La nonviolenza e' in cammino. 1044



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1044 del 5 settembre 2005

Sommario di questo numero:
1. Francesco Comina: I missionari bolzanini invitati all'assemblea dell'Onu
dei popoli per sostenere il referendum brasiliano contro il commercio delle
armi
2. Manuela Cartosio intervista Mario Maffi
3. Sara Farolfi intervista Jeremy Rifkin
4. Stefano Liberti e Giovanni De Mauro colloquiano sul settimanale
"Internazionale" e sull'informazione degli altri
5. Luigi Cortesi ricorda Sebastiano Timpanaro
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. INIZIATIVE. FRANCESCO COMINA: I MISSIONARI BOLZANINI INVITATI
ALL'ASSEMBLEA DELL'ONU DEI POPOLI PER SOSTENERE IL REFERENDUM BRASILIANO
CONTRO IL COMMERCIO DELLE ARMI
[Ringraziamo Francesco Comina (per contatti: f.comina at ladige.it) per averci
inviato il seguente intervento. Francesco Comina, giornalista e saggista,
pacifista nonviolento, e' impegnato nel movimento di Pax Christi; nato a
Bolzano nel 1967, laureatosi con una tesi su Raimon (Raimundo) Panikkar,
collabora a varie riviste. Opere di Francesco Comina: Non giuro a Hitler,
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000; (con Marcelo Barros), Il
sapore della liberta', La meridiana, Molfetta (Ba) 2005; ha contribuito al
libro di AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia - Movimento
Nonviolento, Torino-Verona; e a AA. VV., Giubileo purificato, Emi, Bologna]

Dopo gli interventi di Ermanno Allegri e dei missionari bolzanini che
operano in Brasile e le iniziative messe in campo dal centro per la pace di
Bolzano, e' cresciuto l'interesse del movimento per la pace italiano sul
referendum contro il commercio delle armi che si terra' in Brasile il 23 di
ottobre.
Ora e' la Tavola della pace - organizzatrice della marcia Perugia-Assisi di
domenica 11 settembre - che chiede un incontro con don Lino Allegri,
fratello di Ermanno, e Pierluigi Sartorel, da 35 anni in Brasile (in questi
giorni a Bolzano) durante la sessione dell'assemblea dell'Onu dei popoli,
che si terra' dal 7 al 10 settembre a Perugia come momento forte di
preparazione alla marcia. Flavio Lotti e Tonio Dell'Olio, due autorevoli
rappresentanti della Tavola della pace, hanno invitato i missionari bolzanin
venerdi' 9 settembre per sensibilizzare i partecipanti all'assemblea sulla
prima consultazione popolare nella storia del Brasile.
*
"E' la prima volta - ha spiegato il 2 settembre Lino Allegri durante
un'affollata conferenza presso il Centro per la pace di Bolzano - che i
brasiliani si trovano ad esprimere direttamente una opinione vincolante per
il paese".
La campagna per il si' al referendum chiede la messa al bando delle armi da
fuoco e puo' contare sull'appoggio dei movimenti di base, dei sindacati e
delle chiese che questa volta si sono trovate tutte d'accordo nel sostenere
l'iniziativa del partito di Lula per il disarmo del paese. "Il referendum -
ha detto ancora Allegri - viene dopo una imponente campagna promossa dallo
stesso presidente per una consegna spontanea di armi da fuoco risarcite al
prezzo di cento euro. Ebbene, in pochi mesi sono state consegnate ben
quattrocentomila pistole e fucili". Questo significa che in Brasile
circolano tantissime armi.
Secondo le statistiche nel 2004 sono stati 38.000 i morti ammazzati da armi
da fuoco: una persona ogni 15 minuti. Sempre nel 2004 il 40,8% delle lesioni
invalidanti di pazienti che hanno fatto ricorso ai centri di riabilitazione
negli stati di Sao Paulo, Minas Gerais, Rio Grande do Sul e Pernambuco si
devono alle armi. Nel gruppo dei pazienti tra 12 e 18 anni, le armi sono la
causa del 61% dei casi di lesioni invalidanti.
"Anche nel distretto dove lavoro io, alla periferia di Fortaleza - ha detto
Allegri - si vedono molti ragazzi con le armi che spuntano dalle tasche e
spesso questi ragazzi le prendono a noleggio da poliziotti. E poi sparano,
per i motivi piu' stupidi, per vendette, scherzi, regolamenti di conti fra
gang. In tre giorni nella strada parallela alla mia sono morti quattro
ragazzi a causa di sparatorie. Per questo motivo noi siamo convinti che il
referendum che pone un freno al commercio di armi leggere sia un fatto
importante per il Brasile, per l'America Latina e per il mondo intero, e
potrebbe anche valere - smpre se vincessero i si' - come rilancio dela
politica di Lula gravemente colpita da scandali e corruzione".
*
Intanto cominciano a pervenire le adesioni politiche alla campagna italiana
in appoggio al referendum brasiliano. La segreteria nazionale dei Comunisti
italiani ha inviato una lettera a firma del responsabile per le politiche
internmazionali Iacopo Venier, in cui afferma che "in Italia, il sostegno al
referendum brasiliano puo' aiutarci a rilanciare i temi che abbiamo gia'
sollevato nella battaglia contro la revisione della legge 185. Dobbiamo
infatti impedire che anche il nostro paese sia complice nella creazione di
un 'mercato' che alimenta e sostiene le piu' sanguinose guerre". E la
segreteria provinciale dei Ds di Bolzano aderendo alla campagna scrive, in
un comunicato: "I Democratici di Sinistra dell'Alto Adige si schierano con
il si' in difesa della vita e contro l'idea di una societa' da 'Far west'
basata sulla giustizia privata e sulle armi da fuoco. Ci sono in Brasile
quasi 18 milioni di armi da fuoco in circolazione. Possedere armi per
difendersi dalla violenza non e' una risposta, chi ha un'arma in casa ha
infatti il 57% in piu' di possibilita' di essere assassinato rispetto a chi
non ne ha".

2. MONDO. MANUELA CARTOSIO INTERVISTA MARIO MAFFI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 settembre 2005.
Manuela Cartosio e' giornalista e saggista, particolarmente attenta ai
movimenti e alle lotte sociali.
Mario Maffi (Milano, 1947) insegna letteratura americana all'Universita'
Statale di Milano. Fa parte della redazione di "Acoma. Rivista
internazionale di studi nord-americani". Tra le opere di Mario Maffi: La
cultura underground, Laterza, Bari 1972, 1981; Le origini della sinistra
extraparlamentare, Mondadori, Milano 1976; La giungla e il grattacielo. Gli
scrittori e il "sogno americano", 1865-1920, Laterza, Bari 1980;  (con Guido
Fink, Franco Minganti, Bianca Tarozzi), Storia della letteratura americana,
Sansoni, Firenze 1991; Nel mosaico della citta'. Differenze etniche e nuove
culture in un quartiere di New York, Feltrinelli, Milano 1992; New York.
L'isola delle colline, Il Saggiatore, Milano 1995, poi Feltrinelli, Milano
2003; (a cura di), Voci dal silenzio. Scrittori ai margini d'America,
Feltrinelli, Milano 1996; (a cura di), Voci di frontiera. Scritture dei
latinos negli Stati Uniti, Feltrinelli, Milano 1997; Sotto le torri di
Manhattan. Mappe, nomi, storie. Luoghi, Rizzoli, Milano 1998; Londra. Mappe,
storie, labirinti, Rizzoli, Milano 2000; Mississippi. Il grande fiume: un
viaggio alle fonti dell'America, Rizzoli, Milano 2004]

Fu il lago Pontchartrain a risparmiare New Orleans dall'esondazione del
Mississippi del 1927, la piu' devastante del secolo scorso. Gli argini a
monte della capitale vennero fatti saltare con la dinamite per deviare le
acque ribollenti nel lago, che le scarico' nell'Oceano. Ad andar sotto
furono le migliaia di contadini che vivevano tra il Mississippi e il
Pontchartrain. Sulla scelta del "male minore" pesarono gli interessi
economici della capitale. Quella volta, comunque, una decisione fu presa.
Questa volta il Pontrchartrain ha rotto gli argini e ha sommerso New
Orleans. Senza che nessuno decidesse qualcosa prima e dopo il disastro.
Mississippi, il gran bel libro di Mario Maffi pubblicato un anno fa da
Rizzoli, riletto oggi e' una miniera di precedenti storici, per differenza e
similitudine.
*
- Manuela Cartosio: Uno dei capitoli del tuo libro e' intitolato
"Cataclismi". Katrina e' solo l'ultimo disastro di una lunga serie storica o
qualcosa di inedito?
- Mario Maffi: Per un verso, e' il classico disastro annunciato in un'area
ripetutamente colpita dalle inondazioni del Mississippi e dagli uragani che
negli ultimi anni sono diventati piu' frequenti e piu' potenti. Di nuovo, ci
sono le dimensioni del disastro, c'e' il nome illustre della citta' finita
sott'acqua. La cosa veramente inedita e' la messa a nudo di un altro
disastro. L'acqua fa venire a galla il fondo di miseria, quella si' davvero
catastrofica, degli Stati Uniti. Quelli che non sono riusciti a mettersi in
salvo, salvo rare eccezioni, hanno tutti la pelle nera. E se sono bianchi,
sono anziani.
*
- Manuela Cartosio: Non mi sembra una grande scoperta. Che il tasso di
poverta' dei neri sia piu' del doppio della media nazionale lo sanno anche i
sassi. Che gli anziani siano le vittime d'elezione di un servizio sanitario
e assistenziale a dir poco crudele, idem.
- Mario Maffi: Lo sa chi legge le statistiche. Vederlo in televisione, in
tutto il mondo, fa un altro effetto. Potenza, bellezza, felicita', successo.
Questa e' l'immagine che gli States veicolano nel mondo. Poi, d'improvviso,
si scoperchia il pentolone. E tutti vedono quanto terzo mondo c'e' dentro
gli Stati Uniti.
*
- Manuela Cartosio: "Le vittime sono i neri e i poveri, seguira' presto una
crisi politica", ha scritto un editorialista del "New York Times".
Sottoscrivi la previsione?
- Mario Maffi: Magari fosse vero. Purtroppo, non mi pare cosi' automatico.
Il partito repubblicano paghera' un prezzo alle elezioni di mid-term. Bush
esce a pezzi dall'uragano, marchiato come un presidente negligente,
distratto, non all'altezza del dramma. Di certo Katrine pesera' di piu' di
una guerra sbagliata e che non ha vinto. Comunque, non sara' Bush il
candidato repubblicano alle prossime elezioni. Una crisi politica, intesa
come ripensamento collettivo, richiede che il partito democratico volti
radicalmente pagina. Richiede l'esistenza di movimenti sociali. Non vedo le
condizioni perche' questo succeda.
*
- Manuela Cartosio: In assenza di movimenti sociali robusti e organizzati lo
scontento di poveri ed emarginati negli Stati Uniti si manifesta solo nelle
forme delle rivolte e dei saccheggi. Quello che sta succedendo a New Orleans
rientra sotto questa fattispecie?
- Mario Maffi: Trovo oscena in questa situazione la definizione "sciacalli".
Ci saranno pure quelli. Ma chi prende in un grande magazzino un pacco di
pannolini, dell'acqua da bere, qualche scatoletta di cibo mi sembra una
persona piu' che normale che cerca di sopravvivere.
*
- Manuela Cartosio: Gli americani hanno il culto delle previsioni del tempo.
Vogliono sapere che tempo fa anche prima d'uscire a fare la spesa. Non e'
paradossale l'imprevidenza dimostrata dalle autorita'?
- Mario Maffi: E' una beffa micidiale. Il potere, il capitale, prevede solo
a breve scadenza, mira al guadagno immediato fregandosene delle conseguenze
nel lungo periodo. Quando una di queste conseguenze presenta il conto, il
potere alza bandiera bianca. Katrina e' stato seguito sulle mappe per un
paio di settimane. Fossero stati due mesi, non sarebbe cambiato niente.
*
- Manuela Cartosio: Big Easy, e' chiamata New Orleans. La citta' dove tutto
e' piu' facile, piu' rilassato. Pochi sanno che anche questo nome le viene
dal Mississippi.
- Mario Maffi: L'hanno chiamata cosi' perche' e' sorta dove il fiume fa
un'ampia mezzaluna e rallenta. Da questo fatto sono derivati guai. Perche'
l'ansa crea una specie di tappo che impedisce al grande fiume di correre
verso le sue tre foci. L'altro guaio per New Orleans e' la tendenza costante
del Mississippi a scavarsi un percorso piu' ad ovest rispetto al tracciato
in cui e' stato imbrigliato con gli argini. Il nome indiano Mississippi
significa "acqua che si estende su un'ampia superficie". Da sempre l'uomo
bianco ha fatto di tutto per ridurre questa superficie.
*
- Manuela Cartosio: New Orleans, sotto il livello del mare, e' una delle
tante citta' americane contro natura. Non ricostruitela nello stesso posto,
consigliano gli esperti.
- Mario Maffi: E' il secondo porto degli Stati Uniti. Quindi sara'
ricostruita dov'e'. Quanto al quartiere francese, prevedo una ricostruzione
in stile Disney.

3. MONDO. SARA FAROLFI INTERVISTA JEREMY RIFKIN
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 settembre 2005.
Sara Farolfi scrive sul quotidiano "Il manifesto".
Jeremy Rifkin, economista americano, attivista pacifista negli anni '60 e
'70, presidente della Foundation on economic trends di Washington, studioso
di problemi ecologici globali. Opere di Jeremy Rifkin: Dichiarazioni di un
eretico, Guerini e associati, Milano 1988; Entropia, Interno Giallo, Milano
1992; Guerre del tempo, Bompiani, Milano 1989; La fine del lavoro, Baldini &
Castoldi, Milano 1995; Il secolo biotech, Baldini & Castoldi, Milano 1998;
L'era dell'accesso, Mondadori, Milano 2000; Ecocidio, Mondadori, Milano
2001; Economia all'idrogeno, Mondadori, Milano 2002; Il sogno europeo,
Mondadori, Milano 2004]

"Gli Stati Uniti sono stati colpiti dall'effetto serra e non da un semplice
uragano. In queste ore la Casa Bianca sta nascondendo all'opinione pubblica
mondiale cio' che la comunita' scientifica internazionale ha previsto da
anni, cioe' che il surriscaldamento del pianeta e' dovuto allo scellerato
modello di sviluppo neoliberista". Non ci sono giustificazioni per la
tragedia di New Orleans, secondo Jeremy Rifkin, presidente della Foundation
on economic trends e guru dell'economia globale, ospite di riguardo ieri
della platea di "Sbilanciamoci". "L'unica cosa positiva e' che finalmente si
apre uno spiraglio per discutere seriamente di sostenibilita' ambientale".
*
- Sara Farolfi: Bush e' sotto l'attacco della stampa americana per la
gestione dell'"emergenza New Orleans": gli aiuti sono lenti e, anche se da
tempo si sapeva del pericolo, nulla e' stato fatto.
- Jeremy Rifkin: Nei 35 anni trascorsi a Washington, non ho mai visto un
presidente gestire una crisi nazionale di tali dimensioni in questo modo. La
cosa incredibile e' che si ostina a non volere realizzare il problema. E mi
lasci dire che il problema a New Orleans viene da lontano. Il fatto e' che
da anni tutti sapevano quello che sarebbe potuto accadere, dal governo
federale alla citta' di New Orleans, e nessuno ha preso le misure
necessarie. Anche ora, tutti si preoccupano della ricostruzione e nessuno
pensa al fatto che potrebbe accadere di nuovo, con conseguenze sempre
peggiori. Il vero nome di Katrina, e della maggior parte dei cicloni che
hanno investito la costa del Golfo, e' "global warming". Si parla di una
sfortunata calamita' naturale, e non si vuole riconoscere che questo e' un
prodotto dell'uomo. Si puo' anche costruire un muro di protezione per la
costa del Golfo, e ci vorrebbero anni, ma non servirebbe a nulla di fronte a
un'altra furia cosi' devastante.
*
- Sara Farolfi: Crede che, nella cattiva gestione della tragedia c'entri
anche il fatto che New Orleans e' una "citta' di neri"?
- Jeremy Rifkin: No, non credo. Quello che pero' il governo avrebbe dovuto
sapere e' che New Orleans e' una citta' anche molto povera e che i poveri,
bianchi o neri che siano, molto difficilmente avrebbero potuto trovare
facilmente il modo di scappare o un posto dove rifugiarsi. Non e' una
questione di razza, ma una questione sociale. E mi riferisco anche alle
persone con handicap, gli invalidi e gli anziani. Ma anche gli animali, che
non vengono mai considerati nei piani di evacuazione. E' ora che iniziamo a
preoccuparci del nostro mondo e il modo migliore di farlo e' cominciare a
occuparci della questione "effetto serra".
*
- Sara Farolfi: Ben Bernanke, uno dei consiglieri economici di Bush, ha
parlato nei giorni scorsi dell'uso di fonti di energia alternative come
unico rimedio all'impennata dei prezzi del petrolio. Si e' trattato di una
presa d'atto tardiva o solo di un modo di prendere tempo?
- Jeremy Rifkin: Katrina ha messo in allarme, e l'unico aspetto positivo e'
che ora, per la prima volta negli Usa, si apre uno spiraglio per ripensare
alle fonti di energia rinnovabile. Ci vorranno almeno 25 anni, anche se si
mobilitassero tutti i capitali finanziari del mondo, ma bisogna cominciare
ora. Basta con il petrolio, bisogna cercare una strada alternativa per la
produzione di energia.
*
- Sara Farolfi: Il barile e' sopra i 70 dollari, e sembra definitivamente
tramontata l'era del "petrolio facile".
- Jeremy Rifkin: Tre anni fa, in un libro, ho scritto che i prezzi del
petrolio sarebbero saliti oltre i 50 dollari al barile. Superata la soglia
dei 70, ora si va verso i 100 dollari. I prezzi sono destinati ad impennarsi
e noi dovremo fronteggiare la possibilita' di un rallentamento dell'economia
mondiale. E anche quella di cataclismi geopolitici perche' l'instabilita' in
Medio Oriente, in Venezuela e in Africa, ad esempio, e' un fatto evidente a
tutti. Credo che, insieme all'11 settembre, questo sia uno dei momenti piu'
drammatici che stiamo vivendo, per gli effetti che avra' sulla nostra
societa'.
*
- Sara Farolfi: Ha parlato piu' volte dell'idrogeno come della fonte di
energia rinnovabile da perseguire. Ma, a differenza del petrolio, l'idrogeno
non e' un bene naturale. E poi in America c'e' il problema dei consumi
record di carburante...
- Jeremy Rifkin: L'idrogeno necessita di essere estratto da qualcos'altro.
Si puo' estrarre dal petrolio, dal gas naturale, ma cosi' si rimane sempre
nel campo del petrolio. La cosa migliore sarebbe utilizzare fonti di energia
rinnovabile, come quella solare, quella eolica o geotermica. Poi c'e' il
mercato: il 52% dei veicoli del mio paese sono Suv, e gli americani non
possono permettersi che nessuno li compri. Sono le macchine a cui sono
abituati e ora diventa difficile usarle per il prezzo della benzina, e anche
venderle, perche' nessuno le comprerebbe. Adesso stiamo imparando sulla
nostra pelle tutto quello che non abbiamo fatto finora: non abbiamo
risparmiato energia, non abbiamo usato energie rinnovabili, non abbiamo
tassato la benzina, non abbiamo firmato gli accordi di Kyoto. Non abbiamo
nessuno da incolpare. Noi siamo responsabili di New Orleans, e con noi la
nostra classe politica.

4. INFORMAZIONE. STEFANO LIBERTI E GIOVANNI DE MAURO COLLOQUIANO SUL
SETTIMANALE "INTERNAZIONALE" E L'INFORMAZIONE DEGLI ALTRI
[Dal mensile "Lo straniero", n. 36, giugno 2003 (sito: www.lostraniero.net)
riprendiamo il seguente colloquio, preceduto dalla seguente nota redazionale
"Giovanni De Mauro e' direttore di 'Internazionale', certamente il miglior
settimanale italiano, che raccoglie articoli, foto, reportage, interventi,
fumetti dai giornali di tutto il mondo. Stefano Liberti e' redattore
dell'edizione italiana di 'Le Monde diplomatique', mensile francese con
circa venti edizioni in tutti i continenti, che ha anticipato l'analisi
della globalizzazione liberista e dei suoi disastri. Abbiamo chiesto loro di
incontrarsi e di discutere sul ruolo dell'informazione nella recente guerra
all'Iraq e del buon giornalismo che non si fa irreggimentare, sul rapporto
con i lettori, sul provincialismo della stampa italiana"]

- Stefano Liberti: Il successo di "Internazionale" e' stato sicuramente
determinato dalla mancanza di una sollecitazione dello stesso tipo nel
panorama giornalistico ed editoriale italiano. Nel suo approccio,
"Internazionale" si distingue molto dai grandi giornali e settimanali
italiani, che tendono ad affrontare le questioni internazionali solo quando
queste diventano in qualche modo prioritarie, come misura emergenziale...
- Giovanni De Mauro: Non sono del tutto d'accordo. Se c'e' stato un problema
negli "esteri" dei giornali italiani durante la guerra in Iraq, questo e'
stato la sovrabbondanza di materiali: quando sfogli "la Repubblica" o il
"Corriere della sera" e trovi venti pagine che parlano di guerra, diventa
difficile orientarsi. Credo che l'aumento di vendite di "Internazionale"
dopo l'11 settembre sia dovuto a un altro fatto: una migliore capacita' di
selezione.
*
- Stefano Liberti: Su quali criteri fate la vostra selezione? Come nasce un
numero di "Internazionale"?
- Giovanni De Mauro: Per alcuni versi nasce come ogni altro giornale, cioe'
con criteri soggettivi nella scelta dei singoli articoli: c'e' una riunione
di redazione dove si decide di cosa occuparsi. La grande differenza e' che
noi lavoriamo su materiale gia' pubblicato al di fuori dell'Italia. In un
certo senso siamo dei lettori, offriamo un modo di leggere i giornali non
italiani. Dopo dieci anni ovviamente abbiamo imparato a selezionare. Prima
leggevamo 500 giornali. Ora abbiamo delle testate e delle firme di
riferimento: sappiamo "sfogliare" meglio le pagine del "Guardian" o di "Le
Monde". Ovviamente, ci sono le firme che seguiamo piu' assiduamente e che
crediamo giusto pubblicare costantemente, anche quando scrivono articoli
meno convincenti. In questo modo seguiamo il percorso dell'autore, e sta al
lettore piu' che alla redazione di "Internazionale" giudicare. C'e' poi un
meccanismo di selezione del tutto oggettivo: la disponibilita' delle fonti.
Ormai e' molto difficile districarsi all'interno del mercato dei diritti. La
grande concorrenza non viene infatti dalla possibilita' che qualcun altro
faccia "Internazionale", ma da quello che gia' fanno i quotidiani. "Il
manifesto" ha i diritti esclusivi di "Le Monde diplomatique" e ha un
rapporto consolidato con singole firme; "la Repubblica" ha acquistato i
diritti del "New York Times", del "Washington Post", del "Los Angeles
Times", di "El Pais"; il "Corriere della sera" ha il "Guardian" piu' singole
firme; la "Stampa" ha "Le Monde"; "Panorama" ha "Time" e l'"Economist";
"l'Espresso" ha "Newsweek" piu' singole firme, tra cui Naomi Klein. I prezzi
sono costantemente saliti e, durante la guerra, schizzati alle stelle.
Tuttavia, il fatto di essere percepiti dagli altri come non competitivi, ci
fornisce una certa liberta' d'azione. "La Repubblica" in realta' non
pubblica quasi niente di quello che ha a disposizione, e questo ci lascia
alcuni interstizi per pubblicare cose piu' interessanti. Noi cerchiamo
sempre di alternare la grande firma, la grande testata, con i giornali
locali. Cerchiamo un equilibrio tra le fonti e la provenienza geografica.
Cerchiamo spesso di privilegiare la fonte del paese in cui il fatto avviene,
anche se poi non e' detto che chi e' "piu' vicino" sappia raccontare meglio
del reporter che viene da fuori.
*
- Stefano Liberti: Quando aumenta il desiderio di chiedere articoli ex novo?
- Giovanni De Mauro: Dipende dalla follia del mercato editoriale italiano.
Quando hanno cominciato a chiudersi le porte di giornali che noi
consideriamo importanti, ci siamo posti il problema. La prima risposta e'
stata quella di creare un rapporto diretto con singole firme. Alcuni
giornalisti indipendenti non sono soggetti a contratti esclusivi. Per cui
del "New York Times" possiamo tradurre, ad esempio, quei quattro giornalisti
che ci piacciono molto. Il passo successivo e' stato quello di chiedere ad
alcuni di scrivere direttamente per noi: Amira Hass, Naomi Klein, John
Matshikiza, Edward Said, Michael Lewis... Negli ultimi numeri, poi, abbiamo
cominciato a pubblicare il diario a fumetti di Marjane Satrapi, una
disegnatrice iraniana molto brava che vive a Parigi. Dopo di noi hanno
cominciato a pubblicarlo anche "Telerama" in Francia e la "Sueddeutsche
Zeitung" in Germania. In questo caso si sono rovesciati i ruoli: una cosa
fatta per noi ha alimentato la stampa straniera.
*
- Stefano Liberti: Per soffermarci sugli ultimi avvenimenti, mi sembra che
avete affrontato la guerra in Iraq in modo molto interessante, pubblicando
materiale di diverso orientamento ma mantenendo allo stesso tempo una linea
precisa contro la guerra. In un sistema dellíinformazione caratterizzato
ormai da grandi concentrazioni mediatiche, e da uno spaventoso appiattimento
delle notizie, in che modo vi siete orientati per offrire qualcosa di
diverso?
- Giovanni De Mauro: La mia impressione e' che i quotidiani siano usciti
massacrati dalla guerra. La forbice tra l'informazione istantanea della tv,
di internet, del televideo da una parte e il quotidiano dall'altra e' sempre
piu' dilatata. Tutti, credo, sfogliando i quotidiani durante la guerra hanno
provato la stessa sensazione: questo gia' lo so, questo e' vecchio di due
giorni... Se il piano del confronto e' quello della cronaca, l'informazione
istantanea e' imbattibile. Qual e' il salto da operare, allora? E'
nell'approfondimento, nel lungo articolo che fornisce la cornice all'interno
della quale leggere l'informazione istantanea. Noi abbiamo provato ad
interpretarla cosi' la guerra: provando a dare quello che non hanno voluto o
potuto dare i quotidiani. Anche perche' i lettori di "Internazionale" sono
gia' consumatori di informazione. Tanto per fare un esempio, abbiamo ripreso
una rubrica del "Guardian" all'interno della quale sono state pubblicate, a
una settimana di distanza, tutte le smentite colossali dell'informazione di
guerra, come la famigerata rivolta di Bassora. Questo e' un modo
interessante di rileggere la guerra. Allo stesso modo e' interessante
rileggere il bombardamento di Baghdad attraverso la lettura del "blog", il
diario on-line, del ragazzo iracheno, o guardare le violenze
dell'occupazione israeliana attraverso le e-mail di Rachel Corrie, la
pacifista americana uccisa da una ruspa.
*
- Stefano Liberti: Nella guerra del golfo del '91 si e' iniziato a
determinare una sorta di rapporto costitutivo tra la rappresentazione
televisiva dell'evento bellico e la sua effettiva realta' materiale. E' in
quel frangente, mi sembra, che l'amministrazione americana ha cambiato il
proprio rapporto con i media, trasformando lo stesso effetto mediatico in
uno degli obiettivi della guerra. La guerra erano di fatto i reportage di
Peter Arnett della Cnn dall'Hotel Rashid di Baghdad. Oggi, invece, mi sembra
che i giornalisti "embedded" siano lo sviluppo naturale di quella visione,
ma con una perversione maggiore, determinata dal fatto che il giornalista
arruolato diventa a tutti gli effetti parte della truppa.
- Giovanni De Mauro: Questo e' vero solo in parte. Noi ad esempio abbiamo
pubblicato la testimonianza del fotografo inviato dal "New York Times
Magazine", Laurent van der Stockt, il quale racconta delle violenze dei
soldati Usa sui civili iracheni, delle uccisioni di vecchi e bambini. In
questa guerra, non credo che il problema del giornalismo embedded sia stato
quello di non raccontare la verita', ma quello di raccontare una porzione
molto piccola e molto ristretta di cio' che stava effettivamente succedendo.
Nella prima guerra del golfo l'amministrazione americana ha pensato di
controllare l'informazione, di metterci un tappo sopra. E in parte ci e'
riuscita: nel '91 non c'era una tale pluralita' di mezzi televisivi come
oggi. Non c'erano "al Jazeera" e le altre tv arabe, non c'erano internet e i
cellulari, c'erano meno giornalisti. In questa guerra, invece, hanno provato
a rovesciare il meccanismo, cioe' a cavalcare un flusso che di per se', con
le tecnologie attuali, non e' controllabile. E ci sono riusciti: nonostante
il gran numero di immagini, anche riguardanti vittime, credo che
complessivamente ci sia stato un discreto successo per l'amministrazione
americana. Il fatto che ci siano state delle voci critiche non ha fatto
altro che rendere piu' credibile l'intero meccanismo.
*
- Stefano Liberti: Il provincialismo italiano e' determinato dalla mancanza
di una tradizione di studi e di analisi relativa a certi paesi. Si trattano
certi temi o certi paesi solo in momenti di emergenza, e questa e' la
conseguenza del fatto che non ci sono inviati che seguano stabilmente certe
aree del mondo. La forza di un giornale come "Le Monde", ad esempio, sta
nell'attenzione verso le ex colonie francesi, che lo porta in pratica a
seguire costantemente gli eventi di mezza Africa...
- Giovanni De Mauro: Per quanto mi riguarda, sono arrivato a questa
convinzione. Se prendi "Le Monde" o "El Pais" o il "Guardian", e togli gli
articoli che riguardano le ex colonie, l'America latina, il Commonwealth,
cio' che rimane e' tutto sommato paragonabile a quello che trovi in Italia.
Non credo che negli altri paesi europei siano tanto migliori. Anzi, negli
altri paesi del continente gli spazi di approfondimento sono ancora piu'
ridotti che in Italia: i settimanali non ci sono o sono peggiori. In Spagna
"El Pais" si mangia tutto il resto, in Inghilterra ci sono i domenicali. In
Francia la situazione e' migliore. Ma per trovare le cose piu' interessanti
bisogna andare in America. Solo la' si trovano le riviste di approfondimento
che si possono permettere pubblicazioni molto lunghe. "The Atlantic Monthly"
ha pubblicato ad esempio il reportage-testimonianza di un giornalista che
nei cinque mesi successivi all'11 settembre e' riuscito a entrare a Ground
Zero ed e' rimasto la', in parte embedded, in parte clandestino. Il
reportage e' stato poi pubblicato in tre puntate consecutive, e al terzo
numero le vendite erano raddoppiate rispetto al primo. "The New Yorker" e'
famoso per il fatto di pubblicare articoli sterminati, completamente slegati
dalla realta' piu' immediata. In qualche modo, queste riviste dicono: "Noi
pensiamo che l'attualita' sia il frutto di processi piu' lenti e piu'
profondi, e questo e' il risultato sul piano della scrittura". Negli Stati
Uniti c'e' un'altra tradizione, ci sono altri investimenti, e c'e' anche un
rapporto diverso con la parola scritta. A "Internazionale" usiamo fare ogni
tanto un'indagine tra i nostri lettori, chiedendo loro cos'altro leggono.
Ebbene, i due mensili piu' letti sono "Le Monde diplomatique" e il "National
Geographic". E' un dato molto interessante, perche' "Internazionale" e' un
po' il tentativo di raggiungere il punto medio tra questi due modelli:
l'approfondimento e l'immagine. Tra l'altro, e' curioso che i due mensili
piu' letti siano due edizioni italiane di cose fatte altrove.
*
- Stefano Liberti: Negli ultimi numeri di "Internazionale" si e' visto un
notevole incremento di foto e fumetti. Quale ruolo assegnate a queste
diverse forme di comunicazione?
- Giovanni De Mauro: Le foto e i fumetti sono forme di approfondimento che
hanno la capacita' di parlare a piu' lettori. A volte equivalgono agli
stessi editoriali. Abbiamo in progetto di lavorare maggiormente sul fumetto,
sull'esempio di riviste interessanti che ci sono in America. Per quanto
riguarda le foto, invece, certamente c'e' stato un punto di svolta con l'11
settembre. Sul fotogiornalismo piu' che sugli articoli soffriamo della
ristrettezza dei nostri mezzi rispetto agli altri giornali, che potrebbero
permettersi di pubblicare immagini straordinarie e che non lo fanno per
miopia o stupidita'. Io personalmente credo molto alla forza
dell'integrazione intelligente tra testo e immagini. Anche li' e'
interessante quello che si crea. Noi lavoriamo con articoli scritti per
altri giornali, altre grafiche, altri tipi di impaginazione. E dobbiamo
utilizzare immagini diverse da quelle pubblicate nelle edizioni originali.
Questo lavoro di strofinamento a volte porta a ottimi risultati, altre volte
un po' meno: a ogni modo, in questo mettere insieme, per noi le foto e i
testi hanno lo stesso peso.
*
- Stefano Liberti: Il problema del fotogiornalismo oggi e' domandarsi, e il
dibattito e' aperto, se pubblicare foto d'agenzia non comporti un
appiattimento del senso dell'immagine. Negli ultimi anni si e' visto che le
foto d'agenzia, per quanto belle, tendono a riprodurre sempre lo stesso
messaggio, lo stesso significato...
- Giovanni De Mauro: Anche in questo, internet ha significato una svolta
radicale nell'abbattimento dei costi di spedizione. Ha determinato una
grande offerta, ma allo stesso tempo ha portato a una grande concentrazione.
Si va velocemente verso la creazione di un oligopolio: due, tre grosse
centrali che comprano e inglobano e poi rivendono tutte le foto. Nel nostro
piccolo, cerchiamo di dare spazio al giovane free-lance che va a fare foto
nell'ospedale in Costa d'Avorio... ma e' anche vero che le grandi agenzie
fanno un lavoro spesso straordinario.
*
- Stefano Liberti: L'11 settembre, hai detto prima, ha segnato un punto di
svolta nella prassi del fotogiornalismo, che ha dovuto confrontarsi con
immagini radicali, forti e immediate. Come e' cambiato il vostro lavoro dopo
il crollo delle torri gemelle?
- Giovanni De Mauro: Piu' che l'11 settembre, per noi il vero punto di
svolta e' stato Genova. E' stata la prima volta in dieci anni che abbiamo
fatto il tutto esaurito, con un numero peraltro confezionato di corsa. Detto
questo, per noi c'e' una forma di legame sotterraneo tra i due eventi, tra
la contestazione al G8 e il crollo delle Twin Towers. Da allora abbiamo
cambiato il giornale, arricchendolo di contributi e foto. Bisogna poi
considerare, al di la' di questi eventi, la progressiva evoluzione
tecnologica che ha cambiato il nostro modo di lavorare. Quando abbiamo
cominciato, avevamo un signore a Hong Kong che ogni sera selezionava gli
articoli della stampa locale e ci mandava la notte per fax le notizie
principali. Oggi il signore non c'e' piu', perche' abbiamo gia' accesso ai
giornali di Hong Kong e di tutto il mondo direttamente da qui e in tempo
reale. Abbattendo costi e tempi. D'altra parte, la cosa ha un inconveniente:
tutti hanno accesso a queste informazioni. Il nostro concorrente quindi non
e' solo la grande testata che traduce il "New York Times", ma anche il
giornalista pigro che, a caccia di notizie di costume e societa', si fa il
suo giro nelle pagine di societa' e costume dei siti internet dei vari
giornali stranieri, trova un tema e lo copia interamente. Noi abbiamo una
collezione straordinaria di firme pagate fior di quattrini che in prima
pagina su prestigiosissimi giornali italiani pubblicano articoli che sono
integralmente plagiati. Questo ovviamente e' l'eccesso. Ma, tornando al
discorso di prima, abbiamo registrato un appiattimento dei giornali di tutto
il mondo. Da Bali a Bogota' ormai leggi le stesse cose, e questo e' il
frutto dello schiacciamento prodotto dall'11 settembre e dalla successiva
atmosfera di guerra permanente, ma e' anche il risultato della facilita' con
cui circolano alcune informazioni. Tutto questo provoca un impoverimento
nell'interpretazione delle vicende del mondo. Crediamo invece importante, e
lo credono anche i nostri lettori, continuare a occuparci di paesi e aree
del pianeta marginali. Il mondo non finisce con l'Iraq; ci sono anche le
elezioni nigeriane, la Sars, quello che succede a Cuba. Cuba, in
particolare, e' uno degli argomenti che piu' suscita dibattito all'interno
della redazione. Personalmente credo che Cuba sia un enorme buco nero, per
tutto il giornalismo. Fa venire i brividi la copertura del tutto
insufficiente mostrata dai grandi quotidiani, come "la Repubblica" e il
"Corriere". E' paradossale poi che "Il manifesto", un giornale che nasce dal
rifiuto dell'oppressione, sia incapace di vedere come a Cuba ci sia una
dittatura. Esiste una dissidenza cubana di sinistra, colta, attenta, molto
interessante. Perche' non trova spazio sui giornali italiani?
*
- Stefano Liberti: Uno dei punti di forza di "Internazionale" e' forse
proprio la presentazione di opinioni difformi, di punti di vista diversi e
spesso contrapposti. Personalmente trovo che sia stata una scelta giusta
quella di pubblicare i pezzi a favore della guerra di Christopher Hitchens.
Per quanto stridessero con la linea del giornale, hanno tuttavia fatto
conoscere le ragioni di coloro che - da una prospettiva non strettamente
reazionaria - erano a favore della guerra...
- Giovanni De Mauro: Ritengo che vada sempre trovato un equilibrio tra il
punto di vista in cui ci si riconosce e l'articolo intelligente che esprime,
pero', il punto di vista opposto. Credo anche che sia sempre piu' utile e
interessante pubblicare articoli che, seppur critici di come le cose vanno,
riescano a farlo nel modo meno ideologico possibile, nel modo piu' concreto
e fattuale possibile. Vedo a sinistra, anche tra le firme che pubblichiamo,
il rischio di una deriva molto ideologica che non fa bene a nessuno e che
finisce per entrare a far parte di un brusio di fondo che e' esattamente
quello che cerchiamo di contrastare: il giornalismo della superficialita'.
E' molto piu' facile dire "Siete dei criminali" che non andare a ricercare
dati, documenti, prove...

5. MEMORIA. LUIGI CORTESI RICORDA SEBASTIANO TIMPANARO
[Dalla bella rivista diretta da Luigi Cortesi "Giano. Pace ambiente problemi
globali", n. 36, settembre-dicembre 2000, riprendiamo il seguente articolo.
Luigi Cortesi (Bergamo, 1929), storico, docente universitario, resistente
nel bergamasco a 16 anni, studioso e militante del movimento operaio,
impegnato in strutture di ricerca e di impegno per la pace, ha diretto la
Biblioteca Feltrinelli di Milano e la "Rivista storica del socialismo"; ha
insegnato storia contemporanea all'Universita' Orientale di Napoli, dirige
la rivista "Giano. Pace ambiente problemi globali". Tra le opere recenti di
Luigi Cortesi: Storia e catastrofe. Considerazioni sul rischio nucleare,
Napoli, Liguori, Napoli 1984, poi in seconda edizione: Storia e catastrofe.
Sul sistema globale di sterminio, Manifestolibri, Roma 2004; (a cura di),
Guerra e pace nel mondo contemporaneo, Intercontinentalia, Napoli 1985; (a
cura di), Democrazia, rischio nucleare, movimenti per la pace, Liguori,
Napoli 1988; con Antonio Liberti (a cura di), 1949: il trauma della Nato,
Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989; Le armi della
critica: guerra e rivoluzione pacifista, La Buona Stampa, Napoli, 1991; (a
cura di), 1945: Hiroshima in Italia, Cuen, Napoli 1995; Le origini del Pci.
Studi e interventi sulla storia del comunismo in Italia, Franco Angeli,
Milano 1999; Una crisi di civilta'. Cronache di fine secolo, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 1999; Nascita di una democrazia. Guerra,
fascismo, Resistenza e oltre, Manifestolibri, Roma 2004.
Sebastiano Timpanaro, nato a Parma nel 1923, studioso di filologia classica,
della cultura dell'Ottocento, di questioni inerenti al materialismo e il
marxismo, ma anche alla linguistica ed alla psicoanalisi; uno dei piu' acuti
interpreti di Leopardi e dei piu' rigorosi intellettuali della sinistra
italiana; e' deceduto nel novembre 2000. Tra le opere di Sebastiano
Timpanaro segnaliamo almeno La filologia di Giacomo Leopardi, Le Monnier,
Firenze 1955, poi Laterza, Roma-Bari 1978, 1997; La genesi del metodo del
Lachmann, Le Monnier, Firenze 1963, poi Liviana, Padova 1981; Classicismo e
illuminismo nell'Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965, 1969, 1988;
Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970, 1975, poi Unicopli, Milano 1997;
Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Ets, Pisa 1982; Il
lapsus freudiano, La Nuova Italia, Firenze 1974, poi Bollati Boringhieri,
Torino 2002; Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Nistri-Lischi,
Pisa 1980; La "fobia romana" e altri scritti su Freud e Meringer, Ets, Pisa
1992; Nuovi studi sul nostro Ottocento, Nistri-Lischi, Pisa 1995; segnaliamo
anche particolarmente la sua traduzione di Cicerone, Della divinazione, e
quella di Holbach, Il buon senso, ambedue presso Garzanti, Milano
rispettivamente 1985 e 1988, con vasto ed eccellente suo apparato critico]

Sebastiano Timpanaro e' morto a Firenze il 26 novembre 2000 dopo
un'improvvisa e breve malattia. Aveva 77 anni ed era ancora nel pieno delle
proprie forze intellettuali e del proprio lavoro. Una commemorazione estesa
a tutta la sua vita e alla sua intensa e complessa attivita' di studioso non
e' qui possibile, ne' sarei in grado di scriverla. Voglio semplicemente
ricordarlo per l'amicizia della quale mi onoro' e per il suo rapporto con
"Giano", che e' stato assai piu' ricco di quanto possa far pensare l'unico
articolo che ci consegno' per la pubblicazione, apparso sul numero 1 della
rivista, nell'ormai storicamente remoto 1989, sotto il titolo Il Verde e il
Rosso. Memorie lontane e riflessioni attuali.
*
Quando "Giano" nacque, Sebastiano fu infatti fra i primi ai quali mi rivolsi
per avere solidarieta' e consiglio. Non mi fece mancare ne' l'una ne'
l'altro, e del resto sui temi ai quali "Giano" intendeva dedicarsi c'era
gia' una certa comunicazione tra di noi. Avevo discusso con lui del mio
volume Storia e catastrofe nei primi anni Ottanta, quando lo stavo
scrivendo, e nel 1983 gli avevo dato in lettura l'intero dattiloscritto. Mi
fece qualche osservazione formale e un'obiezione sostanziale di contenuto:
circoscrivere i rischi che gravavano sul pianeta ad una guerra nucleare tra
le Superpotenze era un grave decurtazione; il rischio ecologico, in
apparenza meno urgente, era in realta' altrettanto grave, a maggior ragione
per il fatto d'essere piu' insidioso e di avere una maturazione piu' lenta
di una catastrofe bellica. In una lettera dell'agosto 1983 a Rocco Mario
Morano egli aveva riassunto la sua visione con molta efficacia,
estrapolandola dagli studi sul Leopardi, ma riconducendo il tema alla
contraddizione tra sviluppo incondizionato del capitalismo e prospettiva del
comunismo: "Se non vogliamo cadere in una forma di teologia storica...
dobbiamo riconoscere che niente ci garantisce la vittoria finale e perenne
del Progresso... a me pare estremamente inverosimile che la specie umana,
unica fra tutte, sia destinata all'immortalita', anche quando il sole si
sara' raffreddato (o anche quando lo 'sviluppo' capitalistico, prima che un
vero comunismo sopraggiunga ad arrestarlo, abbia inquinato l'ambiente fino a
renderlo invivibile, anche senza il bisogno di una terza guerra mondiale)"
(lettera del 12 agosto 1983 in "Ipotesi Ottanta", n. 8-9, p. 68).
*
Conoscevo gia' questa obiezione di Sebastiano poiche' egli me l'aveva piu'
d'una volta esposta direttamente. Ma essa non aveva scosso la mia
convinzione che espressi in questi termini nella prefazione al libro
(dicembre 1983): "Ho tralasciato programmaticamente ogni genere di
'apocalisse lenta' per concentrarmi solo ed esclusivamente sul rischio
nucleare. E cio' non soltanto per non mescolare troppi problemi, ma per una
precisa convinzione di priorita' e di urgenza. Ho fiducia che l'Uomo - un
Uomo che abbia saputo liberarsi dal fantasma della guerra e dalla catastrofe
finale cui essa porterebbe - sara' in grado di affrontare i problemi
economici, politici di piu' lunga scadenza (L. Cortesi, Storia e catastrofe.
Considerazione sul rischi nucleare, Napoli, Liguori editore, 1984, p. 13).
Sbagliavo, e continuai a sbagliare in questa direzione per alcuni anni; e
con me sbagliavano (se posso permettermi questo giudizio) gli amici e
compagni che diedero vita a "Giano", i quali condividevano la priorita' del
rischio nucleare, sottovalutando comparativamente i problemi ecologici. In
verita', l'errore non era frutto di arbitrio. Gli anni di incubazione della
rivista furono segnati in profondita' dalla "crisi degli euromissili" e
dalle grandi mobilitazioni pacifiste, e noi eravamo sotto l'impressione sia
dell'imminenza di una guerra che avrebbe potuto distruggere l'Europa e
compromettere l'intera biosfera, sia dell'importanza dello schieramento
pacifista come terreno di coltura di un'alternativa politica e culturale di
massa al sistema.
Su questi problemi ci furono ancora tra Sebastiano e me varie discussioni.
Non posso fingere che esse rappresentassero un'inquietudine diffusa, ne' che
preludessero a chi sa quale "rivoluzione copernicana" - per usare il
linguaggio di Guenther Anders - nella cultura italiana. Non ignoravamo di
essere abbastanza isolati tra gli intellettuali che rifiutavano le
conseguenze del pessimismo della ragione: Sebastiano ricorda il "netto
dissenso" e perfino l'ilarita' suscitati dai suoi commenti ad Engels sulla
fine dell'umanita', e io ho ben presenti le battute di altri storici e
colleghi di universita' a proposito del mio maniacale "catastrofismo".
D'altra parte, neanche dopo, e neanche ai nostri giorni mi sembra che la
cultura italiana abbia, sia pure parzialmente, recepito quei problemi e le
loro dimensioni e implicazioni reali.
*
Ma era giusto che dalla discussione tra di noi emergessero i punti di
disaccordo. Ed egli ne scrisse nella sua risposta all'inchiesta Gli
intellettuali italiani e la condizione atomica, che fu la prima
testimonianza in proposito, insieme a quella di Edoardo Amaldi, che
pubblicammo su "Giano" proprio nel primo numero (lo scritto e' stato solo
parzialmente riedito in 1945: Hiroshima in Italia, Testimonianze di
scienziati e intellettuali, un volumetto che curai per la Cuen di Napoli nel
1995). A giudizio di Sebastiano io avevo capito l'importanza del problema da
lui affrontato in uno dei saggi di Sul materialismo; e avevo giustamente
messo in rilievo la riluttanza dell'Occidente al disarmo bilaterale proposto
da Gorbaciov, e le sue ragioni; ma mi ero astenuto dal trattare di una
possibile fine della civilta' umana per "inquinamento nucleare e chimico non
bellico e per altri danni ecologici, perche'" - uso le parole con le quali
egli riassumeva la mia tesi - "se l'uomo riuscira' a scongiurare la
catastrofe nucleare bellica, potra' affrontare con speranze di successo...
quella che egli chiama 'apocalisse lenta'". Le cose stavano gia' allora
molto diversamente. Erano gia' constatabili l'imminenza e la gia' raggiunta
e dimostrabile concretezza del danno ambientale, ormai "reversibile con
grande difficolta' e presente in molte forme, il buco nell'ozono, la
crescente diffusione di radioattivita', l'inquinamento dei cibi e dell'aria"
(S. Timpanaro, Il Verde e il Rosso. Memorie lontane e riflessioni attuali,
"Giano", 1, 1989, p. 104).
*
Non mi diffondo ora su tutto il contenuto dell'articolo che e' di
straordinaria ricchezza, anche perche' contiene l'essenziale del pensiero di
Timpanaro e ci aiuta a capire le difficolta' di rapporto che egli ebbe col
mondo esterno, e con un trend dell'economia e della politica che gli parve
sempre piu' ostile. Mi limito a segnalare il suo valore autobiografico - dal
rammarico per la mancata partecipazione alla Resistenza alla lunga milizia
nel Partito socialista italiano, dallo sconcerto provocato dal lancio delle
bombe atomiche sul Giappone alla consapevolezza, raggiunta negli anni
Cinquanta, del possibile "suicidio nucleare dell'umanita'"; un'angosciosa
consapevolezza che si agganciava alle sue nevrosi adolescenziali, ma anche
le superava diventando via via il risultato di un'analisi politica
razionale. Proprio per la sua mancanza di pudore autocritico e per la
semplicita' del tutto inconsueta con la quale esponeva dubbi e ansie (una
semplicita' che e' appunto dono dell'estrema sofferenza), mi accadde di dire
di lui, e di riferirgli in una lettera, che mi appariva "come uno che entra
nudo in una sala dove tutti vestono la marsina" (e non pochi, avrei potuto
aggiungere, la livrea).
I fatti hanno dunque dato ragione all'uomo straordinario recentemente
scomparso, e continuano a dargli ragione. La transizione ad una diversa
organizzazione sociale - orientata non solo alla difesa degli interessi dei
cosiddetti "strati deboli", ma alla scomparsa delle classi e dello Stato e
alla salvaguardia, insieme, della natura e del genere umano - questa
transizione puo' non avvenire oppure trovare lo slancio delle rivolta solo
quando i processi di distruzione delle condizioni di vita saranno giunti a
punti di non ritorno. Il che non significa cessare la lotta, perche' l'etica
ingigantisce nella riduzione dei margini.
Era questo dunque il chiodo fisso di Sebastiano Timpanaro, il motivo della
sua sofferenza. Studioso di Giacomo Leopardi, egli aveva tratto dal grande
poeta e pensatore il senso della solitudine esistenziale e della fragilita'
della stessa condizione umana; ma penso che saremmo in errore se diluissimo
quella sua sofferenza nel solco del pessimismo filosofico preatomico, e non
considerassimo l'altro aspetto della sua attivita' critica e della sua
passionalita', cioe' l'interesse al presente umano e il suo aspetto
prettamente politico. Egli fu infatti un intellettuale profondamente e
totalmente militante. Questa definizione puo' stupire chi lo conosca come
grande classicista e filologo e come uomo di vastissima e raffinata
erudizione, cooptato nell'Accademia dei Lincei, che da "signore della
cultura" ha scritto di letteratura greca e latina, di linguistica, di
marxismo, di psicoanalisi.
*
Qui io lo ricordo come marxista a tutto tondo e come discutitore originale e
creativo del marxismo stesso, e fustigatore del revisionismo dei versipelle,
non soltanto di singoli intellettuali, ma anche dei politici della sedicente
(ormai) sinistra, responsabili dei sistematici adattamenti che dai vertici
delle istituzioni "rosse" sono stati fatti scendere giu' giu' a corrompere e
a predisporre al compromesso le basi proletarie dei partiti e del sindacato.
Nessuno ha visto piu' chiaramente di lui questo processo di inquinamento
sociale e ne ha predetto i risultati. No, egli non era un "signore della
cultura", ma un uomo d'angoscia e d'amore per il mondo, che ha pagato fino
in fondo la continua ricerca di un rapporto concreto tra la conoscenza e la
realta', tra lo studio e la partecipazione politica.
E' stata una partecipazione che ha avuto limiti d'espressione nella sua
ritrosia a mostrarsi, ad intervenire, a parlare in pubblico, a entrare in
un'universita'; che e' sembrata restringersi in un volontario confino. Penso
che noi dobbiamo rivendicare la sua presenza di pacifista socialista e
rivoluzionario nelle nostre elaborazioni e nelle nostre lotte, e assicurare
la continuita' d'una milizia critica e di uno scavo nell'angoscia
contemporanea che hanno fatto di Timpanaro un esempio raro di coerenza e di
coraggio.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1044 del 5 settembre 2005

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