La nonviolenza e' in cammino. 1030



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1030 del 22 agosto 2005

Sommario di questo numero:
1. Lidia Menapace: Guerra e pace
2. Paola Pavese: Violenza verbale e sopraffazione
3. Antonio Vigilante: Nonviolenza senza miti
4. Simone Weil: Un pezzo di pane
5. Giobbe Santabarbara: Minima una postilla su femminismo e nonviolenza
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. MAESTRE. LIDIA MENAPACE: GUERRA E PACE
[Da Lidia Menapace, "Pacifismo o barbarie", in Fausto Bertinotti, Lidia
Menapace, Marco Revelli, Nonviolenza. Le ragioni del pacifismo, Fazi
Editore, Roma 2004, p. 80. Lidia Menapace (per contatti:
lidiamenapace at aliceposta.it ) e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla
Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra
le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti
della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli
scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e
riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il
futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L'ermetismo.
Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento
politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia
Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza
sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara
Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il
papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna,
Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; (con Fausto
Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004]

Abbiamo tutti i materiali culturali e anche possibili formulazioni
giuridiche che confermino che la guerra e' un crimine contro l'umanita',
anzi che guerra e terrorismo sono parimenti crimini contro l'umanita', si
sostengono a vicenda, non si possono usare per spegnere gli incendi che
appiccano. Che la pace e' governo nonviolento dei conflitti e dunque chiede
analisi dei conflitti e delle loro cause, affrontamento, procedure di
raffreddamento, interposizione e interventi nonviolenti e non armati prima
che degenerino in guerre o scontri armati o terrorismo.

2. RIFLESSIONE. PAOLA PAVESE: VIOLENZA VERBALE E SOPRAFFAZIONE
[Ringraziamo Paola Pavese (per contatti: paolapavese at hotmail.com) per questo
intervento. Paola Pavese, nata a Roma nel 1965, e' da sempre interessata ai
temi riguardanti il rapporto Nord-Sud ed ha collaborato con alcuni organismi
non governativi in campagne di educazione allo sviluppo; conosce il mondo
della cooperazione sociale per averne fatto parte e per aver svolto su di
esso un percorso di riflessione critica; nella sua formazione e' stato molto
importante l'incontro con il buddismo. Scrive sul sito
www.antonellapavese.com]

Ho trovato molto interessante il dibattito sull'uso della violenza verbale
nel sostenere la causa pacifista. E' un argomento che mi ha spesso dato da
pensare. Anzi, per essere sincera, ho piu' volte trovato imbarazzante il
modo di esprimersi di alcuni esponenti pacifisti. Nell'ultimo intervento si
parla di purezza e di franchezza. Io credo che cio' che rende violenta la
parola non sia la chiarezza di una denuncia, ma la sua strumentalita'.
L'utilizzazione che ne viene fatta a fini "politici", quando la politica
viene intesa come lotta per il potere. Quando la nostra passione ci porta a
considerare noi e il nostro gruppo come depositari di una giustizia e di una
verita' a cui gli altri non hanno accesso se non per nostra volonta'.
Perche' e' li', secondo me, in quell'anello della nostra catena di pensieri,
che l'altro diventa qualcosa di estraneo a noi, muta di sostanza, e la
realta' umana si scinde in differenti mondi, che tendono a diventare
incomunicanti tramite comprensione ovvero "comunicanti" solamente tramite
sopraffazione.
Avendo sempre presente che cio' che noi definiamo male e' un'esperienza che
accomuna tutti gli esseri umani, di cui non solo comprendiamo le ragioni, il
meccanismo, ma di cui riconosciamo le radici all'interno della nostra natura
e della nostra esperienza, sola allora, io credo, ogni espressione
aspramente critica sara' sempre rivolta, non all'altro, ma ad ognuno di noi,
e potra' risultare anche dura, ma mai volta alla distruzione di alcuno.
Questo e' cio' che la mia militanza nella sinistra italiana mi ha portato a
credere...

3. RIFLESSIONE. ANTONIO VIGILANTE: NONVIOLENZA SENZA MITI
[Ringraziamo Antonio Vigilante (per contatti: agrypnos at tiscali.it) per
averci messo a disposizione questo suo saggio. Antonio Vigilante e' studioso
e amico della nonviolenza, di grande acutezza e profondita'; nato a Foggia
nel 1971, dopo la laurea in pedagogia si e' perfezionato in bioetica;
docente di scienze sociali, dirige la collana "L'Aratro. Testi e studi su
pace e nonviolenza" delle Edizioni del Rosone di Foggia, fa parte del
comitato scientifico dei prestigiosi "Quaderni Satyagraha", collabora a
diverse riviste ed e' autore di rilevanti saggi filosofici sulla
nonviolenza. Tra le opere di Antonio Vigilante: La realta' liberata.
Escatologia e nonviolenza in Aldo Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia
1999; Quartine, Edizioni del Rosone, Foggia 2000; Il pensiero nonviolento.
Una introduzione, Edizioni del Rosone, Foggia 2004]

E' cosa frequente e tutt'altro che inopportuna che una nuova teoria o una
nuova prassi siano accolte al tempo stesso dall'irrisione degli scettici e
dall'entusiasmo degli adepti. Se l'irrisione preserva nella comunita' una
certa riserva di distacco critico, l'entusiasmo spesso acritico degli adepti
consente a quella teoria ed a quella prassi di sviluppare le proprie
potenzialita' in un ambiente in qualche modo protetto. A questa prima fase,
tuttavia, e' bene che ne segua un'altra, ed e' importante che tale
evoluzione non avvenga con ritardo eccessivo. Occorre che quella teoria o
prassi escano dall'ambiente protetto e si confrontino apertamente con chi vi
si oppone, che a sua volta passera' dall'irrisione all'analisi critica
attenta e, forse, rispettosa. E' bene, anzi, che gli adepti stessi di quella
nuova idea diventino i suoi critici. Il risultato di questa seconda fase
sara' una piu' larga accettazione di quella idea nell'opinione pubblica,
anche se in una forma meno entusiastica, piu' misurata.
La nonviolenza non e' probabilmente entrata ancora in questa seconda fase.
Abbiamo avuto maestri grandissimi che hanno saggiato le potenzialita' della
nuova via mostrata al mondo dal Mahatma, ma che, presi dalla loro opera
pionieristica, raramente si sono soffermati a considerarne i limiti; ed
abbiamo avuto ed abbiamo studiosi che, presi da vera e propria venerazione
per quei maestri, hanno pensato che fosse inopportuno  discutere anche solo
gli aspetti piu' vistosamente criticabili della loro opera. Sono sorti cosi'
i "miti" della nonviolenza. Non tutti, a dire il vero, sono miti in senso
stretto. Diventa un mito, indubbiamente, il Gandhi infallibile custode di
tutte le cose buone e giuste, piu' profeta e santo che politico, cosi'
lontano nella sua purezza ascetica eppure cosi' vicino per la modernita' ed
il buon senso del suo pensiero, cosi' come e' anche mitica, probabilmente,
una certa interpretazione della storia che vede in alcuni momenti cruciali
del Novecento - dalla lotta stessa del Mahatma alla crisi dei regimi
comunisti dell'Est - il trionfo della nonviolenza. In molti casi, tuttavia,
piu' che di veri e propri miti si tratta di biases, di scorciatoie
intellettuali, di tesi non sufficientemente discusse. Chiamo mito, insomma,
qualcosa che e' molto vicino al dogma.
Di seguito elenco, con un minimo di analisi critica, dieci di questi miti,
condensati in affermazioni sulle quali e' urgente, a mio avviso,  riflettere
e discutere.
*
1. La verita' e' forte, e per questo una prassi fondata sulla verita' e' una
prassi vincente
La nonviolenza gandhiana si chiama Satyagraha, parola che
approssimativamente si puo' tradurre con "forza della verita'". La
convinzione del Mahatma era che chi ha dalla sua la verita' e' destinato a
vincere. Questa convinzione e' basata a sua volta su una determinata
concezione del mondo: e' possibile essere certi del trionfo della verita'
soltanto se si e' certi che il mondo e' razionale, che le leggi del mondo
sono leggi etiche, che la storia stessa e' guidata dalla ragione. Non a caso
Gandhi sostiene che la fede in Dio e' indispensabile per la pratica della
nonviolenza. Tutto cio' e' razionalismo. Abbiamo in Gandhi un razionalismo
reso possibile dalla fede in Dio. E' una cosa di cui non bisogna stupirsi
troppo. Piuttosto, occorre prendere atto della inattualita' di questa
posizione. L'ultima grande espressione del razionalismo in occidente e'
stato il sistema hegeliano, una interpretazione della grande vicenda
dell'essere e della storia umana in cui tutto e' impregnato di logos, e
tutte le contraddizioni sono trascese e pacificate. Purtroppo, non e' piu'
tempo per l'ottimismo hegeliano e in generale per il razionalismo. Nemmeno
la ragione, come diceva il nostro Giuseppe Rensi gia' al tempo della Grande
Guerra, e' universale, bensi' frammentata, lacerata, scissa. E' per la
ragione che gli uomini si combattono ed uccidono - per i modi diversi ed
opposti di intendere la ragione. La ragione e' pluriversa, come tutto quanto
il resto. Non e', quello in cui siamo, un universo, ma un pluriverso. Non e'
nemmeno, purtroppo, un pluriverso inteso come una unita' molteplice ma
pacifica. Sembra piuttosto che sia una lotta cosmica in cui ogni frammenti
d'essere lotta per ridurre a se' tutto. Ma questa e' ancora metafisica,
mentre oggi si tratta di lasciar perdere la metafisica, o almeno di
rinunciare a fondare metafisicamente l'etica o la politica. A meno che,
naturalmente, non si sia cattolici.
Quel che deve essere chiaro e' che il Satyagraha e' una forma di
razionalismo reso possibile da un atto di fede.
*
2. La nonviolenza usa mezzi diversi dalla politica classica
Un aspetto importante della riflessione nonviolenta riguarda il rapporto tra
mezzi e fini. Mentre il pensiero politico classico da Machiavelli in poi
distingue i mezzi dal fine ed afferma che per un fine lecito e' possibile
impiegare anche mezzi illeciti, la nonviolenza sostiene che la natura del
mezzo dev'essere omogenea alla natura del fine. Pretendere di raggiungere la
pace attraverso la violenza sarebbe come pretendere di raccogliere orzo dopo
aver seminato grano.
In astratto, e' difficile contestare questa posizione, e infatti non la
contestero'. Quel che vorrei provare a mettere in discussione e' che la
nonviolenza usi realmente dei messi diversi da quelli della politica
classica (intendendo con questa espressione ogni politica che, pur non
rifacendosi espressamente a Machiavelli, non escluda in via di principio la
possibilita' di ricorrere alla violenza per la soluzione di problemi
politici). Quali sono realmente i metodi utilizzati dai politici violenti?
Quali erano i metodi di un Hitler o di un Mussolini? Le armi, certo. Ma le
armi hanno bisogno di qualcuno che le faccia funzionare. C'e' bisogno quindi
degli eserciti. Ma gli eserciti possono combattere soltanto se gli uomini
che ne fanno parte sono convinti di dover usare delle armi per uccidere i
nemici, per fare il proprio dovere, per difendere la patria, la liberta',
l'onore e chissa' cos'altro ancora. Ne' questo basta. Occorre che l'esercito
sia sostenuto da tutto il popolo, dall'opinione pubblica. Un esercito che
combatta una guerra considerata ingiusta in patria e' condannato alla
sconfitta - il Vietnam lo insegna. La vera arma della politica classica non
sono dunque i fucili, i carri armati, i bombardieri e gli eserciti. La vera
arma della politica classica e' la suggestione delle masse. Il vero maestro
di Mussolini non e', per sua stessa ammissione, Machiavelli, ma Gustave Le
Bon, il sorprendente autore della Psicologia delle folle.
La domanda che bisogna porsi allora e': la nonviolenza usa realmente mezzi
diversi dalla suggestione delle masse? Quale ruolo ha giocato nella impresa
gandhiana una intelligente suggestione delle masse? Non e' anche Gandhi,
come Mussolini, un allievo di Le Bon? O, se questa affermazione sembra
irriguardosa: non era forse l'impresa gandhiana prevedibile alla luce della
teoria di Le Bon non meno dei totalitarismi fascista, nazista e comunista?
Le Bon non negava la possibilita' di suggestionare le masse in positivo, per
cosi' dire, inducendo migliaia e addirittura milioni di individui a compiere
azioni nobili e generose. Tuttavia, questo fatto eccezionale nulla aggiunge
alla fenomenologia della suggestione, che resta un fenomeno inquietante e
pericoloso, perche' sottrae le capacita' critiche e razionali all'individuo
rendendolo capace di tutto.
Bisogna notare che, se e' vero che la suggestione ha avuto un ruolo di primo
piano nell'efficacia dell'impresa  gandhiana, quello del Mahatma si
configura come un razionalismo sospeso in alto alla fede e poggiato in basso
sulla suggestione.
*
3. Ogni uomo e' convertibile al bene
La nonviolenza ritiene che in ogni uomo sia presente un fondo di bonta',
spesso ben nascosto e soffocato dalle passioni, ma mai del tutto estinto, al
punto tale che basta saper trovare le parole giuste, basta un gesto
significativo per far riaffiorare quella bonta' di fondo ed operare la
conversione del nemico. E' questa convinzione che ha spinto Gandhi a
scrivere una lettera ad Hitler, che non e' stata mai recapitata, in cui gli
chiedeva a nome dell'umanita' di fermare la guerra.
Questo fondo dell'anima e' mitico. Non e' possibile ovviamente negare la
realta' delle conversioni, ma nemmeno e' possibile dedurre da esse la
convertibilita' di ogni essere umano, perche' la maggior parte degli uomini
si aggrappano disperatamente a quel che sono, e preferirebbero morire
piuttosto che cambiare un aspetto anche superficiale della propria
identita'. Quel che un uomo ha nel fondo dell'anima e' un mistero per tutti
e soprattutto per se stesso. E d'altra parte, se in Hitler c'era un fondo di
bonta', anche in Gandhi bisogna postulare un fondo di malvagita': e questo
complica molto le cose. Come puo' Gandhi, lui stesso insidiato dalla
malvagita', cercare di convertire Hitler? E se invece Gandhi non aveva alcun
fondo di malvagita', ma era un uomo assolutamente buono, incorruttibile,
indifferente alla seduzione del male, perche' non possiamo considerare
Hitler come un uomo assolutamente malvagio, indifferente alla voce del bene?
Se esistono uomini radicalemente buoni, allora vi sono anche uomini
radicalmente cattivi. Se invece gli uomini non sono mai radicalmente buoni o
cattivi, ma sempre incerti tra il bene e il male, chi puo' pretendere di
convertire il prossimo? Le probabilita' che un Hitler converta un Gandhi non
sono inferiori a quelle della immediata e completa conversione di un Hitler.
Ma ammettiamo per un attimo un Hitler profondamente commosso dalla lettera
di Gandhi, improvvisamente convertito, oppresso dai sensi di colpa per il
male fatto e desideroso di rimediare al piu' presto. Avrebbe potuto
realmente porre fine immediatamente alla guerra? C'e' da dubitarne. Nemmeno
i dittatori sono signori della storia, ne' padroni dei loro popoli. Un
dittatore convertito sarebbe un dittatore morto, ed il suo posto sarebbe ben
presto preso da un altro. Il nazismo non era Hitler, ma aveva profonde
radici in almeno cento anni di storia e di cultura tedesca. Per essere
realmente efficace, la lettera di Gandhi avrebbe dovuto non solo convertire
Hitler, ma cancellare di colpo cento e piu' anni di risentimento, di
esaltazione, di militarismo. Avrebbe dovuto convertire un intero popolo. Ma
i popoli sono ancora meno convertibili degli individui.
Le cose non cambiano molto nemmeno se crediamo in Dio. Certo, possiamo
pregare Dio di illuminare la mente dei potenti o addirittura l'anima di
interi popoli. Di fronte alla constatazione della assoluta inutilita' di
queste preghiere, tuttavia, un credente dovra' ammettere che Dio non puo'
fare a meno di rispettare il libero arbitrio degli uomini.
*
4. Cambiando gli individui si attuera' la "rivoluzione nonviolenta"
Non e' infrequente imbattersi nell'espressione "rivoluzione nonviolenta".
Rocco Altieri, ad esempio, ha voluto intitolare "La rivoluzione nonviolenta"
la sua biografia intellettuale di Aldo Capitini. E' diffusa l'idea che la
nonviolenza sia una pratica rivoluzionaria, non, ovviamente, nel senso che
voglia fare una rivoluzione tradizionalmente intesa, ma perche' intende
operare un cambiamento lento, profondo e dolce (per riprendere la
riformulazione di Alex Langer del motto olimpionico) nella societa',
nell'economia e nella cultura; un cambiamento dal basso, che comincia
dall'individuo, dalla sua vita quotidiana, dalla rete delle sue relazioni.
Non dalle nuove strutture all'uomo nuovo, ma dall'uomo nuovo alle nuove
strutture. La societa' nonviolenta, e percio' giusta e vera, nascera' dalla
personalita' nonviolenta, vale a dire dall'uomo giusto ed equo, che rinuncia
alla violenza e vive nell'amore del prossimo, che evita lo sfruttamento, che
non uccide nemmeno gli esseri non umani e percio' e' tendenzialmente
vegetariano, che fa attenzione a non contribuire con il suo stile di vita
alle ingiustizie economiche, che e' contro il razzismo e il conflitto
culturale, che si impegna politicamente al di fuori degli angusti
schieramenti politici, che in altri termini e' non astrattamente, ma
concretamente, politicamente virtuoso.
Non nego la possibilita' di una tale rivoluzione attuata attraverso la
conversione dei singoli. Credo che pero' se ne debba discutere la
probabilita'. Per quanto possibile, una simile rivoluzione nonviolenta e'
del tutto improbabile. Le religioni predicano da secoli le piu' alte virtu'
e pongono davanti ai singoli ideali di perfezione umana: ne' gli
insegnamenti del Vangelo o del Dhammapada, ne' l'esempio dei grandi maestri
delle religioni, ne' la suggestione della chiesa e del tempio, ne' i timori
dell'inferno o della rinascita sono stati sufficienti. Salvo rare eccezioni,
gli uomini hanno continuato a tenersi a rispettosa distanza dalla pratica
della virtu'.
Non sono mancate in nessun tempo le cerchie di uomini dediti a pratiche
supererogatorie, ma si e' trattato, appunto, di elites, di gruppi la cui
influenza sulla struttura economico-sociale del loro tempo e' stata quasi
irrilevante. Per quanto possa diffondersi oggi uno stile di vita
nonviolento, e' difficile immaginare che un numero considerevole di persone,
tale da provocare cambiamenti significativi nella vita collettiva, si
possano convertire ad esso, tanto piu' che si tratta di uno stile di vita
che va contro quasi tutti i valori dominanti e gli interessi ad essi legati.
E' da escludere che i cambiamenti proposti dalla nonviolenza possano essere
decisi dall'alto, perche' si tratta di cambiamenti che riguardano lo stile
di vita, ed uno stato che volesse decidere lo stile di vita dei cittadini -
volesse ristrutturare la societa' civile - sarebbe uno stato totalitario.
Non sembra esserci, purtroppo, una terza via tra elitarismo e totalitarismo.
*
5. E' possibile giungere ad una piena comprensione tra culture diverse
Gandhi aveva una grande fiducia nella possibilita' di comprensione e
coesistenza tra culture e fedi diverse. Da induista, possedeva una
comprensione aperta del Divino e non trovava alcuna difficolta' ad
apprezzare l'islam, il cristianesimo, il buddhismo e, per certi versi, lo
stesso ateismo (in quanto e' anch'esso una ricerca della verita', e Dio e',
appunto, verita'). La sua fiducia, purtroppo, era ingenua, cosi' come la sua
interpretazione delle religioni diverse dall'induismo, mossa dalla
preoccupazione di far venire in primo piano gli elementi conciliabili,
tacendo quelli incompatibili. Da un punto di vista prettamente
intellettuale, una operazione del genere non sembra difficile. Basta isolare
nelle diverse tradizioni religiose l'elemento etico e far notare la
vicinanza, se non proprio la somiglianza, tra l'ahimsa indiana e l'amore
cristiano o tra la devozione islamica e la bhakti. Tutte le religioni sono
viste come vie diverse che conducono all'Assoluto. Del resto, se c'e' un
Assoluto, sarebbe ben strano che una sola via conducesse a Lui. Questa
convinzione, che Gandhi aveva ricevuto dalla teosofia, e' seriamente
sostenuta soltanto dai seguaci della New Age. La verita', invece, e' che
l'Assoluto, proprio perche' assoluto, non si lascia vincolare, limitare,
comporre. L'Assoluto cristiano non puo' scendere a patti con l'Assoluto
musulmano o ebraico, ne' puo' avere altro che disprezzo per il politeismo.
Questo sembra essere un problema particolare dei monoteismi, sulla cui
radice violenta sono forse condivisibili le osservazioni critiche di James
Hillman (ancora nel suo ultimo libro, "Un terribile amore per la guerra").
La religione non e', purtroppo, soltanto etica. La religione e' legata
principalmente allo stile di vita ed all'identita', e' una grammatica per
leggere il territorio esteriore ed interiore, una mappa del mondo che gli
uomini credono di dover custodire intatta per non perdersi nel caos.
Difficile dire cosa e' centro e cosa e' periferia, cosa e' essenziale e cosa
e' orpello in una religione. In un paese del sud portare il santo in
processione e' al centro del cristianesimo non meno del sacramento della
comunione, e tutti sarebbero pronti alla violenza per difendere quella
tradizione che interpretano come elemento essenziale e irrinunciabile della
loro identita'. Il dialogo tra religioni, che avviene a livello
intellettuale - filosofico ed etico - lascia intatta questa base rituale,
cerimoniale, identitaria, che e' centrale non meno del contenuto etico o
mistico di una fede, e che pero' e' al di qua di ogni possibilita' di intesa
con altri rituali e cerimoniali, con altre identita'.
Forse intellettuali appartenenti a diverse fedi religiose potranno giungere
ad elaborare una "etica mondiale", ma i fedeli delle singole religioni
continueranno ad odiarsi come si odia il diverso, tutte le volte che si
sentiranno minacciati nella loro identita' e nei loro cerimoniali.
*
6. C'e' sintonia tra la nonviolenza e il movimento delle donne
Una delle espressioni piu' intellettualmente stimolanti di questa
convinzione diffusa e' il libro "Donne disarmanti" (Intra Moenia, Napoli
2003) a cura di Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo, nel quale si fa il
punto sul rapporto tra femminismo e nonviolenza (anzi, tra i femminismi e la
nonviolenza), da un lato recuperando momenti e figure importanti della
storia del femminismo che sono anche esempi di lotta nonviolenta, dall'altro
soffermandosi su alcuni nodi teorici: il legame tra guerra e maschilita',
l'inclinazione delle donne alla pace, il significato del corpo per la guerra
e la pace. Una riflessione che ha un evidente orizzonte pratico nella
necessita' di realizzare una convergenza dei movimenti di liberazione,
attuando un grande fronte comune contro la guerra ed altre realta' di
violenza e progettando forme nuove di democrazia e di azione politica.
Scartata l'idea si un legame assoluto tra femminilita' e pace, sconfessata
da non poche pratiche violente propriamente femminili, come anche dalla
tutt'altro che infrequente partecipazione di donne alla violenza della
guerra (ed il recente caso della tortura dei prigionieri iracheni da parte
di soldati americani, che ha visto protagoniste anche giovanissime
soldatesse, ne e' una triste conferma), le autrici si concentrano sulle
pratiche quotidiane di mediazione, di soluzione dei conflitti, di sostegno
alla vita cui le donne sono portate dalla maternita' e dal ruolo sociale che
ne deriva. Le donne non sono nonviolente per natura ma, osserva Giancarla
Codrignani, a differenza degli uomini "ragionano spesso sul fatto che il
corpo sia fatto per la vita" (p. 176). E sono loro, quando la guerra e'
passata, a ricostruire il tessuto sociale, a riallacciare le relazioni, a
guarire le ferite.
L'ideologia bellicista non ha ricevuto dalle donne alcun contributo; molto
invece deve all'immaginario maschile. Nel linguaggio militare, nel
simbolismo, nella stessa conformazione delle armi sono trasparenti i
riferimenti ad un modello aggressivo di sessualita', propriamente maschile
(e non sorprende che la pratica della guerra contemporanea comprenda anche,
con una certa regolarita', lo stupro). Vi e' una continuita' tra il
patriarcato e la guerra. Come sistema sociale e culturale di dominio sulle
donne, il patriarcato include anche la purificazione dell'uomo da ogni
aspetto femminile della sua personalita' (dall'anima, in termini junghiani),
e la corrispondente esaltazione delle qualita' maschili piu' grossolane. La
guerra non e' che la conseguenza di questo modello umano duro, che espelle
dalla sfera politica sensibilita' e mediazione, puntando tutto invece sulla
durezza. Un modello che puo' anche servirsi di donne (Margareth Thatcher,
Condoleeza Rice), ma che resta nondimeno un modello pensato dagli uomini.
Non vi e' alcun vero progresso, per le donne, nell'assumere posizioni di
potere all'interno di questo modello. La via del femminismo e' invece quella
di una contestazione parallela del maschilismo e del bellicismo e della
costruzione di una societa' nonviolenta che porti l'impronta dei valori e
delle qualita' femminili.
E' stata questa la via di donne che appartengono al mito, come la Lisistrata
di Aristofane, Cassandra e Antigone, ed alla storia, come Bertha von
Suttner, l'autrice di "Giu' le armi!" che ricevette nel 1905 il premio Nobel
per la pace, istituito anche grazie alla sua decisiva influenza su Alfred
Nobel, Rosa Luxemburg, Barbara Deming, attivista nonviolenta, femminista,
antirazzista e lesbica americana, la cui lotta e' un esempio storico di
quella convergenza di pratiche di liberazione auspicata da quel libro. E
ancora: la resistenza delle donne della Rosenstrasse nella Germania
hitleriana, la lotta di Medha Patkar contro la costruzione in India di dighe
volute dalla Banca mondiale dai devastanti effetti sull'ambiente e la
popolazione, l'impegno di Aung San Suu Kyi per la liberta' del popolo
birmano, la militante pacifista curda Leyla Zana, l'attivista verde Ingrid
Betancourt sequestrata dai guerriglieri colombiani, e tante altre storie,
spesso del tutto dimenticate, che questo libro ha il merito di riportare
alla luce e proporre all'attenzione del lettore.
Quel libro raggiunge egregiamente lo scopo di dimostrare che c'e' pratica
della nonviolenza nel femminismo. Quel che manca e' una riflessione critica
su un altro problema: quanto femminismo c'e' nella nonviolenza? Il movimento
delle donne ha sviluppato per conto suo una pratica nonviolenta, insieme a
posizioni teoriche ed a rivendicazioni sociali. Fino a che punto, al di la'
della convergenza della pratica, queste posizioni teoriche e queste
rivendicazioni collimano con quelle della nonviolenza, elaborate ed avanzate
da uomini come Gandhi, Lanza del Vasto, Aldo Capitini, don Lorenzo Milani,
Danilo Dolci? Una lettura critica di questi autori avrebbe permesso di
constatare che c'e' qualche forma di maschilismo anche all'interno della
tradizione nonviolenta. Il femminismo e' un movimento legato
all'industrializzazione, ai cambiamenti sociali che hanno portato le donne
nel mondo del lavoro, al passaggio dalla famiglia patriarcale a quella
nucleare, insomma alle profonde modificazioni delle societa' occidentale con
le quali si e' consumata quasi senza residui la civilta' contadina. Questi
cambiamenti sono visti con sospetto, quando non apertamente condannati, dai
maestri della nonviolenza, che hanno invece esaltato proprio la civilta'
rurale, alimentando spesso l'ideale romantico di una societa' statica,
equilibrata, in cui i ruoli siano fissi e complementari. Quel patriarcato
individuato come causa della guerra torna all'interno della nonviolenza
nell'Arca di Lanza del Vasto, ad esempio: un ordine rurale e patriarcale, in
cui non conta tanto il fatto che il potere sia nelle mani di un uomo
(patriarca puo' essere anche una donna), quanto l'immaginario del potere,
calcato sull'immagine del patriarca biblico. Un ulteriore problema e' quello
della sessualita'. Barbara Deming lottava per il riconoscimento della
propria omosessualita' adoperando il metodo gandhiano, ma Gandhi considerava
inopportuna - almeno per se' - anche la sessualita' coniugale. La
nonviolenza si e' sviluppata in contesti culturali e spirituali - quello
indiano, ma anche quello cattolico - caratterizzati da una visione rigorista
e punitiva del sesso; ed anche nella nonviolenza laica (in Capitini e in
Dolci, ad esempio) manca una adeguata riflessione sulla sessualita'.
Differenze non lievi sorgono, poi, considerando la questione dell'aborto.
Conquista indispensabile per il femminismo, esso si accorda ben poco con
l'intento di preservare ogni forma di vita, che viene alla nonviolenza
dall'ahimsa induista, jainista e buddhista e dal concetto cristiano di
persona. Si presenta qui un classico contrasto tra un'etica della sacralita'
della vita, quale e' quella dei grandi maestri della nonviolenza, ed
un'etica della qualita' della vita.
Oltre l'affinita' delle pratiche, insomma, l'incontro reale tra femminismo e
nonviolenza non puo' avvenire senza una discussione critica dei reciproci
fondamenti teorici ed epistemologici, che e' ancora tutta da fare.
*
7. Si puo' attuare il potere di tutti
L'idea del potere di tutti o omnicrazia e' di Aldo Capitini. Non esito ad
affermare che, insieme a quella della compresenza, e' l'idea piu' importante
lasciataci in eredita' dal filosofo di Perugia. Con l'omnicrazia e'
possibile pensare una forma di democrazia non soltanto formale: una
democrazia autentica, viva, partecipata. Tutti sono chiamati all'impegno
politico attraverso l'assemblea, alla discussione ed all'analisi critica
delle decisioni degli uomini politici, con le quali gia' si esercita un
potere diverso, un potere distribuito. Con l'omnicrazia la politica viene
gradualmente sottratta ai partiti ed ai politici di professione e torna ad
essere cosa di tutti. Lo strumento del potere di tutti erano i Centri di
Orientamento Sociale (Cos), che Capitini creo' nel dopoguerra e che, come e'
noto, ebbero vita ne' facile ne' lunga. E' rimasta l'idea, che torna con
gran frequenza nei dibattiti di area nonviolenta, ma non si puo' dire che la
prassi abbia fatto un solo passo avanti dai tempi di Capitini. Se mi
interrogo sul perche' di questa situazione, mi viene in mente una
considerazione dell'Anonimo di Giamblico: gli uomini amano dedicarsi ai
propri affari e non si preoccupano della cosa pubblica se non quando il suo
cattivo andamento li costringe a farlo. Oggi un tale giudizio appare anche
troppo ottimistico. Nemmeno un evidente pericolo basta spesso per indurre la
gente a riunirsi in assemblea ed occuparsi della cosa pubblica. Questo non
e', con ogni probabilita', un fatto naturale, bensi' il risultato dell'opera
decennale dei centri di potere, che hanno concentrato l'attenzione pubblica
sui fatti irrilevanti dello sport, dello spettacolo e della moda per sviarla
da quelli dell'economia e della politica. Il fenomeno fu colto da Capitini
quando probabilmente era gia' troppo avanzato per contrastarlo
efficacemente. Oggi puo' dirsi quasi del tutto compiuto, e la dimostrazione
e' negli scontri di piazza che seguono alla retrocessione di una squadra di
calcio, mentre fatti ben piu' gravi accadono nell'indifferenza di tutti.
E' bene continuare a tenere vivo il progetto capitiniano e nonviolento del
potere di tutti, ma e' importante essere anche consapevoli che si tratta di
un progetto drammaticamente lontano dalla realta' attuale, e che oggi si
tratta di salvare l'idea dell'omnicrazia, rimandando a tempi migliori - che
non verranno domani, ne' dopodomani - la sua realizzazione.
*
8. E' sempre possibile trascendere i conflitti
Il concetto di "trascendimento" e' di Johan Galtung, che ne ha fatto il
centro del metodo Transcend per la soluzione dei conflitti, interpretando e
sviluppando alla luce della sociologia dei conflitti il Satyagraha
gandhiano. Trascendere un conflitto vuol dire evitare una uscita dal
conflitto in cui uno dei due contendenti abbia ragione dell'altro, con una
soluzione evidentemente parziale ed insoddisfacente. Il trascendimento del
conflitto avviene invece cercando una situazione che vada al di la' di
quanto cercato dai due contendenti, e che in qualche modo accontenti
entrambi. Ci troviamo di nuovo di fronte ad una sorte di Aufhebung hegeliana
che trascende conciliando. Si tratta, purtroppo, di una soluzione che non
chiede solo creativita' ed inventiva. E' una soluzione praticabile solo nel
caso in cui entrambi i contendenti abbiano una parte di ragione (una parte
uguale di ragione, per giunta) ed abbiano entrambi la volonta' di giungere
ad una soluzione giusta del conflitto. Il soggetto A ha un interesse
legittimo su una proprieta' del soggetto B (ad esempio una servitu' di
passaggio), il soggetto B ha un interesse legittimo ad impedire ad A la
soddisfazione del suo interesse legittimo; A e B hanno la stessa forza e
sono entrambi animati da buona volonta'. In questo caso e' possibile
lavorare ad una soluzione che contempli la soddisfazione parziale o completa
del legittimo interesse di entrambi. Se B invece non ha alcun interesse
legittimo in base al quale impedire ad A la soddisfazione del suo interesse
legittimo, ma lo fa perche' mosso da semplice antipatia e dalla
consapevolezza di essere piu' forte di A, nessun trascendimento del
conflitto e' possibile. Nella migliore delle ipotesi, A ricorrera' ad un
giudice per far valere i suoi diritti ed il giudice gli dara' ragione, senza
attuare alcun trascendimento del conflitto, ma facendo pendere la bilancia
della giustizia dalla sua parte.
La maggior parte dei conflitti, sia tra individui che tra stati, e' di
questo secondo tipo. Spesso, come sappiamo, le ragioni di una delle parti in
conflitto (o addirittura di entrambe) non sono che pretesti. Uno stato
sostiene che un altro stato ha armi di distruzioni di massa. In realta'
quello stato e' interessato a far guerra, e nulla potra' dissuaderlo. In
questo caso, nessun trascendimento e' possibile. Nemmeno accurati controlli,
che dimostrino che lo stato incriminato non ha armi di distruzione di massa,
basteranno. Su gran parte dei conflitti l'ultima parola l'ha detta Esopo con
la favola del lupo e dell'agnello.
*
9. E' possibile incidere sulle scelte politiche attraverso le manifestazioni
Oltre che inventore dei Centri di Orientamento Sociale, Capitini e' stato
l'ideatore della Marcia della Pace. Se i primi sono un esperimento non piu'
tentato, la seconda e' un appuntamento fisso ed una delle espressioni
salienti del mondo nonviolento in Italia. Questo fatto mi sembra
significativo. La nonviolenza ha due strumenti per incidere nella realta':
le strutture e le manifestazioni. Le prime bisognerebbe chiamarle piu'
propriamente contro-strutture, perche' si oppongono alle strutture dominanti
e diffuse. Possiamo considerare contro-strutture i Cos di Capitini, i gruppi
maieutici di Danilo Dolci, l'Arca di Lanza del Vasto, ma anche la scuola di
Barbiana. Ora, sembra che l'idea di una nonviolenza strutturale o
controstrutturale sia stata progressivamente abbandonata in favore dell'idea
di una nonviolenza delle manifestazioni. La marcia, il sit-in, la protesta
sono gli strumenti di gran lunga privilegiati, mentre e' totalmente
scomparsa, ad esempio, l'idea di una scuola popolare. L'idea dominante nel
mondo nonviolento e' che il potere dipende dall'opinione pubblica, per cui
una manifestazione imponente dovrebbe intimorire il potere politico e
indurlo a cambiare posizione. Le cose invece vanno diversamente. Il potere
politico sa bene che l'opinione pubblica e' incostante, poco tenace, si
stanca e di distrae facilmente, e che le manifestazioni non sempre implicano
un impegno reale per quella causa. Se cosi' non fosse, le straordinarie
manifestazioni contro la seconda guerra in Iraq avrebbero bloccato quel
conflitto. Milioni di persone, invece, hanno manifestato contro una guerra
voluta con arroganza inaudita dallo stato piu' potente del mondo, senza che
la loro voce abbia avuto il potere di operare alcuna conversione o di
impensierire il potere politico per la mancanza di consenso. La guerra e'
cominciata e quell'esercito di milioni di oppositori ha rotto le fila, si e'
disperso - si e', forse, dedicato ad altro.
Non condivido l'opinione di chi pensa che le manifestazioni siano
assolutamente inutili - hanno la stessa efficacia politica del mangiare
panini in continuazione, per Christoph Tuercke -, ma penso che questa
convinzione sia meno pericolosa del mito dell'efficacia di un'opinione
pubblica non sorretta da strutture stabili di opposizione politica.
*
10. Il volto dell'altro dispone alla responsabilita'
Il volto dell'altro e' un appello, al quale non posso fare a meno di
rispondere riconoscendo e rispettando la sua umanita'. Esprimo un po'
rozzamente una convinzione che ha la sua epressione piu' alta nel pensiero
di Levinas, di Jonas, di Capitini, e quella piu' infima in un certo
sentimentalismo e in una certa retorica della nonviolenza. Basterebbe, se
cosi' fosse, guardarsi un po' piu' in faccia l'un l'altro per cambiare il
mondo; e invece il volto dell'altro suscita il piu' delle volte
indifferenza, disgusto o odio.
Ascoltiamo Ivan Karamazov:
"Devo farti una confessione", esordi' Ivan, "non ho mai potuto capire come
si possa amare il prossimo. Secondo me, e' impossibile amare proprio quelli
che ti stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano. Una volta
ho letto da qualche parte la storia di 'Giovanni il misericordioso', un
santo: un viandante affamato e infreddolito ando' da lui e gli chiese di
riscaldarlo e quello lo fece coricare nel letto insieme a lui, lo abbraccio'
e prese a soffiargli nella bocca, putrida e puzzolente a causa di una
terribile malattia. Io sono convinto che egli lo facesse per una lacerazione
piena di falsita', per il dovere di amare che gli era stato imposto, per una
penitenza che si era inflitto. Perche' si possa amare una persona, e'
necessario che essa si celi alla vista, perche' non appena mostrera' il suo
viso, l'amore verra' meno".  [...] Secondo me, l'amore di Cristo per gli
uomini e' una specie di miracolo impossibile sulla terra. Vero e' che egli
era Dio. Ma noi non siamo dei. Supponiamo, per esempio, che io soffra
profondamente: un'altra persona non potra' mai sapere fino a che punto io
soffra, perche' lui e' un'altra persona e non e' me, e, soprattutto, e' raro
che un uomo sia disposto a riconoscere in un altro un uomo che soffre (come
se si trattasse di un'onorificenza). Perche' non e' disposto a farlo, tu che
ne pensi? Perche', ad esempio, ho un cattivo odore, perche' ho una faccia
stupida, o perche' una volta gli ho pestato un piede. [...] Si puo' amare il
prossimo in astratto, a volte anche da lontano, ma da vicino e' quasi
impossibile." (F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano 1999,
vol. 1, pp.  327-328).
Il viso dell'altro e' incompatibile con l'amore, cosi' come e' incompatibile
la vicinanza. Se un amore e' possibile, non e' l'amore del prossimo, ma
l'amore del piu' lontano.
L'amore e' suscitato dalla bellezza fisica o morale, ma la bellezza e' cosa
rara, e ancora piu' raro e' che quella fisica e quella morale coesistano.
Eppure, si dira', esiste la santita', eppure esistono esempi di un tale
amore dell'altro. Che tale amore nasca da qualche forma di lacerazione, e'
ipotesi che lascio a Ivan Karamazov. Qui basta notare che la santita' e'
rara, e che non si puo' chiedere all'uomo comune di sforzarsi verso la
santita'.
La nonviolenza considera la guerra un incidente della storia che non
contiene alcuna verita' sull'essere umano. Gli uomini si massacrano da
secoli, e tuttavia questo non vuol dire nulla, per Gandhi: da secoli gli
uomini si amano, anche. Ma l'amore degli uomini, quell'amore che fa nascere
le nuove generazioni, fa parte della natura, e' l'amore stesso degli
animali. L'odio che fa milioni di vittime, che spinge un popolo come
l'altro, che esige il massacro, quest'odio e' puramente umano, fa tutt'uno
con l'apparizione dell'uomo sul pianeta. Perche'? Si esclude che l'uomo
abbia una propensione biologica alla violenza. Perche' allora il massacro?
La nonviolenza dovrebbe prendere seriamente in considerazione la
possibilita' che l'odio che genera il massacro nasca proprio dalla
insostenibilita' del volto dell'altro.
*
Una conclusione provvisoria
Aldo Capitini considerava la nonviolenza una posizione tragica e
contrapponeva questa sua tragicita' all'ottimismo del pacifismo: e tragica
in effetti appare la nonviolenza, se non la si sospende ad una garanzia
metafisica o religiosa. Una nonviolenza tragica e', quindi, una nonviolenza
laica, autonoma dalla metafisica e dalla religione, prassi politica che
cerca di far spazio alla ragione in un mondo che non e' razionale. E' una
nonviolenza senza Dio, ma non irreligiosa. Anche i credenti possono scoprire
il valore di una prassi etsi Deus non daretur nell'eta' postmoderna. E'
questo, mi sembra, il significato profondo della teologia di Dietrich
Bonhoeffer. Vivere nel mondo senza Dio, come se Dio - il Dio Tappabuchi -
non ci fosse, e intanto fare spazio a Dio, stare con Dio. Vale a dire, per
un non credente: fare spazio alla ragione nel mondo senza avere alcuna fede
nella natura razionale del mondo.
Consapevole che gli uomini non si amano, una nonviolenza senza miti non
predichera' l'amore universale, ne' l'amore del prossimo; cerchera' invece
di sostenere la pratica della giustizia. Posso essere giusto con l'altro,
anche se il suo volto mi ripugna; e quand'anche non volessi, posso essere
costretto dalla legge a rendere giustizia all'altro. Nessuna legge invece
puo' costringermi ad amare.
Questo vuol dire rivalutare in qualche modo quell'atomismo sociale tanto
aborrito da Capitini (in cio' d'accordo con Gentile), cercare una
nonviolenza degli individui piu' che una nonviolenza della comunita'. Una
nonviolenza individualistica puo' riconoscere i diritti delle donne, mentre
in una prospettiva comunitaria e' forte la tentazione di assegnare a
ciascuno il suo posto, riservando alle donne il focolare domestico
nell'ottica di una sensata distinzione di ruoli. "E' diritto della donna
governare nella casa, mentre l'uomo e' padrone fuori di casa. L'uomo
guadagna la vita, la donna risparmia e spende. La donna tira su i bambini:
e' la loro madre. E' responsabile della formazione del loro carattere. E' la
loro educatrice,  e quindi e' la madre della stirpe", scrive Gandhi (My
Views on Education, Mumbai-New Delhi 1998,  pp. 19-20). La donna in casa,
l'uomo fuori casa. Che anche le donne potessero dedicarsi alle stesse
occupazioni degli uomini era per il Mahatma un segno di decadenza e di
cedimento dell'India alla logica occidentale del capitale. Ma
l'individualismo non e' solo il portato del capitalismo. E' anche la
concezione ideale che consente di pensare e di praticare la pari dignita'
degli esseri umani e l'uguaglianza non astrattamente e retoricamente
affermata, ma garantita dal diritto.

4. MAESTRE. SIMONE WEIL: UN PEZZO DI PANE
[Da Simone Weil, Quaderni, vol. IV, Adelphi, Milano 1993, p. 301. Simone
Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa, militante
sindacale e politica della sinistra classista e libertaria, operaia di
fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti, lavoratrice
agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a lavorare per la
Resistenza. Minata da una vita di generosita', abnegazione, sofferenze,
muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna come quella
che precede non rende pero' conto della vita interiore della Weil (ed in
particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora:
radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del
1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli
o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta' come
vita, Simone Weil ci commuove, ci da' nutrimento". Opere di Simone Weil:
tutti i volumi di Simone Weil in realta' consistono di raccolte di scritti
pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici
(e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti
le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu' importanti in edizione
italiana segnaliamo: L'ombra e la grazia (Comunita', poi Rusconi), La
condizione operaia (Comunita', poi Mondadori), La prima radice (Comunita',
SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni
precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta' e
dell'oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi),
Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali
i quattro volumi dei Quaderni, nell'edizione Adelphi curata da Giancarlo
Gaeta. Opere su Simone Weil: fondamentale e' la grande biografia di Simone
Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr.
AA. VV., Simone Weil, la passione della verita', Morcelliana, Brescia 1985;
Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone
Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie
Muller, Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, Edb, Bologna
1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994]

Colui che da' un pezzo di pane senza una parola, se il gesto e' quello
giusto, a volte da' in questo modo al tempo stesso la vita eterna. Un gesto
simile puo' avere un valore redentivo di gran lunga superiore a molti
sermoni.

5. RIFLESSIONE. GIOBBE SANTABARBARA: MINIMA UNA POSTILLA SU FEMMINISMO E
NONVIOLENZA

Breve una considerazione su un tema che forse piu' di ogni altro mi sta a
cuore: dal mio punto di vista l'esperienza del movimento e del pensiero
delle donne (il femminismo, o i femminismi, per usare questa formula forse
riduttiva ma utile comunque ad intenderci) e' l'esperienza decisiva della
nonviolenza in cammino.
Personalmente infatti ritengo che la nonviolenza abbia fatto le sue prove
maggiori nelle esperienze storiche del movimento operaio (con discontinuita'
e contraddizioni talora molto forti, so bene), ed in quello delle donne (qui
con una continuita' e chiarezza che trovo cruciali), ancor piu' che in
alcune longeve tradizioni religiose e filsoofiche o nella nuova peraltro
assai variegata sensibilita' ecologica.
Non si tratta di annettere il femminismo alla nonviolenza, ma precisamente
il contrario: riconoscere che nel femminismo la nonviolenza ha trovato il
suo principale luogo di elaborazione e verifica, di pratica critica e
critica pratica, di messa al mondo e messa in valore.
*
Non vorrei infatti che si pensasse che la nonviolenza fosse un corpus
espresso o sancito da alcuni autori, certo ammirevoli, che ne detengano
pertanto una sorta di diritto alla "interpretazione autentica" per il mero
fatto che piu' di altri l'hanno saputa riconoscere, nominare e tematizzare,
mentre altre ed altri ne hanno fatto esperienza senza pero' darne una
concettualizzazione e una lessicizzazione specifica.
Ammiro sinceramente quelle personalita' che hanno saputo chiarire e
dichiarare, tematizzare, sperimentare e testimoniare la nonviolenza nella
sua peculiarita', ma cio' non toglie che con le posizioni, le scelte e il
linguaggio loro io ad esempio mi trovi non di rado in dissenso, e su punti
non marginali (nella mia biografia, nella mia cassetta degli attrezzi, nella
mia weltanschauung - e quindi anche nel mio essere, essere divenuto, una
persona amica della nonviolenza - Leopardi, Marx e Hannah Arendt sono di
gran lunga piu' rilevanti di Gandhi, che pure con tutto il cuore onoro).
*
La nonviolenza, io credo, e' un campo di esperienze e riflessioni di
straordinaria ampiezza e in straordinario sviluppo, ed ogni esperienza ed
ogni persona che ad essa si accosta in sincerita' e serieta' ad essa
altresi' apporta ipso facto contributi originali: cosicche' ogni
tematizzazione di essa resta quindi sempre solo uno dei punti di vista
possibili, tutti provvisori ed aperti allo svolgimento, alla critica, alla
verifica e alla falsificazione. Non vi e', fortunatamente, un canone.
E mi sembra, ad esempio, che la ricca, articolata e preziosa elaborazione di
Giuliano Pontara lungo i suoi molti chiarificatori lavori confermi
l'opportunita' di un approccio consapevole della necessaria, felice
pluralita'.
Per quanto personalmente mi concerne, ad esempio, della nonviolenza
condivido e propongo una nozione complessa e contestuale, di "insieme di
insiemi", dialetticamente legata alle condizioni del suo concreto farsi e
riflettersi nel vivo della lotta contro la violenza e la menzogna;
tematizzazione che so bene essere per piu' versi assai diversa rispetto a
quelle, che tutte ritengo preziose e nutrienti, proposte da molte altre e
molti altri testimoni, militanti, studiose e studiosi.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1030 del 22 agosto 2005

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