[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Nonviolenza. Femminile plurale. 18
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 18
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 30 Jun 2005 13:26:19 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 18 del 30 giugno 2005 In questo numero: 1. Fondazione Alexander Langer Stiftung: Euromediterranea 2005 ricorda l'eccidio di Srebrenica 2. Il Premio Alexander Langer 1997 a Khalida Messaoudi 3. Il Premio Alexander Langer 1998 a Yolande Mukagasana e Jacqueline Mukansonera 4. Il Premio Alexander Langer 1999 a Ding Zilin e Jiang Peikun 5. Il Premio Alexander Langer 2000 a Natasa Kandic e Vjosa Dobruna 6. Il Premio Alexander Langer 2002 a Esperanza Martinez 7. Il premio Alexander Langer 2004 alla "Fundacja Pogranicze" 8. Il Premio Alexander Langer 2005 a Irfanka Pasagic 9. Intervista a Yolande Mukagasana: le ferite del silenzio (parte prima) 1. INIZIATIVE. FONDAZIONE ALEXANDER LANGER STIFTUNG: EUROMEDITERRANEA 2005 RICORDA L'ECCIDIO DI SREBRENICA [Dalla Fondazione Alexander Langer Stiftung (per contatti: e-mail: langer.foundation at tin.it, sito: www.alexanderlanger.org) riceviamo e diffondiamo. Nel sito e' possibile consultare il progamma completo di "Euromediterranea 2005"] Inizia giovedi' a Trento e venerdi' a Bolzano la parte di "Euromediterranea 2005" dedicata al decennale di Srebrenica. * "Dentro Srebrenica. Crimini internazionali: tra memoria, giustizia e verita'", Trento, giovedi' 30 giugno, ore 10,30, Facolta' di giurisprudenza. A dieci anni dall'eccidio di Srebrenica, molti dei maggiori responsabili dei crimini commessi in ex Jugoslavia sono ancora latitanti e spesso percepiti non come criminali ma come eroi della nazione. Il Tribunale penale internazionale dell'Aja, che nel dicembre scorso ha chiuso ufficialmente le incriminazioni ed entro il 2010 dovra' concludere tutti i processi in corso, gode dell'attenzione dell'opinione pubblica internazionale. Ma e' l'unica forma di giustizia possibile per i crimini internazionali? Ed e' davvero la piu' appropriata? L'incontro seminariale di Trento si propone di riflettere sulle varie forme e i vari livelli di giustizia possibili (nazionale o internazionale, retributiva o conciliativa). Interverranno diversi giuristi e rappresentanti della societa' civile impegnati da anni in favore della ricostruzione di un tessuto sociale in ex Jugoslavia: Irfanka Pasagic, Natasa Kandic, Vjosa Dobruna, Bartolomeo Costantini, Alessandro Gamberini, Francesco Palermo, Emanuela Fronza, Andrea Lollini, Giuseppe Ferrandi e Andrea Rossini. Il seminario viene realizzato grazie al supporto dell'assessorato all'emigrazione e alla solidarieta' internazionale della Provincia Autonoma di Trento, in collaborazione con Osservatorio sui Balcani, Forum trentino per la pace, Facolta' di giurisprudenza dell'Universita' di Trento e Museo storico in Trento. Una ricca raccolta di informazioni e riflessioni e' nel sito: www.osservatoriobalcani.org * Venerdi' primo luglio Freitag, Vecchio Municipio - Altes Rathaus unter den Lauben: - Ore 17: Cerimonia di consegna del premio Langer a Irfanka Pasagic, Srebrenica/Tuzla. Presiede/Vorsitz: Anna Bravo, Torino. Laudatio: Vjosa Dobruna, Natasa Kandic, Barbara Bertoncin ("Una ccitta'", Forli'). - Ore 18,30: Sessione I. Diskussionsrunde: L'Europa muore o rinasce a Sarajevo - Europa stirbt oder wird wiedergeboren in Sarajevo. Introducono/Einfuehrung: Irfanka Pasagic (Tuzlanska Amica), Massimo Cacciari (Sindaco di Venezia). Interventi/Beitraege: Natasa Kandic (Humanitarian Law Center Belgrado), Vjosa Dobruna (Presidente tv pubblica kossovara), Francesco Palermo (Universita' di Verona e Eurac Bz). Coordina/Moderation: Edi Rabini. 2. PROFILI. IL PREMIO ALEXANDER LANGER 1997 A KHALIDA MESSAOUDI [Dal sito www.alexanderlanger.org riportiamo le motivazioni dell'assegnazione del Premio Alexander Langer 1997 a Khalida Messaoudi] C'e' oggi una grande urgenza di mettere al centro dell'attenzione internazionale e degli uomini di buona volonta' quanto sta accadendo in Algeria, perche' i gravissimi attacchi cui e' sottoposta la societa' civile di questo paese, a noi cosi' vicino, non possono non interpellarci. Nell'assegnare il Premio Alexander Langer per il 1997 a Khalida Messaoudi, il Comitato di Garanzia dell'associazione Pro Europa non vuole solo sottolineare quanto di coraggioso questa donna ha gia' fatto, ma soprattutto quanto deve ancora fare, come democratica e come donna, per difendere e riaffermare in Algeria quei principi di liberta', di uguaglianza, di convivenza, di dignita', di tolleranza religiosa, di parita' fra i sessi che consideriamo universali e che gia' costituirono il patrimonio ideale di tante algerine e tanti algerini durante la lotta di liberazione anticoloniale. Khalida Messaoudi, 39 anni, protagonista storica dei movimenti per i diritti civili per le donne in Algeria, e' una figura di primo piano della resistenza democratica che lotta per non essere schiacciata fra l'integralismo islamico e il potere militare. Dal 1993 vive semiclandestina nel suo stesso paese perche' formalmente condannata a morte dagli integralisti islamici. Ha gia' subito due attentati dai quali e' miracolosamente sfuggita. Condivide questa sorte con altri concittadini, noti o anonimi, che lavorano per lo stesso progetto di societa' e ai quali i fautori di un progetto totalitario negano il diritto primordiale alla vita e all'impegno pubblico. Nel 1992 ha collaborato con il presidente algerino Boudiaf, assassinato nel giugno dello stesso anno in circostanze non ancora chiarite. E' una delle principali animatrici dell'associazione "Rachida"; co-fondatrice dell'associazione "S.O.S. Femmes en Detresse" e dirigente del partito "Rassemblement pour la Culture et la Democratie" (Rcd) nelle cui liste e' stata eletta in parlamento il 5 giugno 1997. Al centro del suo attuale impegno e' la campagna "un milione di firme" per emendare il Codice di famiglia in vigore dal 1984, in favore dei diritti civili delle donne algerine. Il Comitato di Garanzia auspica che il conferimento del Premio a Khalida Messaoudi sia solo l'inizio di un percorso di aiuto, attenzione, solidarieta' nei confronti delle donne e degli uomini che in Algeria si battono per quei principi che sono stati tra gli impegni fondamentali di Alexander Langer e oggi dell'associazione Pro Europa. Per il Comitato di Garanzia: Peter Kammerer (presidente), Birgit Daiber, Lisa Foa, Renzo Imbeni, Simonetta Nardin, Anna Segre, Gianni Sofri, Gianni Tamino, Massimo Tesei. 3. PROFILI. IL PREMIO ALEXANDER LANGER 1998 A YOLANDE MUKAGASANA E JACQUELINE MUKANSONERA [Dal sito www.alexangerlanger.org riportiamo le motivazioni dell'assegnazione del Premio internazionale "Alexander Langer" 1998 a Yolande Mukagasana e Jacqueline Mukansonera] Con l'assegnazione di questo premio alla memoria di Alexander Langer vogliamo innanzitutto segnalare un caso di solidarieta' e coraggio civile, avvenuto nel quadro di uno dei piu' tragici eventi di questo secolo: il massacro di 800.000 cittadini del Rwanda - in maggioranza di etnia tutsi, ma anche di molte persone di origine hutu - perpetrato nel corso di poche settimane a partire dal 7 aprile 1994. La tutsi Yolande Mukagasana e la hutu Jacqueline Mukansonera si conoscono appena, ma Jacqueline si assume il compito di salvare Yolande da una morte sicura a rischio della sua vita. Altri casi simili si sono certamente verificati nel Rwanda del 1994, cosi' come durante altri genocidi in altri paesi. Vogliamo segnalare questo episodio che Yolande racconta nel suo libro/testimonianza "La mort ne veut pas de moi" (ed. Fixot 1997), perche' dimostra che anche nelle situazioni piu' brutali ed estreme, esistano spazi per la responsabilita' e le iniziative individuali, e sia possibile perseguire valori come la tolleranza e la convivenza tra gli esseri umani. In particolare abbiamo voluto premiare in Yolande Mukagasana non solo la vittima di un genocidio in cui ha perso l'intera sua famiglia, ma anche il suo coraggio e la sua volonta' di sopravvivere per testimoniare la sua esperienza, affinche' eventi cosi' atroci non vengano abbandonati all'oblio, non possano ripetersi ed i responsabili non restino impuniti. E in Jacqueline Mukansonera non solo l'audacia, l'inventiva e la coerenza con cui e' riuscita a salvare Yolande, ma anche la discrezione e la modestia con cui e' ritornata al suo lavoro in associazioni cristiane nel Rwanda del dopo-genocidio. Vogliamo inoltre, attraverso il premio a queste due persone, ricordare il genocidio del 1994 in Rwanda perche' non venga archiviato, nella nostra memoria europea, come uno dei tanti eventi drammatici che si svolgono in aree considerate lontane e periferiche del nostro pianeta. Soltanto mezzo secolo fa, nel cuore dell'Europa, ebrei e cosiddetti "ariani" di Germania, Italia, Francia, Olanda, Ungheria e di molti altri paesi, si sono trovati in situazioni non dissimili da quelle dei tutsi e hutu del Rwanda e hanno dovuto affrontare analoghe scelte. E cosi', in questi ultimi anni, i croati, i bosniaci, i serbi e i kossovari, o, in un contesto diverso, gli stessi algerini. A Yolande e Jacqueline vogliamo dire che non vengono da un mondo esotico e lontano, ma che viviamo tutti una storia unitaria e indivisibile, e identico e' comunque il valore universale dei diritti umani. Vogliano inoltre, con questo premio, esprimere anche una nota polemica nei confronti dell'Europa e del mondo occidentale. Il genocidio del 1994 in Rwanda era da tempo annunciato ed esplicitamente programmato dal regime di Juvenal Habyarimana, con il quale molti paesi, in primo luogo la Francia, intrattenevano intensi rapporti di cooperazione anche militare. Le responsabilita' dell'Europa in Rwanda risalgono certo a tempi lontani, quando le potenze coloniali manipolavano ed esasperavano vere o presunte differenze etniche, sulla base di politiche note ma non abbastanza meditate se, ancora all'inizio di questo decennio, gli stessi paesi ex-coloniali sostenevano un regime razzista invece che proteggere le forze di opposizione, hutu e tutsi, che sono poi state vittime dei massacri. E se le stesse Nazioni Unite chiudevano gli occhi ritirando, nell'aprile 1994, i caschi blu presenti nel paese, togliendo cosi' di mezzo gli ultimi ostacoli all'avvio degli eccidi di massa. Auspichiamo che la recente storia del Rwanda, attraverso le testimonianze di Yolande e Jacqueline, possa essere raccolta e pensata non soltanto sotto l'aspetto dell'importanza delle scelte individuali, ma anche come un contributo per stabilire tra i paesi rapporti responsabili e ispirati ai valori riconosciuti negli atti costitutivi della comunita' internazionale... Per il Comitato di Garanzia: Peter Kammerer (presidente), Birgit Daiber, Lisa Foa, Renzo Imbeni, Simonetta Nardin, Anna Segre, Gianni Sofri, Gianni Tamino, Massimo Tesei. 4. PROFILI: IL PREMIO ALEXANDER LANGER 1999 A DING ZILIN E JIANG PEIKUN [Dal sito www.alexanderlanger.org riportiamo la motivazione dell'assegnazione del Premio internazionale "Alexander Langer" 1999 a Ding Zilin e Jiang Peikun] Ding Zilin, una signora cinese oggi alle soglie della sessantina (cosi' come suo marito Jiang Peikun), era fino a poco tempo fa una persona relativamente poco nota a livello internazionale - e soprattutto in Italia - a causa della natura silenziosa e sotterranea, poco "mediatica", della sua attivita'. Ma negli ultimi mesi, in corrispondenza con il crescente interesse per il decennale della Primavera di Pechino dell'89 e del massacro della Tienanmen del 4 giugno di quell'anno, si e' assistito a una vera e propria "scoperta" del personaggio, oggi considerato la figura piu' originale e piu' significativa del dissenso cinese. Ding Zilin e Jiang Peikun erano professori di filosofia all'Universita' del Popolo di Pechino, e membri del Partito comunista cinese. Avevano un unico figlio di diciassette anni, Jang Jelian, studente di liceo. Jelian partecipo' attivamente, nonostante le preoccupazioni dei genitori, al grande movimento della Primavera. La sera del 3 giugno usci' di casa, e verso le undici fu ucciso nei pressi della Piazza Tienanmen da un colpo di arma da fuoco sparato da un soldato. Fu una delle prime vittime di quella notte orrenda. Quante vittime, non si sa ancora: centinaia probabilmente (e migliaia i feriti), a Pechino e in altre grandi citta'. Per non parlare degli arresti e delle dure condanne - anche a morte - nei mesi e negli anni che seguirono. Molte di piu', le vittime - migliaia - secondo le organizzazioni per i diritti umani. Un numero irrisorio - e soprattutto tra i soldati! - nella versione ufficiale del governo, che ha sempre continuato a negare il massacro e ad attribuire i "disordini" ad un piccolo gruppo di "elementi controrivoluzionari". Dieci anni fa, poco tempo dopo aver perso il loro figlio, Ding Zilin e Jang Peikun decisero di dedicarsi a un'opera pietosa e tenace di ricostruzione di quanto era accaduto. Si proposero di stendere pazientemente un catalogo dei morti (nome, cognome, provenienza, modi e circostanze della morte), e un altro dei sopravvissuti piu' sfortunati, perche' mutilati e invalidi, e privi di aiuto. In quest'opera li aiutarono un certo numero di altri parenti di vittime, incontrati per caso o trovati con lunghe e tenaci indagini. Si tratto' - si tratta - di un'attivita' assai difficile. Innanzitutto per l'ostilita' immediata del governo, che non trovo' opportuno incarcerare Zilin (dato il prestigio che veniva conquistandosi), ma che sottopose periodicamente i due coniugi a lunghi periodi di arresti domiciliari e a pretestuose inchieste giudiziarie (anche in questo momento Zilin e suo marito sono agli arresti domiciliari). Inoltre, Ding Zilin perse il suo posto di insegnante e venne esclusa dal Partito (ufficialmente, per non aver rinnovato per tempo la tessera). Ma difficile era anche trovare le notizie, rintracciare le persone, convincerle a parlare. Occorreva infatti superare un muro di silenzio, costruito dall'umiliazione di un lutto negato, dalla paura di ritorsioni, dalla voglia di dimenticare. Cio' nonostante, poco per volta, Ding Zilin e' riuscita a ricostruire almeno parzialmente, e a rendere pubbliche, 155 storie di morti nel grande massacro, e alcune decine di storie di vivi che portano tuttora nella loro carne e nella loro sfortuna quotidiana il segno di quella notte. Cio' che ci ha colpito nella vicenda umana, etica e politica di Ding Zilin si potrebbe cosi' riassumere. In primo luogo, questa donna straordinaria rivendica il diritto alla memoria. Non si puo' dirlo meglio che con le sue stesse parole: "Una persona puo' fare molte scelte diverse: io ho scelto di documentare la morte". "Ho scavalcato montagne di cadaveri, e ho galleggiato sulle lacrime delle famiglie delle vittime". "La vita e' sacra. Ma anche la morte e' sacra... Come popolo cinese possiamo avere molti obiettivi e sogni da raggiungere, ma penso che dobbiamo porre una priorita' nello stabilire un sistema morale in cui una sconsiderata noncuranza per la vita umana sia lasciata alle nostre spalle. Penso che proprio questa sarebbe la mia risposta se qualcuno mi chiedesse perche' ho scelto di documentare la morte". "Non voglio che queste vittime siano morte di una morte anonima, in circostanze sconosciute". La ricerca di Ding Zilin e Jiang Peikun parte appunto da qui: dalla voglia di restituire alle vittime un volto e un nome, e anche - in qualche modo - un senso alla loro morte. Accanto a questo, un desiderio di cercare e dare conforto e solidarieta' a persone che - negato ufficialmente il massacro - non avevano neppure diritto al lutto. Non va dimenticato, fra l'altro, che Ding Zilin e Jiang Peikun hanno costruito una rete di aiuti a famiglie e a invalidi in gravi difficolta' economiche e privi di ogni tipo di assistenza. Sacerdotessa della memoria piu' che militante politica, non per questo Ding Zilin e' meno consapevole del suo collocarsi all'interno di una grande battaglia nonviolenta per la democrazia e i diritti umani in Cina. Di recente, a nome di un gruppo di famiglie delle vittime, Ding ha ufficialmente sporto denuncia contro i responsabili del massacro, chiedendo alle massime autorita' dello Stato che sia aperta un'inchiesta giudiziaria, e fatta giustizia. E non a caso il piu' celebre tra i dissidenti cinesi, Wei Jingsheng (ora forzatamente esule negli Stati Uniti), ha indicato in Ding Zilin la persona che meglio incarna la grande rottura tra regime e popolazione che il massacro della Tienanmen ha sancito. E nelle parole del direttore esecutivo di Human Rights in China (un'organizzazione di cui Ding fa parte dal 1993), "Ding Zilin e' l'attivista per i diritti umani piu' attiva e rispettata in Cina per il lavoro implacabile e coraggioso che ha svolto negli ultimi dieci anni in circostanze estremamente difficili e ostili". Il Premio Langer 1999 vuol quindi rendere omaggio innanzitutto al rispetto della vita: un valore del quale Ding Zilin e Jiang Peikun si sono fatti testimoni coraggiosi e infaticabili. Ma anche alla lotta per la democrazia, le liberta' civili e politiche, i diritti umani, in un contesto difficile come e' quello rappresentato non tanto dalle "culture" asiatiche quanto dai regimi politici che governano quella parte del mondo cosi' vasta e importante. Comitato di Garanzia dell'Associazione Pro Europa: Peter Kammerer (presidente), Birgit Daiber, Lisa Foa, Renzo Imbeni, Simonetta Nardin, Anna Segre, Gianni Sofri, Gianni Tamino, Massimo Tesei. 5. PROFILI. IL PREMIO ALEXANDER LANGER 2000 A NATASA KANDIC E VJOSA DOBRUNA [Dal sito www.alexanderlanger.org riportiamo la motivazione dell'assegnazione del Premio internazionale "Alexander Langer" 2000 a Natasa Kandic e Vjosa Dobruna] Il Comitato Scientifico e di Garanzia della Fondazione, composto da Renzo Imbeni (presidente), Bologna, deputato europeo, vice-presidente del Parlamento Europeo; Gianni Tamino (vice), Padova, biologo, docente universitario; Ursula Apitzsch, Frankfurt, docente e ricercatrice universitaria; Anna Bravo, Torino, storica, docente universitaria; Elis Deghenghi Olujiae, Pula/Pola, critica letteraria, docente universitaria; Sonia Filippazzi, Roma, giornalista, Segretariato Onu contro la desertificazione; Pinuccia Montanari, Reggio Emilia, giornalista, bibliotecaria dell'universita'; Margit Pieber, Wien, insegnante, giornalista; Alessandra Zendron, Bolzano, giornalista, consigliere Regione Trentino-Suedtirol, ha deciso di assegnare il premio 2000 a Natasa Kandic e Vjosa Dobruna, due donne di Belgrado e Pristina. Una menzione speciale verra' conferita al deputato russo Sergei Kovaljev per il suo impegno per la difesa dei diritti umani in Cecenia. In precedenza i premi erano andati nel 1997 a Khalida Messaoudi (Algeria), nel 1998 a Jolande Mukagasana e Jacqueline Mukansonera (Rwanda), nel 1999 a Ding Zilin e Jang Peikun (Cina). Con questo premio la Fondazione vuole ricordare Alexander Langer, il parlamentare europeo che ha deciso di morire il 5 luglio 1995 e incoraggiare persone che si battano per la convivenza tra i popoli, per la difesa di diritti universali e la tutela della natura. Natasa Kandic (1946), laureata in Sociologia nel 1972 presso l'Universita' di Belgrado, entra a far parte di quel gruppo di intellettuali che, gia' a partire dal 1990, si oppone attivamente alla linea politica repressiva delle autorita' serbe nei confronti delle minoranze democratiche e si impegna per la difesa dei diritti umani e per la difesa delle vittime di soprusi perpetrati nel nome della superiorita' etnica o nazionale. Nel 1992 fonda lo Humanitarian Law Center a Belgrado, di cui e' attualmente il Direttore Esecutivo. Inizia a recarsi con regolarita' anche in Kosova/o, dove oltre a raccogliere una documentazione sul campo, fornisce assistenza legale, ed altre forme di solidarieta'. Nel 1996 apre un ufficio dello Humanitarian Law Center anche a Pristina. Continua la sua attivita' nonostante le minacce e le limitazioni imposte dal regime di Belgrado, non fermandosi nemmeno dopo lo scoppio della guerra. Natasa Kandic, nel pieno dei bombardamenti Nato, si reca piu' volte in taxi a Pristina, per rendersi conto direttamente della situazione, rischiando la vita per portare in salvo qualche kosovaro. Fa sentire spesso la sua voce attraverso la stampa internazionale e grazie al lavoro d'inchiesta portato avanti con gli uffici dell'Humanitarian Law Center, ha potuto offrire un prezioso contributo alla creazione del tribunale dell'Aja e alle sue prime sentenze di condanna. Di recente ha ricevuto insieme a Veton Surroi, direttore del quotidiano di Pristina "Koha Ditore", il premio per la democrazia dal "National Endowment for Democracy" a Washington. Vjosa Dobruna (1955), pediatra di Pristina, partecipa dagli anni '90 alla resistenza nonviolenta ed alla disobbedienza civile sostenuta dal popolo kosovaro, contro la politica discriminatoria del regime di Milosevic. Perso il lavoro nel '92, come tutti i medici e i professori di lingua albanese, decide di dedicare la vita all'impegno a fianco delle donne e dei bambini kosovari. Ed e' cosi' che, grazie alla collaborazione di associazioni di donne di Bologna, da' vita a Pristina ad un "Centro per le donne e i bambini", che si impegna in particolare nel campo della salute e dell'istruzione. All'esplodere della guerra, nel marzo scorso, Vjosa Dobruna decide di trasformare il Centro, dotato di qualche attrezzatura, in un ospedale di fortuna. Viene improvvisamente catturata in punta di mitra, caricata a forza su un treno e condotta fino a Tetovo, in Macedonia. Nemmeno qui, nel campo profughi, si perde d'animo e riesce a continuare il suo lavoro con le donne e con i bambini, impegnandosi a mettere in piedi un Centro simile a quello di Pristina. Rientrata con i primi convogli di profughi alla fine della guerra, Vjosa Dobruna si impegna nella ricostruzione delle cose e delle relazioni tra le persone. Vuole che il Kosova/o vinca questa decisiva sfida e possa diventare veramente un paese per tutti quelli che vogliono viverci nel rispetto reciproco. Ha ricevuto di recente un incarico Onu volto proprio a favorire e promuovere il processo di riconciliazione nel suo paese (Co-Head of the Department of Democratic Governance and Civil Society of the Joint Administrative Structure of the United Nations Mission in Kosova). 6. PROFILI. IL PREMIO ALEXANDER LANGER 2002 A ESPERANZA MARTINEZ [Dal sito www.alexanderlanger.org riportiamo la motivazione dell'assegnazione del Premio internazionale "Alexander Langer" 2002 a Esperanza Martinez] Il Comitato scientifico e di Garanzia della Fondazione Alexander Langer, composto da Renzo Imbeni (presidente), Ursula Apitzsch, Anna Bravo, Elis Deghenghi Olujiae, Sonia Filippazzi, Pinuccia Montanari (relatrice), Margit Pieber, Gianni Tamino, Alessandra Zendron, ha deciso di attribuire il premio Internazionale "Alexander Langer" 2002 ad Esperanza Martinez, fondatrice in Ecuador dell'associazione "Accion Ecologica", sezione ecuadoriana di "Friends of the Earth", coordinatrice dell'Osservatorio socio-ambientale dell'Amazzonia, cofondatrice di Oil-watch, la rete internazionale sorta per difendere delicati ecosistemi e antichi diritti delle popolazioni indigene dai danni conseguenti alle attivita' petrolifere. Esperanza Martinez, 43 anni, madre di tre bambini, e' una biologa con specializzazione in sistemi di gestione dell'ambiente. Nata e cresciuta a Panama, vi ha effettuato gran parte degli studi. Al suo rientro in Ecuador ha deciso di mettere tutte le sue conoscenze ed energie al servizio della parte piu' indifesa della societa' e dell'ambiente. All'inizio degli anni '70 il governo del suo paese ha rilasciato ad alcune imprese multinazionali delle concessioni di ricerca ed estrazione petrolifera, in una vasta area amazzonica di oltre un milione di ettari, in uno dei territori piu' ricchi di specie animali e vegetali dell'intero pianeta. L'attivita' di estrazione del petrolio in ecosistemi cosi' delicati, produce un drastico peggioramento delle condizioni ambientali e di vita delle popolazioni indigene, mettendo in crisi un sapiente uso del territorio e delle sue risorse naturali, nonche' un consolidato sistema di relazioni sociali. Consapevole della complessita' degli interessi in gioco, Esperanza Martinez ha deciso di dare il suo sostegno ai gruppi di donne e di associazioni locali, contribuendo a tessere, con pazienza e tenacia, una rete di alleanze sempre piu' ampie che hanno coinvolto prima la conca amazzonica e poi un numero crescente di associazioni del Sud e del Nord del Mondo. E ha saputo c ollegare la richiesta di riconoscimento dei diritti violati e di moratoria delle attivita' petrolifere, che causano inquinamento e perdita di biodiversita', con quelli piu' generali dell'effetto serra e del cambiamento climatico, affrontati all'Assemblea Onu di Rio. Hanno cosi' potuto conoscersi, scambiarsi dirette esperienze, acquisire nuove competenze, rafforzarsi reciprocamente, numerosi gruppi di resistenza indigena per esempio in Venezuela (Amigrana), Colombia (Censat e Uwa), Peru' (Racimos de Ungurahui), Argentina (Mapuche), Tailandia (Kalayanamitra Council), Birmania (Eri), Nigeria (Era e Mosop), e Georgia. Ne sono nati, dal 1990, prima l'"Osservatorio socio-ambientale dell'Amazzonia", uno spazio di lavoro comune e di confronto tra organizzazioni ecologiste e sindacali, poi l'associazione "Accion Ecologica" con la sua campagna internazionale "Amazonia por la Vida". E nel 1996 la "Red de Resistencia a las Actividades Petroleras en los Tropicos - Oilwatch", di cui Esperanza Martinez ricopre ancora oggi il ruolo di coordinatrice e alla quale aderiscono, da 46 paesi diversi di Asia, Africa, America Latina, Europa, Usa e Australia, oltre 100 gruppi indigeni, ecologisti, religiosi, di difesa dei diritti umani. Nel maggio del 1995 Esperanza Martinez ha portato la sua testimonianza alla Conferenza di Venezia sulle "Donne per il diritto ad un ambiente sano e alla giustizia" a sostegno del progetto di istituzione di una Corte internazionale per l'ambiente presso le Nazioni Unite. Nel 1998 si e' impegnata con successo affinche' la nuova Costituzione dell'Ecuador riconoscesse il principio di precauzione, motore di tutta la politica ambientale, e il "diritto collettivo ad un ambiente non contaminato". Tra le opere informative e divulgative di cui e' stata coautrice vanno segnalati: "Amazonia por la Vida: Debate ecologico del problema petrolero en el Ecuador",1993; "Guia para enfrentar las actividades petroleras en territorios indigenas", 1994. Ha curato inoltre due volumi dedicati all'attivita' petrolifera nei paesi tropicali: "Oilwatch", 1996, e "Voces de Resistencia a la actividad petrolera en los Tropicos", 1997. Ha inoltre pubblicato numerosi articoli in Ecuador e in altri paesi su questo decisivo tema. Negli ultimi anni Esperanza Martinez si e' concentrata nella lotta contro l'espansione di un oleodotto che attraversa l'Ecuador da Est a Ovest, colpendo aree fragili e densamente popolate. Di recente ha partecipato all'occupazione nonviolenta del Ministero dell'Energia. L'impegno per l'affermazione del diritto ad un ambiente sano nel suo paese e' stato energico, ma sempre nonviolento nei metodi, svolto con passione e intelligenza, senza tregua, ma anche con allegria. Per il suo stile di lavoro e la sua coerenza, lo scrittore Jeo Kane l'ha definita "el corazon verde del Ecuador". E Nnimmo Bassy ha scritto di lei: "Esperanza e' una donna con delle convinzioni molto forti e profonde. Ha le caratteristiche di una rivoluzionaria. Ecco cio' che ti trasmette: convinzioni. Ti aiuta a camminare nell'oscurita'. Non importa quanto profonda, sapendo che ci sara' la luce alla fine del tunnel". Nell'anno dell'assemblea mondiale dell'Onu sullo "sviluppo sostenibile" che si terra' a Johannesburg nell'autunno 2002, a dieci anni dalla conferenza di Rio del 1992, molti paesi hanno adeguato le loro legislazioni nazionali alle Convenzioni internazionali avviate per proteggere il nostro limitato ambiente. In diversi paesi del mondo si registrano pero' piu' deforestazione, inquinamento, poverta', ingiustizie, negazione di diritti individuali e collettivi. Con questo riconoscimento ad Esperanza Martinez, il Comitato scientifico della Fondazione Alexander Langer vuole segnalare che i grandi eventi internazionali, cosi' caricati di aspettative, possono infine deludere se non vengono accompagnati da un diffuso impegno di individui e comunita', in direzione di una conversione ecologica profonda e socialmente desiderabile, che promuova, come ripeteva Alexander Langer, una vera "pace tra gli uomini e con la natura". 7. ESPERIENZE. IL PREMIO ALEXANDER LANGER 2004 ALLA "FUNDACJA POGRANICZE" [Dal sito www.alexanderlanger.org riportiamo la notizia dell'assegnazione del premio internazionale "Alexander Langer" 2004 alla "Fundacja Pogranicze" di Sejny, Polonia] Pogranicze, Grenzland, terra di confine, borderland. E' una fondazione sorta nel 1990 a Sejny, una cittadina di seimila abitanti situata nel nord-est della Polonia, nei pressi del confine con la Lituania, un crocevia di popoli, religioni e antiche tradizioni. E' stata creata da un piccolo gruppo di animatori culturali che aveva partecipato attivamente all'attivita' clandestina di Solidarnosc negli anni '80 e che, in questo luogo apparentemente periferico, ha avviato un lavoro minuto e paziente di ricostruzione delle memorie dimenticate o negate. Per questo la scelta di andare ad abitare, vincendo consolidati pregiudizi, nel quartiere ebraico della citta' distrutto (che raccoglieva prima della guerra il 30% della popolazione), di far rivivere - loro non ebrei - la vecchia sinagoga bianca, di ridare spazio alle tradizioni tzigane e di vecchi credenti ortodossi, di ricostruire le tracce di ormai piccole minoranze le cui propaggini arrivano in Bielorussia, Ucraina, Lituania e nella regione russa di Kaliningrad. Dopo un lungo lavoro di ricerca, insegnamento, formazione artistica, teatrale e musicale, Pogranicze e' divenuto negli anni un importante punto di riferimento, soprattutto in Europa Centrale e Orientale (ma anche Bosnia, Kossovo, Macedonia, Albania, Transilvania, Bukovina), per associazioni e istituzioni che si pongono il problema di contrastare ricorrenti tentazioni nazionaliste, razziste e antisemite o impegnate a favorire il dialogo interreligioso. Ne sono testimonianza e strumento il Centro di documentazione sulle arti culture nazioni, la Scuola europea, il Cafe' Europa in cui si incontrano e si confrontano artisti e intellettuali, il centro teatrale e la band di musica Klemzer arrivata alla terza generazione, una casa editrice e la rivista "Krasnogruda" che prende il nome da una vicina localita' in cui e' situata una casa di campagna loro donata dal premio Nobel per la letteratura 1980 Czeslaw Milosz, loro amico e padre spirituale, dove intendono costruire un centro internazionale per il dialogo tra le culture. Pogranicze mette al centro della sua attenzione il tema della frontiera, intorno alla quale ruota la storia della Polonia, invasa e spartita piu' volte, paese dai confini sempre mobili e incerti, spostati di alcune centinaia di km piu' a ovest dopo la seconda guerra mondiale, subendo i traumi di massicce migrazioni e reinsediamenti di popolazioni. Partiti o espulsi la maggior parte dei tedeschi a ovest, dei bielorussi e ucraini a est, trasferiti i polacchi dalle terre orientali della Polonia cedute all'Unione Sovietica verso quelle occidentali "riconquistate" dalla Germania, massacrati o dispersi la quasi totalita' degli ebrei, ne era risultato un paese di grande omogeneita' etnica, un fattore considerato in genere nelle cancellerie mondiali come portatore di pace e tranquillita'. Pogranicze ha voluto compiere il cammino inverso e si e' andata a installare proprio in una zona di frontiera, seguendo il principio che la coesistenza di diversi popoli, tradizioni e credenze religiose non rappresenta un problema o una difficolta', bensi' un potenziale occasione di arricchimento per tutti. Per ulteriori informazioni: sito: www.pogranicze.sejny.pl, e-mail: fundacja at pogranicze.sejny.pl Il Comitato scientifico e di garanzia della Fondazione Alexander Langer Stiftung che ha deciso dell'assegnazione del premio e' composto da Renzo Imbeni (presidente), Gianni Tamino (vicepresidente), Anna Bravo, Ursula Apitzsch, Patrizia Failli, Annamaria Gentili, Liliana Cori, Pinuccia Montanari, Margit Pieber, Alessandra Zendron. 8. PROFILI. IL PREMIO ALEXANDER LANGER 2005 A IRFANKA PASAGIC [Riproduciamo nuovamente un comunicato della Fondazione Alexander Langer Stiftung (e-mail: info at alexanderlanger.org, sito: www.alexanderlanger.org) che annuncia l''assegnazione del Premio internazionale "Alexander Langer" 2005 a Irfanka Pasagic] Il comitato scientifico della Fondazione Alexander Langer ha deciso di assegnare il premio Alexander Langer 2005 a Irfanka Pasagic. Irfanka Pasagic e' nata a Srebrenica nel 1953. Dopo aver studiato a Sarajevo e Zagabria, ottenendo la specializzazione in psichiatria, e' tornata a lavorare nella sua citta' natale. Nell'aprile del 1992, nel corso di una delle prime ondate di pulizie etniche, culminate nella strage genocidaria di Srebrenica, e' stata deportata, raggiungendo dopo varie traversie, insieme ad altre migliaia di profughi, la citta' bosniaca di Tuzla. La', nell'ambito della rete internazionale "Ponti di donne tra i confini", creata nel 1993 dalle donne di "Spazio pubblico" di Bologna assieme ad altre donne della ex Jugoslavia, ha fondato il centro "Tuzlanska Amica". Grazie a un progetto di adozione a distanza fatto proprio da associazioni che operano soprattutto in Emilia Romagna e Liguria, in questi dieci anni Tuzlanska Amica ha dato una famiglia a oltre 850 bambini, ed e' diventata ben presto uno dei pochi luoghi dove donne, bambini, uomini traumatizzati, possono ricevere aiuto psicologico, ma anche assistenza medica, sociale, legale. L'adozione a distanza non si limita alla raccolta e distribuzione di preziosi aiuti finanziari. Chi adotta riceve infatti un rapporto costante sullo stato di salute dei bambini e sul loro andamento scolastico e familiare, ed e' incoraggiato a visitarli a Tuzla o od ospitarli per periodi di vacanza, cura e ristoro. Grazie a un'organizzazione olandese, Mala Sirena, Irfanka Pasagic ha potuto mettere in atto quella che era stata un'altra intuizione importante: la creazione di un team mobile, per andare a cercare e assistere nelle campagne, tra gli oltre 250.000 profughi che vivono in condizioni molto precarie nel distretto di Tuzla e Srebrenica, i casi piu' difficili e nascosti, attivandosi dapprima con un aiuto di tipo umanitario, per poi verificare l'opportunita' di un intervento anche psicologico per i componenti piu' vulnerabili del nucleo familiare. Irfanka Pasagic partecipa inoltre alla rete "Promoting a Dialogue: Democracy Cannot Be Built with the Hands of Broken Souls", guidato da Yael Danieli, psicologa e "traumatologa" di New York, consulente per le Nazioni Unite, per cui ha effettuato viaggi di studio e lavoro in altri paesi, tra i quali il Ruanda. E' un progetto di dialogo interetnico teso a rompere quella "cospirazione del silenzio" che tanto contribuisce a perpetuare traumi e conflitti tra le generazioni. E' questo anche il senso della sua collaborazione con l'associazione "Women of Srebrenica" e con molte persone, come la belgradese Natasa Kandic e la kosovara Vjosa Dobruna, gia' premi Alexander Langer nel 2000, impegnate nella stessa direzione. Fin dall'inizio della sua esperienza di profuga, Irfanka Pasagic ha dimostrato grande sensibilita' e buon senso, nell'individuare forme adeguate di aiuto ai profughi. Ha dedicato costante attenzione al lavoro delle Ong (ad esempio battendosi affinche' nei progetti per le donne fossero inclusi anche i bambini, o denunciando la perdurante assenza di luoghi d'ascolto anche per gli uomini), scoraggiando qualsiasi discorso fondato su stereotipi e non lesinando critiche anche alla propria parte. E' infatti difficile sentirla parlare di "serbi", "croati", "bosniaci". Secondo Irfanka ciascuno deve rispondere delle proprie responsabilita' individuali. Nella sua lunga esperienza con le donne e i bambini traumatizzati ha ascoltato centinaia di storie terribili, eppure non c'e' mai rancore nelle sue parole, nemmeno quando parla di chi occupo' la sua casa: "Sicuramente profughi anch'essi", spiega. Ogni volta che qualcuno le chiede della situazione in Bosnia, Irfanka risponde: "vieni a vedere". Molto curiosa poi di conoscere le impressioni dei suoi ospiti o dei giovani volontari che offrono la loro collaborazione, instancabilmente disponibile a rispondere alle loro domande ed accogliere il disagio delle persone piu' sensibili. Con l'assegnazione di questo Premio la Fondazione Alexander Langer vuole contribuire ad una necessaria riflessione sulla strage genocidaria di Srebrenica e nello stesso tempo a ripercorrere i passi che avevano portato Alexander Langer ad adottare dieci anni fa le ragioni della citta' interetnica di Tuzla. Il premio verra' consegnato ad Irfanka Pasagic il prossimo primo luglio a Bolzano, nell'ambito della manifestazione internazionale "Euromedterranea". 9. MEMORIA. INTERVISTA A YOLANDE MUKAGASANA: LE FERITE DEL SILENZIO (PARTE PRIMA) [Dal sito www.alexanderlanger.org riportamo la seguente intervista a Yolande Mukagasana apparsa sulla rivista "Una citta'" (per contatti: piazza Dante 21, 47100 Forli', tel. 054321422, fax 054330421, e-mail: segreteria at unacitta.it), n. 116 dell'ottobre 2003] Il Rwanda, un paese pieno di assassini in liberta' che non riesce a uscire dal trauma di un genocidio premeditato e pianificato a tavolino, che vide la partecipazione di un numero enorme di ruandesi. La giustizia gacaca, che prevede sconti di pena per chi si pente e collabora, ma non rinuncia alla pena. Il senso di colpa incancellabile di tanti carnefici e il problema dei ragazzini assassini. Intervista a Yolande Mukagasana. Yolande Mukagasana, ruandese, ha ricevuto il Premio Alexander Langer 1998 assieme a Jacqueline Mukansonera. Ha pubblicato La morte non mi ha voluta, La Meridiana, Molfetta (Ba) 1998, N'aie pas peur de savoir, 1999 e, recentemente, Les blessures du silence, Actes sud 2002. Oggi vive in Belgio. * - "Una citta'": Sono passati nove anni dal genocidio. Cosa sta accadendo oggi in Rwanda? - Yolande Mukagasana: Oggi la comunita' internazionale tace sul genocidio in Rwanda. Anche i ruandesi tacciono, ma dietro il loro silenzio si nascondono delle profonde ferite. Dopo un genocidio non si ricomincia a vivere, si cerca di tirare avanti come si puo', ognuno con il peso della propria storia. Si parla di genocidio dei tutsi e di massacro degli hutu moderati, perche', se e' vero che il gruppo da colpire erano i tutsi, bisogna anche includere tutti coloro che non condividevano l'ideologia della soluzione finale, ordita dal regime totalitario di Habyarimana. Tutti questi morti, hutu e tutsi, sono il frutto di un'ideologia, un nazismo tropicale che, come l'altro, aveva enunciato e dettato le sue regole e la sua logica distruttiva. Cosi' in Rwanda non esistono oggi due campi diametralmente opposti, gli hutu genocidari ed i tutsi vittime. Nelle prigioni del Rwanda ho incontrato dei tutsi che riconoscono di aver partecipato al genocidio, e confessano di aver ucciso per far credere di essere hutu e, inversamente, ho incontrato un hutu, ex sindaco di Giti, che pur avendo ricevuto delle armi per uccidere, se ne e' servito invece per proteggere la popolazione. Infatti il comune di Giti e' l'unico in cui non e' avvenuto il genocidio. Il sindaco Edouard Sebushumba e' l'unica autorita' ruandese ad aver protetto la propria popolazione. Negare questa evidenza, mascherare un crimine contro l'umanita' in una guerra civile, tribale o interetnica, equivale a dimenticare che il genocidio e' stato accuratamente e politicamente preparato per circa mezzo secolo. Significa inoltre esporre l'umanita' al rischio di ripiombare nuovamente nell'orrore. Occorre invece analizzare il meccanismo ed il funzionamento di questo genocidio. In Rwanda ci sono criminali che hanno ordito, pianificato e eseguito il genocidio. Bisogna giudicarli. Anche i sopravvissuti hanno bisogno di verita', perche' si sentono colpevoli di non essere riusciti a salvare gli altri. Finche' non emergera' tutta la verita', questi infatti si sentiranno doppiamente vittime: da un lato vittime in quanto bersaglio premeditato del genocidio, dall'altro vittime di una logica riconciliatrice tendenzialmente assolutoria. I sopravvissuti al genocidio hanno bisogno di giustizia, affinche' venga restituita loro la dignita' di esseri umani. Ma anche i carnefici hanno bisogno di giustizia, per ricostruire se stessi e poi partecipare alla ricostruzione della societa' ruandese. Per quanto riguarda gli innocenti, infine, ogni sospetto deve essere fugato. La giustiz ia e' quindi l'unico mezzo per far rinascere la societa' ruandese. La giustizia e' inoltre necessaria per la memoria, per non dimenticare. I processi servono anche a ricostruire la storia del genocidio. * - "Una citta'": Il genocidio del Rwanda e' stato pensato e pianificato. Quando, a suo avviso, e' stata messa a punto la soluzione finale? - Yolande Mukagasana: Io credo che i preparativi siano stati predisposti all'inizio del 1993, in seguito all'offensiva del Fronte patriottico ruandese (Fpr), nel gennaio dello stesso anno. L'attacco delle truppe del Fpr, teso a rovesciare il regime totalitario di Habyarimana, e' stato utilizzato, da parte di alcuni, come alibi e giustificazione al genocidio del 1994. Secondo questa tesi, i tutsi addirittura sarebbero i responsabili del proprio genocidio. In realta' i preparativi veri e propri sono iniziati con la creazione, su impulso del presidente, delle giovani milizie nazionalistiche Interahamwe. Nel luglio dello stesso anno e' nata la radio Rtlm (Radio des milles collines). Si diceva che fosse una radio libera, ma in realta' aveva come obiettivo di incitare la popolazione all'odio etnico, gli hutu contro i tutsi. Tra un'emissione e l'altra trasmettevano anche ottima musica. Ricordo un cantautore che aveva composto delle "bellissime" canzoni anti-tutsi. Erano delle canzoni ben ritmate; anche i miei figli danzavano ascoltandole, nonostante incitassero allo sterminio dei tutsi. In ogni caso sono convinta che sia solo dopo il cessate il fuoco tra le truppe governative e l'Fpr (che era in procinto di occupare la capitale Kigali), che in sordina siano iniziati i preparativi per il genocidio. In realta', sin dal 1990, il regime aveva, in due o tre occasioni, lanciato delle piccole operazioni "genocidarie" (dei massacri in alcuni comuni del Rwanda), che avrebbero dovuto metterci sul chi vive. Nel 1992 i tutsi del Nord furono messi su dei camion e deportati verso il Sud-Est del Rwanda, un luogo arido, inospitale e malsano. Le persone deportate dovettero sistemarsi in un villaggio che si chiama Nyamata. Nessuno era autorizzato a lasciare il villaggio e, per recarsi a Kigali, occorreva chiedere un permesso speciale. Si racconta anche che gli aerei delle Nazioni Unite passassero sopra il villaggio spruzzando insetticidi. Il dossier riguardante il villaggio Nyamata infatti era gia' al vaglio dell'Onu e doveva prevedere, nell'immediato futuro, lo sgombero e il rientro delle famiglie deportate nei loro rispettivi villaggi di origine. Gli abitanti di Nyamata non solo non sono mai rientrati, ma sono stati tutti sterminati la' dove erano stati deportati. E' da questa esperienza che e' nato il detto: "Ti ho aspettato, come ho aspettato l'Onu". Di questa tragedia se ne parla solo oggi ed e' ancora oggetto di studio, perche', per fortuna, e' rimasto qualche sopravvissuto in grado di testimoniare e raccontare. Per esempio, nel mio ultimo libro, Les Blessures du silence, e' proprio un sopravvissuto di Nyamata, Gregoire, a tracciare la storia delle persecuzioni e deportazioni dal 1958 al 1994. Io tengo molto a Gregoire, e' un sopravvissuto a tutti i pogrom contro i tutsi. * - "Una citta'": Prima del genocidio del 1994 lei era a conoscenza di queste persecuzioni e deportazioni? - Yolande Mukagasana: Io sapevo qualcosa, perche' alcuni miei parenti erano stati deportati e sterminati negli anni '60. Sapevo perche' avevo una zia che me lo aveva raccontato. Comunque Gregoire mi ha riferito avvenimenti e dettagli che ignoravo completamente. * - "Una citta'": Quando si e' resa conto che si trattava di un vero e proprio genocidio? - Yolande Mukagasana: Me ne sono resa conto immediatamente, la sera del 6 aprile 1994. Durante la giornata ero stata costantemente occupata a curare i malati, ma la sera, non appena ho saputo che l'aereo del presidente Habyarimana era stato abbattuto, ci siamo detti che il genocidio stava per iniziare. Sapevo che i miei vicini di casa avevano appena ricevuto delle armi, che c'erano state delle riunioni e che erano state scavate delle fosse nei terreni degli estremisti hutu. Noi queste cose le sapevamo grazie alle informazioni dei nostri amici hutu, che continuavano a dirci: "Ma perche' non fuggite? Stanno preparando il genocidio". Ma noi credevamo di essere al sicuro, grazie alla presenza, a Kigali, delle truppe dell'Onu. Pensavamo che ci sarebbe stato qualche massacro, come nel passato, ma mai avremmo immaginato che si arrivasse ad uccidere vecchi, donne e bambini. Invece, la sera del 6 aprile, quando abbiamo tentato di fuggire da Kigali, abbiamo visto la gente che veniva uccisa davanti ai nostri occhi. Allora abbiamo capito che si trattava di un vero e proprio genocidio. Ma ormai era troppo tardi, eravamo in trappola. * - "Una citta'": Quante persone, secondo lei, hanno partecipato al genocidio? - Yolande Mukagasana: Per uccidere un milione di persone all'arma bianca, ci sono volute tantissime persone. Oggi, si calcola che siano circa un milione quelli che, a livelli diversi, con responsabilita' diverse e crimini diversi, hanno partecipato attivamente al genocidio. Non tutti i colpevoli sono stati arrestati e, secondo un'inchiesta, per quanto riguarda la sola provincia di Kigali, sembra che ci siano circa 250.000 assassini in liberta'. D'altro canto sono state arrestate un numero considerevole di persone e la giustizia ruandese, per favorire la riconciliazione nazionale, ha predisposto degli sconti di pena: una specie di "legge sui pentiti". Questo sistema e' stato chiamato giustizia gacaca. Attraverso la giustizia gacaca, tutti i rei confessi, nella misura dei crimini che hanno commesso, possono ottenere degli sconti di pena, essere in qualche modo riabilitati e quindi messi in grado di portare riparazioni. Per coloro che si sono macchiati di crimini molto gravi, naturalmente la giustizia gacaca non puo' essere applicata. Tuttavia c'e' da notare un fatto curioso, e cioe' che diversi rei confessi preferiscono rimanere in carcere piuttosto che essere rilasciati e rientrare nella loro comunita'. C'e' addirittura chi, dopo essere stato rilasciato, e' rientrato di sua spontanea volonta' in prigione. Queste persone hanno paura. Devo dire che, attraverso le mie interviste, con sorpresa ho notato che, in alcuni casi, i carnefici soffrono piu' delle vittime. La loro sofferenza, in questi casi, e' irreparabile. A differenza di una vittima, non potranno mai trovare conforto. Tuttavia, il problema principale resta evidentemente quello delle migliaia di colpevoli in liberta'. Il Rwanda e' un paese pieno di assassini. Durante il genocidio, tra l'altro, io li ho visti con i miei occhi. Dopo il genocidio era difficile sapere chi non avesse ucciso. Tutta la popolazione, purtroppo, e' stata coinvolta, anche i bambini: ognuno aveva l'obbligo di denunciare, se non addirittura di ammazzare. Francamente non so come si riuscira' a rendere giustizia. Se potessi dare un consiglio, io punirei innanzitutto tutti i responsabili politici e militari, dal semplice soldato al generale, dal sindaco del piu' piccolo comune al ministro plenipotenziario: insomma tutti coloro che, in quel momento, rappresentavano le autorita' politiche. Inoltre punirei tutti coloro che si sono distinti, macchiandosi di crimini inimmaginabili. Cercherei poi di prevedere delle riparazioni per i sopravvissuti; tutti gli altri li lascerei liberi, perche' e' difficile riuscire a fare completamente giustizia. Per quello che ho visto io, davvero non so chi non abbia commesso crimini: forse qualche disabile, qualche bambino o qualcuno che si trovava in ospedale, ma in gravi condizioni. Perche', purtroppo, anche in ospedale sono stati commessi dei crimini. C'e' da aggiungere che le persone venivano incitate al crimine, sotto la copertura dello Stato, nel senso che veniva garantita loro l'impunita'. I militari dicevano: "Uccideteli, saccheggiate le loro case, prendete i loro beni, tanto non rimarra' nessun erede per reclamare qualcosa". La questione dell'impunita' e' molto seria perche' nei precedenti massacri, nel 1959, 1962, 1963, 1967, 1973, 1992, i responsabili sono sempre rimasti impuniti, anzi, ne hanno anche tratto vantaggio. Questa e' la prima volta, in effetti, che i crimini vengono perseguiti e si cerca di fare giustizia, anche se e' estremamente complicato. * - "Una citta'": La giustizia gacaca e' una specie di compromesso sulla via della riconciliazione. Sta dando dei buoni risultati? - Yolande Mukagasana: La giustizia gacaca si fonda sulla collaborazione tra la popolazione, vittime e carnefici, ma anche tra gli stessi carnefici. Non essendoci il piu' delle volte delle prove documentate e neutrali, questa giustizia si basa essenzialmente su quelle testimonianze che, incrociandosi, risultino attendibili. Ci sono per esempio dei prigionieri rei confessi che accusano altre persone, provvisoriamente in liberta', che hanno partecipato allo stesso crimine e che sono stati visti commetterne altri. La giustizia gacaca funziona nei comuni, nelle colline dove sono rimasti dei sopravvissuti e dove la popolazione e' disposta a collaborare. La collaborazione e' dunque una conditio sine qua non. La legge punisce severamente chi si rifiuta di collaborare, tuttavia ci sono zone in cui il genocidio si e' consumato al cento per cento e quindi, in assenza di sopravvissuti tutsi, la popolazione si rifiuta categoricamente di collaborare. In questi casi ci si trova di fronte ad un muro agghiacciante di omerta', che rischia di favorire ancora una volta la totale impunita' dei crimini commessi. Ci sono pero' anche cittadini ruandesi hutu che, disgustati di fronte a quello che e' avvenuto davanti ai loro occhi, oggi cominciano a denunciare i colpevoli. (Parte prima - Segue) ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 18 del 30 giugno 2005
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 977
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 977
- Indice: