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La nonviolenza e' in cammino. 974
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 974
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 27 Jun 2005 00:15:43 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 974 del 27 giugno 2005 Sommario di questo numero: 1. Marina Forti: La lunga marcia delle donne iraniane 2. Bruna Peyrot: L'esperienza e l'elaborazione del "Partito dei lavoratori" (Pt) brasiliano (parte seconda) 3. Martin Luther King: Oltre il Vietnam 4. Con "Qualevita", la lezione di Francuccio Gesualdi 5. Letture: Daniela Padoan, Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. MONDO. MARINA FORTI: LA LUNGA MARCIA DELLE DONNE IRANIANE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 giugno 2005. Marina Forti, giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione, scrive per il quotidiano "Il manifesto" sempre acuti articoli e reportages sui temi dell'ecologia globale e delle lotte delle persone e dei popoli del sud del mondo per sopravvivere e far sopravvivere il mondo e l'umanita' intera. Opere di Marina Forti: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004] Fuori non c'e' scritto nulla, neppure un nome su un campanello. Dentro il cancelletto pochi scalini portano a un appartamentino seminterrato, affacciato su un minuscolo giardinetto. Scaffali lungo tutte le pareti, tavoli di legno chiaro, due computer. Siamo nella "Biblioteca delle donne", prima biblioteca e centro di documentazione femminista in Iran, e ci accoglie Mansoureh Shojai - che per dedicarsi a questo progetto si e' pensionata dalla Biblioteca nazionale dove ha lavorato tanti anni. Per spiegare la genesi della Biblioteca in effetti Mansoureh parla di un 8 marzo, anno 2000, quando un gruppetto di donne come lei si e' trovato alla libreria BookCity di Tehran. Era la prima volta che cercavano di segnare la festa di lotta delle donne in modo pubblico ("Nella repubblica islamica la 'giornata della donna' e' piuttosto l'anniversario della nascita di Zahra, la figlia del Profeta", spiega). Loro invece parlavano di diritti delle donne, di un diritto di famiglia che le rende cittadine di seconda classe, di violenza domestica. C'erano delle giornaliste tra loro, delle editrici, giuriste, nomi noti e meno noti, attiviste per i diritti umani, ed era un momento di scontro durissimo in Iran tra un governo riformista e un sistema politico che resiste a ogni cambiamento. Infatti di li' a poco due di loro, l'editrice Shahla Lahiji e l'avvocata Mehranguiz Kar, sono state arrestate: erano parte di un gruppo di intellettuali che aveva partecipato a una conferenza a Berlino, su invito dall'Istituto Heinrich Boell, sul futuro delle riforme politiche e sociali in Iran. Quella conferenza (era l'aprile 2000) restera' famosa perche' molti dei partecipanti iraniani al ritorno sono stati sbattuti a Evin, il carcere di Tehran (Lahiji e Kar sono state processate dapprima a porte chiuse, poi dopo la protesta dell'avvocato difensore Shirin Ebadi con un processo aperto, e condannate per attentato alla sicurezza dello stato e propaganda contro il sistema islamico). * Insomma, sono passati due anni prima che queste donne osassero tenere una manifestazione pubblica, l'8 marzo del 2003. Nel frattempo pero', spiega Shojai, avevano deciso di registrarsi legalmente come ong, organizzazione non governativa, per poter tenere delle attivita' pubbliche: si sono date il nome Markaz-e Farhanghi-e Zanan, "Centro culturale delle donne". Nel 2002 hanno lanciato una campagna contro la violenza sulle donne. "Il nostro obiettivo di fondo e' lavorare per alzare il livello di consapevolezza dele donne, e far entrare le rivendicazioni delle donne nelle questioni sociali piu' ampie". Il Centro culturale ha formato diversi gruppi - uno si occupa del sito web, www.iftribune.com (cliccare su "about us", ci sono delle pagine in inglese). Un altro organizza seminari - molte di loro in effetti girano in tutto il paese a incontrare gruppi femminili: discutono problemi legati allo statuto legale delle donne, o alla salute. Hanno lavorato a Bam, la citta' terremotata dove la ricostruzione non e' ancora decollata e molte donne devono mandare avanti le loro famiglie e le loro vite in campi profughi assai precari. Sono andate tra le donne afghane (migliaia di afghani restano in Iran come rifugiati), hanno organizzato seminari sulla prostituzione o sulla violenza domestica. Un gruppo si e' dedicato alla Biblioteca. Non e' stato facile, dice Mansoureh Shojai. Il progetto risale al marzo 2003 ma la biblioteca che ora vediamo e' stata aperta solo nel marzo di quest'anno, dopo mille difficolta' - una e' stata raccogliere fondi. "Una biblioteca delle donne e' una scuola di consapevolezza", pensa Shojai. Racconta di un concerto organizzato per raccogliere fondi per la biblioteca, ma poco dopo c'e' stato il terremoto a Bam e hanno usato la meta' del ricavato per gli aiuti. Hanno rifiutato sovvenzioni internazionali, perche' ricevere fondi dall'estero puo' mettere in una posizione difficile verso le autorita' e indurre sospetti ("fare un lavoro intellettuale in un paese come il nostro comporta problemi complicati"). Insomma, si reggono su piccoli contributi privati, e sul contributo delle lettrici che usano la biblioteca. La Biblioteca delle donne ha diversi progetti d'espansione. Uno e' un premio letterario, intitolato a una scrittrice e attivista iraniana dell'inizio del secolo, una di quelle donne che ha ispirato generazioni di femministe iraniane: Sedigheh Dulat-Abadi, 1882-1961, il cui bel volto incorniciato da capelli grigi guarda da un poster affisso sull'unico segmento di parete qui che non sia occupato da libri. "Poi vogliamo fare una biblioteca mobile, per portare i libri nelle zone piu' modeste del paese, dove molte donne e ragazze leggerebbero se ne avessero l'occasione". Mansoureh Shojai la chiama "biblioteca a piedi scalzi" e spiega che e' un suo chiodo fisso gia' da qualche anno. "Il primo tentativo lo abbiamo fatto nei campi profughi afghani nella provincia di Mashad (nell'Iran nord-orientale, ndr). Ci sono alcune attiviste afghane molto brave a coordinare quei campi, ne avevamo parlato. Non sapevamo come portare i libri pero', e come prima cosa ne abbiamo portati un po' semplicemente negli zaini, poi li abbiamo distribuiti tramite i volontari afghani". La Biblioteca a piedi scalzi e in zaino... "L'Unicef ha apprezzato l'idea, ora potremmo espanderla col loro aiuto in altre province del paese". "Nelle nostre vite quotidiane e nell'azione sociale lottiamo contro la discriminazione e contro le tradizioni patriarcali", si legge nel sito del Centro culturale delle donne. E' quello che dicevano in effetti le coraggiose che domenica 12 giugno si sono radunate davanti all'Universita' di Tehran, intenzionate a mettere nella campagna elettorale anche la richiesta di modificare la Costituzione nei punti che discriminano le donne. In quella manifestazione alcune attiviste si erano alternate al megafono per leggere una lista di rivendicazioni, riassunte nella parita' di diritti di fronte alla legge: "Chiediamo uguali diritti in modo che gli strumenti legali ci diano il potere di fermare i matrimoni forzati, garantire alle madri la custodia dei loro figli, prevenire la poligamia ufficiale e non ufficiale e garantire la parita' nel divorzio, combattere contro la norma legale che assegna alla donna meta' del valore dell'uomo; espandere il diritto delle giovani donne a decidere la propria vita; prevenire i suicidi di donne disperate, i delitti d'onore, la violenza domestica, istituire ripari per le donne, istituzionalizzare la democrazia e la liberta' nella nostra societa'". C'erano donne di ogni eta' a quella manifestazione, e di eta' molto diverse sono quelle che vedo intente nella lettura nella Biblioteca nell'appartamentino senza targa. Stanno compiendo una lunga marcia, le donne iraniane: cominciata all'indomani del 1979, quando molte avevano preso parte alla rivoluzione per poi sentirsi dire che il loro postro era segregato dalla societa' piu' ampia, a casa, nel piu' tradizionale dei ruoli - e' quando la rivoluzione iraniana e' diventata "Rivoluzione islamica", e l'abbigliamento islamico e' divenuto legge dello stato. * Restera' famoso un discorso nel 1979 dall'ayatollah Khomeiny, fondatore e guida suprema della repubblica islamica: "Ogni volta che in un autobus un corpo femminile sfiora un corpo maschile, una scossa fa vacillare l'edificio della nostra rivoluzione" (bisogna ammettere che riconosceva un grande potere al corpo femminile...). Nuove leggi abbassarono l'eta' del matrimonio (cosa che non sta scritta nel Corano ma in tradizioni arretrate, obiettarono alcune), abolirono il diritto delle donne di divorziare (mentre i mariti possono ripudiare la moglie), adottarono l'apparato di norme fatte discendere dal Corano riguardo lo statuto legale delle donne - eredita' dimezzata rispetto ai fratelli, la testimonianza di una donna vale la meta' di quella di un uomo, perfino il "prezzo del sangue" e' meta' (il risarcimento che un omicida puo' pagare alla famiglia dell'ucciso, ed evitare la galera). Contradditoria rivoluzione, pero': perche' coperte dai loro chador molte bambine e ragazze degli strati piu' bassi e piu' tradizionalisti della societa' sono finalmente andate a scuola (oggi sa leggere e scrivere quasi l'80% delle iraniane sopra ai sei anni, erano il 35% nel 1976). Perfino l'attivismo islamico e' stato un tramite per uscire. La riconquista dello spazio pubblico e' stata lenta, ma inesorabile. L'ideologia diceva alle donne di stare a casa, gli eventi le hanno spinte fuori: la lunga guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), le crisi, la necessita' di lavorare. Poco a poco, la generazione che aveva dovuto subire il chador ha trovato vie d'uscita: prima nelle fondazioni "rivoluzionarie" istituzionali, poi nell'impressionante numero di organizzazioni indipendenti nate negli anni '90: gruppi d'ogni tipo, chi assiste i bambini di strada e chi promuove corsi di pittura o attivita' culturali - quasi sempre gli attivisti sono donne. Casalinghe di mezz'eta' hanno cosi' riscoperto un ruolo di cittadine. Chi aveva una professione l'ha ripresa. Magistrate escluse dalla carica di giudice sono diventate avvocate per difendere i diritti delle donne. Di recente qualche magistrata ha potuto prendere ufficio, anche se ancora solo come giudice a latere in cause civili. Le generazioni cresciute sotto lo hijjab cercano strade di indipendenza. Intanto una piccola pattuglia di deputate ha portato in parlamento battaglie sul divorzio e l'affido dei figli, o contro il matrimonio delle bambine - gia' prima della presidenza di Mohammad Khatami, che nel 1997, appena eletto, concesse una famosa intervista al mensile "Zanan" ("Donna") in cui riconosceva alle iraniane un ruolo da protagoniste nella societa'. E protagoniste sono: dall'universita' dove il 65% di iscritti sono ragazze, alle professioni, alla scena culturale, al cinema, al giornalismo - alle organizzazioni sociali, dove sembra che tutto si regga sull'iniziativa di migliaia di donne. Continuano pero' a mancare leggi che riconoscano i diritti delle donne, dice Mansoureh Shojai, e gia' teme tempi difficili se la presidenza sara' conquistata dai fondamentalisti di Ahmadinejad che promettono di restaurare i costumi islamici ormai un po' rilassati. "La societa' iraniana, e in particolare la parte femminile, e' sempre stata piu' avanzata delle leggi e delle istituzioni - dice Shojai -. Non acceteremo di tornare indietro. Useremo tutti gli spazi possibili". 2. ESPERIENZE. BRUNA PEYROT: L'ESPERIENZA E L'ELABORAZIONE DEL "PARTITO DEI LAVORATORI" (PT) BRASILIANO (PARTE SECONDA) [Ringraziamo Bruna Peyrot (per contatti: brunapeyrot at terra.com.br) per averci messo a disposizione il capitolo quinto, "Scrivere la democrazia", del suo libro La democrazia nel Brasile di Lula. Tarso Genro: da esiliato a ministro, Citta' Aperta Edizioni, Troina (En) 2004. Bruna Peyrot, torinese, scrittrice, studiosa di storica sociale, conduce da anni ricerche sulle identita' e le memorie culturali; collaboratrice di periodici e riviste, vincitrice di premi letterari, autrice di vari libri; vive attualmente in Brasile. Si interessa da anni al rapporto politica-spiritualita' che emerge da molti dei suoi libri, prima dedicati alla identita' e alla storia di valdesi italiani, poi all'area latinoamericana nella quale si e' occupata e si occupa della genesi dei processi democratici. Tra le sue opere: La roccia dove Dio chiama. Viaggio nella memoria valdese fra oralita' e scrittura, Forni, 1990; Vite discrete. Corpi e immagini di donne valdesi, Rosenberg & Sellier, 1993; Storia di una curatrice d'anime, Giunti, 1995; Prigioniere della Torre. Dall'assolutismo alla tolleranza nel Settecento francese, Giunti, 1997; Dalla Scrittura alle scritture, Rosenberg & Sellier, 1998; Una donna nomade: Miriam Castiglione, una protestante in Puglia, Edizioni Lavoro, 2000; Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita', Citta' Aperta, 2002; La democrazia nel Brasile di Lula. Tarso Genro: da esiliato a ministro, Citta' Aperta, 2004. Per richiedere il libro alla casa editrice: Citta' Aperta Edizioni, via Conte Ruggero 73, 94018 Troina (En), tel. 0935653530, fax: 0935650234. Segnaliamo ai lettori che per esigenze grafiche legate alla diffusione per via informatica del nostro foglio, i termini brasiliani sono stati semplificati abolendo tutti gli accenti all'interno delle parole e sostituendo tutti i caratteri con particolarita' grafiche non tipiche della lingua italiana; questo rende la trascrizione di quei termini non fedele ma semplicemente orientativa. I conoscitori della soave lingua portoghese-brasiliana sapranno intuire le soluzioni adeguate, con tutti gli altri ci scusiamo] 2. Democratizzare la democrazia Dopo la caduta del muro di Berlino, sciolti gli ultimi legami con un socialismo irrispettoso dei diritti umani, Tarso scrisse: "A 44 anni posso arrivare ad alcune conclusioni: esiste davvero un'epoca di maturita'... Esiste una sensazione molto maggiore di tranquillita', di chiarezza riflessiva, di interezza del soggetto nei momenti di solitudine. E' una solitudine, tuttavia, che indaga i valori, il passato costellato di tensioni, grandezze, scoraggiamenti e progetti. La 'solitudine totale' non e' contro nessuno in questa epoca. E' un atto difensivo contro il dialogo equivoco e l'immobilita' forzata... Credo che il cambiamento sostanziale in questa epoca della vita - per lo meno nella mia vita - e' l'apparire di una specie di rassegnazione alla tragedia del mondo reale. Cio' porta a un'allegria meno vivace e costante e a uno scetticismo piu' incline a trasformarsi in tristezza. E' legittimo pensare in questo tempo, che la felicita' smette di essere uno stato dello spirito per passare a essere un equilibrio costruito con la ragione, in cui sia possibile 'dosare' una relazione con il mondo che sia allo stesso tempo una combinazione permanente di regole e di volonta' decisa di continuare. E anche l'intuizione che tutto questo non basta" (24). Il 1998 fu un anno duro per Tarso che, tornato a fare l'avvocato, dopo il mandato di sindaco di Porto Alegre, si era candidato per la carica di governatore di Rio Grande do Sul. Perse per pochi voti (48,88% contro 49,92%) la "previa", le primarie interne al Pt, contro Olivio Dutra. Dopo questa sconfitta decide di ritirarsi per un po' di tempo, "defezione" che fa discutere ancora oggi amici e nemici. Tarso, infatti, era partito con Cezar Alvarez per Sao Paulo, per coordinare la terza campagna elettorale di Lula in corsa per la presidenza della repubblica. Leggere il libro di Tarso sulla democrazia, oggetto dei suoi studi e della pratica politica dagli anni novanta al presente, significa addentrarci nelle domande che l'America Latina si pone rispetto a un percorso che per questo continente non e' mai stato facile, ne' tantomeno portatore di valori di eguaglianza e giustizia. Il sistema rappresentativo si e' innestato qui su profonde diseguaglianze di reddito e di cultura, spesso rendendo tali baratri ancora piu' profondi. I sistemi politici si sono basati sull'esclusione dei "los de abajo". Nelle loro poverta', infatti, restano attaccati alle reti di patrocinio e la politica del dono, si sa, e' gestione della scarsita'. Anche il voto e' considerato un bene di scambio tra gli altri. I potenti locali, nonostante il suffragio universale, restano cacicchi, ingranaggi indispensabili al funzionamento della democrazia rappresentativa in un ordine patrimoniale. Nonostante, tuttavia, si immagini l'America Latina con una vita politica agitata da violente turbolenze, con colpi di stato e rivoluzioni, le sue istituzioni rappresentative, anche se disattese, "creano affetto" (25). Le elite dirigenti hanno capito che la peggior democrazia vale la miglior dittatura. Anzi, lo avevano capito i militari che, dopo il "decennio perduto" degli anni Ottanta - in Brasile degli anni Settanta - per gestire la loro bancarotta, avevano aperto processi di liberalizzazione, non abbandonando del tutto le forme di "cortesia costituzionale". L'America Latina ha un "fondo" di durezza che si percepisce solo dopo un po' che si frequenta. Non e' la violenza superficiale della malavita delle megalopoli e neppure quella delle favelas o dei barrios poveri. E' qualcosa di piu', che proviene dal fondo dei secoli, dalla colonizzazione europea, da riti antichi che disprezzavano l'umanita' individuale, dalla crudelta' che spesso ha imposto un confronto aspro con la natura. Tutto questo "fondo", a un primo incontro, resta nascosto sotto il gioviale movimento delle folle latinoamericane, che tanto affascina gli europei, e il calore di una popolazione apparentemente piu' diretta nei rapporti interpersonali. Penetrare oltre questo strato impone di entrare verso il centro focale di un continente che non e' riconciliato con se stesso. Del resto, quale continente lo e'? Anche l'Europa proietta ombre grandiose di rimosso storico che fanno rabbrividire gli animi con le loro figure di razzismo, intolleranza e pervicace immobilita' sociale. In questo contesto, il Brasile e' una nazione che ha intrapreso la strada per arrivare al proprio cuore "duro", con sedimentati processi di educazione democratica, in cui continua a fare i conti con la trascendenza religiosa trasposta nella cultura laica come forma di pensare verticale e trascendente. In altre parole, la societa' sembra "naturalmente" divisibile fra chi comanda e chi obbedisce, fra chi chiede favori e chi presta clientele. Con il politico eletto si stabilisce una relazione personale di tutela, egli diventa uno cui chiedere favori ed egli stesso si pensa come elargitore di risorse. Per questo, la possibilita' di una politica veramente democratica in Brasile passa per una rifondazione totale della societa' brasiliana, soprattutto per l'accettazione del principio liberale dell'uguaglianza di fronte alla legge e, pertanto, della giustizia come polo egualitario. Che il potere politico sia l'esercizio di una sovranita' sociale e non un potere che si separa dalla societa' civile per controllarla e' un'idea ancora da maturare. Lula puo' favorirla perche' e' immagine non scollata fra potere politico e societa' civile. Si puo' pero' lasciare questa responsabilita' a un unico simbolo? * In Brasile, oltre al disincanto verso la giustizia mondana, affiora un altro anelito profondo. Il brasiliano cerca la democrazia come quello scrittore, descritto da Rubem Fonseca (26) che, resistendo allo scoraggiamento dello scrivere, va in giro a trovare fatti, personaggi e connessioni per il suo libro che fa coincidere con la vita. Una sorta di necessaria biopolitica insomma, in cui la sfera della politica e quella dell'esistenza personale traggono senso l'una dall'altra. Tarso si comporta allo stesso modo nella sua ansia di democrazia, insistendo nel far ripartire il processo politico brasiliano dalla creazione di diritti, attraverso la costituzione di poteri - popolari, sociali, culturali - che esprimano reali rappresentanze politiche. Ma come si puo' costruire una democrazia che diventi davvero "postulato etico" (27) di una nazione? Il dibattito sulla democrazia nell'era della globalizzazione solleva diversi dubbi. Prima di tutto per l'uso ideologico che potenze come gli Stati Uniti ne fanno, occultando i veri interessi, economici e strategici, del loro ergersi a difensori del mondo. La guerra inconclusa in Iraq e' un esempio inequivocabile al riguardo. Un'altra domanda riguarda il ruolo della democrazia nei paesi poveri, dove restano prioritari la ricerca di risorse alimentari - il rapporto fra carestie e mancanza di politiche democratiche e' ampiamente documentato - e posti di lavoro, prima dei cambiamenti istituzionali. Un altro dubbio ancora riguarda l'opportunita' di promuovere la democrazia in paesi che non la "conoscono". Si presume, di conseguenza, che la democrazia abbia radici solo ed esclusivamente nel pensiero occidentale. Al proposito, Amartya Sen, sviluppa il concetto di John Rawls, relativo all'"esercizio della ragione pubblica" (28), cioe' l'idea che i cittadini partecipino alle discussioni politiche e siano in grado di influenzare le scelte pubbliche, indipendentemente dalle forme istituzionali che le favoriscono. La visione della democrazia come esercizio della ragione pubblica permette di capire due cose fondamentali: che le sue radici vanno molto al di la' degli stretti confini di alcune pratiche come il voto, tipiche delle cosiddette istituzioni democratiche occidentali e che la difesa del pluralismo, delle diversita' e delle liberta' fondamentali e' presente nella storia di molte societa'. Si tratta, come dice Boaventura de Sousa Santos, di recuperare alla memoria i cammini umani della "demodiversita'". In questa ricerca, si scopre allora che in Sudafrica esiste, come narra Nelson Mandela nella sua autobiografia Lungo cammino verso la liberta', la tradizione delle riunioni locali di autogoverno, dove capo e suddito, bracciante e proprietario, guerriero e uomo di medicina si confrontavano alla pari. Oppure che grandi movimenti di intolleranza hanno attraversato Oriente e Occidente, Nord e Sud, compresa l'Italia, con roghi di "eretici" e scienziati (Giordano Bruno a Campo dei Fiori nella Roma del 1600 ne e' un esempio emblematico) in eta' moderna, le persecuzioni antiebraiche e le ondate di razzismo xenofobo della contemporaneita'. Se pur e' vero che una riforma intellettuale e morale della politica "puo' maturare solo da tensioni, passioni, conflitti nella societa'" (29), pensare la democrazia oggi significa individuare modi e valori del riconoscimento della societa' nello stato e viceversa. Per una democrazia sorta, proprio come un'araba fenice, dalle ceneri della dittatura, e' una grande sfida. Tarso Genro l'ha accolta e ha sviluppato il suo pensiero intorno ad alcuni temi chiave, la cui interdipendenza lascia emergere una nuova teoria dello stato. Vediamo, dunque, il suo svolgersi. * "Modo petista di governare" Gli anni Novanta sono stati un decennio di sperimentazione di governo per il Pt, al governo in oltre trecento comuni, di cui e' simbolo la citta' di Porto Alegre. E' stata un'esperienza locale che ha indicato qualcosa di piu' universale, perche' la democrazia ben riuscita in un luogo diventa un atto politico cosmopolita che ha suscitato profonde domande di senso. Tanto che ogni anno si tiene un seminario nazionale dei sindaci per fare un bilancio sulle politiche locali. Gli interrogativi sono: come restare partito di lotta e governo; come coniugare democrazia rappresentativa con democrazia diretta; come sviluppare microsistemi economici per valorizzare le risorse locali. Gli atti dei seminari portano la firma di tutti gli attuali protagonisti del governo Lula: Luiz Dulci, Olivio Dutra, Raul Pont, Antonio Palocci, Cesar Alvarez, Marco Aurelio Garcia, a conferma del fatto che sono politici che hanno dietro di se' un lungo percorso di impegno amministrativo. E' dall'esperienza nelle citta' che si e' consolidata un'idea centrale, teorizzata da Tarso sin da quando parti' la "lunga marcia nelle istituzioni" del Pt: "Il governo popolare governa per tutta la societa' e per tutta la citta'... Ha proposte per tutte le classi secondo una visione del mondo generale dei lavoratori" (30). Con il passare degli anni, Tarso precisa ancora che "Il partito deve rispondere programmaticamente alle domande di tutta la societa'" (31). Tarso si differenzia dagli altri teorici del suo partito per dire che il modo petista di governare e' un dibattito strategico, non tattico. Ai suoi compagni di partito chiede: "Qual e' la differenza fra un 'buon governo' del Partido dos Trabalhadores e un 'buon governo' di qualsiasi altro partito, considerando questo 'buon governo' a partire da alcune premesse universali, per esempio, gestire la macchina pubblica con efficienza, avere una buona erogazione di servizi, fare investimenti che rispondano a domande della societa'". E' una domanda alla quale se ne affianca un'altra, piu' ideologica: "la costruzione del socialismo puo' avanzare solo con la presa del palazzo d'inverno?" (32). Vi e' quasi costretto perche' lui vi ha gia' risposto da tanto tempo, ma su questo si sta ancora interrogando l'ala sinistra del partito, anzi, tendenze trasversali se lo chiedono periodicamente. Esse sembrano vivere negli anni cinquanta, con un paradigma del mondo basato su confini ideologici invalicabili fra destra e sinistra, miopi ad alleanze in vista su obiettivi minimi comuni. Al polo opposto un'altra tendenza, "neoriformista", considera il governo, locale o nazionale, semplice erogatore di politiche sociali. Tarso propone una "terza via" cioe' "un governo che non solo adempia alle prestazioni sociali necessarie e che sono dovute alla societa'... ma che, soprattutto, provochi profondi mutamenti nella realta' spirituale e materiale della citta', perche' questa realta' cessi di essere ostile a un progetto democratico-socialista e permetta la ricomposizione stato-societa' su nuove basi, con il controllo pubblico dello Stato" (33). Non e' solo una questione amministrativa, ma strategica, perche' presuppone coesione sociale e opinione pubblica libera, non soggiogata ai grandi mezzi di comunicazione, cosi' potenti nel Brasile dell'emittente Globo. Una citta' frammentata e' una citta' passibile di controllo autoritario, la sua ricomposizione economica deve essere accompagnata dalla restituzione di un'identita' come nuovo soggetto politico. In altre parole, l'impegno del "modo petista di governare" deve saper creare una diffusa cultura politica: "Lo sviluppo non e' una semplice questione di aumento di offerta di beni o di accumulazione di capitale... e' un 'sentido', un insieme di risposte a un progetto di autotrasformazione di una collettivita' umana" (34). Su questi obiettivi si chiarisce la differenza fra destra e sinistra, soprattutto quando o l'una o l'altra sono all'opposizione: "La destra all'opposizione, per esempio, vede come elemento centrale della liberta' 'la libera iniziativa economica', e la sinistra, nella stessa situazione, vede la liberta' come liberta' 'di opinione e di organizzazione'" (35). In questo contesto, il ruolo del Pt e' fondamentale. Proprio perche' unisce cristiani, laici, marxisti, socialdemocratici. Tuttavia, Tarso si chiede quanto questa consapevolezza sia incorporata nella militanza di un partito che ha mantenuto antiche parole d'ordine, ancorate a presupposti teorici ormai desueti, perche' nati dentro la societa' della seconda rivoluzione industriale e centrate sul ruolo egemone di una classe operaia concentrata in grandi fabbriche che oggi non esistono piu'. Al loro posto i nuovi operai girano intorno ai computer, non sono localizzati in un solo luogo fisico e hanno un rapporto individualista con la produzione. Il proletariato, considerato strategico da Marx non perche' era povero, ma perche' occupava un luogo speciale nel sistema produttivo, poiche' tutta la societa' dipendeva da cio' che produceva, non esprime piu' da solo una visione del mondo emancipatrice per tutti, ne' ha piu' un ruolo garantito nella storia: non e' piu' il lavoro la base civilizzatrice della societa'. Nuovi poveri e nuove forme di relazione con la natura suggeriscono economie alternative. I loro movimenti, accettano di partecipare ad azioni politiche solo se offrono risultati immediati, nella ricerca continua di una quotidianita' piu' umana e meno atomizzata. Come conciliare lo stile di lotta di movimenti nati intorno a interessi particolari: terra, casa, cibo, ambiente... con la politica di rappresentanza? Come fare interagire liberta' individuale e solidarieta' collettiva? Questo dibattito, dice Tarso, deve avvenire dentro e fuori le sedi del Pt che soffre la distruzione dell'utopia socialista. Egli legge il Pt con la stessa obiettivita' con cui analizza la societa': "il partito non e' solo un educatore, ma un vivaio di patologie sociali e riproduttore etico-morale del sistema" (36) in cui si trova a operare. Per questo motivo i suoi quadri dirigenti devono essere convinti democratici per la "nuova tappa" che sta davanti al Brasile di Lula. La questione democratica e' cosi' importante che deve uscire dalle stanze del Pt per invadere nuovi luoghi della politica. E non si deve porre in termini di contrapposizione fra "lotta sociale" per le strade e "lotta istituzionale" nei governi locali, regionali o statali. Essa investe una dinamica politica che passa dentro e fuori lo Stato, dentro e fuori la societa'. La democratizzazione dello Stato, insiste con molta forza Tarso, non puo' essere una mera tattica, in vista di qualcos'altro di indefinito, bensi' un valore irrinunciabile e una pratica creativa di nuovi reali poteri politici, di cui il Bilancio Partecipato e' solo un esempio. La democrazia non e' un mezzo, e' un fine, intorno al quale fondare un progetto strategico, in grado di realizzare le aspirazioni all'equita' sociale e alle liberta' del socialismo. In altre parole, la democrazia e' tre cose contemporaneamente: Stato di diritto, valore etico-politico, e progetto storico di lungo periodo. Per raggiungere questi obiettivi si deve essere coscienti che la strategia democratica e' un processo lento che "esige un lento accumulo di forze, cosi' come furono lente tutte le conquiste durature nella storia" e il partito e' invitato ad attuare i valori del socialismo um anista dentro le sue strutture, per essere piu' credibile perche' se non sara' a "immagine e somiglianza della societa' che vuole costruire" (37), non sara' ascoltato. Ma a quale socialismo si ispira Tarso? * Note 24. Genro T., Diario, 28 giugno 1991. Inedito. 25. Rouquie' A., L'America latina, Milano, Mondadori, 2000, p. 239. 26. Rubem Fonseca, L'arte di andare a piedi per le strade di Rio de Janeiro e altri racconti, I libri della Biblioteca del Vascello, 1995. 27. Bobbio N., Stato, governo, societa' civile. Frammenti di un dizionario politico, Torino, Einaudi, 1995, p. 108. 28. Amartya Sen, Le radici della democrazia, in "Internazionale", 7/13 novembre 2003, n. 513. 29. Foa V., Questo Novecento. Un secolo di passione civile. La politica come responsabilita', Torino, Einaudi, 1996, p. 374. 30. Genro T., Uma politica para o governo popular, Documento riservato, 1994. 31. Genro T., Combinar democracia direta e democracia representativa, in AA. VV., Desafios do governo local, Sao Paulo, Fundacao Perseu Abramo, 1997, p. 16. 32. Genro T., Um debate estrategico in AA. VV., Governo e Cidadania, Sao Paulo, Fundacao Perseu Abramo, 1999, p. 11. 33. Genro T., Um debate estrategico, cit., p. 15. 34. Furtado C., Um projecto para o Brasil, Rio de Janeiro, Editora Saga, 1968, p. 19. 35. Genro T., Reinventar el futuro, Barcelona, Ediciones del Serbal, 2000, p. 110. 36. Genro T., Um novo periodo de nossa experiencia. Notas sobre o partido necessario para esta nova etapa, Movimento Rede, 2002, p. 8. 37. Genro T., Utopia possivel, Porto Alegre, Artes e Oficios, 1992, p. 136. (Parte seconda - Segue) 3. MAESTRI. MARTIN LUTHER KING: OLTRE IL VIETNAM [Ringraziamo Fulvio Cesare Manara (per contatti: philosophe0 at tin.it) per averci messo a disposizione l'antologia di scritti e discorsi di Martin Luther King da lui curata, Memoria di un volto: Martin Luther King, Dipartimento per l'educazione alla nonviolenza delle Acli di Bergamo, Bergamo 2002, che reca traduzioni di discorsi e scritti del grande maestro della nonviolenza. Il testo seguente e' quello del discorso tenuto nella chiesa di Riverside, New York, 4 aprile 1967. Martin Luther King, nato ad Atlanta in Georgia nel 1929, laureatosi all'Universita' di Boston nel 1954 con una tesi sul teologo Paul Tillich, lo stesso anno si stabilisce, come pastore battista, a Montgomery nell'Alabama. Dal 1955 (il primo dicembre accade la vicenda di Rosa Parks) guida la lotta nonviolenta contro la discriminazione razziale, intervenendo in varie parti degli Usa. Premio Nobel per la pace nel 1964, piu' volte oggetto di attentati e repressione, muore assassinato nel 1968. Opere di Martin Luther King: tra i testi piu' noti: La forza di amare, Sei, Torino 1967, 1994 (edizione italiana curata da Ernesto Balducci); Lettera dal carcere di Birmingham - Pellegrinaggio alla nonviolenza, Movimento Nonviolento, Verona 1993; L'"altro" Martin Luther King, Claudiana, Torino 1993 (antologia a cura di Paolo Naso); "I have a dream", Mondadori, Milano 2001; cfr. anche: Marcia verso la liberta', Ando', Palermo 1968; Lettera dal carcere, La Locusta, Vicenza 1968; Il fronte della coscienza, Sei, Torino 1968; Perche' non possiamo aspettare, Ando', Palermo 1970; Dove stiamo andando, verso il caos o la comunita'?, Sei, Torino 1970. Presso la University of California Press, e' in via di pubblicazione l'intera raccolta degli scritti di Martin Luther King, a cura di Clayborne Carson (che lavora alla Stanford University). Sono usciti sinora cinque volumi (di quattordici previsti): 1. Called to Serve (January 1929 - June 1951); 2. Rediscovering Precious Values (July 1951 - November 1955); 3. Birth of a New Age (December 1955 - December 1956); 4. Symbol of the Movement (January 1957 - December 1958); 5. Threshold of a New Decade (January 1959 - December 1960); ulteriori informazioni nel sito: www.stanford.edu/group/King/ Opere su Martin Luther King: Arnulf Zitelmann, Non mi piegherete. Vita di Martin Luther King, Feltrinelli, Milano 1996; Sandra Cavallucci, Martin Luther King, Mondadori, Milano 2004. Esistono altri testi in italiano (ad esempio Hubert Gerbeau, Martin Luther King, Cittadella, Assisi 1973), ma quelli a nostra conoscenza sono perlopiu' di non particolare valore: sarebbe invece assai necessario uno studio critico approfondito della figura, della riflessione e dell'azione di Martin Luther King (anche contestualizzandole e confrontandole con altre contemporanee personalita', riflessioni ed esperienze di resistenza antirazzista in America). Una introduzione sintetica e' in "Azione nonviolenta" dell'aprile 1998 (alle pp. 3-9), con una buona bibliografia essenziale] Credo che il cammino dalla chiesa battista di Dexter Avenue - la chiesa di Montgomery, nell'Alabama, dove ho cominciato il ministero pastorale -, conduca proprio qui, al santuario dove ci troviamo stasera. C'e' un nesso molto evidente e quasi elementare fra la guerra in Vietnam e la lotta che io e altri abbiamo intrapreso in America. Qualche anno fa, quella lotta ha visto un momento luminoso: e' sembrato che per i poveri - neri e bianchi - ci fosse una promessa concreta di speranza, grazie al programma contro la poverta'. Ci furono esperimenti, speranze, nuove aperture. Poi comincio' a crescere la tensione nel Vietnam, e io ho visto questo programma frantumarsi e svuotarsi, come se fosse l'ozioso balocco politico di una societa' impazzita per la guerra. E ho capito che l'America non avrebbe mai investito i fondi e le energie necessarie a riabilitare i suoi poveri, finche' le avventure come il Vietnam avessero continuato a risucchiare uomini e talenti e denaro come una sorta di pompa aspirante, demoniaca e distruttiva. Percio' mi sono visto sempre piu' costretto a considerare la guerra un nemico dei poveri e in quanto tale ad attaccarla. Forse e' stato un piu' tragico riconoscimento della realta' quando ho capito che la guerra faceva assai di piu' che devastare le speranze dei poveri in patria. La guerra mandava i loro figli e fratelli e mariti a combattere e a morire in una percentuale straordinariamente superiore alla loro consistenza proporzionale nella popolazione. Stavamo prendendo i giovani neri che la nostra societa' aveva mutilato, e li mandavamo a quindicimila chilometri di distanza, per garantire nel Sudest asiatico liberta' a cui essi stessi non avevano accesso nel Sudovest della Georgia o a Harlem est. E cosi' ci siamo trovati piu' volte di fronte alla crudele ironia di vedere sugli schermi televisivi ragazzi neri e bianchi che uccidono e muoiono insieme, per un paese incapace di farli sedere insieme nei banchi delle stesse scuole. E cosi' li vediamo affiancati e solidali nella brutalita', mentre incendiano le capanne di un povero villaggio, ma ci rendiamo conto che a Chicago difficilmente potrebbero abitare nello stesso isolato. Io non potevo restare in silenzio di fronte a una cosi' crudele manipolazione dei poveri. Mentre camminavo circondato di giovani arrabbiati, disperati, rifiutati, dicevo loro che i fucili e le bombe molotov non avrebbero risolto i loro problemi. Ho cercato di far sentire loro la mia piu' profonda compassione, insieme sostenendo la convinzione che i mutamenti sociali si producono nel modo piu' significativo attraverso l'azione nonviolenta. Ma loro mi chiedevano, e giustamente: "E il Vietnam, allora?". Mi chiedevano se non era forse vero che il nostro paese impiegava la violenza in dosi massicce per risolvere i problemi, per produrre i cambiamenti desiderati. Le loro domande coglievano nel segno; io sapevo che non avrei mai piu' potuto alzare la voce contro la violenza degli oppressi nei ghetti senz'aver prima parlato chiaro al maggior fornitore di violenza del mondo di oggi: il mio stesso governo. Per amore di quei ragazzi, per amore di questo governo, per amore delle centinaia di migliaia di esseri umani che tremano sotto la nostra violenza, non posso tacere. * Ora, dovrebbe essere chiaro fino all'incandescenza come nessuno, che abbia in qualche modo a cuore l'integrita' e la vita dell'America di oggi, possa ignorare questa guerra. Se l'anima dell'America restera' del tutto avvelenata, nell'autopsia si potra' leggere anche la parola "Vietnam". L'anima dell'America non si potra' salvare finche' continua a distruggere le piu' radicate speranze degli uomini di tutto il mondo. E cosi', quelli fra noi che sono ancora convinti che l'"America deve esistere" devono incamminarsi sul sentiero della protesta e del dissenso, lavorare per la salvezza della nostra terra. Come se non bastasse il peso di un simile impegno in nome della vita e della salvezza dell'America, nel 1964 mi e' stato imposto un nuovo fardello di responsabilita'; e non posso dimenticare che il premio Nobel per la pace era anche un incarico, l'incarico di lavorare con piu' impegno che mai per la fratellanza degli uomini. Questa vocazione mi porta a superare i doveri della fedelta' nazionale. Ma anche in mancanza di questo, dovrei pur sempre vivere con il senso del mio impegno di ministro di Gesu' Cristo. Per me e' talmente evidente il rapporto che lega questo ministero al dovere di costruire la pace, che talvolta mi stupisco che mi si domandi come mai parlo contro la guerra. Com'e' possibile che i miei interlocutori non sappiano che la Buona Novella si rivolge a tutti gli uomini: ai comunisti e ai capitalisti, ai loro figli e ai nostri, ai neri e ai bianchi, ai rivoluzionari e ai conservatori? Hanno dimenticato che il mio ministero e' istituito in obbedienza a Colui che ha amato i suoi nemici al punto di morire per loro? E allora, che cosa posso dire ai vietcong, o a Castro, o a Mao, in qualita' di ministro fedele di Costui? Posso minacciarli di morte, o non dovro' invece condividere con loro la mia vita? Infine, mentre cerco di spiegare a voi e a me stesso il percorso che da Montgomery conduce a questo luogo, darei la spiegazione piu' valida se dicessi semplicemente che devo restare fedele alla mia convinzione di condividere con tutti gli uomini la vocazione a essere figlio del Dio vivente. Al di la' del richiamo della razza o della nazione o del credo religioso, vale questa vocazione filiale e fraterna. Proprio perche' credo che il Padre si prende cura in modo particolare dei suoi figli sofferenti e impotenti e reietti, stasera sono venuto a parlare per loro. Credo che in questo consista il privilegio e il fardello che tutti noi, che ci riteniamo vincolati da fedelta' e lealta' piu' vaste e piu' profonde del nazionalismo e tali da oltrepassare e sopravanzare le mete e le posizioni che la nostra nazione fissa per se stessa, dobbiamo aspettarci. Siamo chiamati a parlare per i deboli, per chi non ha voce, per le vittime della nostra nazione, per coloro che essa definisce "il nemico", perche' non esiste documento di mano umana che possa rendere questi esseri umani meno che nostri fratelli. * La guerra in Vietnam non e' che il sintomo di un malessere assai piu' radicato nello spirito americano, e se ignoreremo queste realta' che ci obbligano a riflettere, nella prossima generazione ci ritroveremo a organizzare altri "comitati del clero e dei laici preoccupati": si preoccuperanno per il Guatemala e il Peru', per la Thailandia e la Cambogia, per il Mozambico e il Sudafrica. Ci tocchera' scendere in corteo per questi nomi e per una dozzina d'altri, andare a infiniti raduni e manifestazioni, se non si verifichera' un cambiamento significativo e radicale nella vita e nella politica americana. E dunque questi pensieri ci portano oltre il Vietnam, ma non oltre la nostra vocazione di figli del Dio vivente. Nel 1957, un funzionario americano dotato di sensibilita' disse che secondo lui il nostro paese sembrava situato sul versante meno vantaggioso di una rivoluzione mondiale. Negli ultimi dieci anni abbiamo visto affiorare uno schema di repressione che oggi giustifica la presenza di consulenti militari statunitensi in Venezuela. La necessita' di mantenere la stabilita' sociale per favorire i nostri investimenti spiega l'opera controrivoluzionaria compiuta dalle forze americane nel Guatemala; spiega come mai contro i guerriglieri cambogiani si usino elicotteri americani, come mai contro i ribelli in Peru' siano gia' stati usati napalm americano e le truppe dei Berretti Verdi. Riflettendo su queste attivita', le parole del compianto John F. Kennedy tornano a ossessionarci; cinque anni fa Kennedy disse: "Coloro che rendono impossibile la rivoluzione pacifica renderanno inevitabile la rivoluzione violenta". Per scelta o per caso, la nostra nazione si e' investita sempre piu' spesso di questo ruolo: il ruolo di coloro che rendono impossibile una rivoluzione pacifica, rifiutandosi di rinunciare ai privilegi e ai piaceri derivanti dagli immensi profitti degli investimenti in tutto il mondo. * Io sono persuaso che se vogliamo passare al versante positivo della rivoluzione mondiale, come nazione dobbiamo compiere una radicale rivoluzione dei valori. Dobbiamo al piu' presto cominciare a passare da una societa' orientata alle cose a una societa' orientata alle persone. Finche' considereremo le macchine e i computer, le motivazioni del profitto e i diritti di proprieta' piu' importanti delle persone, i tre giganti del razzismo, del materialismo estremo e del militarismo non potranno mai essere sconfitti. Una vera rivoluzione dei valori ci indurrebbe ben presto a mettere in discussione l'equita' e la giustizia di molte nostre scelte politiche del presente e del passato. Da un lato siamo chiamati a operare come il buon samaritano sul ciglio della strada della vita, ma questo e' soltanto il principio: un giorno dovremo arrivare a capire che bisogna trasformare l'intera strada per Gerico, in modo che gli uomini e le donne non continuino ad essere picchiati e rapinati mentre sono in viaggio sull'autostrada della vita. La vera compassione non si limita a gettare una moneta al mendicante, ma arriva a capire che, se produce mendicanti, un edificio ha bisogno di una ristrutturazione. Una vera rivoluzione dei valori guarderebbe ben presto con disagio al violento contrasto fra poverta' e ricchezza. Con l'indignazione del giusto, getterebbe lo sguardo oltre i mari, e vedrebbe i singoli capitalisti dell'Occidente investire immense somme di denaro in Asia, in Africa, nell'America del Sud, soltanto per ricavarne profitto, senza curarsi affatto del progresso sociale di questi paesi, e direbbe: "Questo non e' giusto". Guarderebbe alla nostra alleanza con i proprietari terrieri dell'America Latina e direbbe: "Questo non e' giusto". Il senso di arroganza tipico dell'Occidente, che crede di avere tutto da insegnare agli altri, e nulla da imparare da loro, non e' giusto. Una vera rivoluzione dei valori mettera' mano all'ordinamento mondiale, e della guerra dira': "Questo modo di comporre i dissidi non e' giusto". Bruciare gli esseri umani con il napalm, riempire le nostre case di orfani e di vedove, iniettare germi velenosi di odio nelle vene di popoli che di norma sarebbero pieni di umanita', rimandare a casa uomini che hanno combattuto in campi di battaglia tenebrosi e sanguinosi e tornano menomati nel fisico e turbati nella psiche: tutti questi atti non possono conciliarsi con la saggezza, la giustizia, l'amore. Una nazione che continua, un anno dopo l'altro, a spendere piu' denaro per la difesa militare che per i programmi di elevazione sociale, si avvicina alla morte dello spirito. L'America, che e' la nazione piu' ricca e potente del mondo, in una rivoluzione dei valori potrebbe certo fare da battistrada. Soltanto un tragico desiderio di morte ci puo' impedire di riordinare la nostra scala di priorita', in modo che il perseguimento della pace abbia la precedenza sul perseguimento della guerra. Niente ci puo' impedire di usare le mani ferite per plasmare uno status quo recalcitrante fino a trasformarlo in fraternita'. I nostri sono tempi rivoluzionari. In tutto il mondo gli uomini si ribellano contro antichi regimi di sfruttamento e di oppressione; dalle piaghe di un mondo fragile nascono regimi nuovi ispirati alla giustizia e all'uguaglianza. I popoli scamiciati e scalzi della terra si stanno sollevando come non mai. Il popolo che era nelle tenebre ha visto una grande luce [Is, 9, 2]. Noi in Occidente dobbiamo sostenere queste rivoluzioni. E' una triste realta' che a causa dell'amore per le comodita', dell'autocompiacimento, di una paura morbosa del comunismo, della tendenza ad adeguarci all'ingiustizia, le nazioni occidentali, che hanno avuto un ruolo da iniziatori per quanto riguarda gran parte dello spirito rivoluzionario del mondo moderno, oggi siano diventate arcicontrarie alle rivoluzioni. Percio' molti sono stati indotti a credere che soltanto il marxismo possieda spirito rivoluzionario; e, di conseguenza, il comunismo e' la punizione che abbiamo meritato per non essere riusciti a tradurre in realta' la democrazia e a portare fino in fondo le rivoluzioni che avevamo iniziato. Oggi abbiamo una sola speranza: riuscire a riconquistare lo spirito rivoluzionario e uscire in un mondo talvolta ostile dichiarando eterna ostilita' alla poverta', al razzismo, al militarismo. Questo impegno potente ci permettera' di lanciare una audace sfida allo status quo e alle consuetudini ingiuste, e cosi' avvicineremo il giorno in cui "si colmi ogni valle, ogni monte o colle si abbassi, l'erta si cambi in piano e la scabrosita' in liscio suolo" [Is, 40, 4]. Un'autentica rivoluzione dei valori significa in ultima analisi che dobbiamo avere una forma di lealta' ecumenica e non settoriale. Ogni nazione, ormai, deve sviluppare sopra ogni altra cosa una lealta' verso l'umanita', verso l'umanita' nel suo insieme, in modo da riuscire a conservare il meglio delle singole societa'. * Dobbiamo superare l'indecisione passando all'azione. Dobbiamo trovare nuovi modi per parlare a favore della pace nel Vietnam e della giustizia in tutti i paesi in via di sviluppo, il cui confine comincia alla soglia delle nostre case. Se non agiremo, saremo certo trascinati lungo gli oscuri, lunghi e infamanti corridoi del tempo riservati a quanti possiedono potere ma non compassione, potenza ma non moralita', forza ma non giudizio. Cominciamo. Rinnoviamo la nostra dedizione alla battaglia per un mondo nuovo, lunga e aspra ma bellissima. Questa e' la vocazione a cui sono chiamati i figli di Dio, e i nostri fratelli aspettano con ansia la nostra risposta. Diremo che siamo troppo svantaggiati in partenza? Diremo che la lotta e' troppo aspra? Il nostro messaggio sara' che le forze della vita americana militano contro la loro possibilita' di diventare uomini in senso pieno, e noi inviamo i sensi del piu' profondo rammarico? Oppure ci sara' un messaggio diverso: di desiderio, di speranza, di solidarieta' con le loro aspirazioni, di impegno verso la loro causa, a qualsiasi costo? Tocca a noi scegliere, e anche se forse preferiremmo che non fosse cosi', dobbiamo scegliere in questo momento cruciale della storia umana. 4. RIVISTE. CON "QUALEVITA", LA LEZIONE DI FRANCUCCIO GESUALDI Abbonarsi a "Qualevita" e' un modo per sostenere la nonviolenza. Ponendosi all'ascolto della lezione di Francuccio Gesualdi. * "Abbiamo mille motivi per ricercare una forma di vita piu' sobria. Ecco la grande sfida che ci attende: sapere riconoscere i bisogni fondamentali e saperli garantire a tutti" (Francesco Gesualdi, "Come consumatori coscienti possiamo diventare lievito in questa societa' dello spreco", in "Giorni nonviolenti 2005", Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi 2004). * "Qualevita" e' il bel bimestrale di riflessione e informazione nonviolenta che insieme ad "Azione nonviolenta", "Mosaico di pace", "Quaderni satyagraha" e poche altre riviste e' una delle voci piu' qualificate della nonviolenza nel nostro paese. Ma e' anche una casa editrice che pubblica libri appassionanti e utilissimi, e che ogni anno mette a disposizione con l'agenza-diario "Giorni nonviolenti" uno degli strumenti di lavoro migliori di cui disponiamo. Abbonarsi a "Qualevita", regalare a una persona amica un abbonamento a "Qualevita", e' un'azione buona e feconda. Per informazioni e contatti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. 3495843946, o anche 0864460006, o ancora 086446448; e-mail: sudest at iol.it o anche qualevita3 at tele2.it; sito: www.peacelink.it/users/qualevita Per abbonamenti alla rivista bimestrale "Qualevita": abbonamento annuo: euro 13, da versare sul ccp 10750677, intestato a "Qualevita", via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), specificando nella causale "abbonamento a 'Qualevita'". 5. LETTURE. DANIELA PADOAN: LE PAZZE. UN INCONTRO CON LE MADRI DI PLAZA DE MAYO Daniela Padoan, Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo, Bompiani, Milano 2005, pp. 432, euro 9,50. Una lettura appassionante e indispensabile. Indispensabile. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 974 del 27 giugno 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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