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La domenica della nonviolenza. 32
- Subject: La domenica della nonviolenza. 32
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 31 Jul 2005 12:35:45 +0200
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 32 del 31 luglio 2005 In questo numero: 1. Ernesto Ferrero ricorda Cesare Cases 2. Giulio Schiavoni ricorda Cesare Cases 3. Loris Campetti ricorda Cesare Cases 4. Massimo Raffaeli ricorda Cesare Cases 5. Cesare Cases: Lessing in Italia. Con vespe 6. Antonio Gnoli intervista Cesare Cases in occasione degli ottant'anni (2000) 1. MEMORIA. ERNESTO FERRERO RICORDA CESARE CASES [Dal quotidiano "La stampa" del 28 luglio 2005. Ernesto Ferrero e' scrittore ed operatore culturale, gia' direttore editoriale della casa editrice Einaudi. Opere di Ernesto Ferrero: segnaliamo particolarmente (a cura di), Primo Levi: un'antologia della critica, Einaudi, Torino 1997. Cesare Cases, nato a Milano nel 1920, illustre germanista, saggista acuminato, critico letterario - e dei costumi e delle ideologie -, docente universitario, polemista e moralista, intellettuale critico di grande acutezza, vivacita' e rigore, e' scomparso pochi giorni fa a Firenze. Tra le principali opere di Cesare Cases: Marxismo e neopositivismo, Einaudi, Torino 1958; Saggi e note di letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1963; Patrie lettere, Liviana, Padova 1973, Einaudi, Torino 1987; Su Lukacs, Einaudi, Torino 1985; Il testimone secondario, Einaudi, Torino 1985; Il boom di Roscellino, Einaudi, Torino 1990; Confessioni di un ottuagenario, Donzelli, Roma 2000, 2003] La carriera di Cesare Cases, scomparso ieri mattina, nella sua casa fiorentina, sommo germanista cui va stretta ogni qualifica specialistica ed ogni etichetta, comincia addirittura nel segno di Thomas Mann. Siamo nei primi anni '50, il giovane professore alla Scuola ebraica della sua citta', Milano, dove era nato nel 1920, ha gia' cominciato a collaborare con Einaudi, quando un'occasione redazionale lo mette in contatto con Mann, il quale scrive all'editore che quel suo collaboratore "padroneggia la lingua tedesca con perfezione umiliante". Uno scopritore di talenti come Einaudi non poteva lasciarsi sfuggire una segnalazione cosi' clamorosa, e arruolo' Cases in redazione, giovandosi per anni di una competenza e affidabilita' assolute, che si traducevano in una mostruosa capacita' di lavoro, alternata all'insegnamento universitario che lo porto' a Cagliari, Pavia e a Torino. Anni dopo Cases commentera' nelle sue gustose divagazioni autobiografiche pubblicate da Donzelli che "da Einaudi non sapevano che di Mann si diceva, come di Goethe, che l'esser lodato da lui equivaleva a un attestato di mediocrita'". Durante un viaggio in Germania, divento' amico di Italo Calvino. Ricordava: "Eravamo entrambi un po' avari, entrambi arrendevoli, scarsamente litigiosi, di facile contentatura". Basterebbe questo a dire lo humour leggendario di un uomo unico nel panorama culturale italiano del secondo Novecento, indispensabile agli amici come agli avversari. Era infatti ben lui a dire che molto si puo' imparare dai nemici. L'eleganza della sua imprevedibile scherma intellettuale era tale da strappare un sorriso d'ammirazione anche a chi non la pensava come lui. Se dovessi trovargli un interlocutore ideale, direi Voltaire. Cases ne avrebbe scelto sicuramente degli altri, magari Hoffmann o Novalis, ma insisto a dire che il suo charme cosi' arguto, intessuto d'autoironia prima ancora che d'ironia, era francese e illuminista, anche se fondato su una granitica padronanza dei testi, da Goethe a Marx, dallo stesso Mann a Musil, da Benjamin a Brecht, e naturalmente ai francofortesi, Horkheimer e Adorno, proprio loro che avevano indicato nell'Illuminismo la fonte prima di tante distorsioni operate in nome della ragione. In Cases non c'era mai il sogghigno cosi' fastidioso della superiorita' intellettuale. Sapeva troppe cose e aveva degli uomini una conoscenza cosi' precisa e disincantata per atteggiarsi a profeta o maestro, per non sapere che tutto si gioca su una fune sospesa sull'abisso. Mai allineato al gusto dominante, alle mode culturali, alle parole d'ordine, gli piaceva anzi giocare un ruolo ereticale del bastian contrario. Rifiutava invece quello dell'apocalittico, preferendo dirsi agnostico. Caso mai in tarda eta' si riconosceva qualche peccato d'ottimismo. Avvicinandosi il 2000, diceva di osservare con "allibito stupore" certi progetti di "progresso sostenibile", cari a Berlusconi come a D'Alema. Sentiva prossima l'estinzione della classe degli intellettuali, ma la registrava con una pacatezza quasi divertita. * "Non bisognera' odiare i tedeschi, dopo", aveva detto Leone Ginzburg poco prima di morire per mano dei nazisti. L'interesse di Cases per la germanistica nasce proprio dallo scatto di un bastian contrario. Traumatizzato dal fatto che proprio un Paese d'alta cultura avesse prodotto il mostro del nazismo, scelse la via piu' impervia: occuparsi della cultura che non aveva rispettato le attese e le speranze sue e dei suoi amici, e di cui lo affascinava la stretta commistione tra letteratura e filosofia. Costretto a rifugiarsi in Svizzera perche' ebreo, durante la guerra aveva studiato chimica a Losanna e a Zurigo. La' aveva imparato un tedesco "un po' libresco - diceva - perche' il tedesco autentico ha sempre una connotazione dialettale". Riteneva che gli errori e gli orrori della Germania fossero l'espressione di una crisi epocale che riguardava tutti, non soltanto i tedeschi. Proprio perche' avanzato, il Paese era diventato laboratorio di esperimenti mostruosi in cui venivano a galla vecchie tensioni, un'avanguardia di segno negativo che andava studiata, non demonizzata. Se la grande cultura tedesca era nata in piccoli centri come Weimar, il virus del nuovo potere stava annidato nel ventre di grandi citta' come Berlino, che guardavano con enorme interesse alla modernita' americana, e ne copiavano gli aspetti peggiori, diceva Cases, che riscontrava al di la' e al di qua dell'Atlantico le stesse solitudini, lo stesso disorientamento. Aveva cercato di utilizzare anche lui gli strumenti marxiani, ma lavorando anche sui dubbi, lo scetticismo di fondo. Una societa' senza classi e' certo un miraggio, e tuttavia resta "un'idea motrice che puo' dare le ali all'umanita'. Senza di essa rimangono soltanto rassegnazione e passivita'". Aveva portato in Italia Gyorgy Lukacs, il teorico di quel "realismo critico" che cercava di ricuperare la grande letteratura borghese in vista di un nuovo progetto sociale, il marxista che subiva il fascino di Thomas Mann e di Musil. Cases ne ammirava la fedelta', perfino ingenua, a se stesso e alle sue utopie. Ricordava: "Eravamo tutti, anche se non spudoratamente, dei seguaci di Lukacs, il quale diceva che il peggiore dei socialismi era comunque superiore al migliore dei capitalismi. Semplicemente vedevamo un'alternativa che in realta' non c'era. E non c'era perche' il comunismo era fondato sulla menzogna, tanto quanto la civilta' cristiano- borghese". Era capace di una serena equanimita' verso le sue passioni "giovanili". Per lui Adorno restava un grande, e Minima moralia, uno dei capolavori filosofici del Novecento. Anche Brecht, oggi dimenticato, gli sembrava grande scrittore e grande poeta, "nonostante i suoi limiti". Dei contemporanei salvava due austriaci, Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann. Non amava Grass, o la generazione degli anni Sessanta. Possiamo congedarci almeno provvisoriamente da Cases adottando quel che lui diceva di Paul Celan: un artista che era si' riuscito a rappresentare "il disastro in cui viviamo", ma aveva anche affermato il "nucleo solido" della poesia, la sua capacita' di resistenza, qualcosa cui ci si puo' aggrappare anche nei momenti di sconforto. A questo "nucleo solido" della grande letteratura come strumento di conoscenza etica Cases e' rimasto pacatamente fedele sino ai suoi ultimi giorni. 2. MEMORIA. GIULIO SCHIAVONI RICORDA CESARE CASES [Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 luglio 2005. Giulo Schiavoni, nato nel 1940, germanista e saggista, e' docente di letteratura tedesca all'Universita' del Piemonte Orientale a Vercelli; ha insegnato anche nelle universita' di Torino, Ferrara e Messina. Tra le opere di Giulio Schiavoni: Hermann Broch, La Nuova Italia, Firenze 1976; Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura, Sellerio, Palermo 1980; Guenter Grass, La Nuova Italia, Firenze 1980; Walter Benjamin. Il figlio della felicita', Einaudi, Torino 2001] Lo sapevamo ormai appartato, costretto a convivere con le difficolta' crescenti che gli imponeva la malattia. E ci rammaricavamo di non poter ormai contar piu' come un tempo sui suoi interventi: sulle sue uscite pubbliche, sulla ricchezza delle prospettive che ogni volta - in tono sia pure arguto, polemico o addirittura caustico - riusciva a dischiudere, e su quel dono dell'ironia che e' divenuto una dote sempre piu' rara nel mondo della critica letteraria e della letteratura militante, poiche' di fronte al conformismo imperante - diceva Cesare Cases - i critici non possono far finta di niente, ma devono piuttosto uscire dall'imperturbabilita' e tenere "l'indice puntato". Era una gioia poter veder ancora comparire - di tanto in tanto - il suo nome a fianco di qualche sia pure sporadica recensione. Giacche' non importava l'argomento: erano comunque interventi che ci davano l'idea di cosa si potesse intendere per vera critica; offrivano sempre spunti di riflessione, mantenevano aperte le questioni, le ragioni del vivere; ogni sua nota era anche un modo di tener desta e viva la memoria, di mantenersi (e di mantenere) guardinghi, in una disincantata fedelta' all'impegno civile, senza enfasi o trionfalismi soverchi. * Non a caso, con il passare degli anni Cases e' divenuto il testimone sempre piu' melanconico di un mondo frammentario. Il suo itinerario biografico e' sicuramente straordinario, e puo' essere letto come una silloge della cultura del dopoguerra. S'era formato, sui vent'anni, a Zurigo (per sfuggire alle persecuzioni razziali in quanto ebreo), a contatto con le opere di Lukacs e Lucien Goldmann, dunque in un clima tutt'altro che provinciale. E si era laureato a Milano con una tesi su Juenger (relatori Antonio Banfi ed Enzo Paci), riedita nel '97 dalla Nuova Italia: una tesi dedicata a uno scrittore allora (e tuttora) scomodo, che nel '42 Giaime Pintor aveva definito "forse il maggiore scrittore tedesco di oggi" considerandolo pero' incapace di dire alcunche' alla propria generazione (Cases ha ribadito nella premessa alla ristampa del lavoro che l'evoluzione ideologica del "suo" autore s'era arrestata all'immediato dopoguerra). Aveva poi optato per l'attivita' di saggista e di consulente editoriale dell'Einaudi, collaborando peraltro via via negli anni a importanti riviste quali "Societa'", "Passato e presente", "Il Contemporaneo", "Quaderni piacentini", "Mondo operaio", "Lo Spettatore Italiano", "Nuovi Argomenti", "L'Espresso" e "L'indice". A questa attivita' aveva affiancato quella di studioso di cultura tedesca apprezzato a livello internazionale, come professore di letteratura tedesca dapprima all'universita' di Cagliari e poi all'universita' di Torino. E proprio quale germanista aveva approfondito soprattutto autori del '700 tedesco come Lessing e Goethe e poi del '900, come specialmente Thomas Mann, Friedrich Duerrenmatt, Max Frisch e Bert Brecht (basta ricordare gli importanti volumi Note e saggi di letteratura tedesca, Einuadi 1963, oppure Thomas Mann, Studio Tesi 1983). Aveva inoltre contribuito decisamente a far conoscere in Italia autori come Theodor Adorno, Walter Benjamin, Peter Szondi e in particolare Georg Lukacs, il suo "maestro" riconosciuto, con il quale aveva avviato un decisivo carteggio (Su Luka'cs. Vicende di un'interpretazione, Einaudi 1985). In occasione dei suoi ottant'anni aveva rievocato in un libro-intervista curato da Luigi Forte (Memorie di un ottuagenario, Donzelli) i propri incontri con Lukacs e Adorno, Einaudi e Calvino, Contini e Gadda. * Cesare Cases prediligeva la forma frammentaria. Ne offrono una riprova in particolare la sua grande raccolta di "saggi e interventi" militanti sulla cultura del Novecento disseminati nell'arco di un trentennio intitolata Il testimone secondario (Einaudi, 1985) e la raccolta di "satire e polemiche" Il boom di Roscellino (Einaudi 1990). Per comprendere l'atteggiamento adottato da Cases e' giusto forse soffermarsi proprio sulla suggestiva e assai moderna prospettiva del "testimone secondario", secondo un'immagine inventata da lui stesso: quella in cui espressamente si poneva il marxista critico. Con un'umilta' che non rinunciava comunque a farsi polemica nei confronti dell'eccessiva fiducia nel ruolo degli intellettuali in vista della trasformazione del mondo, questa metafora intendeva salvare la funzione critica di chi "per caso" si trovi a passare in vicinanza di eventi giudicati importanti; essa mirava a valorizzare la funzione di chi "racconta poco e con fatica, quando i supertestimoni hanno gia' spopolato" e non rinuncia comunque a presentare alla collettivita' i pochi "granelli di verita'" che faticosamente e' riuscito a racimolare. E' la testimonianza di chi non pretendeva di aver visto "tutto" (e quindi di sapere tutto), ma sapeva far tesoro di molteplici e minuscoli indizi e sintomi. Questa testimonianza finiva per gettare persino un po' di scompiglio sia tra le file degli amici che tra quelle dei nemici. Cases ad esempio vi poneva in forse il concetto stesso di cultura, valorizzata quale esperienza, emozione, curiosita', godimento nell'universo storico dell'uomo avvilito dall'industria culturale. E del resto non si mostrava neppure supinamente legato alla lezione di Lukacs, a proposito della rivendicazione della "totalita'"; il problema non era tanto quello di "riprodurla" quanto piuttosto quello di ripristinarla: dinanzi alla disarmante frammentarieta' della vita, la totalita' - egli osservava - e' l'oggetto della nostalgia e dell'utopia; essa va fatta riemergere da sotto le incrostazioni del reale. D'altro canto per Cases era la stessa totalita' rappresentata dalla "forma" Partito a essersi ormai incrinata, e cio' obbligava a guardare con occhi disincantati le forme che la rappresentavano nei paesi del socialismo reale. La totalita' diveniva cosi' per lui l'oggetto della nostalgia e dell'utopia. Coloro che si poterono stringere attorno a Cases in occasione della lezione conclusiva da lui tenuta all'universita' di Torino (fra i tanti presenti, v'era anche il suo amico fraterno Franco Fortini) ricorderanno forse il momento in cui, dopo aver rivisitato i suoi temi germanistici piu' cari, egli seppe quasi spiazzarci tutti e sorprenderci con una gran virata sul tema che forse costituisce il cuore di tutte le sue ansie morali piu' profonde: quello dell'utopia, appunto: "E ora - egli concluse - auguro buona utopia a tutti!". E' proprio il tema dell'utopia - del resto - a farsi largo, risoluto e toccante, in un suo intervento - originariamente apparso sul "Manifesto" nell'agosto 1982 e ripreso nel Testimone secondario - a proposito di ebrei, sionismo e antisemitismo in Italia. In quella splendida retrospettiva storica dal titolo Che cosa fai in giro?, con una vena di malinconia Cases si spingeva sino all'oggi di un Israele che seminava strage a Beirut riconoscendo che gli ebrei non hanno "un rapporto semplice con il potere" e che, ebrei o no, in fondo siamo tutti superflui di fronte ad esso. Parole di un "ebreo non ebreo" (come una volta Cesare si defini') che vorremmo serbare nel nostro cuore e nel nostro operare. 3. MEMORIA. LORIS CAMPETTI RICORDA CESARE CASES [Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 luglio 2005. Loris Campetti, nato a Macerata nel 1948, e` laureato in chimica e ha lavorato come insegnante nella scuola; lavora come giornalista dal '78, per circa dieci anni ha diretto la redazione torinese del "Manifesto", attualmente e' responsabile delle pagine d'inchiesta e di storia dello stesso giornale] La prima volta che invitai a cena Cesare Cases riuscii a fare ben due figuracce. Come tanti, lo consideravo un maestro. Maestro di vita. Lo sapevo laico, ma in segno di rispetto per l'amico-maestro ebreo, curai di non preparare pietanze a base di maiale ne' mescolai carni con formaggi. Glielo dissi, quando arrivo': avevo allestito una cena a base di molluschi e crostacei. Con sguardo serio mi spiego' che crostacei e molluschi sono frutti proibiti, molto proibiti. Imbarazzato, gli chiesi: "E adesso?". Cesare esplose in una risata: "Adesso ce li mangiamo", e si mise a sgusciare sapientemente gamberi e cicale, capesante e vongole. Bella figura: scambiare Cases per un uomo che obbedisse ai precetti, lui, il piu' laico degli ebrei torinesi, forse non solo torinesi. Cesare Cases e' stato un uomo libero, creativo, curioso. Sapeva parlare, oltre che scrivere, e quando parlava incantava l'ascoltatore che non si sentiva intimorito dal suo sguardo intenso. Ha diretto magistralmente "L'Indice", secondo i molti che hanno lavorato con lui, perche' sapeva (e leggeva) tutto. Ma non basta saper tutto per dirigere bene, e' necessaria un'altra dote rara: la generosita', la generosita' intellettuale assoluta di chi trovava naturale mettere a disposizione il suo sapere. Cases diceva quel che pensava. Le sue critiche - e' stato anche un fustigatore della sinistra - pero' non offendevano perche' avevano per bersaglio i contenuti, non la persona, l'"altro". Anche se dure, le sue polemiche erano portate con ironia e autoironia, cioe' con leggerezza. Leggerezza e discrezione hanno dato autorevolezza alla sua vis polemica che ha avuto un'influenza importante nella cultura italiana. "Buona utopia a tutti": con queste parole aveva concluso nel maggio del 1990 la sua lectio magistralis su Schiller all'Universita' di Torino, in un'aula magna gremita all'inverosimile di amici e giovani studenti. Anticipando la domanda che forse i suoi studenti non si sarebbero neanche sognati di fare - ma che cos'e' questa utopia che ci augura? - Cases spiego', forse pensando alle parole di Montale (una sola cosa sappiamo, "quel che non siamo, quel che non vogliamo"): "E' solo in un orizzonte religioso che gli agnelli saranno adottati dalle tigri e dai cani, o forse anche attraverso qualche manipolazione genetica, ma questa e' proprio il tipo di utopia che non vogliamo". E allora? Allora "nemmeno Marx ha voluto precisare che cosa sia una societa' senza classi". Il presente da cui l'utopia aiuta a fuggire e' segnato dall'immanenza di Pluto, per intenderci dall'immanenza del capitalismo. L'utopia e' un viaggio oltre l'immanenza di Pluto e del "regno della moda". Cases era legato alla realta' e appassionatamente schierato contro le tendenze dominanti. Al tempo della caduta del muro di Berlino e dell'unificazione tedesca, la sua fu una delle poche voci critiche, cioe' dubbiose, fuori dal coro entusiastico globale. Cesare moderava gli entusiasmi anche legittimi, interrogandosi con qualche angoscia sul futuro della Germania, dove finche' ha potuto camminare si e' sempre recato per passeggiare nella solitudine dei boschi. Qualcuno critico' l'ebreo settentenne per il suo flash-back sulla "Grande Germania" e l'avversione alla "santificazione del dio mercato". Il dubbio era (e') un'eresia. Dunque, chi non si accontentava di gioire per la liberazione dal giogo stalinista e si arrovellava su futuro e utopia era pazzo. Peggio, stalinista. Sull'unificazione tedesca, il 3 ottobre del '90 Cases scrisse un lucidissimo editoriale sul "Manifesto" che iniziava cosi': "Per essere il piu' impopolare possibile bisognera' cominciare con il nazismo...". Il titolo era un inno al dubbio, cioe' alla ragione: "C'e' da aver paura?". Questo giornale e' orgoglioso di averlo avuto tra i suoi collaboratori. Un collaboratore speciale, un intellettuale vero a cui potevi chiedere un'opinione su tutto, dalla Fiat alla Palestina, dal Pci ad Adorno. Ce ne vorrebbero molti di collaboratori cosi'. 4. MASSIMO RAFFAELI RICORDA CESARE CASES [Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 luglio 2005. Massimo Raffaeli scrive di critica letteraria sul quotidiano "Il manifesto" e su vari periodici] Pare sia esistita una corrispondenza risalente alla meta' degli anni cinquanta in cui Thomas Mann, rivolgendosi al suo editore italiano Giulio Einaudi, gli chiedeva chi mai lo aiutasse a scrivere lettere in un tedesco cosi' superbo ed elegante da risultare offensivo per qualunque scrittore suo connazionale. Offensivo e' una parola ben lontana dalle qualita' umane di Cesare Cases ma davvero somiglia a lui il paradosso che la rende possibile. Semmai Cases poteva apparire un mite extraterrestre: rare volte si era visto infatti in Italia un accademico, anzi un fuoriclasse della germanistica, uno studioso di rigore inflessibile (sempre meticoloso nella disamina del testo: i carteggi con Franco Fortini e Sebastiano Timpanaro ci dicono che sapeva incalzarli e talvolta batterli sul loro terreno, fosse un'espressione latina o la scansione di un verso) ma che nel frattempo rimanesse un uomo libero, insofferente di ogni conformismo e gergo corporativo, un intellettuale militante capace di incarnare, sia pure depurato dal filisteismo che tanto avversava nei suoi tedeschi, l'antico motto umanistico per cui se un uomo e' un uomo allora deve interessargli tutto quanto si riferisca all'umano. Riconosceva di non avere mai scritto una dissertazione rotonda, puntellata di note e apparati, tanto meno di avere firmato una monografia "comme il faut", se si esclude la tesi di laurea su Ernst Juenger. Preferiva la forma-saggio che gli si attagliava esemplarmente e gli permetteva sia le larghe parentesi e le aperture magnanime (alla Lukacs, di cui resta il massimo studioso e interprete nel nostro paese) sia le ellissi e le punte epigrammatiche (alla Karl Kraus, altra luce della sua costellazione) il cui affondo pungente sapeva commemorare anche negli schemi parziali della saggistica, come il corsivo e l'aforisma, dove anche faceva scintillare il proprio stile. * Di suo Cases ci metteva una speciale ironia, vale a dire la capacita' di proteggere il ragionamento, specie al momento della vibrazione, nel giusto distacco dall'oggetto. Si trattava di un'ironia laica, primordiale, che solo di rado e a ragion veduta si inoltrava nel sarcasmo; e tuttavia, anche qui, il sarcasmo si temperava di buonumore e smaltiva la possibile offesa magari traducendo il greve fardello dell'erudizione in apologo e divertissement: Carlo Emilio Gadda, ad esempio, ha raramente avuto in settant'anni di bibliografia pagine che fossero, per lucidita' e pregnanza, all'altezza di quelle dedicate al Pasticciaccio ora raccolte in Patrie lettere (Einaudi 1987); eppure quelle pagine medesime ne erano la critica piu' acuminata, in forma di radicale e strepitosa eversione. Ha scritto a proposito un pari di Cases, e cioe' Pier Vincenzo Mengaldo, nei Profili di critici del Novecento (Bollati Boringhieri 1998): "Nulla sarebbe piu' ingiusto ed errato che prendere queste continue fuoriuscite nell'ironia come vacanze, autodifese o anche semplici sfiati... l'ironia ben altrimenti che essere un condimento o un divertito ornamento, e' connaturata alla nascita stessa del saggismo nell'accezione moderna, facendo tutt'uno - come gia' mostrava esemplarmente l'antesignano e archetipo Montaigne - con la sua origine scettica. Intridendo il saggio, l'ironia allude alla trascendenza inafferrabile della verita', e la addita con tanta piu' forza quanto piu' la scinde ambiguamente dai soggetti empirici e dalle occasioni che pretenderebbero di contenerla". * Restano i grandi contenitori della sua saggistica, volumi quali Il testimone secondario (1985), il gia' citato Patrie lettere, Il boom di Roscellino. Satire e polemiche (1990), tutti curati per Einaudi in maniera impeccabile da Luca Baranelli, primi di una serie che poi l'editore ha voluto interrompere senza motivo plausibile; e, insieme con un sapido libretto di memorie (Confessioni di un ottuagenario, Donzelli 2000), restano i ragionamenti con antichi e moderni compagni di via, dall'abate Galiani a Italo Calvino, da Primo Levi ai filosofi della Scuola di Francoforte. A loro chiedeva qualcosa che si asteneva, per orrore della retorica, dal nominare per esteso, e cioe' la verita', quella che esigeva da se stesso nell'atto dello scrivere e del rivolgersi a qualcuno, persuaso (con pochissimi altri, marxisti inclusi, nel secolo che ha gelidamente celebrato l'autonomia dell'arte) del fatto che la verita' della letteratura non sta affatto nel cerimoniale della letteratura ma sempre e comunque nell'esperienza dell'umano, nella parzialita' di ogni testimonianza che, in quanto tale, reclama la totalita' espressiva. Solo una volta Cesare Cases ha deciso di mostrare spazio e tempo da cui si originava la sua passione per la verita', nel racconto autobiografico Cosa fai in giro? (1978, ora in Il boom di Roscellino), centrato sulla vicenda delle leggi razziali, cinquanta pagine, quasi un breve romanzo di formazione, dove il nitore vitreo del ricordo serba tutto il pulsare dell'umanita' ferita, negata, vulnerata a morte. Forse lo hanno letto in pochi ma e' uno dei grandi racconti del nostro Novecento. 5. TESTI. CESARE CASES: LESSING IN ITALIA. CON VESPE [Dal sito www.vivariumnapoli.it riprendiamo il seguente articolo apparso come recensione del libro a cura di Lea Ritter Santini, Gotthold Ephraim Lessing e i suoi contemporanei in Italia ("Biblioteca Europea" 11, Vivarium, Napoli 1997, pp. XII + 189, lire 40.000) sul quotidiano "Il sole - 24 ore" del 13 aprile 1997, col titolo "Viaggio in Italia non solo tra vespe". Per un accostamento a Gotthold Ephraim Lessing cfr. Nicolao Merker, Introduzione a Lessing, Laterza, Roma-Bari 1991] I confronti sono sempre odiosi, Lessing viaggio' in Italia per otto mesi, dal maggio al dicembre 1775, come accompagnatore del principe Leopoldo di Braunschweig-Lueneburg, il figlio piu' giovane del duca di Woltenbuettel, uno degli innumerevoli principotti tedeschi del tempo di cui lo scrittore, passata la quarantina e abbandonate le velleita' d'indipendenza, si era ridotto a fare il bibliotecario del duca di Braunschweig-Wolfenbuettel. Giunto a Vienna (senza il permesso del padrone) nella speranza di incontrarvi la fidanzata Eva Konig, lo scrittore vi aveva invece incontrato il figlioletto del padrone stesso, e non gli era rimasto altro che trasformarsi da bibliotecario in precettore e cicerone ambulante. Non erano certo i presupposti migliori per un viaggio. Ma si trattava pur sempre di Lessing! E della bella Italia! Come mai la scintilla non scocco'? Perche' scoccasse non era nemmeno necessario interessarsi di belle arti o di letteratura latina e italiana (discipline in cui non si puo' mettere in dubbio la competenza di Lessing). Bastava per esempio essere massoni, come i due illustrl viaggiatori che giunsero a Napoli proprio pochi giorni dopo che Ferdinando di Borbone aveva messo la massoneria fuori legge. Allora la massonerla era di moda in Germania e in Austria, ma proprio per questo era osteggiata dal ministro Bernardo Tanucci, in odio alla regina Maria Carolina, figlia dell'imperatore e sorella di Maria Antonietta. Invece le poche pagine che il fratello di Lessing, Karl, pubblico' postume sotto il titolo "Diario del viaggio in Italia" contengono quasi soltanto elenchi di libri e menzioni di visite ad antiquari e dotti generici. Sembra quasi che il bibliotecario si sia detto: bibliotecario mi volevate e bibliotecario saro', anche davanti al piu' bel paesaggio italiano. Gli italiani gli resero pan per focaccia perche', nonostante la loro germanomania, di Lessing si occuparono poco fino alla seconda guerra mondiale (tra le eccezioni c'e' il bel "profilo" Formiggini scritto da Paolo Milano). La cultura di sinistra segno' la svolta. L'illuminismo torno' di moda, e ci mettemmo tutti come un sol uomo ad occuparci di Lessing, capintesta Paolo Chiarini che si sobbarco' la non lieve fatica di tradurre e commentare tutta la Drammaturgia d'Amburgo. Ma passate le sbornie ideologiche Lessing e' ora affidato alle mani sapienti di una comparatista di mestiere, Lea Ritter Santini, oscillante tra la sua patria Bologna e l'Universita' di Muenster, in Vestfalia, dove insegna germanistica e letterature comparate. I suoi saggi lessinghiani sono raccolti in un volume Lessing e le vespe. Il viaggio in Italia di un illuminista, (Bologna 1991). Per chi non lo sapesse, il titolo si riferisce a una famosa favola lessinghiana in cui i moderni italiani che si vantano di discendere dagli antichi romani vengono paragonati a vespe che uscendo dalla carogna di un cavallo esclamano: "Da quale nobile animale abbiamo tratto origine". Questi saggi sono strettamente connessi a un'esposizione organizzata dall'autrice a Napoli (presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) e a Wolfenbuettel (presso la Biblioteca Ducale di cui Lessing fu bibliotecario) e di cui sono usciti in entrambe le lingue cataloghi riccamente illustrati. Qui si trovano anche il testo e la prima traduzione italiana (a cura di Paola Barbon) del diario in questione. Sempre a Napoli si e' tenuto il simposio di cui il presente volume raccoglie gli atti, dovuti a studiosi stranieri e italiani (oltre a Paolo Chiarini e alla curatrice figurano parecchi studiosi del Settecento piemontese, cio' che non meraviglia, dato che Torino negli appunti di viaggio fa la parte del leone), e d'interesse spesso nient'affatto specialistico. * C'e' intanto da rispondere al quesito: perche' Lessing ha avuto cosi' poco da dire sull'Italia e sugli Italiani? Perche' le vespe rimanevano vespe? Ma quella delle vespe e' poco piu' di una battuta per prendere in giro la boria del dotti italiani, che allora doveva essere veramente insopportabile, finche' all'epoca del Leopardi dovettero riconoscere che i tedeschi la sapevano piu' lunga di loro sugli antichi romani. In realta' Lessing aveva la massima stima per i nuovi intellettuali italiani che non rientravano in quello schema, per esempio Baretti e Denina (che conobbe personalmente a Torino). Se avesse incontrato l'Alfieri, probabilmente si sarebbero piaciuti per analogia di carattere, nonostante le cattive esperienze del conte astigiano in Germania. Dopo tutto, poco prima di andare in Italia, Lessing aveva scritto un dramma antitirannico (o, come oggi si ritiene, diretto contro la pavidita' della borghesia tedesca), ambientato in uno staterello italiano e ispirato alla leggenda di Virginia, da cui di li' a poco l'Alfieri avrebbe tratto una delle sue piu' famose tragedie. Le analogie tra i due Paesi evidentemente non gli sfuggivano: entrambi rimasti legati al frazionamento feudale, entrambi in preda a principi magari non malvagi, ma rovinati dall'esercizio assoluto del potere, come l'immaginario principe di Guastalla escogitato da Lessing. Oltre a tutto, c'era anche un interesse politico che avvicinava alle vespe l'autore dell'Emilia Galotti. E se questa che ci e' rimasta non fosse che una scaletta parziale (cominciata a Torino, quando Lessing aveva gia' visitato due celebri sedi universitarie, Pavia e Bologna, nonche' Venezia), che Lessing intendeva rimaneggiare piu' tardi? Pressappoco come fece poi Goethe, che attese la bellezza di trent'anni prima di rimaneggiare e dare alle stampe nel suo Viaggio in Italia quanto aveva vissuto e annotato o descritto agli amici? Ma non abbiamo nessuna prova che ci fosse altro materiale scartato dal fratello Karl, e poi Lessing non era Goethe e non poteva passare tanto facilmente da un genere all'altro. Anzi c'e' chi pensa anche in questo volume che Lessing non potesse scrivere una relazione del viaggio in Italia senza infrangere il divieto da lui stesso decretato che proibisce la letteratura descrittiva. Nel Laocoonte egli aveva infatti rovesciato il detto oraziano "ut pictura poesis", mostrando con buoni argomenti come la differenza tra la poesia e le arti figurative consistesse nel fatto che queste descrivono stati, situazioni, mentre la poesia racconta delle azioni. La poesia narra, la pittura descrive, quindi erra chi fa della poesia descrittiva, e un poeta contemporaneo, Wieland, parla di un personaggio che entra in un bosco "che descriverei se Lessing non mi tirasse per le orecchie". Le sue tirate d'orecchi non hanno impedito a molti poeti di fare eccellenti descrizioni, ma non si puo' pretendere che proprio Lessing si mettesse a descrivere il cupolone del Brunelleschi o il Mose' di Michelangelo, emulando cosi' quel Winkelmann contro cui aveva sovente polemizzato; e di cui (come scrive a un amico) non voleva affatto "seguire le orme" andando in Italia, se non altro perche' costui si era servito dell'amicizia dei cardinali per disporre delle opere d'arte, fino a rinunciare al suo protestantesimo. Tutto sommato, la migliore supposizione e' quella di Lea Ritter Santini, che in un saggio intitolato Diario italiano oppure lettere sull'Italia ricorda che fra le traduzioni di Lessing rimaste inedite e poi andate perdute c'era un misterioso Schreiben ueber den Charakter der italiener, senza indicazione d'autore. Secondo le ricerche della nostra studiosa, l'autore di questo scritto, apparso in traduzione francese nella "Bibliotheque italique" di Ginevra sarebbe il conte bergamasco Pietro Calepio, ben noto per i suoi rapporti con gli svizzeri, e in particolare con Johann Jacob Bodmer, con il quale ebbe un carteggio sulla tragedia che interesso' anche Lessing. Questi avrebbe pensato si' a scrivere un libro sull'Italia, ma non del tipo del Viaggio in Italia goethiano, bensi' una descrizione degli "usi e costumi" degli italiani in forma di lettere, secondo l'esempio del Baretti, del conte Calepio, tradotto da Lessing, e del capostipite di tutta questa letteratura "comparativa" cioe' le Lettres sur les Anglois et les Francois del bernese Ludwig Beat von Muralt. Questa ipotesi, suffragata da alcuni riscontri puntuali, spiegherebbe meglio delle altre il carattere provvisorio e parziale degli appunti italiani. Il libro getta una luce anche in recessi meno problematici, ma dove non avremmo mai sperato aiuto da Lessing. Sappiamo che in Italia egli compro' un buon numero di libri da portare a Wolfenbuettel, ma chi e' andato poi a leggerli? Pochi eruditi che non si lasciano spaventare da titoli spesso ostici come i nomi degli autori. Per esempio Piano ovvero ricerche filosofiche sulle lingue di Diego Colao Agata. Chi era costui? Sembra un nome inventato. Invece e' esistito davvero e il libro succitato, apparso a Napoli nel 1774, e' ispirato alle teorie di Vico, anzi non fa mistero di essere spesso un'epitome di quel "sublime" pensatore. * Ora, sull'introduzione del Vico in Germania grava un'ombra di mistero che nemmeno un libro recentemente dedicato all'argomento e' riuscito a dissipare. La polemica del Vico contro il razionalismo cartesiano e le sua supposizione che le favole poetiche fossero il primo linguaggio dell'umanita' cosi' come quello dei bambini sembrano anticipare quanto i tedeschi andarono pensando in proposito a partire da Hamann. Il quale il 21 novembre 1777 scrive a un suo corrispondente di aver ricevuto da un suo amico di Mantova una copia della Scienza nuova. Dopo un mese esatto ne scrive anche a Herder. Ci siamo, dunque, penserebbe uno sprovveduto: Hamann si entusiasma per il Vico, trasmette il contagio a Herder e cosi' sorgono e prosperano in Germania la filosofia della storia e la filosofia del linguaggio. Senonche' nulla di questo e' vero. Perche' quel che scrive Hamann a Herder e' di essere deluso dal Vico in quanto sperava che fosse un fisiocrate, mentre invece aveva trovato un filologo. Insomma, non l'aveva letto, o non lo aveva letto con abbastanza attenzione; altrimenti si sarebbe accorto che quel filologo aveva molto da dirgli. Neanche di Goethe e di Hegel si hanno prove che avessero letto il pensatore napoletano. Neanche Lessing l'aveva letto; ma aveva letto Diego Colao Agata. Tanto gli basto' per essere quel mediatore che invano si era cercato in Hamann e in Herder. Mediatore di un mediatore, se si vuole, ma nessuno se ne sarebbe accorto se uno degli studiosi mobilitati da Lea Ritter Santini, Stefan Matuschek, non avesse letto (probabilmente per la prima volta dopo Lessing) il testo che egli stesso definisce con una litote "non molto noto" dell'Agata. Del resto sono altrettanto poco note le pagine lessinghiane che testimoniano di questo influsso, cioe' quelle pubblicate in appendice all'edizione da lui procurata degli scritti di un suo giovane amico, morto precocemente per suicidio, Karl Wilhelm Jerusalem. Qui non c'e' da chiedersi "chi era costui"? perche' tutti i lettori del Werther sanno che Goethe si ispiro' a q uesto personaggio per la seconda parte del suo celebre romanzo. Ora, due degli studi di Jerusalem concernevano la filosofia del linguaggio, di cui Lessing non si era finora occupato, ma su cui dichiara di aver discusso piu' volte con l'autore. La grande questione allora dibattuta era se il linguaggio fosse invenzione umana o fosse stato concesso da Dio all'uomo tutto in una volta con un miracolo. La posizione di Lessing nella postfazione a Jerusalem e' intermedia. "La lingua puo' essere stata insegnata al primo uomo: egli puo' esserci arrivato proprio come ancora adesso ci arrivano tutti i bambini. Se ci si domanda: attraverso cosa? Attraverso chi? Attraverso rapporti con creature superiori, attraverso la condiscendenza del Creatore stesso... Smettetela di pensare che quel rapporto, che perfino quella condiscendenza sia un miracolo, cio' che venne prodotto da quel miracolo non era miracolo, accadde invece tutto in maniera cosi' naturale come accade ancora quando i bambini coniano i vocaboli". Se questo non e' Vico, gli assomiglia come due gocce d'acqua. Il dio che l'illuminismo aveva fatto uscire dalla porta rientra dalla finestra come educatore del genere umano. Non basta. Siccome a Lessing stava molto piu' a cuore la filosofia della religione della filosofia del linguaggio, ecco che lo schema dell'origine del linguaggio diventa quello dei primi paragrafi dell'Educazione del genere umano, lo scritto composto nel 1776, poco dopo il ritorno dall'Italia, in cui si descrive il processo della civilta' come avviato dalla divinita', finche' l'uomo ne ha bisogno prima di acquisire la capacita' di autoeducarsi. Si era spesso, se non sempre, sospettata la difficolta' di scindere, secondo quanto vuole una certa tradizione nazionalistica, l'illuminismo di origine franco-inglese da un preteso irrazionalismo di marca prussiana, alleabile tutt'al piu' all'italiano Vico. Dimostrando che il pateracchio o inciucio italo-prussiano non passava attraverso i pretesi irrazionalisti Hamann e Herder, ma proprio attraverso il massimo esponente dell'illuminismo tedesco, rispetto al quale gia' Hegel (e proprio citandolo in un saggio sul carteggio di Hamann) attestava a Lessing di vivere "in ben altre profondita' dello spirito", questo volume da' un altro colpo alla pretesa di stabilire dei compartimenti stagni tra i grandi filoni del pensiero settecentesco. 6. MATERIALI. ANTONIO GNOLI INTERVISTA CESARE CASES IN OCCASIONE DEGLI OTTANT'ANNI (2000) [La seguente intervista e' apparsa sul quotidiano "La repubblica" del 30 gennaio 2000. Antonio Gnoli e' giornalista della pagina culturale del quotidiano "La Repubblica" e saggista; ha anche curato l'edizione italiana di testi di Alexandre Kojeve per Adelphi e di Carl Jacob Burckhardt per Bompiani. Opere di Antonio Gnoli: con Bruce Chatwin, La nostalgia dello spazio, Bompiani 2000] Il professor Cesare Cases, germanista illustre e polemista eccelso, compira' ottant'anni nel mese di marzo. E' l'occasione per tornare a incontrarlo. L'ultima volta che ci vedemmo fu a Torino, alcuni anni fa. Da qualche tempo vive in una zona bella di Firenze: una casa con giardino dalle parti di Forte Belvedere. Un enorme sanbernardo insieme a un altro cane malandato mi accolgono piu' incuriositi che sospettosi. Il professore incede con piccoli passettini. Veste con un completo grigio e ha l'aria impeccabile. La trovo bene, dico. "Se si soffermasse sui miei occhi non sarebbe cosi' sicuro o cosi' gentile. Li guardi, stanno perdendo la loro funzione", replica il professore. Dice tutto questo senza amarezza, semplicemente constatando il fatto. Chiedo se e' mai vissuto prima d'ora in questa citta'. "No, mai. Un periodo della mia vita sono stato a Pisa. Era la meta' degli anni Cinquanta, insegnavo in un liceo. Vita quieta e interessante". Interessante perche'? "Per le frequentazioni. Ci vedevamo spesso con Timpanaro,figura straordinaria e appartata. E poi Cantimori, un intellettuale che ha scritto cose di livello assoluto e che e' morto come un attore in palcoscenico, cadendo da una scala in mezzo a un mare di libri". Cosa le piaceva di lui? "Il suo contributo ai movimenti ereticali italiani e' fondamentale". Stimava anche i saggi del periodo fascista? "A parte che era un fascista di sinistra, devo dire che i suoi lavori sul pensiero di destra erano eccellenti. Su Juenger ad esempio ci intendemmo a meraviglia". Lei perche' si interesso' a Juenger? "Perche' dovendo preparare una tesi di laurea, pensai di farla su un autore che un po' conoscevo. Mi aveva favorevolmente colpito l'analisi juengeriana del lavoratore. Li', per vie totalmente diverse dal marxismo, passava una certa idea di ricostruzione del decadimento della borghesia". Solo questo la colpiva? "No, direi che e' interessante almeno fino a quando non si inventa la figura dell''anarca', roba che va bene in un supermercato per ricchi". Sento una vena polemica che riaffiora. Le piace ancora fare satira? "Mi piace a volte guardare nel fondo dell'ego forte". E cosa ci trova? "Molte cose ridicole". Ci dia una definizione di satira. "Una risposta gliel'avrei data volentieri vent'anni fa. Oggi mi lascia indifferente. Pensi a quante chiacchiere si sono fatte sui rapporti fra satira e ironia". Non ama piu' lavorare sui postulati? "E' un'impresa vana. Se si guarda oggi alle grandi costellazioni che si sono succedute nella seconda meta' del secolo - la fenomenologia, il marxismo, l'esistenzialismo, lo strutturalismo - si vedra' che e' restato ben poco. Anche se continuo a non considerarle dei fantasmi". In fondo in poco piu' di un ventennio, tra gli anni Settanta e Ottanta, e' stata fatta tabula rasa di molte cose. Il pensiero non entusiasma, l'azione e' stanca. Siamo allo sbando o no? "Non sono di questo parere. Credo che quella che un tempo si chiamava 'la battaglia delle idee' abbia ancora una sua importanza. Trovo deleterio un certo disfattismo ideologico che circola e deprecabile l'idea che non pensare sia meglio del pensare. Non le pare?". Io, se mi permette, trovo invece un po' curioso questo appello alla battaglia delle idee. "E perche'? Le rispondo da ebreo. Sa cosa ci distingue dagli altri? Il fatto che per noi il messia non e' ancora arrivato. La battaglia delle idee, per la quale ho ancora del tenero, ha senso proprio perche' si aspetta sempre il messia". Ma non ritiene che il cristianesimo ha le sue buone ragioni per non aspettare piu' il messia? "Comprendo cio' a cui allude. L'operazione di San Paolo che non per nulla era ebreo aveva una sua legittimita'. In fondo non puoi dire: sto aspettando il messia, e poi non vederlo mai arrivare. C'e' dunque una parte di ragione nel cristianesimo che si puo' capire meglio con l'idea di famiglia". In che senso? "Una volta un avvocato mi chiese perche' noi ebrei eravamo cosi' fissati con la famiglia. Dissi che era vero, bastava guardare alla vicenda di Kafka, alla sua fatica di staccarsi dalla famiglia. E poi aggiunsi che per un cristiano e' tutto piu' semplice, perche' c'e' un Dio che ha avuto un figlio. Mentre noi non abbiamo questo figlio, Dio incombe su di noi". Ma cos'e' meglio? "Dire come fa il cristianesimo che il messia e' giunto, comporta una menzogna fondamentale. C'e' quella bellissima parabola chassidica in cui un ebreo chiede a un altro ebreo se il messia e' arrivato. E quello dice: aspetta un momento che guardo. Poi apre la finestra, si affaccia e vede che la piazza e' vuota, nessuna manifestazione di tripudio, nessuna folla che esulta. Si rivolge all'amico e gli dice: non e' ancora arrivato, continuiamo ad aspettare". Come fa uno spirito laico a convivere con l'idea di promessa messianica? "Beh, non e' detto che uno spirito laico non coltivi una propria attesa, una propria utopia non necessariamente religiosa". Ma un'utopia ha qualcosa di religioso, implica una fede... "Piu' che una fede, direi una disperazione. Vede, noi siamo qui a parlare di attese, di aspettative. Ma i miei ottant'anni sono una bella eta' e francamente non ho piu' la forza di reagire in modo costruttivo al presente. E allora capita che ci si abbandoni a una speranza di cui si sa nel proprio cuore che non e' verosimile, ma che d'altra parte e' l'unica possibile. Fra tenere la finestra chiusa e aprirla, preferisco quest'ultimo gesto". La disperazione, a cui allude, apre a Dio? "Per me no. Pero' so che anche quando gridavo troppo forte che non credevo in Dio, ho sempre avuto l'opposizione del mio amico Fortini il quale in qualche modo credeva. Allora, se Dio esiste tanto meglio, ma non credo che esista. E se un messia arrivera' non sara' qualcuno inviato da Dio. So che questa affermazione mi mette per alcuni aspetti nei guai". Nei guai per il contrasto con le sue radici ebraiche? "No, gli ebrei atei sono un fenomeno frequente. L'ebraismo non comporta la credenza nella divinita', comporta solo la credenza nel possibile avvento del messia". Comporta, a volte, un sottile rapporto con la teologia. Pensi a Walter Benjamin.. "Si', ma le diro' che non ho mai avuto particolare simpatia per questo aspetto del pensiero di Benjamin, cosi' come del pensiero di Leo Strauss che per certi versi e' analogo. Non lo so. Ma per dirla in modo molto semplice, in me gioca l'esser nato e vissuto in Italia, un paese in cui non c'e' la religione. Machiavelli l'aveva detto: il popolo e' senza religione. E' scettico, e io credo di avere assimilato questo scetticismo". Trova che sia un bene o un male tutto questo? "Io l'ho sempre sentito come una benemerenza. Si puo' dire quello che si vuole degli italiani, ma credo che nonostante le forme di antisemitismo che ci sono state era difficile persuadere un italiano che l'ebreo e' un essere qualitativamente diverso da lui. E cio' depone a favore degli italiani". Si parla di scetticismo in un periodo in cui la religione e' in pieno rigoglio... "E' alla mentalita' che occorre guardare. E' il gusto della menzogna, del credere e del non credere, che salva gli italiani e li rende accettabili di fronte a un imperversare di fanatismi. Ho paura di elogiare un po' troppo il cattolicesimo, ma trovo interessante questo fenomeno religioso in cui il dovere e' soprattutto un fatto di pura esteriorita'". Chi trovava nell'esteriorita' del cattolicesimo una grande forza seduttiva era Carl Schmitt. "Ma lui trovava una grande forza anche nel nazismo!". Lei e' molto critico nei suoi riguardi. "Era un figlio di buona donna". Solo questo? "La prima volta che lessi qualcosa di Schmitt mi pare fu attraverso le traduzioni di Cantimori, poi cominciai a leggerlo in originale. E mi venne in mente che non sarebbe stata una cattiva idea di scrivere un libro e intitolarlo La messa dei Nibelunghi. Eravamo subito dopo la guerra e ricordo che proposi questa cosa a Laterza, il quale mi incoraggio' a portarla avanti. Il libro doveva essere costituito da una celebre triade: Juenger, Heidegger e Schmitt. Ma poi non ne feci piu' nulla". Ma lei cosa pensa di questa triade? "Ne penso male. Come triade preferisco Hegel, Marx e, perche' no?, Nietzsche che ha avuto grandi intuizioni". Pensare male di certi autori non ci esime dal considerare la loro forza. E' possibile imparare dal nemico? Mi riferisco a un articolo che lei scrisse alcuni anni fa. "Si', era un articolo su Benjamin il cui nemico era Klages. Penso che si possa imparare dal nemico, il nemico puo' vedere cose che io non vedo. Quindi, per fare un esempio, il crinale conservatore e anticapitalista che si e' prodotto in Germania negli anni Venti e Trenta lo considero ragionevolmente stimolante". E ormai acquisito anche dalla sinistra. Secondo lei esiste ancora una distinzione fra pensiero di destra e di sinistra? "Ci sono singoli pensatori la cui consistenza pero' francamente mi sfugge. Ma chiedersi oggi se esiste un pensiero di destra o di sinistra, mi pare impresa vana. Se non altro perche' dubito che ci sia un pensiero". Ma in passato la distinzione aveva un senso? "Non c'e' dubbio, e aggiungo che esistevano passaggi sotterranei da una sponda all'altra. Per esempio Bachofen e' alla radice sia del pensiero di destra, come quello di sinistra. Fu letto con profitto da Benjamin e dai nazisti come Baeumler". Parlando di sinistra, mi viene in mente che lei per un certo periodo e' stat o iscritto al Pci, e' cosi'? "Si', rimasi iscritto fino al 1959, poi ne uscii". Perche' non usci' con la grande crisi del 1956? "Perche' a quell'epoca studiavo in Germania Orientale. Vi arrivai una settimana prima della rivolta di Budapest e assistetti a tutto: al disgelo prima e poi al ricongelamento. L'ultima cosa che vidi come testimone fu la seduta del partito in cui si scomunico' Ernst Bloch". Che sensazione le dava stare nel partito comunista? "Per noi rappresentava una garanzia di potere, soprattutto intellettuale. Eravamo tutti, anche se non spudoratamente, dei seguaci di Lukacs, il quale diceva che il peggiore dei socialismi era comunque superiore al migliore dei capitalismi. Semplicemente vedevamo un'alternativa che in realta' non c'era. E non c'era perche' il comunismo era fondato sulla menzogna, tanto quanto la civilta' cristiano- borghese". Che ne e' di quella illusione? "Spazzata via". Quando ha avuto la sensazione o la certezza che la scena era cambiata? "Negli anni Ottanta. Ma per una ragione che le apparira' strana...". La dica. "Mi sono accorto che si parla sempre delle solite cose. Non si fa che pensare a tutto quello che e' accaduto nella prima meta' del Novecento. E' un continuo elaborare un lutto di qualcosa accaduto tanto tempo fa. Cosi' rispuntano le stesse facce: Benjamin, Lukacs, Marcuse, Adorno, Kraus e altri. Li si cucina in salse diverse. Un giorno li si stramaledice, un altro li si esalta". Parte di loro lei li ha anche conosciuti personalmente, frequentati. "Ma era normale, anche se oggi qualcuno si sorprende, poniamo, del fatto che qualche volta hai scambiato le tue opinioni con Adorno". Che impressione le fece quest'uomo? "Era di una intelligenza fuori dal comune. Piccolo, tondo, grasso, gli occhi vivissimi e parlava un tedesco meraviglioso". C'era in lui un lato femminile? "So che da giovane aveva avuto esperienze omosessuali. Si diceva di un suo rapporto con Krakauer. Ma femminile non mi e' mai sembrato". Alludevo a una specie di civetteria del suo pensiero. "Non lo so. So pero' che era molto pieno di se' e a pensarci bene ne aveva anche il diritto. Mi chiedo quale libro sia accostabile a Minima moralia, che io considero uno dei grandi capolavori filosofici del Novecento. Adorno e' stato un grande". Una grandezza diversa poniamo da quella di Lukacs. "In Lukacs agiva molto di piu' la tradizione. Lui aveva inventato il concetto di decadenza, credeva nel progresso filosofico. Cose rispetto alle quali Adorno era fortemente critico". E tutto questo ha ancora un senso oggi? "Diciamo un po' meno. Ma loro insieme ad altri sono stati i miei compagni di viaggio". Verso dove? "Oggi non e' piu' cosi' importante la meta, l'importante e' aver viaggiato. Anche se nei viaggi che ho intrapreso c'era sempre il problema dell'attesa". Torna la questione del messia... "Il mio coetaneo Wojtyla celebra grandi conciliazioni universali. Dipendera' dalla scarsa potenza dei miei occhi, ma non vedo prospettive imminenti. Se attesa c'e', sara' lunga ed estenuante". Intanto come passa le sue giornate? "Sto aspettando che maturi la cataratta. Ho un occhio ancora buono e gli oculisti mi assicurano che presto tornero' a vedere bene. Come passo le giornate? Leggendo con enorme fatica, e guardando ahime' la televisione. Questo mi da' l'idea della dissoluzione in cui stiamo precipitando". Auguri Professor Cases. "Anche a lei". ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 32 del 31 luglio 2005
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