Platon a' Derrida Francoise Collin, Evelyne Pisier e Eleni
Varikas hanno discusso all'incontro "Teorie politiche sulle donne"
organizzato giorni fa da Ginevra Conti Odorisio e Francesca Brezzi per i
dipartimenti di istituzioni politiche e di filosofia all'Universita' di Roma
Tre. E con Francoise Collin, filosofa e femminista dalla lunga storia -
fondatrice della rivista "Cahiers du Grif" e autrice di numerosi testi
filosofici, tra i quali Le differend des sexes e il saggio a partire da
Hannah Arendt, L'homme est-il devenu superflu? - abbiamo parlato
dell'antologia, dell'impostazione che ha guidato questo lavoro, della sua
passione filosofica.
*
- Federica Giardini: Nel testo c'e' una tensione, tra il titolo dove si
parla di "donne" e le prime righe dell'introduzione che partono dalla
"differenza tra i sessi"...
- Francoise Collin: Credo che il titolo dica quel che si legge nella
filosofia, vale a dire le questioni che riguardano le donne e non la
questione della differenza tra i sessi. Nell'introduzione e nelle pagine di
commento a ogni scelta di testi utilizziamo l'espressione "differenza tra i
sessi", intendendo una differenza che si gioca tra uomini e donne, o tra i
cosiddetti uomini e le cosiddette donne. Mentre in filosofia si ha
l'impressione che la differenza sessuale riguardi solo le donne, gli uomini
non ne sarebbero implicati: quando parlano di qualcosa che attiene a
quest'ordine si riferiscono alle sole donne, non arrivano mai a interrogarsi
sul fatto che essi stessi sono differenti. Voglio pero' fare una
precisazione, che riguarda me personalmente - visto che siamo state in tre a
lavorare sul libro -: talvolta nei filosofi si da' qualcosa di interessante,
un'interrogazione sul loro desiderio. Il desiderio e' qualcosa che pone dei
problemi, soprattutto ai pensatori della modernita', perche' non rientra nel
dominio del razionale. Lo trovo in Kant, in Spinosa - filosofi non marginali
ma centralissimi nella storia della filosofia.
*
- Federica Giardini: Spinoza, dopo aver dimostrato come secondo lui le donne
vadano escluse dalla sfera pubblica, dice che forse gli uomini non possono
desiderare che delle donne che tacciano.
- Francoise Collin: Kant dice altro: il desiderio contraddice il controllo
razionale e nel rapporto sessuale ognuno si tratta e tratta l'altro come una
cosa - e' un punto interessante sul quale vorrei lavorare -, ma questo puo'
risultare valido alla luce di un diritto reciproco: ci sarebbe una specie di
contratto, in cui ognuno si impegna rispetto all'altra a entrare nella
regione della cosa, nella regione della follia del desiderio, contratto che
e' valido solo nella misura in cui ognuno dei due lo autorizza. Penso che in
questi filosofi ci siano, sulla questione del rapporto uomo-donna, passaggi
molto interessanti.
*
- Federica Giardini: Arriviamo cosi' alla questione della misoginia: forse
non vale piu' la pena di lavorare per confermare quanto misogini possano
essere i filosofi, a meno che non si consideri la misoginia un indice della
dinamica della differenza tra i sessi...
- Francoise Collin: Penso che il termine misoginia sia troppo generale,
troppo vago, e anche scontato: che nei filosofi c'e' stata misoginia lo
sappiamo. Quel che mi interessa in questo tipo di lavoro e' vedere come, in
ogni periodo e in ogni caso particolare, dispositivi diversi, diverse
strategie, vengano utilizzati per interdire e insieme autorizzare le donne.
Il gioco dell'affermare e dell'interdire e' un gioco in costante movimento,
da un'epoca all'altra, da un filosofo all'altro, e trovo assolutamente
appassionante vedere come questo dispositivo si riorganizza nel tempo. Ad
esempio per Fichte lo stupro va condannato in modo molto energico, ma
d'altra parte le donne non devono avere accesso agli studi. Fatta eccezione
per qualche idiota, i filosofi non sono mai in una posizione di interdizione
totale rispetto alle donne, se ne fanno anche promotori e difensori, ma
sempre sotto condizione: una condizione posta da loro, sono loro che
decidono il lecito e l'illecito.
*
- Federica Giardini: Si puo' allora dire che un pensiero sulla differenza
tra i sessi e' creazione delle donne?
- Francoise Collin: Credo di si'. O meglio: era gia' presente nella
psicoanalisi, che ha avuto il merito - per quanto si possa poi criticarne il
fallocentrismo - di aver messo in rilievo la differenza dei sessi, di non
aver denegato la sessuazione dell'essere umano. Ma il merito delle donne,
del femminismo, e' stato di aver fatto emergere la questione del sesso come
differenza tra i sessi, produttiva cioe' di effetti sugli uomini e sulle
donne e sui loro rapporti, mostrando che gli uomini sono sessuati allo
stesso titolo delle donne e che le donne non sono un'eccezione
dell'universale degli uomini. Questo credo sia il contributo del pensiero
femminista.
*
- Federica Giardini: Nelle scelta dei testi e degli autori viene in primo
piano una forte connessione tra filosofia e politica. Come appare questa
connessione a uno sguardo sessuato?
- Francoise Collin: Siamo in tre ad avere fatto questo libro e abbiamo
percorsi, approcci e preoccupazioni molto diversi. Le mie due colleghe sono
delle teoriche del politico, mentre io sono una filosofa "generalista", per
cosi' dire. Sono piu' interessata a Kant che a Tocqueville e ritengo che la
questione della differenza tra i sessi si possa trovare nell'insieme di una
teoria filosofica e non solo la' dove si pone la questione dell'inclusione
delle donne nella sfera pubblica. Credo che per capire a fondo la questione
del politico la si debba ricollocare nel quadro generale del pensiero e
delle sue ramificazioni. Fra gli autori che abbiamo riunito nell'antologia
ci sono filosofi del politico e altri che non si limitano alla questione del
politico in senso stretto. Credo che per capire la questione dei sessi e
delle donne si debba andare al di la' di cio' che e' tradizionalmente
predefinito come teoria del politico. Ad esempio, credo che la questione del
desiderio abbia un rapporto fondamentale con quel che trattiamo: se si pensa
che il politico non abbia a che fare col desiderio si perde un anello
cruciale. Come hanno fatto le femministe, bisogna ridefinire la questione
del politico in termini piu' ampi, come questione generale del mondo comune,
dell'essere umano, nella sua dimensione simbolica, giuridica, sessuale,
teorica.
*
- Federica Giardini: Un'ultima domanda. Nella politica delle donne siamo in
un momento di passaggio nel femminismo, ci sono ora anche donne che non
hanno vissuto il momento femminista degli anni settanta. Su un numero di
"Fempress" dedicato al bilancio del Novecento, lei ha definito questo
passaggio una "eredita' senza testamento". Come si colloca il vostro libro
rispetto a questo problema?
- Francoise Collin: Penso che ognuna fa il proprio lavoro, fa muovere
qualcosa con il proprio agire, in una determinata congiuntura com'e' quella
di una generazione, di un'epoca, e sono convinta che non possiamo governare
gli effetti di questo nostro agire. Ho la vanita', la pretesa, di pensare
che il movimento delle donne sia stato determinante nel definire la posta in
gioco della fine del XX secolo e per il lavoro del XXI. Ma come si
ritradurra', come potra' essere ripreso dalla generazione successiva, questo
non si puo' prevedere. Noi trasmettiamo quel che abbiamo fatto, i nostri
strumenti di lavoro, il nostro pensiero, la nostra azione, ma vedo gia' che
la nuova generazione li ritraduce in un altro modo. Talvolta mi posso
deprimere un po', pensando che quel che abbiamo fatto non viene ripreso, ma
poi mi accorgo che questa ripresa ha un andamento carsico e che quando
riemerge puo' essere in una direzione e in forme impreviste. Sono comunque
abbastanza ottimista, quando guardo donne piu' giovani sono colpita dalla
loro energia, dalla liberta' con cui si muovono malgrado le difficolta',
un'energia e una liberta' che prima del femminismo erano soffocate nella mia
generazione. Di recente, tornando a casa da un convegno in cui molti
sottolineavano i tempi di crisi e sostenevano che tutto va male, il che in
un certo senso e' anche vero, ho incontrato tre giovani donne piene di
iniziativa, e ho pensato che se va male, per le donne non va poi cosi' male.
Le ragazze oggi non dico che non abbiano difficolta', ma hanno diverse forme
di immaginazione per tracciare il loro destino.
*
- Federica Giardini: Avete pensato a questo libro nei termini di un
passaggio alle donne successive?
- Francoise Collin: Nel patrimonio del femminismo ci sono azioni - il fatto
che abbiamo fondato e portato avanti i "Cahiers du Grif", ad esempio - e
pensiero. Sul piano della trasmissione, tengo piu' ai miei "testi di
pensiero" in senso proprio che a un'opera come questa, che e' stata un
lavoro enorme ma con un altro tipo di obiettivo: un buono strumento, cui si
puo' ricorrere per nuovi lavori. Questo non e' pensiero, e' una mossa
preliminare: una messa a disposizione, con una proposta di lettura, piu' che
la proposta di un pensiero.

3. RIFLESSIONE. GEORGE KATEB: IL PENSIERO POLITICO DI HANNAH ARENDT
[Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche
(www.emsf.rai.it) riprendiamo la seguente intervista redazionale a George
Kateb su "Hannah Arendt - L'origine del totalitarismo" del 20 maggio 1992.
Come sovente accade, soprattutto in interventi nati nella forma cursoria e
conversazionale dell'intervista, alcune espressioni possono essere fin
spiacevolmente inadeguate ed alcune opinioni naturalmente non condivisibili:
come sempre, la saggezza e la benignita' di chi legge sapra' valutare e
comprendere.
Dal medesimo sito estraiamo anche la seguente scheda sull'autore: "George
Kateb e' professore di Politica e direttore del programma di Filosofia
Politica, nonche' direttore dell'University Center for Human Values della
Columbia University. Ha ottenuto una Guggenheim Fellowship e una borsa di
studio della Fondazione Rockfeller. Ha ricevuto nel 1994 il Premio Spitz
Book della Conference for the Study of Political Tought. Lavora come
consulente editoriale di Teoria politica. E' autore di alcune opere
fondamentali di scienza politica: Utopia and its Enemies; Political Theory:
Its Nature and Uses; Hannah Arendt: Politics, Conscience, Evil; The Inner
Ocean: Individualism and Democratic Culture; Emerson and Self-Reliance. E'
curatore di "Utopia" e autore di parecchi articoli di teoria politica, in
particolare sul concetto di democrazia moderna. Il campo della sua ricerca
e' la teoria politica moderna con particolare riguardo alle varieta' di
individualismo nate dalla Rivoluzione puritana".
Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva
di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe
all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le
massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l
'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen
(1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti,
Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli,
Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e'
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di
brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano,
1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969.
Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra
amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975,
Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio
Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2.
1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita'
e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la
biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri,
Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt,
Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah
Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah
Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della
polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt,
Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su
Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah
Arendt, Giuntina, Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due piacevoli
monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono:
Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999;
Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]

- Professor Kateb, Lei ha studiato a lungo il pensiero politico di Hannah
Arendt. Puo' parlarci della vita e della formazione culturale di questa
autrice?
- Hannah Arendt nacque nel 1906 da una famiglia ebraica tedesca molto
benestante e non praticante. Pur non avendo ricevuto un'educazione religiosa
di tipo tradizionale, non nego' mai la propria identita' ebraica,
professando sempre (ma in modo niente affatto convenzionale) la propria fede
in Dio. Questo quadro di riferimento e' estremamente importante, perche'
Hannah Arendt dedico' tutta la vita allo sforzo di comprendere il destino
del popolo ebraico e si identifico' totalmente con le sue vicissitudini.
Riguardo alle esperienze accademiche, sono fondamentali le citta' di
Friburgo, Marburgo e Heidelberg, dove ebbe come insegnanti Heidegger e
Jaspers. Jaspers le trasmise un amore profondo per la liberta', mentre a
Heidegger e' dovuta la sconfinata venerazione per gli antichi greci e per il
loro sforzo di convivere con gli aspetti tragici della vita. A proposito del
suo rapporto con Heidegger, e' solo di recente che si e' scoperto che furono
amanti. Non so per quanto tempo lo siano stati: e' comunque certo che
Heidegger rappresento' per lei qualcosa di piu' che un insegnante. Scrisse
la sua tesi di dottorato sul concetto di amore nel pensiero di
Sant'Agostino, un testo difficile, che non lascia affatto prevedere la
folgorante carriera della sua autrice. Lascio' la Germania appena dopo
l'ascesa al potere di Hitler, nel 1933. Ando' a Parigi, dove visse i
successivi sette-otto anni, impegnandosi a trovare famiglie disposte ad
adottare gli orfani ebrei e i parenti di rifugiati. Stando alle
ricostruzioni biografiche piu' autorevoli, anche lei fece l'esperienza
dell'internamento, non in un campo di sterminio, ma in uno di
concentramento. Riusci' a partire dalla Francia e, all'incirca nel 1941,
approdo' a New York, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1975. Si puo'
dire che divento' una newyorkese piuttosto che un'americana. E' in questa
citta', infatti, che, a mio avviso, raggiunse la propria maturita' e
acquisto' grandezza.
*
- Puo' indicare le tappe piu' importanti della produzione di Hannah Arendt?
- Seguendo un ordine cronologico, oltre alla gia' menzionata tesi di
dottorato sul concetto di amore in Sant'Agostino, va ricordata la biografia
di una donna ebrea tedesca, Rahel Varnhagen, che risale alla meta' del 1930,
ma venne pubblicata solo molti anni dopo. Si tratta di un libro solitamente
ignorato e che, invece, a mio parere, riveste una particolare importanza
perche' getta luce sulla formazione dell'interesse dell'autrice per quello
che lei chiama il "mondo". La biografia di Rahel Varnhagen e' un tentativo
di mostrare che non e' possibile sottrarsi alle richieste del mondo
chiudendosi in se stessi, che non si puo' trovare una consonanza con se
stessi soltanto a partire da se'. La vita introspettiva non puo' sostituire
interamente la vita nel mondo. Il tentativo della Varnhagen di sfuggire
l'antisemitismo seguendo la strada della vocazione introspettiva rimane
inefficace: non c'e' possibilita' di fuga, occorre immergersi nel mondo.
In Europa, soprattutto nel mondo di lingua inglese, la celebrita' di Hannah
Arendt inizio' nel 1951, con la pubblicazione del suo primo libro
importante, intitolato Le origini del totalitarismo. Il 1958 e' l'anno del
suo libro filosofico piu' intensamente meditato, il cui titolo, Vita activa:
la condizione umana, riprende una frase di Montaigne. Nel 1961 pubblico' una
collezione di saggi intitolata Tra passato e futuro, riguardante, fra gli
altri, i temi dell'autorita', della liberta', dell'educazione e della
cultura. Al 1963 risalgono due libri: il primo, intitolato Sulla
rivoluzione, tratta principalmente delle rivoluzioni francese e americana,
e, in parte, della rivoluzione russa del 1917; il secondo, La banalita' del
male: Eichmann a Gerusalemme, la rese famosa, pur procurandole numerose
ostilita'. Vanno poi segnalati una raccolta di ritratti biografici dal
titolo Men in dark time, e, nel 1971, quattro saggi sulla vita politica
americana intitolati Crises of the Republic. Al momento della sua morte,
avvenuta nel 1975, aveva portato a termine due delle tre parti in cui
avrebbe dovuto articolarsi un lavoro intitolato La vita della mente. Il
primo volume si intitolava Thinking, il secondo Willing, e il terzo, di cui
si e' trovato soltanto un foglio nella sua macchina da scrivere, doveva
essere intitolato Judging. I primi due sono apparsi grazie alla cura
editoriale di Mary McCarthy. Oltre alle opere piu' significative, Hannah
Arendt scrisse molte recensioni, saggi critici e articoli sparsi. La Arendt,
infatti, era molto prolifica: viveva per scrivere.
*
- Negli Stati Uniti il lavoro di Hannah Arendt e' considerata molto
importante e autorevole. Puo' illustrarci la situazione negli altri paesi
occidentali, soffermandosi anche, dove vi e' stata, sulle ragioni di tale
influenza?
- L'opera di Hannah Arendt ha incontrato un'accoglienza abbastanza
differenziata. Soltanto negli Stati Uniti la sua fama e' davvero
considerevole. Gli inglesi, invece, sembrano refrattari al suo stile.
Personalmente, amo profondamente il pensiero arendtiano e non riesco a
spiegarmi le ragioni di questa insofferenza. E' probabile che gli inglesi
trovino imprecise talune delle sue distinzioni e troppo sbrigative e
perentorie le sue tesi. In Germania, invece, sono molti coloro che ammirano
e prendono sul serio Hannah Arendt. In Francia, la sua fama sta crescendo
proprio in questi anni, mentre per quanto riguarda l'Italia non sono
sufficientemente informato. Presumo che col tempo l'opera di questa autrice
suscitera' un'attenzione sempre maggiore. Negli Stati Uniti, sono
soprattutto i giovani studenti di filosofia morale e politica ad essere
colpiti dal suo fascino: cio' significa, a mio avviso, che a scorgere in lei
una spiccata capacita' di ispirare e di illuminare problemi ritenuti
profondamente avvincenti sono coloro che vanno incontro al futuro. E devo
ammettere che per me e' un fatto assai consolante che non solo vecchi come
me, ma anche giovani, promettenti e brillanti studenti vengano affascinati
dalla Arendt.
Il fascino di questa pensatrice deriva, innanzitutto, dalla straordinaria
abilita' nell'interpretare determinati fenomeni morali, sociali, politici e
culturali. Quando si leggono i suoi libri, si ha la sensazione che lei
comprenda qualcosa che altri potevano capire ma non hanno compreso. Hannah
Arendt ha la grande capacita' di vedere e di dare un senso a cio' che vede.
Sia che si tratti di passioni umane come il peccato, la rabbia, la collera o
di sentimenti, di istituzioni o ordinamenti politici, lei ha da dire
qualcosa di nuovo, di originale. Ricordo, ad esempio, la profondita' e
l'originalita' delle sue riflessioni di filosofia politica sul significato
della vita che si desume da una certa costituzione. Cio' che intendo dire
che e' che, per trarre un insegnamento dalla sua opera, non e' necessario
essere d'accordo con lei: anche una semplice frase, un passaggio, un
paragrafo ci rivelano qualcosa sulla condizione umana.
Un altro aspetto che occorre enfatizzare verte invece sul fatto che i suoi
libri pretendono molto dai suoi lettori, sollevando in modo sistematico
questioni importanti e di largo respiro.
Si puo' comprendere la natura dei problemi di cui la Arendt ha cercato di
venir a capo tenendo presente che il suo e' stato un tentativo di esplorare
sia gli abissi, sia i vertici dell'attivita' politica. Si e' occupata della
politica in tutte le sue possibili manifestazioni: ha parlato del male che
nasce dalle azioni della politica e del modo in cui la politica, intrapresa
con lo spirito giusto, diventa, accanto alla vita contemplativa, la piu'
alta attivita' dell'uomo. Ritengo che il motivo principale del suo fascino
risieda nel fatto che, pur avendo studiato la politica nella sua forma
peggiore, Hannah Arendt insista nel considerarla, allorche' si realizza nel
modo migliore, una delle piu' alte aspirazioni dell'uomo. Almeno nel XX
secolo, nessun altro teorico della politica e' riuscito, come e' accaduto
alla Arendt, ad unire una comprensione cosi' profonda del male che puo'
scaturire dall'attivita' politica con la convinzione, altrettanto ferma e
profonda, che la vita dedicata alla politica, qualora questa assuma la sua
forma migliore, sia una delle piu' alte conquiste umane. Il suo tenace
interesse per il peggio e il meglio della vita politica non costituisce
soltanto il segreto del suo fascino, ma e', al tempo stesso, il filo
conduttore dei suoi numerosi scritti sull'argomento.
*
- La politica nella sua forma peggiore e' il tema della riflessione
arendtiana sul male e sul totalitarismo. Puo' parlarci del modo in cui viene
determinato questo fenomeno in rapporto all'antisemitismo?
- Dal punto di vista dell'evoluzione del pensiero della Arendt, l'interesse
per la forma peggiore della politica e' il primo ad accendersi, col libro
sulle Origini del totalitarismo, del 1951; le riflessioni sul modo virtuoso
di configurarsi della politica vengono dopo, nel 1958, in Vita activa. Dalla
pubblicazione di questi due lavori, per tutto il resto della sua vita Hannah
Arendt si preoccupo' di indagare il peggio e il meglio nell'ambito politico
e la loro relazione. Proviamo a calarci negli abissi, a vedere
nell'oscurita' prima di risalire ai vertici. Pur non avendo sperimentato
direttamente il peggio, la Arendt conosceva molte persone che avevano fatto
questa esperienza. Sebbene, quindi, non fosse stata in un campo di sterminio
nazista, conobbe coloro che avevano sofferto. Cio' la spinse a cercare di
comprendere come il nazismo pote' nascere, diffondersi e operare il male.
Soprattutto in due testi, Le origini del totalitarismo e La banalita' del
male, cerco' di comprendere cio' che altrove sembrava ritenere
incomprensibile. In altri scritti, infatti, lei confessa la sua incapacita'
di comprendere il fenomeno del nazismo e dello stalinismo. E tuttavia, pur
giudicando impossibile una comprensione piena del totalitarismo, Hannah
Arendt non rinuncio' mai ad aspirarvi.
Le origini del totalitarismo e' un'opera divisa in tre parti: la prima e'
intitolata Antisemitismo, la seconda Imperialismo, la terza Totalitarismo.
Si tratta di un libro molto lungo che ha l'ampiezza, lo spessore e la forza
di uno scritto epico. Ponendo a tema, nelle prime due parti, l'antisemitismo
e l'imperialismo, la Arendt cerca di capire cosa, nel XIX secolo, preparo'
il terreno al sorgere del nazismo e dello stalinismo. Si badi che lei non
sostiene affatto che quanto e' accaduto nel XIX secolo ha reso inevitabili
il nazismo o lo stalinismo. Hannah Arendt, infatti, pensa che niente di
inevitabile sia alla base del totalitarismo, del male politico. Ma cio' non
toglie che alcuni fenomeni del secolo scorso, come l'antisemitismo e
l'imperialismo, abbiano reso piu' probabile il suo avvento.
La prima parte del libro studia l'antisemitismo endemico dell'Europa e la
forma particolare che esso assunse nel XIX secolo. La Arendt sostiene la
tesi che il popolo ebraico, nonostante avesse acquisiti i diritti civili,
abbia continuato a non essere del tutto accettato e inserito nella vita
delle diverse societa'. Gli ebrei non si impegnavano in politica, e,
dedicandosi prevalentemente all'attivita' imprenditoriale, hanno finito col
diventare protagonisti del mondo degli affari. In questo modo essi hanno
accumulato ricchezze senza avere potere politico formale. E tuttavia, queste
ricchezze li hanno messi nella condizione di tessere sottili relazioni
dietro le quinte del potere politico, e questo ha contribuito a procurare
loro quella calunnia di "cospiratori" che fa anche da bersaglio agli
attacchi antisemiti.
Il problema fondamentale di Hannah Arendt era capire perche' gli ebrei
fossero detestati in Europa. Il fatto che lei stessa fosse ebrea rendeva
tale interrogativo particolarmente acuto e pressante. Secondo la sua
analisi, appunto, molti ebrei, avendo precluse altre opportunita', poterono
solo accumulare denaro. Queste ricchezze, una volta messe al servizio di
determinate elite politiche, generarono nella massa e nella pubblica
opinione sentimenti di ostilita' nei confronti degli ebrei, che erano in
grado (o erano ritenuti tali) di influenzare la politica della societa' in
quanto ritenuti detentori di ricchezza e anche di poteri segreti, insidiosi
e spesso sinistri. Hannah Arendt si chiede: e' possibile che gli ebrei in
una qualche misura abbiano meritato di essere disprezzati nel XIX secolo? La
risposta e' che gli ebrei fecero quello che dovevano fare, ma cio'
determino' la nascita di non pochi risentimenti nei loro confronti. In
questo quadro si inserisce, agli inizi del secolo, l'"affare Dreyfus", che
viene da lei considerato come il culmine di quanto avvenuto nel corso del
secolo precedente. Descrivendo con grande efficacia i retroscena
terribilmente complessi di questa vicenda, Hannah Arendt individua in essa
la concretizzazione dell'antisemitismo diffuso nell'Europa del XIX secolo.
*
- Potrebbe soffermarsi sulla connessione tra antisemitismo e imperialismo
quale scaturigine del totalitarismo novecentesco?
- La seconda parte delle Origini del totalitarismo tratta dell'imperialismo.
L'autrice si chiede se il comportamento politico cosi' sfrenatamente
aggressivo delle potenze europee in Africa, nel XIX secolo, non getti luce
sul male del totalitarismo del secolo successivo. A tale riguardo, e'
emblematica l'affermazione di Cecil Rhodes, l'imprenditore inglese in
Africa: "Annetterei i pianeti se potessi farlo". Hannah Arendt mostra come
gli elementi che avevano caratterizzato l'Europa del XIX secolo consentivano
e legittimavano l'apertura di qualsiasi possibilita'. In sostanza, era stata
accreditata la convinzione che il mondo fosse simile a un pezzo di creta che
determinate elite potevano plasmare a piacimento. Il mondo appariva, in tale
prospettiva, come il luogo in cui determinate energie umane potevano
dispiegarsi senza badare ai costi da pagare in termini di convenzioni e di
giustizia. Cosi' si spiega l'imperialismo europeo in Africa e altrove.
Antisemitismo e imperialismo, per cosi' dire, giacciono al fondo del male
del totalitarismo. La combinazione di questi due fenomeni, pur non essendone
una causa necessaria, ha reso piu' probabile il fenomeno totalitario. Essi,
infatti, hanno indotto gli europei, da un lato, a considerare normale il
fatto di avere dei "nemici razziali" e, dall'altro, a servirsi di comune
accordo del loro potere e della loro forza per prendere iniziative, per
mobilitarsi senza vincoli.
La terza parte del volume, dedicata al totalitarismo in se', cerca di
comprendere la mentalita' che porta i suoi leader a organizzare un sistema
d'inferno sulla terra. Hannah Arendt sostiene che il totalitarismo non e' la
politica di potenza, non e' mera spietatezza, e neppure mera crudelta'.
Credo sia opportuno soffermarsi sulla sua interpretazione del nazismo
perche', a mio parere, esso suscitava in lei maggiore interesse dello
stalinismo. La Arendt si chiede come mai la leadership del partito nazista
immagino' un piano per distruggere sistematicamente intere popolazioni che
non potevano in alcun modo costituire un minaccia per essa, e che, al
contrario, qualora gliene fosse stata data la possibilita', si sarebbero
comportate come sue fedeli e obbedienti seguaci. Perche' il nazismo voleva
uccidere ebrei, rumeni e zingari, nonostante che questi sarebbero stati
tedeschi leali, se solo gliene fosse stata data l'opportunita'? I nazisti
uccisero persone che non facevano alcuna resistenza e che, anzi, li
avrebbero serviti lealmente: e' questo che conferisce al nazismo il
carattere di un fenomeno totalitario. Il mistero e' costituito dal fatto che
i nazisti crearono la caricatura di un nemico e procedettero poi alla sua
sistematica liquidazione.
*
- Qual e', in ultima analisi, la risposta data da Hannah Arendt circa cio'
che si annida nell'origine del totalitarismo, e cosa si puo' affermare, al
riguardo, del fenomeno nazista?
- Non e' possibile rispondere in modo esauriente e definitivo a questa
domanda: l'interrogativo resta aperto, e il mistero deve restare un mistero.
Secondo la Arendt, a favorire l'ascesa del nazismo furono le immediate
conseguenze della prima guerra mondiale. Lei non sottovaluta i fatti puri e
semplici: la disfatta tedesca, lo smembramento della Germania, le
riparazioni di guerra, la terribile disoccupazione, l'inflazione e la
depressione, il generale senso di disorientamento nelle masse, il senso
diffuso di solitudine, la sensazione condivisa da tutti di essere
sopraffatti, trascurati, indesiderati. Quando gli esseri umani avvertono
questa solitudine, quando si sentono "superflui" - questo e' il termine
usato da Hannah Arendt - i leaders scorgono l'opportunita' di servirsi di
essi, di organizzarli in una massa compatta, in una forza da scatenare
contro altri.
Secondo la Arendt l'obiettivo principale del nazismo non consisteva
semplicemente nel sottomettere l'Europa e ridurre in schiavitu' le
popolazioni slave. Il vero scopo del nazismo era uccidere una popolazione
oggettivamente non minacciosa. Il problema e' capire perche' essi si
prefissero tale scopo. L'autrice si pone continuamente questa domanda e
invita il lettore a porsela insieme a lei. Nemmeno l'antisemitismo diffuso
del XIX secolo costituisce una spiegazione esauriente. La risposta che
Hannah Arendt prova a dare e' che i nazisti furono ingannati dalla loro
stessa ideologia. Essi arrivarono a pensare davvero che gli ebrei fossero
subumani, impuri al punto da dover essere eliminati dalla faccia della terra
perche' avevano corrotto, contaminato e insudiciato quello che altrimenti,
senza di essi, sarebbe stato puro. La stessa opinione i nazisti la avevano
riguardo agli zingari, agli omosessuali, ai disabili, agli squilibrati
mentali ed a tutte le altre categorie che essi volevano liquidare
sistematicamente. Nella ricostruzione arendtiana, quindi, il nazismo si
presenta come una battaglia ideologica contro l'impurita'. Ritengo che
questa sia la spiegazione migliore che si potesse dare e non credo che
qualcuno, nel tentativo di comprendere questo mistero, possa giungere piu' a
fondo. Il mistero non si spiega con la politica della potenza: questa e' una
considerazione superficiale; ne' con la naturale malvagita' dell'uomo. Si
spiega, piuttosto, col desiderio implacabile di realizzare una finzione
ideologica, di rifare il mondo secondo una certa idea di purezza.
*
- Professor Kateb, Hannah Arendt si e' occupata del totalitarismo anche ne
La banalita' del male. Cosa aggiunge questo studio alle analisi condotte nel
lavoro sulle Origini del totalitarismo?
- A prima vista potrebbe sembrare che, con questo libro, la Arendt abbia
arricchito le sue analisi soltanto di una celebre, quanto cinica,
espressione: "la banalita' del male". A mio avviso, pero', l'importanza di
questo testo va ben al di la' di questa frase. Si tratta di uno studio che
introduce un modo nuovo di affrontare il fenomeno del male della politica,
in particolare del nazismo, pur contenendo implicazioni concernenti anche lo
stalinismo. La banalita' del male: Eichmann a Gerusalemme e' il resoconto
del processo a cui fu sottoposto il criminale nazista Adolf Eichmann dopo
essere stato rapito in Argentina da agenti israeliani. Ad Hannah Arendt
venne affidato il compito di redigere la cronaca dell'avvenimento dalla
rivista "The New Yorker", nella quale lo scritto apparve a puntate. Si parla
di un processo che, pero', secondo l'autrice, non fu un vero processo bensi'
un atto politico mascherato da processo: sin dall'inizio tutti conoscevano
quale sarebbe stato il suo esito.
E tuttavia, non era questo l'aspetto piu' importante della vicenda.
L'attenzione della Arendt si concentra sulla figura di Adolf Eichmann,
seduto nella cabina di vetro e interrogato da un accusatore israeliano.
Quando gli fu chiesto il motivo delle sue azioni, Eichmann rispose di volta
in volta in modo diverso, ora dicendo che si era limitato a eseguire degli
ordini, ora che aveva ritenuto disonesto non eseguire il lavoro che gli era
stato affidato, ora che la sua coscienza gli imponeva di essere leale con i
suoi superiori. In fondo, tutte le sue risposte si riducevano ad una sola:
"Ho fatto quello che ho fatto". Da cio' Hannah Arendt concluse che Eichmann
diceva la verita', che non era un uomo malvagio, un crudele o un paranoico.
E la cosa orribile era proprio questa, che si trattava di una persona
comune, ordinaria, il piu' delle volte incapace di pensare, come la maggior
parte di noi. Per la Arendt, tutti noi siamo per lo piu' incapaci di
soffermarci a pensare e a dire a noi stessi cosa stiamo facendo, di
qualunque cosa si tratti. A ben vedere, il punto focale dello studio di
Hannah Arendt, cio' che guida il suo interesse per il totalitarismo e' ben
espresso da una frase di Pascal: "La cosa piu' difficile al mondo e'
pensare". Sia il libro sulle Origini del totalitarismo, sia quello su
Eichmann possono essere considerati un commento a questa breve ma
straordinaria frase di Pascal.
Eichmann non pensava, ed in cio' era come siamo tutti noi il piu' delle
volte: creature soggette o all'abitudine o all'impulso meccanico. Si
comprende, allora, perche' il male venga definito "banale": esso non ha
profondita', non ha nessuna essenza corrispondente ai suoi effetti.
Tuttavia, secondo l'autrice, questa interpretazione psicologica di Eichmann
non puo' essere estesa ai capi del nazismo, a Hitler, a Goering, a Himmler.
Costoro avevano un certo spessore psicologico, erano ideologicamente
impegnati. Eichmann, al contrario, era soltanto un funzionario: e' questa la
"banalita' del male".
La differenza, quindi, che intercorre tra Le origini del totalitarismo e La
banalita' del male: Eichmann a Gerusalemme consiste in cio', che il primo
parla, in prevalenza, di tutti coloro che fomentano il male, mentre il
secondo, venendo a completare l'analisi dell'intero fenomeno, tratta della
mentalita' dei funzionari del male. Del resto, che il piu' grande criminale
del XX secolo sia l'uomo di buona famiglia e' un'idea che esce con forza
dalla produzione della Arendt. Si conclude cosi' il suo sforzo di trovare
una spiegazione al piu' orribile di tutti i fenomeni. E' argomento di
discussione accademica se lei sia veramente riuscita in questo intento.
Personalmente, sostengo che Hannah Arendt, nel tentativo di spiegare la
causa e la natura del male del totalitarismo, sia andata piu' a fondo di
George Orwell, di Simone Weil e di altri studiosi, e credo che cio' basti a
farle meritare la nostra attenzione.
*
- Nella concezione della Arendt, di contro alle tenebre del totalitarismo
c'e' la luce della politica. Puo' spiegarci qual e' il significato
arendtiano della politica e perche' questa si configura in due forme
assolutamente diverse, una peggiore ed una migliore?
- Nel 1963 Hannah Arendt pubblica due libri, La banalita' del male e Sulla
rivoluzione, l'uno sulla forma peggiore della politica, l'altro su quella
migliore. Il tema della forma migliore della politica, comunque, si trova
trattato in termini eminentemente filosofici anche in un'opera che precede
di cinque anni Sulla rivoluzione, e cioe' nella fondamentale Vita activa: la
condizione umana.
Verso la fine di Sulla rivoluzione, la Arendt riprende una citazione dal
grande coro dell'Edipo a Colono di Sofocle, la' dove si dice che la cosa
migliore sarebbe non essere mai nati oppure morire giovani. Credo che
sentisse quelle parole in prima persona e che le condividesse per il fatto
di vivere nell'epoca del male totalitario. Hannah Arendt ha voluto dire che
per lei, che e' stata testimone della possibilita' di simili mostruosita',
sarebbe stato meglio non aver mai fatto quest'esperienza o non esserne mai
venuta a conoscenza.
Dopo la citazione del coro, la Arendt aggiunge una considerazione che, da un
lato, conferma cio' che dice Sofocle e, dall'altro, se ne discosta. Osserva,
infatti, che se e' il male della politica a rendere vere queste parole di
Sofocle, allora dovra' anche esservi, nella politica stessa, qualcosa che le
confuti. Sembra dunque che la strategia di pensiero adottata implicitamente
dall'autrice sia la seguente: non si puo' cercare il rimedio a questo
pessimismo in un ambito diverso da quello che determina il pessimismo
stesso. Ed e' attraverso questa strategia che la Arendt viene condotta a
scorgere nell'ambito stesso della politica qualcosa che, nella sua
perfezione, possa sovrastare l'orrore prodotto dall'attivita' politica nella
sua forma peggiore. Se la politica genera la cosa peggiore della vita umana,
ci deve essere anche una politica che generi la cosa migliore. Il rimedio va
cercato dove si trova il veleno: credo che sia questo l'impulso che l'ha
guidata a ricercare la politica nella sua forma migliore.
*
- Qual e' il riscatto che puo' offrire la politica intesa nella sua forma
migliore?
- Hannah Arendt sostiene che la politica nella sua forma migliore e' il
discorso fra uguali. Essa e' dunque un tipo di relazione fra uguali e cioe'
fra cittadini. In passato, gli eguali che entravano nella relazione politica
erano solo uomini. Credo che, in generale, la Arendt vedesse la cittadinanza
come qualcosa che riguardava gli uomini di sesso maschile. Lei riprende
infatti il giudizio di Machiavelli secondo il quale essere virtuoso
significa avere "virtu'", ovvero eccellere ed essere valorosi: tutti questi
termini rinviano alla parola latina vir, che significa "uomo".
La convinzione profonda della Arendt e' che la cittadinanza, se rettamente
intesa, puo' riscattare la vita dalla sua maledizione. Questa convinzione, a
suo avviso, era condivisa dai greci, da Omero, Pindaro, Erodoto e Tucidide,
ma non dai filosofi greci. Anche i greci fecero esperienza dell'orrore, pur
non conoscendo il totalitarismo. Per essi, la sola cosa che poteva
riscattare la vita dall'orrore era l'esperienza della cittadinanza, intesa
quale relazione fra uguali, e cioe' quale discorso appassionato fra
cittadini che, a turno, parlano e ascoltano. L'oggetto di questo discorso e'
il bene comune, le circostanze che possono metterlo a rischio e determinarne
la morte. Questa concezione della politica, secondo Hannah Arendt, e'
l'unica che offra una risposta al terribile pessimismo delle parole del coro
dell'Edipo a Colono richiamate quasi in conclusione di Sulla rivoluzione.
Una simile ambizione nei confronti dell'attivita' politica puo' facilmente
essere scambiata con una forma di "romanticismo" - inteso nel senso
deteriore del termine -, con un atteggiamento donchisciottesco e folle.
Forse e' questa la ragione per cui gli studiosi inglesi sono cosi' poco
ricettivi nei confronti del lavoro della Arendt: essi non si aspettano molto
da nessuna attivita' umana, meno che mai dall'attivita' politica.
*
- L'idea della cittadinanza quale rimedio al pessimismo generato dalla
politica intesa nella sua forma peggiore esercita un grande fascino. Ma la
storia umana offre degli esempi in cui la cittadinanza si sia concretamente
realizzata?
- In Vita activa, Hannah Arendt individua nelle citta' greche gli esempi
concreti e le forme piu' alte di cittadinanza. E' soprattutto Atene ad
offrire uno stile di vita incentrato sull'esperienza della cittadinanza.
Ogni cittadino ateniese, in prima persona e non attraverso la
rappresentanza, quando si presentano situazioni di grave rischio e pericolo,
si reca nell'agora' e discute delle questioni piu' alte, nel linguaggio piu'
brillante ed elegante, impegnandosi poi a mettere in pratica quanto e' stato
detto. Nel libro Sulla rivoluzione, la Arendt scorge poi nelle situazioni
rivoluzionarie un'ulteriore manifestazione spontanea della cittadinanza.
Viene indicata, ad esempio, la riscoperta americana della "felicita'
pubblica". Nei congressi, e quindi nei gruppi e nelle assemblee che fecero
la rivoluzione americana; e ancora nel corso della generazione successiva,
quando fu istituito il governo e fu redatta la Costituzione degli Stati
Uniti: in tutti questi casi, si fece l'esperienza della cittadinanza. Questa
esperienza si ripete' nel primo periodo della rivoluzione francese, in
particolare dal 1789 al 1790. Da quel momento in poi la cittadinanza subisce
un processo costante di erosione sotto l'inesorabile incalzare della
necessita'. Essa riappare fugacemente nei primi Soviet nel 1917 nonche' nei
consigli della rivoluzione ungherese del 1956. E' inoltre interessante
notare come la Arendt, vissuta in America negli anni sessanta, trovasse
un'ulteriore manifestazione del fenomeno della cittadinanza, proprio in cio'
che stava avvenendo in quegli anni, nella politica dei movimenti
statunitensi per la disobbedienza civile, per i diritti civili, per la pace
e nel movimento studentesco. Se avesse vissuto l'era di Gorbaciov, se avesse
fatto esperienza delle spinte democratiche sorte in Unione Sovietica, nella
Germania dell'Est, nella Cecoslovacchia, nella Polonia e nell'Ungheria ne
avrebbe parlato in modo analogo. Questi eventi, infatti, sono stati
caratterizzati dall'impulso alla liberta', dal confronto sul bene pubblico,
dalla liberazione dalle catene, dal silenzio e dalle tenebre.
Nell'esperienza necessariamente breve di libera espressione della protesta,
in questi eventi e nel modo in cui sono stati descritti da persone come
Vaclav Havel e Lech Walesa, Hannah Arendt avrebbe trovato una conferma alla
sua convinzione riguardo al fatto che gli uomini, quando hanno la
possibilita' di fare politica, non trovano nulla nella vita che abbia
altrettanto valore. Tutto cio' ha confermato la sua idea che solo la
politica puo' compensare il male del totalitarismo. Hannah Arendt e' una
teorica del valore intrinseco della politica, della grandezza della pari
cittadinanza.
*
- Professor Kateb, puo' indicare, in conclusione, come puo' essere
caratterizzato, a livello strettamente individuale, il vissuto della
cittadinanza e com'e' possibile collegare questo vissuto a qualcosa che e'
evidentemente piu' generale, che ha un valore intrinseco?
- In Vita activa - il suo libro piu' "greco" - Hannah Arendt cerca di
spiegare sotto il profilo filosofico che cosa significhi la cittadinanza per
coloro che ne fanno esperienza. Mostra come l'essere un cittadino consenta
di farsi conoscere dagli altri in un modo che non ha eguali in nessun'altra
circostanza, in nessun'altra relazione umana. Noi non possiamo conoscere noi
stessi; possiamo solo essere conosciuti dagli altri e conoscere gli altri
dal modo in cui essi ci conoscono. Secondo la Arendt, soltanto le parole
dette sul bene pubblico, in condizioni di estremo rischio e pericolo,
rivelano il nostro io. Non si raggiunge il proprio e autentico io, se non si
e' liberi di esprimersi in occasioni pubbliche di grande rilievo: credo che
sia questo, per Hannah Arendt, il nucleo esistenziale del valore della
cittadinanza. Tutto cio' si collega in qualche modo con l'opinione di
Machiavelli circa il valore intrinseco dell'attivita' politica. Ovviamente,
la tesi di Machiavelli non e' affatto quella della Arendt, ma ci sono in
ogni caso dei punti di contatto, delle somiglianze.

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 28 dell'8 settembre 2005