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La nonviolenza e' in cammino. 1043
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1043
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 4 Sep 2005 00:29:36 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1043 del 4 settembre 2005 Sommario di questo numero: 1. Una cosa 2. Rosa Calipari: Non avremo pace senza giustizia 3. Vincenzo Di Benedetto ricorda Sebastiano Timpanaro 4. Ferruccio Gambino presenta "Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra" di Edward P. Thompson 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. UNA COSA Nei prossimi giorni e nelle prossime settimane si svolgeranno in Italia molte iniziative per la pace e la giustizia: la marcia Perugia-Assisi, convegni, seminari, conferenze, altre manifestazioni ancora. Ed e' certo cosa buona e giusta. Ma tutte queste iniziative rischiano di fermarsi al livello della proclamazione, della predicazione, quando non addirittura dello spettacolo, o del narcisismo. In Brasile invece tra un mese e mezzo si produrra' un fatto. Storico. La popolazione infatti e' chiamata a pronunciarsi in un referendum di importanza diremmo addirittura epocale: un referendum che chiede se si voglia proibire il commercio delle armi. Una sconfitta sarebbe un dramma per tutti, ma una vittoria sarebbe un fatto politico e culturale di portata immensa, e una speranza per l'umanita' intera. Le persone che in Brasile sono impegnate a diffondere informazione e sensibilizzazione affinche' vinca il "si'" al divieto del commercio di strumenti di morte hanno ragioni formidabili ma mezzi scarsi; viceversa l'industria armiera e la lobby degli uccisori dispongono di ingenti risorse economiche e di una conseguente forte capacita' di manipolazione dell'opinione pubblica, anche se il loro scopo e' il piu' ripugnante che possa esservi: che gli omicidi continuino. Questo referendum riguarda tutta l'umanita', ed e' una prima grande occasione per cominciare davvero il disarmo dal basso. Per questo e' necessario che tutte le persone di volonta' buona che in qualunque parte del mondo abbiano la possibilita' di dare una mano, ebbene, lo facciano. Adesso. Diffondendo l'informazione e la sensibilizzazione, mettendo a disposizione risorse. Vincere il referendum per proibire il commercio delle armi in Brasile avrebbe come effetto immediato la salvezza di tante vite umane, e indicherebbe una via a tutto il mondo, paese per paese, fino a liberare l'umanita' dalle armi assassine. Per sostenere la campagna per il "si'" al referendum brasiliano per vietare il commercio delle armi, si puo' contattare Francesco Comina in Italia (e-mail: f.comina at ladige.it) e padre Ermanno Allegri in Brasile (sito: www.adital.org.br). 2. TESTIMONIANZE. ROSA CALIPARI: NON AVREMO PACE SENZA GIUSTIZIA [Riproduciamo la testimonianza di Rosa Calipari pubblicata nel volume di AA. VV., Nicola Calipari ucciso dal fuoco amico, Nuova iniziativa editoriale, Roma 2005, in questi giorni in edicola in supplemento al quotidiano "L'Unita'". Rosa Calipari e' la moglie di Nicola Calipari. Nicola Calipari, nato a Reggio Calabria, laureato in giurisprudenza, con una straordinaria e prestigiosa esperienza nelle forze dell'ordine con ruoli di grande responsabilita' nella lotta contro il crimine, da due anni funzionario del Sismi, e' l'eroe che ha salvato la vita a Giuliana Sgrena, come gia' prima alle due Simone; e' stato ucciso il 4 marzo a Baghdad] 3 Marzo 1983 - 4 marzo 2005: due date che segnano l'inizio e la fine di un progetto di vita condiviso. Ventidue anni sono pochi per chi ha programmi, ideali e valori comuni; sono pochi per chi rimane ed e' travolto in poche decine di secondi da un incubo senza fine. Non e' possibile dimenticare la sera del 4 marzo quando al rientro a casa ho trovato ad attendermi alcun colleghi ed amici di Nicola. Una scena che si affaccia spesso alla mente di chi ha vissuto con un funzionario di polizia "operativo" ma che si tende a rimuovere per difesa e per non farsi sopraffare da un'angoscia paralizzante. Con orrore ho urlato il mio "No!" di fronte a cio' che intuivo essere la verita' ma che nessuno dei presenti era in grado di confermarmi. E poi: "Ucciso dagli americani, un incidente... Non si sa cosa e' successo". Attonita da quella sera continuo a pormi sempre la stessa domanda: "Perche'?", ancor piu' dopo gli esiti contrastanti raggiunti dal Gruppo investigativo congiunto italo-statunitense, incaricato di esaminare la dinamica dei fatti accaduti il 4 marzo. Un'indagine che se negli intenti doveva svolgersi congiuntamente di fatto ha portato alla pubblicazione di due relazioni. Molti i limiti e le restrizioni incontrati dai rappresentanti italiani. Vincoli allo svolgimento delle indagini sono, innanzitutto, derivati dall'esclusiva applicazione della normativa statunitense, Army Regulation 15-6, che disciplina le procedure e le modalita' per le inchieste nell'ambito dell'esercito Usa, e che, come risulta dal rapporto italiano, ha posto dei limiti non trascurabili rispetto a quanto previsto dall'ordinamento italiano per analoghe attivita'. Per quanto attiene, ad esempio, alle modalita' di acquisizione delle testimonianze, non potevano essere reiterate le domande ai testimoni gia' sentiti e non sono stati possibili confronti diretti, per non voler sottolineare che le domande dei rappresentanti italiani potevano essere poste ai testimoni solo tramite il generale Vangjel, l'ufficiale statunitense incaricato, gia' prima dell'arrivo della delegazione italiana, di svolgere indagini. Ulteriore elemento di rilevante limitazione per l'indagine congiunta e' stato il mancato "congelamento" del luogo nell'immediatezza della sparatoria che, come dichiarato dagli stessi militari Usa, e' stato completamente ripulito ed alterato mentre non si consentiva agli italiani, presenti a Baghdad quella sera del 4 marzo, di arrivare sul posto. Ma neanche successivamente, durante i lavori della Commissione congiunta, e' stato possibile ricostruire la scena del "crimine", poiche' le autorita' militari Usa hanno ritenuto inopportuno, in ragione del segnalato costante e grave pericolo che incombe in prossimita'del luogo dell'"evento", anche il sopralluogo notturno. Pertanto, manca la certezza sulla ricostruzione della dinamica dei fatti. Tutto cio' non ha, inoltre, consentito di svolgere un'analisi approfondita sul posto, per cui quanto risultato dalla perizia effettuata in Iraq sulla vettura - come emerge dal Rapporto italiano - non sembra avere quella decisiva rilevanza probatoria. E ancora: la rimozione ed eliminazione dei bossoli, la non preservazione delle armi e delle munizioni del reparto coinvolto nel fatto... e, ancora il rientro dell'autovettura, ormai di proprieta' dello Stato italiano, solo dopo due mesi... * E' un percorso difficile, doloroso e straziante per chiunque dover affrontare la tragica perdita del proprio compagno, ma diventa ancor piu' arduo se questa avviene in tale contesto e con questa modalita'. Nicola era un dirigente del Sismi, un Servizio alleato degli americani, ed ha agito in nome e per conto dello Stato italiano. Non era un Rambo ne' uno 007 con licenza di uccidere, ma un uomo che in altre delicate operazioni aveva dimostrato di possedere le qualita' per negoziare anche con gli elementi piu' integralisti del contesto mediorientale. Dotato di notevole intuito, riflessivo ed osservatore affrontava le situazioni con lucida razionalita', con notevole self-control e con forte determinazione. Consapevole dei rischi insiti nei diversi incarichi ricoperti consigliava la prudenza ai suoi collaboratori e vagliava i costi ed i benefici di ogni opzione. Nicola, anche nella sua precedente carriera in Polizia, ha sempre improntato il suo stile al confronto con gli altri e non allo scontro, "a prevenire, e non a reprimere", diceva. Anche nel rapporto con i suoi collaboratori prediligeva la politica del consenso piuttosto che dell'ordine impartito, dell'affermazione pacata ma autorevole della sua opinione e non autoritaria anche se si assumeva sempre la piena responsabilita' delle proprie decisioni. Uno stile che, spesso, spiazzava gli avversari ma che creava coesione e rafforzava l'identita' di gruppo in coloro che lavoravano al suo fianco. Un particolare pensiero va con affetto alla "squadra di Nicola", ai "calipariani", come qualcuno li definisce all'interno del Servizio forse proprio a voler differenziarne lo stile umano e di lavoro. * Era certamente nota agli americani la sua partecipazione e collaborazione anche ad altre vicende di sequestri avvenute sul territorio iracheno; ed anche in questo caso della giornalista italiana rapita, pur in assenza di una espressa comunicazione formale ai comandi militari Usa del motivo della missione, Nicola e la sua squadra, come molte altre volte, hanno richiesto l'autorizzazione per atterrare all'aeroporto di Baghdad, per poter alloggiare a Camp Victory e, muniti di tesserini identificativi e di armi, per i loro successivi spostamenti nella capitale irachena. Nicola ha non solo condotto a termine la sua missione, la liberazione di Giuliana Sgrena, ma ha anche sacrificato la sua vita per proteggerla dal "fuoco amico" e, proprio per rispettare quella bandiera nella quale e' tornato avvolto da Baghdad, continuo a chiedere con forza e determinazione la verita' su quanto e' realmente successo e di far luce sulle responsabilita' di coloro che direttamente o indirettamente ne hanno causato la morte. Non e' possibile avere pace se non c'e' giustizia. 3. MEMORIA. VINCENZO DI BENEDETTO RICORDA SEBASTIANO TIMPANARO [Da "Athenet on line. Notizie e approfondimenti dall'Universita' di Pisa", n. 6, maggio 2002 (sito: www.unipi.it), riprendiamo questa commemorazione. L'articolo e' accompagnato dalla seguente nota redazionale: "Dopo le celebrazioni che l'Universita' e l'intera citta' di Pisa hanno dedicato a Sebastiano Timpanaro jr. nel novembre del 2001, abbiamo voluto ricordare il grande filologo con una sentita testimonianza del professor Vincenzo Di Benedetto, che con lui ha condiviso un'intensa esperienza umana, politica e culturale. L'uomo e l'intellettuale estraneo alle logiche accademiche, l'amico e il maestro: sono tante le sfaccettature che emergono da questo articolo e tutte confermano il ruolo fondamentale che Timpanaro ha rivestito nella storia recente di Pisa". Vincenzo Di Benedetto e' docente di letteratura greca presso l'Universita' di Pisa, Tra le opere di Vincenzo Di Benedetto: Guida ai Promessi Sposi, Rizzoli, Milano 1999; per Rizzoli ha curato edizioni delle Baccanti, della Medea e delle Troiane di Euripide. Sebastiano Timpanaro, nato a Parma nel 1923, studioso di filologia classica, della cultura dell'Ottocento, di questioni inerenti al materialismo e il marxismo, ma anche alla linguistica ed alla psicoanalisi; uno dei piu' acuti interpreti di Leopardi e dei piu' rigorosi intellettuali della sinistra italiana; e' deceduto nel novembre 2000. Opere di Sebastiano Timpanaro: segnaliamo almeno La filologia di Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze 1955, poi Laterza, Roma-Bari 1978, 1997; La genesi del metodo del Lachmann, Le Monnier, Firenze 1963, poi Liviana, Padova 1981; Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965, 1969, 1988; Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970, 1975, poi Unicopli, Milano 1997; Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Ets, Pisa 1982; Il lapsus freudiano, La Nuova Italia, Firenze 1974, poi Bollati Boringhieri, Torino 2002; Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Nistri-Lischi, Pisa 1980; La "fobia romana" e altri scritti su Freud e Meringer, Ets, Pisa 1992; Nuovi studi sul nostro Ottocento, Nistri-Lischi, Pisa 1995; segnaliamo anche particolarmente la sua traduzione di Cicerone, Della divinazione, e quella di Holbach, Il buon senso, ambedue presso Garzanti, Milano rispettivamente 1985 e 1988, con vasto ed eccellente suo apparato critico] Mentre mi appresto a scrivere di Sebastiano Timpanaro, mi si ripresenta alla memoria l'immagine di un giovane quarantenne, alto, sempre vestito di grigio, con un irremovibile basco. Questa immagine si associa a quella di un bar, un bar nella zona della Sapienza che allora si chiamava "Il Battellino". Mi riferisco ai primi anni '60, gli anni del Vietnam e dei primi grandi movimenti studenteschi. Ed eccolo la', Sebastiano, in mezzo agli studenti e gli assistenti che subito dopo mangiato prendevano il caffe'. Sebastiano veniva da casa sua, in via San Paolo a Ripa d'Arno, dove abitava con sua madre, e si vedeva che era contento di stare con i suoi giovani amici. Compariva dal lungarno, dopo un percorso non brevissimo, passando per il ponte Solferino, ancora a tre arcate. Arrivava, con il suo passo lungo, e raggiungeva gli altri, in gruppo. All'interno del "Battellino" capitava spesso di sentir parlare di varianti, di stemmi tripartiti o bipartiti, della corrente di Basso o di quella di Vecchietti, di leggi fonetiche, e di altre cose simili. Sebastiano e i suoi amici piu' stretti, non andavano a sedersi davanti all'Ussero, avevano l'impressione che fosse snob. E non si sedevano nemmeno sulle spallette dell'Arno, in un atteggiamento troppo sportivo. Camminavamo, e si parlava, si confrontavano opinioni. La guida indiscussa era lui. Sebastiano Timpanaro. Il nostro sentimento nei suoi confronti era semplicemente di devozione. * Sebastiano era iscritto al Partito socialista. Era filologo classico. Sapeva il latino come pochissimi al mondo l'hanno mai saputo. Era figlio di studiosi di altissimo livello. Realizzava in se' un tipo di intellettuale semplicemente straordinario, per impegno nello studio, per la vastita' della sua cultura, per la varieta' degli interessi, per le scoperte che faceva, per l'alta intelligenza che traspariva dai suoi occhi: occhi chiari, mai inquieti, che accoglievano il dolore, ma non lo stupore o la protesta, sentimenti - questi ultimi - che venivano per cosi' dire anticipati dalla intellezione del reale. Molti dotti da varie parti del mondo venivano a Pisa per conoscerlo. Si guadagnava da vivere facendo il correttore di bozze. * Sebastiano Timpanaro non fu professore universitario, anche se era universalmente riconosciuto che egli possedeva ad abundantiam i requisiti scientifici per un compito del genere.Insegno' invece in scuole al livello della cosiddetta media inferiore, ma per pochi anni, poi smise. La ragione consisteva nel fatto che egli aveva serie difficolta' a parlare in pubblico. Eppure egli a Pisa esercito' un magistero didattico di altissima qualita' su molti giovani studenti e giovani studiosi. Partecipava ai seminari alla Scuola Normale, i famosi seminari che fra gli anni '50 e gli anni '60 diedero alla nostra citta' una posizione di spicco per gli studi sull'antichita' e sui metodi di ricerca attivati in questo campo. Sia pure in modo non sistematico Sebastiano era spesso presente ai seminari di Augusto Campana, di Eduard Fraenkel, e di Arnaldo Momigliano (e anche a quello di Scevola Mariotti su Nevio); ma non prendeva mai la parola e non gli venivano rivolte domande: per un esplicito patto nel caso di Fraenkel, per una intesa informale - credo - negli altri casi. Ma Sebastiano interveniva frequentemente alle discussioni che si facevano dopo che la lezione era finita e il professore era andato via. Capitava percio' che Sebastiano aggiungesse considerazioni sue o anche esprimesse rispettoso dissenso e correggesse i risultati a cui si era giunti nel corso della lezione ufficiale. Gia' in questo si manifestava il suo magistero. Ma, a parte i seminari, erano i discorsi che Sebastiano faceva in piccoli gruppi, e - ancora di piu' - i colloqui personali a due lo strumento privilegiato attraverso il quale egli svolgeva la sua attivita' didattica. Leggeva anche gli elaborati e dava pareri e consigli. Colpiva il fatto che egli metteva alla pari - quando lo meritava - l'idea suggerita da una matricola ed eventualmente quella gia' nota di un filologo famoso. Molto di questa attivita' si svolgeva all'aperto. "Riprendiamoci la citta'" era uno slogan di quegli anni. Sebastiano l'aveva gia' messo in atto. Capitava spesso che lo si incontrasse per le strade di Pisa, anche di sera, dopo cena. Il suo insegnamento non era istituzionalizzato. Non gli avevano assegnato un'aula per le sue lezioni. E lui si riservo' uno spazio molto piu' grande: le strade di Pisa. * Mi scrive Sebastiano nella lettera del 3 gennaio 1986: "Anch'io, non meno di te e probabilmente piu', sento di dovere moltissimo alla tua amicizia, alle lunghe conversazioni pisane, alle nostre passeggiate che finivano dinnanzi a due tazze di camomlla. Bei tempi! O meglio, tempi anche quelli tutt'altro che privi di ansia, nevrosi, infelicita'; ma per me, intersecati da momenti di allegria, mentre ora sto invecchiando in una specie di perpetuo grigiore". E nella lettera del 17 aprile 1990: "Non dimentico i nostri quotidiani scambi d'idee, le nostre passeggiate serali con bevuta finale di camomilla". Ed ecco un altro quadro ben delineato nella mia mente. Sebastiano ed io seduti davanti al bar "Gambrinus", molto vicini al bordo esterno del marciapiede, oggi non sarebbe possibile, ma allora il traffico non era cosi' invadente, e con un po' di impegno mentale ci si poteva astrarre da esso. Erano bei pomeriggi di tarda primavera, lui si sedeva con alle spalle la stazione ferroviaria. Io di fronte a lui. Questo avveniva - credo - soprattutto il primo anno della mia amicizia con Sebastiano. Aveva molte cose da dirmi, e io altrettanto da imparare. Scelse una via originale. Raccontava se stesso, cioe' mi spiegava passo passo le ricerche che compiva, mostrando i punti difficili, gli snodi piu' problematici. E successivamente, a distanza di tempo, mi diceva in che modo ne era venuto a capo. Questo, intorno al 1960. Ma proseguirono sempre le lunghe, dotte passeggiate serali. Quasi sempre per la strada, anche noi. Io ho avuto la fortuna di fruire di una frequentazione straordinariamente fitta con Sebastiano. E' un poco esagerato, ma non del tutto, dire - come fa Timpanaro nel pezzo di lettera sopra riportato - che i nostri scambi di idee fossero "quotidiani". Certamente, pero', ci vedevamo parecchie volte la settimana (a parte le vacanze accademiche, quando tornavo a Saracena). E questo, sempre, dal 1960 al 1967. Avverto pero' che sarebbe sbagliato ipotizzare un rapporto esclusivo. Sebastiano aveva contatti stretti con altri giovani o meno giovani pisani. Capitava anche che in un gruppetto piu' ristretto si giocasse a carte, o subito dopo pranzo o dopo cena. Gioco preferito, scopone scientifico, in quattro; risaputa la sua estrosa teorizzazione secondo cui la coppia che da' carte deve - in quanto interessata a non sparigliare - ispirarsi al classicismo di Pietro Giordani, e per converso la coppia che riceve deve ispirarsi alla Lettera semiseria di Berchet. Sebastiano e io accettammo una volta incautamente la sfida di due fisici, con bottiglia di spumante come premio; fummo stritolati. Sebastiano era amico di moltissime persone, in vari ambienti. Non faccio nomi, con una sola eccezione. Bruno Tallini era un normalista "scienziato", "un democratico de Formia" (come lui stesso si definiva e la formulazione piaceva molto a Sebastiano), un ragazzo alto e schietto, che giovanissimo fu rapito dalla morte; e Sebastiano mi confido' che ne aveva sentito il dolore che puo' provare un padre che perde suo figlio. * Il lavoro intellettuale comporta ovviamente una componente di fruizione: il piacere di risolvere una difficolta' che ti ha tenuto impegnato per un certo tempo, e il piacere di apprendere dati nuovi o addirittura nuove tecniche di ricerca, ed e' gratificante anche stabilire un contatto con altri studiosi che si occupano degli stessi problemi, oltre alla soddisfazione di veder riconosciuto da altri il proprio lavoro. Sebastiano sperimento' ovviamente queste situazioni, e per cio' che riguarda l'ultimo punto, i riconoscimenti furono tali che pochi ne ebbero altrettanti. Ma c'e' anche un aspetto del lavoro intellettuale che non si qualifica come fruizione. Sebastiano conosceva anche il lavoro intellettuale come fatica, quando il cervello e' sollecitato troppo e si creano situazioni di irrequietezza e di stanchezza, e si incomincia a girare a vuoto. Sebastiano aveva chiara la mappa del suo ingegno e delle sue possibilita' di lavoro. Mi parlava del disagio che gli procurava il caldo che preannuncia l'estate. Egli era orgoglioso di avere scoperto un mezzo per rimuovere situazioni di blocco, quando ti sembra di avere tutto chiaro nella mente e pero' la pagina resta ossessivamente bianca. E allora andava alla stazione. Io non l'ho mai visto, ma mi disse che piu' volte egli era andato alla stazione e si sedeva a un tavolino (non ricordo se nel bar o - piu' probabilmente - nella sala di aspetto) e lo stare in mezzo alla gente e vedere cose diverse dalle solite gli forniva l'impulso per superare il blocco e riprendere a scrivere: sul tavolino delle ferrovie dello stato. C'era poi una tecnica che non era propriamente originale, ma Sebastiano mi assicurava che qualche volta lui l'aveva sperimentata con successo: contrapporre a un motivo di disturbo (non evidentemente di tipo fisico, ma preoccupazione, timore, e simili) un altro motivo di disturbo che attiri l'attenzione e tolga il suo habitat al primo. E poi, in questo giocare a rimpiattino con la propria psiche: Livorno. Prendere il pullman e andare a Livorno, e passeggiare e confondersi con la gente che non ti conosce, e sentire voci diverse, e in piu' - il che non guasta - avere la soddisfazione di essere in una citta' rossa. E poi, tornare con rinnovato impulso al lavoro. Quando seppe che anch'io di mia iniziativa andavo a Livorno per la stessa ragione, facemmo il patto che se ci fossimo incontrati non ci saremmo riconosciuti e ognuno avrebbe mantenuto l'anonimato. Per altro avevamo in comune un atteggiamento di ripulsa per un divertimento popolare. La giostra. Arrivava alla Cittadella, quasi un flagello, all'improvviso, e il frastuono durava per intere settimane. Ma a questo proposito Sebastiano metteva in atto una maliziosa strategia di autodifesa: aspettava che anche io (che abitavo a un numero pari di via Lavagna e la stanza interna - quella buona per lavorare - era rivolta a nord) mi lamentassi e poi quasi per gioco si compiaceva con me di essere riuscito a resistere meglio e da questo traeva maggiore capacita' di impegno nel lavoro. * Di che cosa parlavamo stando cosi' tanto insieme? E' chiaro che non si poteva parlare sempre degli aspetti dell'azione verbale oppure della legge di Wackernagel sui composti. D'altra parte non capitava mai che ce ne stessimo tutti e due zitti, pensosi sulle sorti dell'umanita' nelle ere venture. Parlavamo certo degli studi che facevamo. Ma anche di cose varie, anche - per esempio - delle cose che ci capitavano e degli sviluppi che esse lasciavano prevedere, a livello di ansia e di timori. Senonche' a questo proposito incideva il fatto che Sebastiano avesse dieci o undici anni piu' di me, e percio' non c'era reciprocita' di comportamento. Lui era pronto a razionalizzare le situazioni che riguardavano me, ma di se stesso parlava dopo aver gia' messo in atto un filtro che impediva l'effusione emotiva. Mi accorsi che quando parlava con coetanei usava un registro diverso. Parlavamo anche di altre cose. Mi e' capitato di leggere un elogio della purezza di Sebastiano Timpanaro. Spesso il termine "puro" si trascina una risonanza sgradevole, nel senso di una frustrante mancanza di contatti eterosessuali. Sono in grado di affermare che Sebastiano provvedeva con sistematicita' a rifiutare nei fatti questa purezza e inoltre che di questo rifiuto me ne parlava. Questi ricordi si riferiscono al periodo tra il 1960 e il 1962. E parlavamo tanto, tantissimo di politica. Nell'impegno politico di Sebastiano giocavano varie componenti. Era importante la tradizione familiare, in particolare l'esempio che gli veniva da sua madre. Ma c'erano anche motivazioni di altra natura. Sebastiano non si rassegnava al gia' accaduto, non riconosceva la definitivita' di quello che si chiama talvolta il verdetto della storia. In questo opporsi all'accaduto c'era qualcosa di eroico. Questo valeva nella ricerca storico-filologica: a proposito di coloro che hanno anticipato in punti significativi quel metodo di ricognizione della tradizione manoscritta che veniva definito come metodo del Lachmann, a proposito della paternita' di una congettura che magari tocca invece a Leopardi, a proposito di uno studioso poco considerato come il Gervasoni. E la storia per lui era una nozione ampia che comprendeva - all'indietro - un tempo lontano quando ancora non c'era la vita organica, contrassegnata dal nascere e morire. Rispondendo a una mia lettera, Sebastiano scriveva in data 30 settembre 1986: "e' molto vero, e non vale, ovviamente, solo per mia madre, che si rimane addolorati e intimamente 'renitenti' nel vedere un'attivita' intellettuale o pratica brutalmente interrotta dalla morte. In effetti, io credo che la morte debba essere, ovviamente, subita come tutto cio' che e' ineluttabile, ma non possa essere giustificata, ne' dalla religione ne' dalla filosofia che spesso e' solo una 'religione per le persone colte e raffinate'. E talvolta penso che meglio sarebbe stato se nell'universo non fosse mai incominciata la vita e avesse continuato ad esserci solo la materia inorganica". Il rifiuto dell'accaduto si associa, in queste enunciazioni, a una struttura concettuale che si qualifica come utilitaristica, ma ha un risvolto profondamente etico. In questo contesto Timpanaro rifiuta un collegamento con la cultura in quanto fenomeno di distinzione sociale. E naturalmente Timpanaro non accettava il verdetto della storia nemmeno per cio' che riguarda la distribuzione della ricchezza e la fruibilita' dei beni secondo le varie classi sociali. Timpanaro aveva - ovviamente - letto e assimilato i testi marxisti (mi raccontava che una volta, aveva tenuto a un gruppetto di amici una serie di "lezioni" serali sul Capitale, letto "a puntate"), ma la sua impostazione di base andava al di la' del marxismo. E c'era un altro aspetto della questione. Lui, l'intellettuale realmente raffinato, ma nell'intimo, e non come manifestazione esteriore, aveva con la ricerca, proprio perche' gli riusciva bene, un rapporto gratificante. E di questo egli si sentiva come in debito con coloro che, per ragioni di classe, ne restavano esclusi. E percio' nel suo impegno politico lui si compiaceva di fare anche lavori manuali, incollare manifesti (ci teneva a dirmi che era diventato molto bravo a dare pennellate larghe e rapide, risparmiando molta colla) e distribuire volantini. E poi, ma si tratta di una considerazione aggiuntiva, c'era forte in Sebastiano l'esigenza che il lavoro intellettuale avesse uno sbocco operativo. Interveniva a questo proposito la nozione di politica culturale. Scrivere e pubblicare cose scientificamente valide era ovviamente irrinunciabile, ma questo non bastava. Si trattava di indirizzare i lettori e i possibili nuovi ricercatori verso linee di ricerca o di interesse che si ritenevano piu' produttive, e anche piu' in sintonia con esigenze - in ultima analisi - politiche. Era un equilibrio difficile. Ma Sebastiano non rinunzio' mai al principio. Certo il nesso che e' presupposto in Storia come pensiero e come azione a Timpanaro sembrava inadeguato, in quanto mancava il dato del mettere in discussione la storia. E cio' spiega la sua poca affezione nei confronti della dialettica hegeliana. In effetti, anche a livello piu' immediato, Timpanaro sentiva fortemente il fascino di quella che si suole chiamare (impropriamente) cultura popolare. Gli piaceva moltissimo la scritta che personalmente aveva letto come indicazione programmatica in una Casa del Popolo, nella zona verso Riglione: "volere e potere". La mancanza dell'accento sulla "e" secondo Sebastiano non era veramente un errore. Essa rifletteva una concezione materialista, nel senso che la volonta' e' fortemente condizionata da fattori esterni: al contrario di un volontarismo reazionario che nega ogni condizionamento, nel mentre i condizionamenti sono la base dei suoi privilegi. Parlava con vera simpatia dei religiosi che in Sicilia si erano messi con Garibaldi. Don Giovanni Verita' gli era caro. Un Dio capace di fare il bene degli uomini Timpanaro non lo avrebbe rifiutato: "Non sono in grado - mi disse una volta - di dimostrare la non esistenza di Dio, ma sono in grado di spogliarlo di tutti i suoi attributi". * Quando eravamo ancora nel Psi la domenica mattina capitava che, passeggiando nel porticato davanti al Gambrinus, ci dedicassimo a una cosa molto impegnativa: leggere sull'"Avanti" l'articolo domenicale di Pietro Nenni, un paio di colonne sulla sinistra in prima pagina. Eravamo diventati bravissimi. Avendo presenti, depositati nella nostra memoria, i precedenti interventi, eravamo in grado di cogliere il minimo spunto di novita', quando c'era. Molto veniva subito liquidato come rituale, ripetitivo. Per altro apprezzavamo gli arcaismi dell'autodidatta, che aveva conosciuto l'orfanotrofio. Per esempio "Niun dubbio", in posizione incipitaria. Poi venivano i Comitati centrali. Due o piu' pagine intere. Con il nome dell'oratore al centro della colonna. Allora per giudicare i singoli interventi bisognava tener conto anche degli spazi concessi. E chissa', forse ci poteva essere anche qualche intervento manipolatorio nella confezione del giornale. In ogni caso Sebastiano era veramente bravo a prevedere quale posizione avrebbe preso in quella situazione il singolo esponente politico. "Il suo intervento potrei scriverlo io, in anticipo" diceva. Ecco un altro flash. Davanti al Gambrinus spesso si vedeva un cliente, sulla cinquantina, seduto su una delle poche sedie disponibili, nel tardo pomeriggio: nell'atteggiamento di chi gode di un momento di relax e non pensa ad altro. Ricordo che Sebastiano una volta me ne parlo', e mi diede l'informazione: "Pencola", per avvertirmi che sarebbe bastato poco e lo avremmo portato dal Psi nel Psiup. * Ma ormai i ricordi volgono al termine, e le stelle tramontano, e le immagini diventano sempre piu' diafane, impercettibili increspature del vento che passa e appena appena ti sfiora. E del Psiup pisano mi limito a riferire il giudizio conclusivo, da una lettera del 13 agosto 1966, una lettera che mi rattrista, perche' preannuncia la partenza di Sebastiano e di Maria. Il trasferimento avverra' nell'aprile del 1967. La sera prima della partenza cenammo al "la Pace", a un passo dal Gambrinus. Eravamo in quattro. Maria, Sebastiano, e oltre a me, una giovane loro amica, che io non conoscevo e che forse Maria e Sebastiano invitarono perche' io la conoscessi. Non l'ho piu' rivista e non ricordo il nome. Se legge queste pagine, la saluterei volentieri. Ecco la parte iniziale della lettera. "Caro Vincenzo, grazie della lettera. Sono contento di sapere che ti riposi delle fatiche ippocratiche e senofontee. Mia madre sta molto meglio, anche se ho l'impressione che allo status quo ante non si ritorni e che abbia bisogno d'ora in poi di maggiori cure e di maggiore riposo. Ho incominciato (per ora solo a titolo informativo) a orientarmi sulle possibilita' di trovar casa a Firenze. Pare che non sia un compito impossibile, anche se gli affitti sono, a quel che pare, un po' piu' cari che a Pisa (ma non molto). L'idea di andare a stare a Firenze mi suscita sentimenti contrastanti. Da un lato comprendo che prima o poi questo trasferimento andava compiuto; dall'altro mi dispiace molto di lasciare gli amici di Pisa. Speriamo che prossimamente tu ti 'fiorentinizzi' almeno in parte! L'unico motivo per cui sono realmente contento di andarmene da Pisa e' costituito dal Psiup, che qui mi sembra destinato anche in futuro ad essere un teatro di continue risse sempre piu' sterili e cretine. Ieri l'altro...". * Mi accorgo che ancora non ho detto di che cosa parlavamo a livello scientifico a parte i nostri lavori. Cerco di riparare alla mancanza. Il problema dell'archetipo per i manoscritti della Divina Commedia. La sillaba ancipite (o meglio: indifferente) in fine di verso. La dialettica hegeliana (il problema della compatibilita' con l'effetto soglia). Il segretario politico nei partiti moderni (solo apparentemente funzione subalterna). Quando si cancella e' preferibile sovrapporre w e non x. Il ritorno nel sonno nell'Odissea. Si puo' spiegare solo in termini classisti Pirandello? In che modo la grande musica puo' trovare riscontro in libretti insulsi? Cavour e il Trovatore. Vivaldi superiore a Bach? La scelta di Marx a favore di Balzac sacrifica troppo Zola. Puo' il tipico essere il tratto specifico del linguaggio letterario? Puo' atteggiarsi a poeta maledetto chi poi nella vita quotidiana vive in modo ordinario e banale? Gliconeo e ferecrateo nell'Agamennone di Eschilo. Il lettore di "Athenet" mi scusera' se io interrompo l'elenco. * Qualche volta, prima di morire, voglio andare in via san Paolo, ci manco da molto tempo, e in fondo a sinistra, suonare il campanello da una porta; voglio vedere se qualcuno mi risponde. Ciao Sebastiano. 4. LIBRI. FERRUCCIO GAMBINO PRESENTA "RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E CLASSE OPERAIA IN INGHILTERRA" DI EDWARD P. THOMPSON [Dal quotidiano "Il manifesto" del primo settembre 2005. Ferruccio Gambino e' docente di sociologia del lavoro all'Universita' di Padova; ha insegnato negli Stati Uniti e in Francia; e' autore di numerosi saggi. Opere di Ferruccio Gambino: "Critica del fordismo regolazionista", in W. Bonefeld (ed.), Common Sense Essays in Post-Political Politics, Autonomedia, New York; Migranti nella tempesta, Ombre Corte, Verona 2003; con E. Mingione e F. Pristinger (a cura di), La citta' e il distretto, Carocci, Roma. Edward P. Thompson, nato nel 1924, storico, impegnato nella nuova sinistra, una delle figure piu' rappresentative dei movimenti per la pace degli anni ottanta, e' scomparso nel 1993. Opere di Edward P. Thompson: Uscire dall'apatia, Einaudi, Torino 1962; Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1969; Societa' patrizia, cultura plebea, Einaudi, Torino 1981; Protestare per sopravvivere, Pironti, Napoli 1982; (con V. Racek), Diritti umani e disarmo, Centro siciliano di documentazione, Palermo 1982; Opzione zero, Einaudi, Torino 1983; Whigs e cacciatori, La Nuova Italia, Firenze 1989; Oi Paz, Editori Riuniti, Roma 1991; Apocalisse e rivoluzione. William Blake e la legge morale, Cortina, Milano 1996] In apparenza, anno migliore non avrebbe potuto scegliere il Saggiatore per pubblicare in italiano il capolavoro di Edward P. Thompson: il 1968. I due tomi di Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra si presentavano in solido cofanetto e trattavano di classe operaia, un argomento, allora, di una certa risonanza; ma il prezzo di copertina era proporzionale al numero delle pagine e all'eleganza dell'edizione. Il libro fatico' a farsi largo nella selva di tascabili del tempo, tanto che nella seconda meta' degli anni '70 fini' nelle rimanenze scontate. E poi, perche' l'Inghilterra? Non erano la Francia e gli Usa al centro del Sessantotto? La traiettoria operaia della "prima nazione industriale" appariva lontana rispetto ai canoni dello sviluppo del proletariato nell'Europa continentale, cosi' com'era spiegato dai manuali scolastici. Scrive Thompson nella prefazione: "Io cerco di riscattare dall'enorme condiscendenza dei posteri il calzettaio povero, il cimatore luddista, il tessitore a mano 'antidiluviano', l'artigiano e operaio specializzato 'utopista' e perfino il seguace deluso di Joanna Southcott", domestica campagnola e profetessa di centomila diseredati. L'opera e' "un gruppo di studi su argomenti collegati" piu' che "una narrazione consecutiva" degli anni dal 1780 al 1832. Nella prima parte, Thompson considera "le tradizioni popolari... che influirono sulla cruciale agitazione giacobina degli anni 1790-1800". Nella seconda parte passa "dalle influenze soggettive a quelle oggettive - le esperienze di gruppi di lavoratori durante la rivoluzione industriale". Nella terza parte riprende "il filo della storia del radicalismo plebeo", e la segue, "attraverso il luddismo, fino all'eta' eroica al termine delle guerre napoleoniche". Infine discute "alcuni aspetti della teoria politica e della coscienza di classe negli anni '20 e '30". Cosi' annunciata, la narrazione sembra ragionevolmente piana, ma per i lettori italiani andrebbe corredata da note esplicative e da carte tratte da un buon atlante storico. * Superati gli scogli iniziali, la lettura si fa trascinante. Da quale sorgente sgorga l'impeto della narrazione? E' questa la domanda cruciale di un testo che ha incoraggiato tanti storici piu' giovani di Thompson a riportare alla luce le esperienze collettive degli sfruttati, liberandosi dagli schemi tradizionali. Per rispondere, si puo' cominciare con un particolare all'apparenza insignificante. Quando nel 1956-'57 Thompson sviluppa la sua polemica sulla democrazia interna del Partito comunista britannico contro il Rapporto dei quindici commissari nominati dai vertici, ci si aspetta che il dissidente dello Yorkshire prenda posizione richiamandosi infine al principio del centralismo democratico di Lenin. Thompson spiazza tutti. Cita John Milton e la tradizione democratica britannica. Da quel momento Thompson si considera un comunista con la c minuscola (in inglese le iniziali dei sostantivi che indicano l'affiliazione a partiti e chiese sono maiuscole). Occorre dunque tornare al passato piu' solitario per guardare oltre il tempestoso futuro che si profila all'orizzonte. Thompson prevede una traversata del deserto durante la quale le forme organizzative del movimento operaio passeranno attraverso la stretta delle ristrutturazioni postcoloniali - un processo che, a giudizio di chi scrive, e' tuttora in corso. * Sono rivelatrici della congiuntura della fine degli anni '50 le pagine che Thompson dedica ai riallineamenti provocati dalla caduta del repubblicanesimo giacobino in Inghilterra dopo l'avvento di Napoleone in Francia e la ripresa delle guerre. Diventa incolmabile il fossato che divide gli ex-riformatori, ritirati nelle loro cappelle private, dai cospiratori e dai luddisti negli ultimi dodici anni delle guerre napoleoniche. Thompson ha il merito perenne di aver dimostrato la complessita' del luddismo, contro le fandonie di chi aveva ridotto un ampio e articolato movimento al semplice sabotaggio dei telai meccanici da parte di sparuti gruppi di operai disperati. Lo spazio pubblico viene rioccupato dai patrioti di tutte le gradazioni, secondo un copione destinato a ripetersi innumerevoli volte fino ai nostri giorni. Gran parte dei repubblicani riscoprono i meriti della Corona, molti recitano il mea culpa e si pentono, diventando piu' realisti - e antigiacobini - del re. Nel paese trionfano i benpensanti. Con grande fanfara la guardia armata dei proprietari puo' organizzare i suoi raduni patriottici. Ma e' al diapason di questo tripudio guerrafondaio che viene suonata "la nuova nota del radicalismo". Se Napoleone e' un despota, cosa dire del governo inglese che, secondo la denuncia dell'allora conservatore William Cobbett, sospende l'Habeas Corpus, incarcera senza processo, compra giornali e giornalisti, manovra il sistema bancario e il debito pubblico a suo arbitrio? Questa volta l'indignazione e' particolarmente intensa a Londra e si esprime con la difesa della liberta' di parola e di stampa da parte degli artigiani e delle professioni liberali. Si tratta appunto di un movimento difensivo. Altrove, e in particolare nei distretti industriali, l'organizzazione diventa clandestina e illegale fino al ricorso alle armi, giungendo cosi' alla soglia degli anni Venti. Poi, "demagoghi e martiri" del movimento operaio, come scrive Thompson, riconquistano lo spazio pubblico; solo cosi' si giungera' alla limitazione legale della giornata lavorativa. Dunque, non sara' lo stalinismo, cosi' come non fu Napoleone, a seppellire l'impulso democratico e le lotte di classe in Europa e negli altri continenti. Ma nella lezione di Thompson si da' per scontato che per anni e forse per decenni occorrera', un'altra volta, dare battaglia politica e riconquistare pazientemente l'arena pubblica facendo a meno di un partito. Lo studio dei cinquant'anni dal 1780 al 1832 mostra che la classe operaia non e' (come vorrebbe Perry Anderson e parte della "New Left Review" da cui Thompson viene estromesso nel 1963) "un proletariato subordinato" prodotto da "una borghesia supina"; per contro, essa "fu presente al suo 'farsi'", con "l'intervento attivo dei lavoratori, il grado in cui essi contribuirono, con sforzi coscienti, al farsi della storia". Coloro che faticavano non possono essere considerati soltanto come "le miriadi perdute dell'eternita'". Essi nutrirono, "per cinquant'anni e con fortezza incomparabile, l'Albero della Liberta'". Ma e' un cinquantennio durante il quale non esistono comitati centrali, ne' congressi di partito o di sindacato, ne' tessere, ne' sponde giacobine all'estero, ne' intellettuali, con la nobile eccezione dello "sbandato" William Blake e di pochi altri, disposti a rischiare la miseria dei loro piccoli privilegi schierandola accanto a quella, ben piu' grave, generata dalle nuove fabbriche. In funzione antioperaia sono talvolta dispiegate piu' truppe che contro gli eserciti napoleonici. Eppure, alla fine del cinquantennio il proletariato riesce a imporre la rivendicazione cruciale, una giornata lavorativa limitata - e quindi la fine della delirante onnipotenza dell'imprenditore. E' una legge che si affianca all'abolizione della schiavitu' nelle piantagioni britanniche delle Indie occidentali. Sacrificio, clandestinita', prigione e forca, ma anche senso di una piu' ampia collettivita' in formazione e gioia del "co-spirare" sono tra le voci di un processo di differenziazione di classe e di irradiamento di nuovi atteggiamenti privi di deferenza, mentre le braccia e le menti passano inesorabilmente nel laminatoio della grande industria. La dedizione dei proletari alla causa assume talora toni mistici, paradossalmente biforcati in atteggiamenti ateisticamente politici o ferventemente fideistici. Ma in entrambi i casi il risultato sociale si fonda sulla ricchezza dello sforzo collettivo, non sull'io acquisitivo e proprietario. Sara' pur vero che il problema per i comunisti non e' quello dell'alternativa tra altruismo ed egoismo, come affermeranno poi i preoccupati Marx e Engels ne L'ideologia tedesca, ma il problema e' pur sempre come vincere. La lezione del cinquantennio e' semplice: fuori dal collettivo non c'e' possibilita' di vittoria, ne' si puo' sperare nel salvatore esterno. E' un Thompson sardonico quello che riesce ad attaccare insieme il sociologo funzionalista Smelser e i burocrati di partito: "La coscienza di classe, invece, e' un'invenzione malefica di intellettuali sbandati, perche' tutto cio' che turba l'armonica coesistenza di gruppi che, come si dice, 'svolgono ruoli sociali' diversi (e che, quindi, ritarda lo sviluppo economico) e' da deprecare come 'sintomo ingiustificato di disturbo'". L'armonia non e' certo un segno distintivo degli anni della formazione della classe operaia in Inghilterra. Gli squilibri e gli sconquassi sociali si misurano in tutta la loro estensione imperiale, dalla distruzione della manifattura nel subcontinente indiano al massacro di Peterloo (1819) da parte dell'esercito e della guardia armata dei proprietari di Manchester. * Limitandosi di proposito all'Inghilterra, Thompson addita destini universalmente analoghi: il nostro criterio di giudizio non dovrebbe ridursi al dilemma "se le azioni di un individuo si giustifichino o no alla luce di sviluppi successivi. Dopo tutto, non siamo noi stessi alla fine dell'evoluzione sociale. In alcune delle cause perdute degli uomini della rivoluzione industriale possiamo scoprire lampi di intuizione su mali e sofferenze della societa', che aspettano ancora d'essere leniti... E' possibile che delle cause perdute in Inghilterra debbano, in Asia o in Africa, essere ancora vinte". Non si tratta dell'aspirazione a un mero ritorno al passato. Piu' che la nostalgia della comunita' dissolta e' l'impulso a creare rapporti sociali non solo nuovi ma anche diversi - diversi da quelli della borghesia - a scavare margini di autonomia, a tentare - sovente invano - di salvarsi dal lavoro notturno, dalla prigione-manifattura, dalla deportazione nelle colonie. * Sull'affresco di Thompson si sono appuntate critiche non peregrine a mano a mano che si sviluppavano i movimenti della fine degli anni '60 e degli anni '70. Gia' in un convegno di storici sociali del '73, presente Thompson, viene lamentata la scarsa attenzione dedicata alle donne nell'opera. Altri rilievi sono piu' circostanziati. E' senz'altro una svista il fatto che nel raccontare la fondazione della London Corresponding Society (1792), ossia l'atto di nascita del dibattito operaio radicale in Inghilterra, Thompson si dimentichi di Oulaudah Equiano, rapito dai negrieri in Africa occidentale, schiavo che si e' autoriscattato, scrittore e attivista dell'abolizionismo. Cosi' spiega Peter Linebaugh, che di Thompson fu studente, nel suo fondamentale The London Hanged (Penguin, 1991, libro incomprensibilmente non ancora tradotto in italiano). Ma Linebaugh rammenta pure - a Thompson e a noi - che negli ultimi decenni del Settecento a Londra vive un proletariato atlantico: il numero dei soli africani - liberi e schiavi - oscilla tra le 10.000 e le 20.000 persone, circa il 6-7 per cento della popolazione urbana. A questo punto possiamo riprendere la descrizione di Thompson della riunione fondativa della London Corresponding Society nella quale si stabilisce un principio basilare: nessun candidato e' escluso, purche' risponda affermativamente a tre domande, la piu' importante delle quali suona cosi': "Sei pienamente convinto che il benessere di questi regni esige che ogni adulto in possesso della ragione, e non reso incapace da delitti, abbia un voto per eleggere un rappresentante ai Comuni?". E' una domanda attuale, che riguarda i diritti politici di milioni di immigrati in Europa e di circa 170 milioni di immigrati e nel mondo. Dopo 213 anni, forse anche Oulaudah Equiano sarebbe d'accordo che ricominciare da capo non vuol dire ripartire da zero. * Postilla. Uno storico senza cattedra Edward Palmer Thompson nasce a Oxford nel 1924, figlio di missionari metodisti che sono vissuti a lungo nell'India di Gandhi e di Nehru ai quali resteranno legati nella lunga battaglia anticoloniale. Studente di storia a Cambridge, nel 1942 Edward, con il fratello maggiore Frank, aderisce al Partito comunista britannico. Reclutato in un reggimento di carristi e mandato sul fronte italiano, fa a tempo a notare la Resistenza e gli scioperi del 1944-'45. Nel maggio del 1944 il fratello Frank, capo di un'operazione clandestina britannica di sostegno alla Resistenza bulgara, viene catturato e fucilato insieme con il gruppo di partigiani e di contadini bulgari che lo hanno aiutato. E' il lutto piu' grave nella vita di Thompson, per il quale l'aspirazione a un'Europa libera dai blocchi sara' indissolubilmente associata alla memoria del fratello. Dopo il congedo del 1946, Thompson e' volontario nell'opera di ricostruzione in Jugoslavia. Poi completa gli studi a Cambridge, e dal 1948 al 1965 e' lettore di storia nei corsi liberi (extramural) per adulti all'Universita' di Leeds. Ai margini della vita accademica in quanto comunista notorio, con gli storici di partito Christopher Hill, Eric Hobsbawm, George Rude', John Saville e Dorothy Towers, la compagna della sua vita, Thompson fonda la rivista "Past and Present" (1952) che intende fare i conti con la storia delle classi lavoratrici, oscurata da piu' di trecento anni di un destino imperiale ormai declinante. Nel 1955 pubblica un lungo studio su William Morris, e nella primavera del 1956 con John Saville lancia una rivista ciclostilata, "The Reasoner", in polemica con i vertici del partito. Quando il Comitato politico del partito ingiunge ai due di chiudere la pubblicazione, Thompson e Saville persistono. Poi, nell'ottobre-novembre del 1956, dopo lo scoppio dell'insurrezione ungherese e l'invasione sovietica dell'Ungheria, "The Reasoner" denuncia la repressione. Sospesi dal partito, Thompson e Saville escono tra i primi. Nel biennio successivo saranno seguiti da circa diecimila membri, quasi un terzo degli iscritti. Invece di spostarsi a destra, Thompson con altri pubblica alcuni numeri del trimestrale a stampa "The New Reasoner" che nel 1960 confluisce nel nuovo periodico di Perry Anderson e Tom Nairn, "The New Left Review", da cui Thompson e' estromesso nel 1963 per chiara mancanza di snobismo antioperaio. Procedendo in direzione opposta, egli attende alla sua opera maggiore The Making of the English Working Class, la cui prima edizione esce nel 1963 presso l'editore Victor Gollancz. Dopo qualche attacco infastidito in patria, il volume comincia a essere preso in seria considerazione anche negli Stati Uniti, in Australia e in Canada, e nel giro di qualche anno si afferma come il capolavoro di storia sociale di lingua inglese della sua generazione. Nel 1968 seguono la seconda edizione inglese presso Penguin e la tempestiva, meritoria traduzione in italiano di Bruno Maffi presso il Saggiatore, con il titolo Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, in due volumi, mentre la traduzione francese si fara' attendere per altri vent'anni (Gallimard-Seuil, 1988). Nominato professore di storia all'Universita' di Warwick nel 1965, Thompson abbandona definitivamente l'insegnamento nel 1971 per solidarieta' con il movimento studentesco e per protesta contro le amministrazioni universitarie, sempre piu' piegate ai diktat degli industriali, dei finanzieri e dei faccendieri di stato. Nel 1975 pubblica Whigs and Hunters (Whigs e cacciatori, La Nuova Italia, 1989) uno studio sulle tensioni sociali attorno ai terreni comuni nel Settecento inglese, e tre raccolte di saggi: contro Louis Althusser e la pretesa di esclusiva cosmopolitica della "New Left Review" (The Poverty of Theory, 1978), sulle prospettive contemporanee (Writing by Candlelight, 1980), e a favore del disarmo (Protest and Survive, 1980). Dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta e' in Gran Bretagna la voce piu' autorevole e l'ambasciatore piu' attivo del disarmo e delle campagne antinucleari, sia che arringhi a Trafalgar Square sia che distribuisca materiale nei chioschi degli antimilitaristi o che si scontri in pubblico dibattito con il segretario reaganiano alla difesa Weinberger. In italiano escono i suoi saggi storici (Societa' patrizia, cultura plebea, Einaudi, 1981), e antimilitaristi (Protestare per sopravvivere, Pironti, 1982, Opzione zero, Einaudi, 1983). Forse presagendo l'approssimarsi della fine, Thompson rende l'estremo omaggio alla memoria del fratello Frank e alla sua fatale missione in Bulgaria del 1944 con uno scritto che e' anche una riflessione sugli usi strumentali della storia da parte degli apparati statali (Beyond the Frontier. The Politics of a Failed Mission: Bulgaria 1944). Nel 1991 pubblica Customs in Common. Si spegne nel 1993. Due suoi volumi, Witness against the Beast (Apocalisse e rivoluzione. William Blake e la legge morale, Cortina, 1996) e Making History, escono postumi, rispettivamente nel 1993 e nel 1994. 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1043 del 4 settembre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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