La nonviolenza e' in cammino. 974



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 974 del 27 giugno 2005

Sommario di questo numero:
1. Marina Forti: La lunga marcia delle donne iraniane
2. Bruna Peyrot: L'esperienza e l'elaborazione del "Partito dei lavoratori"
(Pt) brasiliano (parte seconda)
3. Martin Luther King: Oltre il Vietnam
4. Con "Qualevita", la lezione di Francuccio Gesualdi
5. Letture: Daniela Padoan, Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de
Mayo
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. MONDO. MARINA FORTI: LA LUNGA MARCIA DELLE DONNE IRANIANE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 giugno 2005. Marina Forti, giornalista
particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei diritti umani, del sud
del mondo, della globalizzazione, scrive per il quotidiano "Il manifesto"
sempre acuti articoli e reportages sui temi dell'ecologia globale e delle
lotte delle persone e dei popoli del sud del mondo per sopravvivere e far
sopravvivere il mondo e l'umanita' intera. Opere di Marina Forti: La signora
di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo,
Feltrinelli, Milano 2004]

Fuori non c'e' scritto nulla, neppure un nome su un campanello. Dentro il
cancelletto pochi scalini portano a un appartamentino seminterrato,
affacciato su un minuscolo giardinetto. Scaffali lungo tutte le pareti,
tavoli di legno chiaro, due computer. Siamo nella "Biblioteca delle donne",
prima biblioteca e centro di documentazione femminista in Iran, e ci
accoglie Mansoureh Shojai - che per dedicarsi a questo progetto si e'
pensionata dalla Biblioteca nazionale dove ha lavorato tanti anni. Per
spiegare la genesi della Biblioteca in effetti Mansoureh parla di un 8
marzo, anno 2000, quando un gruppetto di donne come lei si e' trovato alla
libreria BookCity di Tehran. Era la prima volta che cercavano di segnare la
festa di lotta delle donne in modo pubblico ("Nella repubblica islamica la
'giornata della donna' e' piuttosto l'anniversario della nascita di Zahra,
la figlia del Profeta", spiega). Loro invece parlavano di diritti delle
donne, di un diritto di famiglia che le rende cittadine di seconda classe,
di violenza domestica. C'erano delle giornaliste tra loro, delle editrici,
giuriste, nomi noti e meno noti, attiviste per i diritti umani, ed era un
momento di scontro durissimo in Iran tra un governo riformista e un sistema
politico che resiste a ogni cambiamento. Infatti di li' a poco due di loro,
l'editrice Shahla Lahiji e l'avvocata Mehranguiz Kar, sono state arrestate:
erano parte di un gruppo di intellettuali che aveva partecipato a una
conferenza a Berlino, su invito dall'Istituto Heinrich Boell, sul futuro
delle riforme politiche e sociali in Iran. Quella conferenza (era l'aprile
2000) restera' famosa perche' molti dei partecipanti iraniani al ritorno
sono stati sbattuti a Evin, il carcere di Tehran (Lahiji e Kar sono state
processate dapprima a porte chiuse, poi dopo la protesta dell'avvocato
difensore Shirin Ebadi con un processo aperto, e condannate per attentato
alla sicurezza dello stato e propaganda contro il sistema islamico).
*
Insomma, sono passati due anni prima che queste donne osassero tenere una
manifestazione pubblica, l'8 marzo del 2003. Nel frattempo pero', spiega
Shojai, avevano deciso di registrarsi legalmente come ong, organizzazione
non governativa, per poter tenere delle attivita' pubbliche: si sono date il
nome Markaz-e Farhanghi-e Zanan, "Centro culturale delle donne". Nel 2002
hanno lanciato una campagna contro la violenza sulle donne. "Il nostro
obiettivo di fondo e' lavorare per alzare il livello di consapevolezza dele
donne, e far entrare le rivendicazioni delle donne nelle questioni sociali
piu' ampie". Il Centro culturale ha formato diversi gruppi - uno si occupa
del sito web, www.iftribune.com (cliccare su "about us", ci sono delle
pagine in inglese). Un altro organizza seminari - molte di loro in effetti
girano in tutto il paese a incontrare gruppi femminili: discutono problemi
legati allo statuto legale delle donne, o alla salute. Hanno lavorato a Bam,
la citta' terremotata dove la ricostruzione non e' ancora decollata e molte
donne devono mandare avanti le loro famiglie e le loro vite in campi
profughi assai precari. Sono andate tra le donne afghane (migliaia di
afghani restano in Iran come rifugiati), hanno organizzato seminari sulla
prostituzione o sulla violenza domestica. Un gruppo si e' dedicato alla
Biblioteca.
Non e' stato facile, dice Mansoureh Shojai. Il progetto risale al marzo 2003
ma la biblioteca che ora vediamo e' stata aperta solo nel marzo di
quest'anno, dopo mille difficolta' - una e' stata raccogliere fondi. "Una
biblioteca delle donne e' una scuola di consapevolezza", pensa Shojai.
Racconta di un concerto organizzato per raccogliere fondi per la biblioteca,
ma poco dopo c'e' stato il terremoto a Bam e hanno usato la meta' del
ricavato per gli aiuti. Hanno rifiutato sovvenzioni internazionali, perche'
ricevere fondi dall'estero puo' mettere in una posizione difficile verso le
autorita' e indurre sospetti ("fare un lavoro intellettuale in un paese come
il nostro comporta problemi complicati"). Insomma, si reggono su piccoli
contributi privati, e sul contributo delle lettrici che usano la biblioteca.
La Biblioteca delle donne ha diversi progetti d'espansione. Uno e' un premio
letterario, intitolato a una scrittrice e attivista iraniana dell'inizio del
secolo, una di quelle donne che ha ispirato generazioni di femministe
iraniane: Sedigheh Dulat-Abadi, 1882-1961, il cui bel volto incorniciato da
capelli grigi guarda da un poster affisso sull'unico segmento di parete qui
che non sia occupato da libri. "Poi vogliamo fare una biblioteca mobile, per
portare i libri nelle zone piu' modeste del paese, dove molte donne e
ragazze leggerebbero se ne avessero l'occasione". Mansoureh Shojai la chiama
"biblioteca a piedi scalzi" e spiega che e' un suo chiodo fisso gia' da
qualche anno. "Il primo tentativo lo abbiamo fatto nei campi profughi
afghani nella provincia di Mashad (nell'Iran nord-orientale, ndr). Ci sono
alcune attiviste afghane molto brave a coordinare quei campi, ne avevamo
parlato. Non sapevamo come portare i libri pero', e come prima cosa ne
abbiamo portati un po' semplicemente negli zaini, poi li abbiamo distribuiti
tramite i volontari afghani". La Biblioteca a piedi scalzi e in zaino...
"L'Unicef ha apprezzato l'idea, ora potremmo espanderla col loro aiuto in
altre province del paese".
"Nelle nostre vite quotidiane e nell'azione sociale lottiamo contro la
discriminazione e contro le tradizioni patriarcali", si legge nel sito del
Centro culturale delle donne. E' quello che dicevano in effetti le
coraggiose che domenica 12 giugno si sono radunate davanti all'Universita'
di Tehran, intenzionate a mettere nella campagna elettorale anche la
richiesta di modificare la Costituzione nei punti che discriminano le donne.
In quella manifestazione alcune attiviste si erano alternate al megafono per
leggere una lista di rivendicazioni, riassunte nella parita' di diritti di
fronte alla legge: "Chiediamo uguali diritti in modo che gli strumenti
legali ci diano il potere di fermare i matrimoni forzati, garantire alle
madri la custodia dei loro figli, prevenire la poligamia ufficiale e non
ufficiale e garantire la parita' nel divorzio, combattere contro la norma
legale che assegna alla donna meta' del valore dell'uomo; espandere il
diritto delle giovani donne a decidere la propria vita; prevenire i suicidi
di donne disperate, i delitti d'onore, la violenza domestica, istituire
ripari per le donne, istituzionalizzare la democrazia e la liberta' nella
nostra societa'".
C'erano donne di ogni eta' a quella manifestazione, e di eta' molto diverse
sono quelle che vedo intente nella lettura nella Biblioteca
nell'appartamentino senza targa. Stanno compiendo una lunga marcia, le donne
iraniane: cominciata all'indomani del 1979, quando molte avevano preso parte
alla rivoluzione per poi sentirsi dire che il loro postro era segregato
dalla societa' piu' ampia, a casa, nel piu' tradizionale dei ruoli - e'
quando la rivoluzione iraniana e' diventata "Rivoluzione islamica", e
l'abbigliamento islamico e' divenuto legge dello stato.
*
Restera' famoso un discorso nel 1979 dall'ayatollah Khomeiny, fondatore e
guida suprema della repubblica islamica: "Ogni volta che in un autobus un
corpo femminile sfiora un corpo maschile, una scossa fa vacillare l'edificio
della nostra rivoluzione" (bisogna ammettere che riconosceva un grande
potere al corpo femminile...). Nuove leggi abbassarono l'eta' del matrimonio
(cosa che non sta scritta nel Corano ma in tradizioni arretrate, obiettarono
alcune), abolirono il diritto delle donne di divorziare (mentre i mariti
possono ripudiare la moglie), adottarono l'apparato di norme fatte
discendere dal Corano riguardo lo statuto legale delle donne - eredita'
dimezzata rispetto ai fratelli, la testimonianza di una donna vale la meta'
di quella di un uomo, perfino il "prezzo del sangue" e' meta' (il
risarcimento che un omicida puo' pagare alla famiglia dell'ucciso, ed
evitare la galera). Contradditoria rivoluzione, pero': perche' coperte dai
loro chador molte bambine e ragazze degli strati piu' bassi e piu'
tradizionalisti della societa' sono finalmente andate a scuola (oggi sa
leggere e scrivere quasi l'80% delle iraniane sopra ai sei anni, erano il
35% nel 1976). Perfino l'attivismo islamico e' stato un tramite per uscire.
La riconquista dello spazio pubblico e' stata lenta, ma inesorabile.
L'ideologia diceva alle donne di stare a casa, gli eventi le hanno spinte
fuori: la lunga guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), le crisi, la necessita'
di lavorare. Poco a poco, la generazione che aveva dovuto subire il chador
ha trovato vie d'uscita: prima nelle fondazioni "rivoluzionarie"
istituzionali, poi nell'impressionante numero di organizzazioni indipendenti
nate negli anni '90: gruppi d'ogni tipo, chi assiste i bambini di strada e
chi promuove corsi di pittura o attivita' culturali - quasi sempre gli
attivisti sono donne. Casalinghe di mezz'eta' hanno cosi' riscoperto un
ruolo di cittadine. Chi aveva una professione l'ha ripresa. Magistrate
escluse dalla carica di giudice sono diventate avvocate per difendere i
diritti delle donne. Di recente qualche magistrata ha potuto prendere
ufficio, anche se ancora solo come giudice a latere in cause civili. Le
generazioni cresciute sotto lo hijjab cercano strade di indipendenza.
Intanto una piccola pattuglia di deputate ha portato in parlamento battaglie
sul divorzio e l'affido dei figli, o contro il matrimonio delle bambine -
gia' prima della presidenza di Mohammad Khatami, che nel 1997, appena
eletto, concesse una famosa intervista al mensile "Zanan" ("Donna") in cui
riconosceva alle iraniane un ruolo da protagoniste nella societa'. E
protagoniste sono: dall'universita' dove il 65% di iscritti sono ragazze,
alle professioni, alla scena culturale, al cinema, al giornalismo - alle
organizzazioni sociali, dove sembra che tutto si regga sull'iniziativa di
migliaia di donne.
Continuano pero' a mancare leggi che riconoscano i diritti delle donne, dice
Mansoureh Shojai, e gia' teme tempi difficili se la presidenza sara'
conquistata dai fondamentalisti di Ahmadinejad che promettono di restaurare
i costumi islamici ormai un po' rilassati. "La societa' iraniana, e in
particolare la parte femminile, e' sempre stata piu' avanzata delle leggi e
delle istituzioni - dice Shojai -. Non acceteremo di tornare indietro.
Useremo tutti gli spazi possibili".

2. ESPERIENZE. BRUNA PEYROT: L'ESPERIENZA E L'ELABORAZIONE DEL "PARTITO DEI
LAVORATORI" (PT) BRASILIANO (PARTE SECONDA)
[Ringraziamo Bruna Peyrot (per contatti: brunapeyrot at terra.com.br) per
averci messo a disposizione il capitolo quinto, "Scrivere la democrazia",
del suo libro La democrazia nel Brasile di Lula. Tarso Genro: da esiliato a
ministro, Citta' Aperta Edizioni, Troina (En) 2004.
Bruna Peyrot, torinese, scrittrice, studiosa di storica sociale, conduce da
anni ricerche sulle identita' e le memorie culturali; collaboratrice di
periodici e riviste, vincitrice di premi letterari, autrice di vari libri;
vive attualmente in Brasile. Si interessa da anni al rapporto
politica-spiritualita' che emerge da molti dei suoi libri, prima dedicati
alla identita' e alla storia di valdesi italiani, poi all'area
latinoamericana nella quale si e' occupata e si occupa della genesi dei
processi democratici. Tra le sue opere: La roccia dove Dio chiama. Viaggio
nella memoria valdese fra oralita' e scrittura, Forni, 1990; Vite discrete.
Corpi e immagini di donne valdesi, Rosenberg & Sellier, 1993; Storia di una
curatrice d'anime, Giunti, 1995; Prigioniere della Torre. Dall'assolutismo
alla tolleranza nel Settecento francese, Giunti, 1997; Dalla Scrittura alle
scritture, Rosenberg & Sellier, 1998; Una donna nomade: Miriam Castiglione,
una protestante in Puglia, Edizioni Lavoro, 2000; Mujeres. Donne colombiane
fra politica e spiritualita', Citta' Aperta, 2002; La democrazia nel Brasile
di Lula. Tarso Genro: da esiliato a ministro, Citta' Aperta, 2004.
Per richiedere il libro alla casa editrice: Citta' Aperta Edizioni, via
Conte Ruggero 73, 94018 Troina (En), tel. 0935653530, fax: 0935650234.
Segnaliamo ai lettori che per esigenze grafiche legate alla diffusione per
via informatica del nostro foglio, i termini brasiliani sono stati
semplificati abolendo tutti gli accenti all'interno delle parole e
sostituendo tutti i caratteri con particolarita' grafiche non tipiche della
lingua italiana; questo rende la trascrizione di quei termini non fedele ma
semplicemente orientativa. I conoscitori della soave lingua
portoghese-brasiliana sapranno intuire le soluzioni adeguate, con tutti gli
altri ci scusiamo]

2. Democratizzare la democrazia
Dopo la caduta del muro di Berlino, sciolti gli ultimi legami con un
socialismo irrispettoso dei diritti umani, Tarso scrisse: "A 44 anni posso
arrivare ad alcune conclusioni: esiste davvero un'epoca di maturita'...
Esiste una sensazione molto maggiore di tranquillita', di chiarezza
riflessiva, di interezza del soggetto nei momenti di solitudine. E' una
solitudine, tuttavia, che indaga i valori, il passato costellato di
tensioni, grandezze, scoraggiamenti e progetti. La 'solitudine totale' non
e' contro nessuno in questa epoca. E' un atto difensivo contro il dialogo
equivoco e l'immobilita' forzata... Credo che il cambiamento sostanziale in
questa epoca della vita - per lo meno nella mia vita - e' l'apparire di una
specie di rassegnazione alla tragedia del mondo reale. Cio' porta a
un'allegria meno vivace e costante e a uno scetticismo piu' incline a
trasformarsi in tristezza. E' legittimo pensare in questo tempo, che la
felicita' smette di essere uno stato dello spirito per passare a essere un
equilibrio costruito con la ragione, in cui sia possibile 'dosare' una
relazione con il mondo che sia allo stesso tempo una combinazione permanente
di regole e di volonta' decisa di continuare. E anche l'intuizione che tutto
questo non basta" (24).
Il 1998 fu un anno duro per Tarso che, tornato a fare l'avvocato, dopo il
mandato di sindaco di Porto Alegre, si era candidato per la carica di
governatore di Rio Grande do Sul. Perse per pochi voti (48,88% contro
49,92%) la "previa", le primarie interne al Pt, contro Olivio Dutra. Dopo
questa sconfitta decide di ritirarsi per un po' di tempo, "defezione" che fa
discutere ancora oggi amici e nemici. Tarso, infatti, era partito con Cezar
Alvarez per Sao Paulo, per coordinare la terza campagna elettorale di Lula
in corsa per la presidenza della repubblica.
Leggere il libro di Tarso sulla democrazia, oggetto dei suoi studi e della
pratica politica dagli anni novanta al presente, significa addentrarci nelle
domande che l'America Latina si pone rispetto a un percorso che per questo
continente non e' mai stato facile, ne' tantomeno portatore di valori di
eguaglianza e giustizia. Il sistema rappresentativo si e' innestato qui su
profonde diseguaglianze di reddito e di cultura, spesso rendendo tali
baratri ancora piu' profondi. I sistemi politici si sono basati
sull'esclusione dei "los de abajo". Nelle loro poverta', infatti, restano
attaccati alle reti di patrocinio e la politica del dono, si sa, e' gestione
della scarsita'. Anche il voto e' considerato un bene di scambio tra gli
altri. I potenti locali, nonostante il suffragio universale, restano
cacicchi, ingranaggi indispensabili al funzionamento della democrazia
rappresentativa in un ordine patrimoniale.
Nonostante, tuttavia, si immagini l'America Latina con una vita politica
agitata da violente turbolenze, con colpi di stato e rivoluzioni, le sue
istituzioni rappresentative, anche se disattese, "creano affetto" (25). Le
elite dirigenti hanno capito che la peggior democrazia vale la miglior
dittatura. Anzi, lo avevano capito i militari che, dopo il "decennio
perduto" degli anni Ottanta - in Brasile degli anni Settanta - per gestire
la loro bancarotta, avevano aperto processi di liberalizzazione, non
abbandonando del tutto le forme di "cortesia costituzionale".
L'America Latina ha un "fondo" di durezza che si percepisce solo dopo un po'
che si frequenta. Non e' la violenza superficiale della malavita delle
megalopoli e neppure quella delle favelas o dei barrios poveri. E' qualcosa
di piu', che proviene dal fondo dei secoli, dalla colonizzazione europea, da
riti antichi che disprezzavano l'umanita' individuale, dalla crudelta' che
spesso ha imposto un confronto aspro con la natura. Tutto questo "fondo", a
un primo incontro, resta nascosto sotto il gioviale movimento delle folle
latinoamericane, che tanto affascina gli europei, e il calore di una
popolazione apparentemente piu' diretta nei rapporti interpersonali.
Penetrare oltre questo strato impone di entrare verso il centro focale di un
continente che non e' riconciliato con se stesso. Del resto, quale
continente lo e'? Anche l'Europa proietta ombre grandiose di rimosso storico
che fanno rabbrividire gli animi con le loro figure di razzismo,
intolleranza e pervicace immobilita' sociale.
In questo contesto, il Brasile e' una nazione che ha intrapreso la strada
per arrivare al proprio cuore "duro", con sedimentati processi di educazione
democratica, in cui continua a fare i conti con la trascendenza religiosa
trasposta nella cultura laica come forma di pensare verticale e
trascendente. In altre parole, la societa' sembra  "naturalmente" divisibile
fra chi comanda e chi obbedisce, fra chi chiede favori e chi presta
clientele. Con il politico eletto si stabilisce una relazione personale di
tutela, egli diventa uno cui chiedere favori ed egli stesso si pensa come
elargitore di risorse. Per questo, la possibilita' di una politica veramente
democratica in Brasile passa per una rifondazione totale della societa'
brasiliana, soprattutto per l'accettazione del principio liberale
dell'uguaglianza di fronte alla legge e, pertanto, della giustizia come polo
egualitario. Che il potere politico sia l'esercizio di una sovranita'
sociale e non un potere che si separa dalla societa' civile per controllarla
e' un'idea ancora da maturare. Lula puo' favorirla perche' e' immagine non
scollata fra potere politico e societa' civile. Si puo' pero' lasciare
questa responsabilita' a un unico simbolo?
*
In Brasile, oltre al disincanto verso la giustizia mondana, affiora un altro
anelito profondo. Il brasiliano cerca la democrazia come quello scrittore,
descritto da Rubem Fonseca (26) che, resistendo allo scoraggiamento dello
scrivere, va in giro a trovare fatti, personaggi e connessioni per il suo
libro che fa coincidere con la vita. Una sorta di necessaria biopolitica
insomma, in cui la sfera della politica e quella dell'esistenza personale
traggono senso l'una dall'altra. Tarso si comporta allo stesso modo nella
sua ansia di democrazia, insistendo nel far ripartire il processo politico
brasiliano dalla creazione di diritti, attraverso la costituzione di
poteri - popolari, sociali, culturali - che esprimano reali rappresentanze
politiche. Ma come si puo' costruire una democrazia che diventi davvero
"postulato etico" (27) di una nazione?
Il dibattito sulla democrazia nell'era della globalizzazione solleva diversi
dubbi.  Prima di tutto per l'uso ideologico che potenze come gli Stati Uniti
ne fanno, occultando i veri interessi, economici e strategici, del loro
ergersi a difensori del mondo. La guerra inconclusa in Iraq e' un esempio
inequivocabile al riguardo.
Un'altra domanda riguarda il ruolo della democrazia nei paesi poveri, dove
restano prioritari la ricerca di risorse alimentari - il rapporto fra
carestie e mancanza di politiche democratiche e' ampiamente documentato - e
posti di lavoro, prima dei cambiamenti istituzionali.
Un altro dubbio ancora riguarda l'opportunita' di promuovere la democrazia
in paesi che non la "conoscono". Si presume, di conseguenza, che la
democrazia abbia radici solo ed esclusivamente nel pensiero occidentale. Al
proposito, Amartya Sen, sviluppa il concetto di John Rawls, relativo
all'"esercizio della ragione pubblica" (28), cioe' l'idea che i cittadini
partecipino alle discussioni politiche e siano in grado di influenzare le
scelte pubbliche, indipendentemente dalle forme istituzionali che le
favoriscono. La visione della democrazia come esercizio della ragione
pubblica permette di capire due cose fondamentali: che le sue radici vanno
molto al di la' degli stretti confini di alcune pratiche come il voto,
tipiche delle cosiddette istituzioni democratiche occidentali e che la
difesa del pluralismo, delle diversita' e delle liberta' fondamentali e'
presente nella storia di molte societa'. Si tratta, come dice Boaventura de
Sousa Santos, di recuperare alla memoria i cammini umani della
"demodiversita'".
In questa ricerca, si scopre allora che in Sudafrica esiste, come narra
Nelson Mandela nella sua autobiografia Lungo cammino verso la liberta', la
tradizione delle riunioni locali di autogoverno, dove capo e suddito,
bracciante e proprietario, guerriero e uomo di medicina si confrontavano
alla pari. Oppure che grandi movimenti di intolleranza hanno attraversato
Oriente e Occidente, Nord e Sud, compresa l'Italia, con roghi di "eretici" e
scienziati (Giordano Bruno a Campo dei Fiori nella Roma del 1600 ne e' un
esempio emblematico) in eta' moderna, le persecuzioni antiebraiche e le
ondate di razzismo xenofobo della contemporaneita'.
Se pur e' vero che una riforma intellettuale e morale della politica "puo'
maturare solo da tensioni, passioni, conflitti nella societa'" (29), pensare
la democrazia oggi significa individuare modi e valori del riconoscimento
della societa' nello stato e viceversa. Per una democrazia sorta, proprio
come un'araba fenice, dalle ceneri della dittatura, e' una grande sfida.
Tarso Genro l'ha accolta e ha sviluppato il suo pensiero intorno ad alcuni
temi chiave, la cui interdipendenza lascia emergere una nuova teoria dello
stato. Vediamo, dunque, il suo svolgersi.
*
"Modo petista di governare"
Gli anni Novanta sono stati un decennio di sperimentazione di governo per il
Pt, al governo in oltre trecento comuni, di cui e' simbolo la citta' di
Porto Alegre. E' stata un'esperienza locale che ha indicato qualcosa di piu'
universale, perche' la democrazia ben riuscita in un luogo diventa un atto
politico cosmopolita che ha suscitato profonde domande di senso. Tanto che
ogni anno si tiene un seminario nazionale dei sindaci per fare un bilancio
sulle politiche locali. Gli interrogativi sono: come restare partito di
lotta e governo; come coniugare democrazia rappresentativa con democrazia
diretta; come sviluppare microsistemi economici per valorizzare le risorse
locali. Gli atti dei seminari portano la firma di tutti gli attuali
protagonisti del governo Lula: Luiz Dulci, Olivio Dutra, Raul Pont, Antonio
Palocci, Cesar Alvarez, Marco Aurelio Garcia, a conferma del fatto che sono
politici che hanno dietro di se' un lungo percorso di  impegno
amministrativo.
E' dall'esperienza nelle citta' che si e' consolidata un'idea centrale,
teorizzata da Tarso sin da quando parti' la "lunga marcia nelle istituzioni"
del Pt: "Il governo popolare governa per tutta la societa' e per tutta la
citta'... Ha proposte per tutte le classi secondo una visione del mondo
generale dei lavoratori" (30). Con il passare degli anni, Tarso precisa
ancora che "Il partito deve rispondere programmaticamente alle domande di
tutta la societa'" (31).
Tarso si differenzia dagli altri teorici del suo partito per dire che il
modo petista di governare e' un dibattito strategico, non tattico. Ai suoi
compagni di partito chiede: "Qual e' la differenza fra un 'buon governo' del
Partido dos Trabalhadores e un 'buon governo' di qualsiasi altro partito,
considerando questo 'buon governo' a partire da alcune premesse universali,
per esempio, gestire la macchina pubblica con efficienza, avere una buona
erogazione di servizi, fare investimenti che rispondano a domande della
societa'". E' una domanda alla quale se ne affianca un'altra, piu'
ideologica: "la costruzione del socialismo puo' avanzare solo con la presa
del palazzo d'inverno?" (32). Vi e' quasi costretto perche' lui vi ha gia'
risposto da tanto tempo, ma  su questo si sta ancora interrogando l'ala
sinistra del partito, anzi, tendenze trasversali se lo chiedono
periodicamente. Esse sembrano vivere negli anni cinquanta, con un paradigma
del mondo basato su confini ideologici invalicabili fra destra e sinistra,
miopi ad alleanze in vista su obiettivi minimi comuni. Al polo opposto
un'altra tendenza, "neoriformista", considera il governo, locale o
nazionale, semplice erogatore di politiche sociali.
Tarso propone una "terza via" cioe' "un governo che non solo adempia alle
prestazioni sociali necessarie e che sono dovute alla societa'... ma che,
soprattutto, provochi profondi mutamenti nella realta' spirituale e
materiale della citta', perche' questa realta' cessi di essere ostile a un
progetto democratico-socialista e permetta la ricomposizione stato-societa'
su nuove basi, con il controllo pubblico dello Stato" (33).
Non e' solo una questione amministrativa, ma strategica, perche' presuppone
coesione sociale e opinione pubblica libera, non soggiogata ai grandi mezzi
di comunicazione, cosi' potenti nel Brasile dell'emittente Globo. Una citta'
frammentata e' una citta' passibile di controllo autoritario, la sua
ricomposizione economica deve essere accompagnata dalla restituzione di
un'identita' come nuovo soggetto politico. In altre parole, l'impegno del
"modo petista di governare" deve saper creare una diffusa cultura politica:
"Lo sviluppo non e' una semplice questione di aumento di offerta di beni o
di accumulazione di capitale... e' un 'sentido', un insieme di risposte a un
progetto di autotrasformazione di una collettivita' umana" (34). Su questi
obiettivi si chiarisce la differenza fra destra e sinistra, soprattutto
quando o l'una o l'altra sono all'opposizione: "La destra all'opposizione,
per esempio, vede come elemento centrale della liberta' 'la libera
iniziativa economica', e la sinistra, nella stessa situazione, vede la
liberta' come liberta' 'di opinione e di organizzazione'" (35).
In questo contesto, il ruolo del Pt e' fondamentale. Proprio perche' unisce
cristiani, laici, marxisti, socialdemocratici. Tuttavia, Tarso si chiede
quanto questa consapevolezza sia incorporata nella militanza di un partito
che ha mantenuto antiche parole d'ordine, ancorate a presupposti teorici
ormai desueti, perche' nati dentro la societa' della seconda rivoluzione
industriale e centrate sul ruolo egemone di una classe operaia concentrata
in grandi fabbriche che oggi non esistono piu'. Al loro posto i nuovi operai
girano intorno ai computer, non sono localizzati in un solo luogo fisico e
hanno un rapporto individualista con la produzione. Il proletariato,
considerato strategico da Marx non perche' era povero, ma perche' occupava
un luogo speciale nel sistema produttivo, poiche' tutta la societa'
dipendeva da cio' che produceva, non esprime piu' da solo una visione del
mondo emancipatrice per tutti, ne' ha piu' un ruolo garantito nella storia:
non e' piu' il lavoro la base civilizzatrice della societa'.
Nuovi poveri e nuove forme di relazione con la natura suggeriscono economie
alternative. I loro movimenti, accettano di partecipare ad azioni politiche
solo se offrono risultati immediati, nella ricerca continua di una
quotidianita' piu' umana e meno atomizzata. Come conciliare lo stile di
lotta di movimenti nati intorno a interessi particolari: terra, casa, cibo,
ambiente... con la politica di rappresentanza? Come fare interagire liberta'
individuale e solidarieta' collettiva? Questo dibattito, dice Tarso, deve
avvenire dentro e fuori le sedi del Pt che soffre la distruzione dell'utopia
socialista. Egli legge il Pt con la stessa obiettivita' con cui analizza la
societa': "il partito non e' solo un educatore, ma un vivaio di patologie
sociali e riproduttore etico-morale del sistema" (36) in cui si trova a
operare. Per questo motivo i suoi quadri dirigenti devono essere convinti
democratici per la "nuova tappa" che sta davanti al Brasile di Lula.
La questione democratica e' cosi' importante che deve uscire dalle stanze
del Pt per invadere nuovi luoghi della politica. E non si deve porre in
termini di contrapposizione fra "lotta sociale" per le strade e "lotta
istituzionale" nei governi locali, regionali o statali. Essa investe una
dinamica politica che passa dentro e fuori lo Stato, dentro e fuori la
societa'. La democratizzazione dello Stato, insiste con molta forza Tarso,
non puo' essere una mera tattica, in vista di qualcos'altro di indefinito,
bensi' un valore irrinunciabile e una pratica creativa di nuovi reali poteri
politici, di cui il Bilancio Partecipato e' solo un esempio. La democrazia
non e' un mezzo, e' un fine, intorno al quale fondare un progetto
strategico, in grado di realizzare le aspirazioni all'equita' sociale e alle
liberta' del socialismo. In altre parole, la democrazia e' tre cose
contemporaneamente: Stato di diritto, valore etico-politico, e progetto
storico di lungo periodo.  Per raggiungere questi obiettivi si deve essere
coscienti che la strategia democratica e' un processo lento che "esige un
lento accumulo di forze, cosi' come furono lente tutte le conquiste durature
nella storia" e il partito e' invitato ad attuare i valori del socialismo um
anista dentro le sue strutture, per essere piu' credibile perche' se non
sara' a "immagine e somiglianza della societa' che vuole costruire" (37),
non sara' ascoltato. Ma a quale socialismo si ispira Tarso?
*
Note
24. Genro T., Diario, 28 giugno 1991. Inedito.
25. Rouquie' A., L'America latina, Milano, Mondadori, 2000, p. 239.
26. Rubem Fonseca, L'arte di andare a piedi per le strade di Rio de Janeiro
e altri racconti, I libri della Biblioteca del Vascello, 1995.
27. Bobbio N., Stato, governo, societa' civile. Frammenti di un dizionario
politico, Torino, Einaudi, 1995, p. 108.
28. Amartya Sen, Le radici della democrazia, in "Internazionale", 7/13
novembre 2003, n. 513.
29. Foa V., Questo Novecento. Un secolo di passione civile. La politica come
responsabilita', Torino, Einaudi, 1996, p. 374.
30. Genro T., Uma politica para o governo popular, Documento riservato,
1994.
31. Genro T., Combinar democracia direta e democracia representativa, in AA.
VV., Desafios do governo local, Sao Paulo, Fundacao Perseu Abramo, 1997, p.
16.
32. Genro T., Um debate estrategico in AA. VV., Governo e Cidadania, Sao
Paulo, Fundacao Perseu Abramo, 1999, p. 11.
33. Genro T., Um debate estrategico, cit., p. 15.
34. Furtado C., Um projecto para o Brasil, Rio de Janeiro, Editora Saga,
1968, p. 19.
35. Genro T., Reinventar el futuro, Barcelona, Ediciones del Serbal, 2000,
p. 110.
36. Genro T., Um novo periodo de nossa experiencia. Notas sobre o partido
necessario para esta nova etapa, Movimento Rede, 2002, p. 8.
37. Genro T., Utopia possivel, Porto Alegre, Artes e Oficios, 1992, p. 136.
(Parte seconda - Segue)

3. MAESTRI. MARTIN LUTHER KING: OLTRE IL VIETNAM
[Ringraziamo Fulvio Cesare Manara (per contatti: philosophe0 at tin.it) per
averci messo a disposizione l'antologia di scritti e discorsi di Martin
Luther King da lui curata, Memoria di un volto: Martin Luther King,
Dipartimento per l'educazione alla nonviolenza delle Acli di Bergamo,
Bergamo 2002, che reca traduzioni di discorsi e scritti del grande maestro
della nonviolenza. Il testo seguente e' quello del discorso tenuto nella
chiesa di Riverside, New York, 4 aprile 1967. Martin Luther King, nato ad
Atlanta in Georgia nel 1929, laureatosi all'Universita' di Boston nel 1954
con una tesi sul teologo Paul Tillich, lo stesso anno si stabilisce, come
pastore battista, a Montgomery nell'Alabama. Dal 1955 (il primo dicembre
accade la vicenda di Rosa Parks) guida la lotta nonviolenta contro la
discriminazione razziale, intervenendo in varie parti degli Usa. Premio
Nobel per la pace nel 1964, piu' volte oggetto di attentati e repressione,
muore assassinato nel 1968. Opere di Martin Luther King: tra i testi piu'
noti: La forza di amare, Sei, Torino 1967, 1994 (edizione italiana curata da
Ernesto Balducci); Lettera dal carcere di Birmingham - Pellegrinaggio alla
nonviolenza, Movimento Nonviolento, Verona 1993; L'"altro" Martin Luther
King, Claudiana, Torino 1993 (antologia a cura di Paolo Naso); "I have a
dream", Mondadori, Milano 2001; cfr. anche: Marcia verso la liberta', Ando',
Palermo 1968; Lettera dal carcere, La Locusta, Vicenza 1968; Il fronte della
coscienza, Sei, Torino 1968; Perche' non possiamo aspettare, Ando', Palermo
1970; Dove stiamo andando, verso il caos o la comunita'?, Sei, Torino 1970.
Presso la University of California Press, e' in via di pubblicazione
l'intera raccolta degli scritti di Martin Luther King, a cura di Clayborne
Carson (che lavora alla Stanford University). Sono usciti sinora cinque
volumi (di quattordici previsti): 1. Called to Serve (January 1929 - June
1951); 2. Rediscovering Precious Values (July 1951 - November 1955); 3.
Birth of a New Age (December 1955 - December 1956); 4. Symbol of the
Movement (January 1957 - December 1958); 5. Threshold of a New Decade
(January 1959 - December 1960); ulteriori informazioni nel sito:
www.stanford.edu/group/King/ Opere su Martin Luther King: Arnulf Zitelmann,
Non mi piegherete. Vita di Martin Luther King, Feltrinelli, Milano 1996;
Sandra Cavallucci, Martin Luther King, Mondadori, Milano 2004. Esistono
altri testi in italiano (ad esempio Hubert Gerbeau, Martin Luther King,
Cittadella, Assisi 1973), ma quelli a nostra conoscenza sono perlopiu' di
non particolare valore: sarebbe invece assai necessario uno studio critico
approfondito della figura, della riflessione e dell'azione di Martin Luther
King (anche contestualizzandole e confrontandole con altre contemporanee
personalita', riflessioni ed esperienze di resistenza antirazzista in
America). Una introduzione sintetica e' in "Azione nonviolenta" dell'aprile
1998 (alle pp. 3-9), con una buona bibliografia essenziale]

Credo che il cammino dalla chiesa battista di Dexter Avenue - la chiesa  di
Montgomery, nell'Alabama, dove ho cominciato il ministero pastorale -,
conduca proprio qui, al santuario dove ci troviamo stasera.
C'e' un nesso molto evidente e quasi elementare fra la guerra in Vietnam e
la lotta che io e altri abbiamo intrapreso in America. Qualche anno fa,
quella lotta ha visto un momento luminoso: e' sembrato che per i poveri -
neri e bianchi - ci fosse una promessa concreta di speranza, grazie al
programma contro la poverta'. Ci furono esperimenti, speranze, nuove
aperture. Poi comincio' a crescere la tensione nel Vietnam, e io ho visto
questo programma frantumarsi e svuotarsi, come se fosse l'ozioso balocco
politico di una societa' impazzita per la guerra. E ho capito che l'America
non avrebbe mai investito i fondi e le energie necessarie a riabilitare i
suoi poveri, finche' le avventure come il Vietnam avessero continuato a
risucchiare uomini e talenti e denaro come una sorta di pompa aspirante,
demoniaca e distruttiva. Percio' mi sono visto sempre piu' costretto a
considerare la guerra un nemico dei poveri e in quanto tale ad attaccarla.
Forse e' stato un piu' tragico riconoscimento della realta' quando ho capito
che la guerra faceva assai di piu' che devastare le speranze dei poveri in
patria. La guerra mandava i loro figli e fratelli e mariti a combattere e a
morire in una percentuale straordinariamente superiore alla loro consistenza
proporzionale nella popolazione. Stavamo prendendo i giovani neri che la
nostra societa' aveva mutilato, e li mandavamo a quindicimila chilometri di
distanza, per garantire nel Sudest asiatico liberta' a cui essi stessi non
avevano accesso nel Sudovest della Georgia o a Harlem est. E cosi' ci siamo
trovati piu' volte di fronte alla crudele ironia di vedere sugli schermi
televisivi ragazzi neri e bianchi che uccidono e muoiono insieme, per un
paese incapace di farli sedere insieme nei banchi delle stesse scuole. E
cosi' li vediamo affiancati e solidali nella brutalita', mentre incendiano
le capanne di un povero villaggio, ma ci rendiamo conto che a Chicago
difficilmente potrebbero abitare nello stesso isolato. Io non potevo restare
in silenzio di fronte a una cosi' crudele manipolazione dei poveri.
Mentre camminavo circondato di giovani arrabbiati, disperati, rifiutati,
dicevo loro che i fucili e le bombe molotov non avrebbero risolto i loro
problemi. Ho cercato di far sentire loro la mia piu' profonda compassione,
insieme sostenendo la convinzione che i mutamenti sociali si producono nel
modo piu' significativo attraverso l'azione nonviolenta. Ma loro mi
chiedevano, e giustamente: "E il Vietnam, allora?". Mi chiedevano se non era
forse vero che il nostro paese impiegava la violenza in dosi massicce per
risolvere i problemi, per produrre i cambiamenti desiderati. Le loro domande
coglievano nel segno; io sapevo che non avrei mai piu' potuto alzare la voce
contro la violenza degli oppressi nei ghetti senz'aver prima parlato chiaro
al maggior fornitore di violenza del mondo di oggi: il mio stesso governo.
Per amore di quei ragazzi, per amore di questo governo, per amore delle
centinaia di migliaia di esseri umani che tremano sotto la nostra violenza,
non posso tacere.
*
Ora, dovrebbe essere chiaro fino all'incandescenza come nessuno, che abbia
in qualche modo a cuore l'integrita' e la vita dell'America di oggi, possa
ignorare questa guerra. Se l'anima dell'America restera' del tutto
avvelenata, nell'autopsia si potra' leggere anche la parola "Vietnam".
L'anima dell'America non si potra' salvare finche' continua a distruggere le
piu' radicate speranze degli uomini di tutto il mondo. E cosi', quelli fra
noi che sono ancora convinti che l'"America deve esistere" devono
incamminarsi sul sentiero della protesta e del dissenso, lavorare per la
salvezza della nostra terra.
Come se non bastasse il peso di un simile impegno in nome della vita e della
salvezza dell'America, nel 1964 mi e' stato imposto un nuovo fardello di
responsabilita'; e non posso dimenticare che il premio Nobel per la pace era
anche un incarico, l'incarico di lavorare con piu' impegno che mai per la
fratellanza degli uomini. Questa vocazione mi porta a superare i doveri
della fedelta' nazionale.
Ma anche in mancanza di questo, dovrei pur sempre vivere con il senso del
mio impegno di ministro di Gesu' Cristo. Per me e' talmente evidente il
rapporto che lega questo ministero al dovere di costruire la pace, che
talvolta mi stupisco che mi si domandi come mai parlo contro la guerra.
Com'e' possibile che i miei interlocutori non sappiano che la Buona Novella
si rivolge a tutti gli uomini: ai comunisti e ai capitalisti, ai loro figli
e ai nostri, ai neri e ai bianchi, ai rivoluzionari e ai conservatori? Hanno
dimenticato che il mio ministero e' istituito in obbedienza a Colui che ha
amato i suoi nemici al punto di morire per loro? E allora, che cosa posso
dire ai vietcong, o a Castro, o a Mao, in qualita' di ministro fedele di
Costui? Posso minacciarli di morte, o non dovro' invece condividere con loro
la mia vita?
Infine, mentre cerco di spiegare a voi e a me stesso il percorso che da
Montgomery conduce a questo luogo, darei la spiegazione piu' valida se
dicessi semplicemente che devo restare fedele alla mia convinzione di
condividere con tutti gli uomini la vocazione a essere figlio del Dio
vivente. Al di la' del richiamo della razza o della nazione o del credo
religioso, vale questa vocazione filiale e fraterna. Proprio perche' credo
che il Padre si prende cura in modo particolare dei suoi figli sofferenti e
impotenti e reietti, stasera sono venuto a parlare per loro. Credo che in
questo consista il privilegio e il fardello che tutti noi, che ci riteniamo
vincolati da fedelta' e lealta' piu' vaste e piu' profonde del nazionalismo
e tali da oltrepassare e sopravanzare le mete e le posizioni che la nostra
nazione fissa per se stessa, dobbiamo aspettarci. Siamo chiamati a parlare
per i deboli, per chi non ha voce, per le vittime della nostra nazione, per
coloro che essa definisce "il nemico", perche' non esiste documento di mano
umana che possa rendere questi esseri umani meno che nostri fratelli.
*
La guerra in Vietnam non e' che il sintomo di un malessere assai piu'
radicato nello spirito americano, e se ignoreremo queste realta' che ci
obbligano a riflettere, nella prossima generazione ci ritroveremo a
organizzare altri "comitati del clero e dei laici preoccupati": si
preoccuperanno per il Guatemala e il Peru', per la Thailandia e la Cambogia,
per il Mozambico e il Sudafrica. Ci tocchera' scendere in corteo per questi
nomi e per una dozzina d'altri, andare a infiniti raduni e manifestazioni,
se non si verifichera' un cambiamento significativo e radicale nella vita e
nella politica americana. E dunque questi pensieri ci portano oltre il
Vietnam, ma non oltre la nostra vocazione di figli del Dio vivente.
Nel 1957, un funzionario americano dotato di sensibilita' disse che secondo
lui il nostro paese sembrava situato sul versante meno vantaggioso di una
rivoluzione mondiale. Negli ultimi dieci anni abbiamo visto affiorare uno
schema di repressione che oggi giustifica la presenza di consulenti militari
statunitensi in Venezuela. La necessita' di mantenere la stabilita' sociale
per favorire i nostri investimenti spiega l'opera controrivoluzionaria
compiuta dalle forze americane nel Guatemala; spiega come mai contro i
guerriglieri cambogiani si usino elicotteri americani, come mai contro i
ribelli in Peru' siano gia' stati usati napalm americano e le truppe dei
Berretti Verdi.
Riflettendo su queste attivita', le parole del compianto John F. Kennedy
tornano a ossessionarci; cinque anni fa Kennedy disse: "Coloro che rendono
impossibile la rivoluzione pacifica renderanno inevitabile la rivoluzione
violenta".
Per scelta o per caso, la nostra nazione si e' investita sempre piu' spesso
di questo ruolo: il ruolo di coloro che rendono impossibile una rivoluzione
pacifica, rifiutandosi di rinunciare ai privilegi e ai piaceri derivanti
dagli immensi profitti degli investimenti in tutto il mondo.
*
Io sono persuaso che se vogliamo passare al versante positivo della
rivoluzione mondiale, come nazione dobbiamo compiere una radicale
rivoluzione dei valori. Dobbiamo al piu' presto cominciare a passare da una
societa' orientata alle cose a una societa' orientata alle persone. Finche'
considereremo le macchine e i computer, le motivazioni del profitto e i
diritti di proprieta' piu' importanti delle persone, i tre giganti del
razzismo, del materialismo estremo e del militarismo non potranno mai essere
sconfitti.
Una vera rivoluzione dei valori ci indurrebbe ben presto a mettere in
discussione l'equita' e la giustizia di molte nostre scelte politiche del
presente e del passato. Da un lato siamo chiamati a operare come il buon
samaritano sul ciglio della strada della vita, ma questo e' soltanto il
principio: un giorno dovremo arrivare a capire che bisogna trasformare
l'intera strada per Gerico, in modo che gli uomini e le donne non continuino
ad essere picchiati e rapinati mentre sono in viaggio sull'autostrada della
vita. La vera compassione non si limita a gettare una moneta al mendicante,
ma arriva a capire che, se produce mendicanti, un edificio ha bisogno di una
ristrutturazione.
Una vera rivoluzione dei valori guarderebbe ben presto con disagio al
violento contrasto fra poverta' e ricchezza. Con l'indignazione del giusto,
getterebbe lo sguardo oltre i mari, e vedrebbe i singoli capitalisti
dell'Occidente investire immense somme di denaro in Asia, in Africa,
nell'America del Sud, soltanto per ricavarne profitto, senza curarsi affatto
del progresso sociale di questi paesi, e direbbe: "Questo non e' giusto".
Guarderebbe alla nostra alleanza con i proprietari terrieri dell'America
Latina e direbbe: "Questo non e' giusto". Il senso di arroganza tipico
dell'Occidente, che crede di avere tutto da insegnare agli altri, e nulla da
imparare da loro, non e' giusto.
Una vera rivoluzione dei valori mettera' mano all'ordinamento mondiale, e
della guerra dira': "Questo modo di comporre i dissidi non e' giusto".
Bruciare gli esseri umani con il napalm, riempire le nostre case di orfani e
di vedove, iniettare germi velenosi di odio nelle vene di popoli che di
norma sarebbero pieni di umanita', rimandare a casa uomini che hanno
combattuto in campi di battaglia tenebrosi e sanguinosi e tornano menomati
nel fisico e turbati nella psiche: tutti questi atti non possono conciliarsi
con la saggezza, la giustizia, l'amore. Una nazione che continua, un anno
dopo l'altro, a spendere piu' denaro per la difesa militare che per i
programmi di elevazione sociale, si avvicina alla morte dello spirito.
L'America, che e' la nazione piu' ricca e potente del mondo, in una
rivoluzione dei valori potrebbe certo fare da battistrada. Soltanto un
tragico desiderio di morte ci puo' impedire di riordinare la nostra scala di
priorita', in modo che il perseguimento della pace abbia la precedenza sul
perseguimento della guerra. Niente ci puo' impedire di usare le mani ferite
per plasmare uno status quo recalcitrante fino a trasformarlo in
fraternita'.
I nostri sono tempi rivoluzionari. In tutto il mondo gli uomini si ribellano
contro antichi regimi di sfruttamento e di oppressione; dalle piaghe di un
mondo fragile nascono regimi nuovi ispirati alla giustizia e
all'uguaglianza. I popoli scamiciati e scalzi della terra si stanno
sollevando come non mai. Il popolo che era nelle tenebre ha visto una grande
luce [Is, 9, 2]. Noi in Occidente dobbiamo sostenere queste rivoluzioni.
E' una triste realta' che a causa dell'amore per le comodita',
dell'autocompiacimento, di una paura morbosa del comunismo, della tendenza
ad adeguarci all'ingiustizia, le nazioni occidentali, che hanno avuto un
ruolo da iniziatori per quanto riguarda gran parte dello spirito
rivoluzionario del mondo moderno, oggi siano diventate arcicontrarie alle
rivoluzioni. Percio' molti sono stati indotti a credere che soltanto il
marxismo possieda spirito rivoluzionario; e, di conseguenza, il comunismo e'
la punizione che abbiamo meritato per non essere riusciti a tradurre in
realta' la democrazia e a portare fino in fondo le rivoluzioni che avevamo
iniziato. Oggi abbiamo una sola speranza: riuscire a riconquistare lo
spirito rivoluzionario e uscire in un mondo talvolta ostile dichiarando
eterna ostilita' alla poverta', al razzismo, al militarismo. Questo impegno
potente ci permettera' di lanciare una audace sfida allo status quo e alle
consuetudini ingiuste, e cosi' avvicineremo il giorno in cui "si colmi ogni
valle, ogni monte o colle si abbassi, l'erta si cambi in piano e la
scabrosita' in liscio suolo" [Is, 40, 4].
Un'autentica rivoluzione dei valori significa in ultima analisi che dobbiamo
avere una forma di lealta' ecumenica e non settoriale. Ogni nazione, ormai,
deve sviluppare sopra ogni altra cosa una lealta' verso l'umanita', verso
l'umanita' nel suo insieme, in modo da riuscire a conservare il meglio delle
singole societa'.
*
Dobbiamo superare l'indecisione passando all'azione. Dobbiamo trovare nuovi
modi per parlare a favore della pace nel Vietnam e della giustizia in tutti
i paesi in via di sviluppo, il cui confine comincia alla soglia delle nostre
case. Se non agiremo, saremo certo trascinati lungo gli oscuri, lunghi e
infamanti corridoi del tempo riservati a quanti possiedono potere ma non
compassione, potenza ma non moralita', forza ma non giudizio.
Cominciamo. Rinnoviamo la nostra dedizione alla battaglia per un mondo
nuovo, lunga e aspra ma bellissima. Questa e' la vocazione a cui sono
chiamati i figli di Dio, e i nostri fratelli aspettano con ansia la nostra
risposta. Diremo che siamo troppo svantaggiati in partenza? Diremo che la
lotta e' troppo aspra? Il nostro messaggio sara' che le forze della vita
americana militano contro la loro possibilita' di diventare uomini in senso
pieno, e noi inviamo i sensi del piu' profondo rammarico? Oppure ci sara' un
messaggio diverso: di desiderio, di speranza, di solidarieta' con le loro
aspirazioni, di impegno verso la loro causa, a qualsiasi costo? Tocca a noi
scegliere, e anche se forse preferiremmo che non fosse cosi', dobbiamo
scegliere in questo momento cruciale della storia umana.

4. RIVISTE. CON "QUALEVITA", LA LEZIONE DI FRANCUCCIO GESUALDI
Abbonarsi a "Qualevita" e' un modo per sostenere la nonviolenza. Ponendosi
all'ascolto della lezione di Francuccio Gesualdi.
*
"Abbiamo mille motivi per ricercare una forma di vita piu' sobria. Ecco la
grande sfida che ci attende: sapere riconoscere i bisogni fondamentali e
saperli garantire a tutti" (Francesco Gesualdi, "Come consumatori coscienti
possiamo diventare lievito in questa societa' dello spreco", in "Giorni
nonviolenti 2005", Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi 2004).
*
"Qualevita" e' il bel bimestrale di riflessione e informazione nonviolenta
che insieme ad "Azione nonviolenta", "Mosaico di pace", "Quaderni
satyagraha" e poche altre riviste e' una delle voci piu' qualificate della
nonviolenza nel nostro paese. Ma e' anche una casa editrice che pubblica
libri appassionanti e utilissimi, e che ogni anno mette a disposizione con
l'agenza-diario "Giorni nonviolenti" uno degli strumenti di lavoro migliori
di cui disponiamo.
Abbonarsi a "Qualevita", regalare a una persona amica un abbonamento a
"Qualevita", e' un'azione buona e feconda.
Per informazioni e contatti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030
Torre dei Nolfi (Aq), tel. 3495843946, o anche 0864460006, o ancora
086446448; e-mail: sudest at iol.it o anche qualevita3 at tele2.it; sito:
www.peacelink.it/users/qualevita
Per abbonamenti alla rivista bimestrale "Qualevita": abbonamento annuo: euro
13, da versare sul ccp 10750677, intestato a "Qualevita", via Michelangelo
2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), specificando nella causale "abbonamento a
'Qualevita'".

5. LETTURE. DANIELA PADOAN: LE PAZZE. UN INCONTRO CON LE MADRI DI PLAZA DE
MAYO
Daniela Padoan, Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo,
Bompiani, Milano 2005, pp. 432, euro 9,50. Una lettura appassionante e
indispensabile. Indispensabile.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 974 del 27 giugno 2005

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