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Nonviolenza. Femminile plurale. 10
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 10
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 5 May 2005 12:43:24 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 10 del 5 maggio 2005 In questo numero: 1. Giulia Allegrini: "Siamo indigene, siamo povere e siamo donne. Dobbiamo lottare tre volte. Scegliendo la nonviolenza, che e' femminile" (parte seconda e conclusiva) 2. Luisa Muraro: La liberta' di Iris Murdoch 3. Catherine Makino: Una riforma costituzionale contro le donne 4. Riletture: Simone de Beauvoir, A conti fatti 1. INCONTRI. GIULIA ALLEGRINI: "SIAMO INDIGENE, SIAMO POVERE E SIAMO DONNE. DOBBIAMO LOTTARE TRE VOLTE. SCEGLIENDO LA NONVIOLENZA, CHE E' FEMMINILE" (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Da "Azione nonviolenta" di gennaio-febbraio 2005 (per contatti: e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org). Giulia Allegrini e' impegnata in esperienze di pace, per i diritti, per la nonviolenza. La prima parte di questa serie di interviste abbiamo riprodotto in "Nonviolenza. Femminile plurale" n. 9] Maori, Nuova Zelanda: colonizzazione, globalizzazione ed azioni nonviolente I maori sono una popolazione polinesiana giunta in Nuova Zelanda intorno al 900 d. C. che grazie ad un'intensa attivita' bellica ed una forte organizzazione militare riusci' a conquistare gran parte dell'arcipelago e costruire villaggi fortificati. Il primo contatto con gli europei risale al 1642 quando l'olandese Abel Tasman tento' il suo primo approdo sulla coste "nuove". La vera colonizzazione europea inizio' alla fine del XVIII secolo, grazie all'utilizzo delle armi da fuoco. Fu nel 1769 che James Cook avvisto' l'isola del Nord della Nuova Zelanda iniziando a rivendicarne subito il possesso della Corona Britannica. Ma fu poi solo nel 1830 che gli inglesi si dichiararono interessati a questa zona del mondo. Nel 1840 con la stipula del trattato di Waintagi gli inglesi sancirono definitivamente l'intento di sottomettere i maori. La politica coloniale si fondo' sull'invio di una grossa comunita' borghese che voleva investire in fattorie e sfruttare quindi le terre. Il trattato del 1840 viene considerato il momento centrale nella fine della sovranita' maori aprendo la strada ad una vera "colonizzazione etnogiuridica e culturale". Il trattato si fondava su tre principi fondamentali: i capi maori riconoscevano la sovranita' inglese; i maori avrebbero goduto degli stessi diritti dei cittadini britannici; si garantiva il totale possesso terriero ai maori, ma con diritto di prelazione in caso di vendita per la corona inglese, mentre per i maori non era previsto alcun diritto di prelazione. Il trattato e' fondamentale nella comprensione del sistema di colonizzazione usato, in quanto basato su un'interpretazione del trattato completamente differente da quella dei maori. Per gli inglesi esso significava controllo e possesso totale delle terre maori, per questi alla base del trattato vi era invece un'idea di reciprocita' e scambio. Lo hau, lo spirito del dono, e' la forza magica del donatore che potrebbe ritorcersi contro chi viene meno all'obbligo di reciprocita'. Lo scambio di doni ha una funzione culturale e non utilitaristica e il concetto di proprieta' e' inteso non come esclusivo controllo delle risorse o di controllo privato, ma di ampia distribuzione del prodotto: la terra appartiene agli antenati e quindi non si puo' possedere alcun diritto di vendita. I maori si resero ben presto conto che il trattato non garantiva alcuna sovranita' come loro avevano inteso. Inizio' infatti un periodo di confische di terre e di vendita forzata ai coloni. La Nuova Zelanda e' indipendente dal 1931, ma gli effetti della colonizzazione, intrecciati a quelli della globalizzazione sono una forte minaccia alla conservazione della cultura, della lingua, della terra dei loro antenati. * Intervista a Moana Sinclair, Maori indigenous people - Giulia Allegrini: Potrebbe spiegare a grandi linee il suo lavoro e in quale contesto si colloca? - Moana Sinclair: Il mio lavoro come avvocato e' quello di rispondere agli errori commessi negli ultimi secoli dal processo di colonizzazione, portato avanti dagli inglesi. Nel 1931 abbiamo una dichiarazione di indipendenza, riconosciuta anche dagli inglesi. Nel 1840 c'e' il trattato di Waitangi, in cui si parla di sovranita'. Nel 1845 gia' si comprese che era un nonsenso, un imbroglio. Quando gli inglesi giunsero ci furono molti processi legali che incominciarono, tra inglesi e maori. Gli inglesi forzarono i maori a vendere ai coloni le terre. Nel 1865 tutta la terra comune fini' all'interno del sistema inglese basato sul titolo individuale. Quindi noi consideriamo che per cento anni il trattato e' stato ignorato. Nel 1997 il governo privatizza molti luoghi pubblici. I maori protestarono dicendo "che ne e' della nostra terra?". Furono messe delle targhe sulle terre che i maori avrebbero potuto reclamare. In seguito furono fatte delle leggi che stabilivano che nessun atto di privatizzazione poteva essere in conflitto con il trattato. Questo e' un piccolo ma significativo passo. Di 66 milioni di ettari 3 sono stati lasciati fuori dalla privatizzazione. Significa anche che abbiamo un argomento legale per il ritorno della terra ai maori, basato sul trattato. Il problema di fondo che ha anche permesso agli inglesi di appropriarsi delle terre e di cambiare il sistema di possesso di queste terre, e' che la sovranita' di cui si parla nel trattato e' intesa in modo differente: secondo gli inglesi questa e' concessa ai maori, secondo i maori la sovranita' e' dei maori, noi la possediamo, come possediamo il diritto alle nostre foreste, al nostro mare, ai pesci, agli alberi, e tutto cio' che la natura rende disponibile per noi. Attualmente abbiamo ottenuto qualche successo. Il mio lavoro e' quello di vedere come gli atti possono essere interpretati. C'e' infatti un tribunale, istituito nel 1975, e il mio lavoro e' quello di rappresentare i maori nei processi e di portare al tribunale reclami e denunce. - Giulia Allegrini: So che lei produce anche documentari. Sono parte di questa "battaglia legale"? - Moana Sinclair: Io ho una laurea in legge e un master in diritto internazionale. Ma quando ero studente facevo anche reportage e lavoravo in televisione. Cosi' ho poi iniziato ad usare le mie conoscenze legali per fare anche dei documentari. Mi divenne infatti sempre piu' evidente che era necessario ridurre tutto il linguaggio legale in un linguaggio piu' semplice, ordinario, per far si' che la gente potesse comprendere. Quando lavoravo alla "Tv New Zeland" ho lavorato per un programma che mi ha permesso di creare una "consulenza legale", dieci minuti di tempo ogni volta per rendere comprensibili questioni complesse. Era una vera e propria educazione legale che e' andata avanti per un po' di anni. Continuo a documentare molte questioni che affligono i maori "riscrivendole" e rendendole piu' comprensibili. Cosi' ho anche fatto un documentario sull'impatto della globalizzazione sui maori e la popolazione indigena. - Giulia Allegrini: Parlare di globalizzazione e' sempre difficile, e' un argomento vasto, ma potrebbe fare qualche esempio concreto dell'impatto che ha avuto sui maori? - Moana Sinclair: Si', e' un argomento vasto. Io ho un amico che e' un attivista accanto a Vandana Shiva. Quando venne in Nuova Zelanda l'ho intervistato e sono riuscita a fare un documentario sulla globalizzazione. Abbiamo ormai compreso che i maori sono completamente coinvolti nel processo di globalizzazione. A livello nazionale il nostro stato e' entrato in numerosi accordi internazionali, multilaterali, ha invitato compagnie internazionali, multinazionali, per essere parte di scambi commerciali. In tutto questo i maori sono sempre la forza piu' debole. Il processo di privatizzazione messo in atto, l'apertura delle frontiere per il libero scambio, ha significato che molta della nostra gente ha perso il lavoro. L'impatto della globalizzazione ha portato a molti svantaggi e discriminazioni verso gruppi e minoranze (noi non usiamo quel termine per definirci, noi siamo "indigenous people", ci hanno fatto diventare minoranza nel nostro paese). L'impatto e' stato sostanziale, nella quotidianita', nella comprensione stessa di cosa una legge puo' significare. Per esempio io ho una laurea in legge e quando io ho iniziato il mio master hanno cambiato il sistema di pagamento dell'educazione e io ho dovuto abbandonare il mio master, una cosa triste... questa riforma ha colpito tutti gli studenti, ma di piu' i maori perche' noi non abbiamo una "storia" fatta di genitori che possiedono terra o tre o quattro generazioni di persone alle spalle con una solida educazione a cui fare riferimento. Abbiamo iniziato a provare da soli ad educarci senza un sostegno familiare. Io sono cosi' triste, i miei genitori sono morti, c'e' una statistica che e' comune tra i maori, si muore molto giovani. Io non ho possedimenti e se non posso pagare devo tornare a lavorare. E' come un circolo vizioso, non ho un parente ricco da cui posso andare e dire "ehi, e' molto dura per me, potresti darmi un po' di soldi?". - Giulia Allegrini: Nella situazione in cui vivi quale spazio vedi per l'azione nonviolenta, in tutte le possibili forme di cui si e' discusso in questi giorni? - Moana Sinclair: Noi abbiamo una storia. Uno dei nostri profeti, cresciuto nei tempi della guerre per la terra, porto' avanti una lotta pacifista. Non e' comunemente conosciuto. L'idea di nonviolenza tra i maori e' un'idea forse un po' estranea; se si guarda a molte danze tradizionali sono molto aggressive, sono danze per la guerra. Ora nel 2004 siamo ormai colonizzati, modernizzati, parliamo un perfetto inglese come me e stiamo cercando di reclamare e ricostruire cio' che noi siamo, e in termini di azione nonviolenta; ci sono sempre stati gruppi impegnati che hanno cercato di ottenere il diritto alla terra, e molte persone sono morte, gente molto attiva per portare ad un cambiamento. Oggi nel 2004 abbiamo una situazione che vede un partito maori candidarsi alle elezioni. Gran parte del loro lavoro e' stato quello di portare avanti azioni nonviolente, cercano di imprimere un cambiamento, si sono stabiliti all'interno di un parlamento che e' sempre stato un luogo vietato ai maori, lavorano all'interno del sistema. Per come la vedo io l'azione nonviolenta e' dentro il sistema ed e' fuori dal sistema, e' ogni possibile strada finalizzata a creare un cambiamento. Un'azione nonviolenta importante e' quella di reclamare valori educativi per i nostri figli. Molta della frustrazione che avevamo l'abbiamo canalizzata nell'insegnare la lingua ai nostri figli, ai bambini. Ci sono anche state numerose marce per la terra, quella piu' grande nel '75; questo ha portato a risultati come il processo di Waitani che ha portato alla creazione del tribunale presso cui presentare reclami. Il mio coinvolgimento e' stato quello di testimoniare le lotte, le azioni nonviolente. Noi chiamiamo tutto questo tinarangatnataga, che vuol dire "sovranita'" e non e' la sovranita' nel senso legale delle stato nazione, sovranita' e' liberta', e' parlare la propria lingua. Sappiamo che cosa vuol dire, la reclamiamo, chiamandola sovranita' anche se non e' il vostro significato internazionale legale, la reclamiamo e la ridefiniamo. Probabilmente in termini legali internazionali equivale ad autodeterminazione interna. Noi di certo non vogliamo la violenza, quei tempi di guerre sono passati, e abbiamo anche perso persone valide. Ci siamo ricompattati e ora siamo un movimento di coscientizzazione, soprattutto per i nostri figli. * India: la lotta nonviolenta contro le dighe L'India e' certo uno dei riferimenti essenziali per le lotte nonviolente che nel mondo vengono portate avanti. Oggi una delle lotte nonviolente piu' forti in India e' quella portata avanti dal movimento contro le dighe, che simboleggia una lotta per una societa' piu' giusta ed equa. Una delle dighe piu' grandi che lo stato vuole costruire e' quella del fiume Narmada, in nome dell'aumento della disponibilita' di acqua ed elettricita' per la popolazione della valle. Cio' che il movimento rileva e' la profonda ingiustizia che sta alla base del piano di costruzione delle dighe: un ampio numero di comunita' povere spogliate del loro mezzi di sussistenza e costrette ad abbandonare le loro abitudini di vita in nome di un dubbio comune beneficio ed interesse nazionale. Molte ricerche hanno dimostrato che la costruzione di una diga molto spesso si traduce solo in un enorme fallimento con una piccola frazione dei benefici previsti ed un impatto devastante sull'ecosistema e quindi su tutte le comunita' dell'area, oltre agli spostamenti forzati di moltissime persone. Lo stato si difende spesso garantendo risarcimenti (resettlement e rehabilitation) che il piu' delle volte non sono sufficienti. La lotta contro la costruzione di dighe simboleggia anche la lotta contro il modello di sviluppo dominante fondato sull'idea della crescita materiale per mezzo della modernizzazione e che invece produce una distribuzione iniqua delle risorse, un disastro ambientale e sociale. * Intervista a Ratnaker Ghenga, della comunita' munda - Giulia Allegrini: Al seminario si e' parlato molto del ruolo dello stato come monopolizzatore di violenza, e di come e di quali possibilite' di resistenza alla violenza statuale si possono trovare. Cosa pensa rispetto a questo in base alla sua esperienza? - Ratnaker Ghenga: Nel contesto in cui vivo, come parte della comunita' indigena munda, posso dire che c'e' uno stato e una societa' che replicano un sistema di dominio. Questo e' frutto della stessa colonizzazione che abbiamo subito, che aveva prodotto un'estensione delle leggi britanniche nell'amministrazione civile, criminale, giudiziaria. Dopo l'indipendenza la situazione e' continuata, e nell'euforia della liberta' dal dominio europeo, la questione indigena non e' stata piu' una preoccupazione della comunita' internazionale e del paese stesso. Le questioni relative ai diritti degli indigeni si pensava fossero gia' tutelate dalla Costituzione indiana e dalla legge, in un quadro paternalistico di protezioni. Furono previste si' azioni positive (affirmative action) e furono definite delle aree di demarcazione. Ma queste in retrospettiva si sono manifestate come modo per assorbire la classe della popolazione colta all'interno del governo, un modo per farli stare in silenzio, mentre le stesse aree di demarcazione non hanno impedito ai non indigeni di entrare nelle sfere e territori che non erano di loro competenza. Le istituzioni tradizionali di autogoverno sono state marginalizzate a livello di villaggio dall'imposizione del sistema governativo. Relegate a funzioni cerimoniali, sociali e culturali, sono ancora mantenute in piedi dai mundas, mankis e parhas. Sono parte di una coscienza collettiva. Infatti uno dei piu' grandi "anti dam movement" (movimenti contro le dighe) che hanno avuto successo avevano come leader un capo tradizionale dell'area. Per cui quello che cerchiamo di fare e' di organizzarci a livello di munda, ossia di organizzarci a livello di territorialita' e nazionalita', perche' sentiamo che per confrontarsi con uno stato e una societa' dominanti si deve spingere verso una decentralizzazione del potere. - Giulia Allegrini: Quindi quali sono in particolare gli ambiti in cui lavora l'organizzazione in cui e' attivo e quale spazio realmente trova? - Ratnaker Ghenga: Per rispondere alla seconda parte della domanda, io lavoro in un'organizzazione che e' la piu' forte tra quelle che ci sono, ma io trovo che sia molto debole. Quanto agli ambiti in particolare abbiamo progetti relativi alla questione della terra e dell'autogoverno. In relazione a queste questioni abbiamo portato avanti un movimento di opposizione alla costruzione di piccole e grandi dighe, su ispirazione di uno dei piu' vecchi movimenti non solo indiano ma mondiale, il Carol movement. Attualmente le dighe costruite in area munda hanno portato allo spostamento forzato di centomila persone. Cerchiamo fondi a sostegno del movimento, vi prendiamo parte, organizziamo conferenze stampa invitando i leaders per dare visibilita' al problema. - Giulia Allegrini: Lei si definisce prima di tutto come munda. La questione dell'identita' e' strettamente connessa con quella della territorialita' e della nazionalita' e quindi anche con il movimento contro la diga e per i conseguenti forzati spostamenti di persone. Potrebbe spiegare meglio qual e' la sua percezione rispetto a tutto questo? - Ratnaker Ghenga: Devo dire che c'e' una frammentazione, la colonizzazione ha portato per certi versi ad una distruzione dell'identita', ma la cosa affascinante e' che nonostante l'integrazione, i tentativi di assimilazione, abbiamo conservato il nostro senso di appartenenza ad un'identita'. Anche il fattore religioso nella definizione della nostra identita' e' da prendere in considerazione. A questo proposito credo che debba esserci una separazione tra stato e religione. Io come consulente legale laico opero sulla base di valori. Tutto cio' e' poi sicuramente legato alla questione della terra, quindi ai progetti di costruzione della diga e le conseguenze che questa ha e avrebbe nello spostamento delle persone costrette ad abbandonare la loro terra. Nel mio lavoro come legale questo e' evidente. Per esempio abbiamo portato avanti una lotta contro la costruzione di una diga con marcie di protesta, ma il governo disse che avrebbe comunque costruito la diga. Mi fu cosi' chiesto di cercare una linea d'azione legale che potesse sostenere la protesta. Solitamente questa viene trovata nel contesto del discorso del "reinsediamento e riabilitazione". Ma io ho sostenuto che se chiedi reisediamento e riabilitazione, quindi risarcimento per i danni derivanti dalla costruzione della diga, vuol dire che credi in partenza che questa verra' costruita. Cosi' cio' che ho sostenuto nel processo contro il governo e' che la diga non doveva essere costruita perche' la mia religione e quella munda si oppongono a quella costruzione. Io, anche se cristiano, e come cristiano, difendevo la religione munda. Ho perso il processo e mi sono rivolto alla Corte suprema, ma anch'essa ha respinto il mia difesa. Spiego meglio la logica della mia difesa: abbiamo una legge che dice che se il cuore, il nucleo centrale di una religione e' in contrasto con le conseguenze di uan decisione dello stato, lo stato deve ripensare quella decisione in modo differente. Se lo stato deve rispettare le religioni, deve rispettare il cuore delle differenti religioni. Sulla base quindi del cuore della religione munda lo stato non puo' costruire la diga. La stessa "Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni" delle Nazioni Unite afferma il legame speciale degli indigeni alla terra, un legame spirituale con la terra. E' un legame che le religioni tradizionali indigene hanno e che deve essere rispettato. Tutto questo la Corte e lo stato non lo riconoscono. - Giulia Allegrini: Al seminario sulla nonviolenza si e' parlato di metodi e pratiche della nonviolenza. L'India in questo e' stata un riferimento, lo e' ancora oggi? Nella sua esperienza quale spazio trova l'azione nonviolenta? - Ratnaker Ghenga: Stiamo facendo molte azioni nonviolente. In particolare il riferimento piu' rilevante e' l'anti-dam movement che ancora porta avanti mobilitazioni e proteste nei luoghi in cui ci si sono i piani di costruzione della diga e pratica la noncooperazione. Si', c'e' una storia di lotte in India ma anche altrove nel mondo, come ad esempio il Sud Africa, che dimostra che la nonviolenza funziona. * Laguna Pueblo e Navaho, Stati Uniti d'America: identita', autodeterminazione e nonviolenza Parlare dei nativi americani vuol dire spesso cadere in luoghi comuni e stereotipi. Si conoscono alcuni celebri nomi, come Toro Seduto, si ha un'immagine di loro nella tenda con la pipa, si conosce qualcosa delle loro norme spirituali, che spesso vengono letteralmente vendute come gadgets new age. Dietro tutto questo c'e' invece, naturalmente, una realta' piu' complessa. I popoli che compongono la grande comunita' dei nativi americani sono numerosi, ed ognuno ha una sua lingua, le sue tradizioni, soprattutto una sua storia. Ed e' proprio la storia, come il piu' delle volte accade, ad essere cancellata, e con essa la cultura di un intero popolo. Parte di quella storia e' stata drammaticamente segnata dal contatto sanguinoso con i colonizzatori. Un contatto che ha portato ad un vero e proprio sterminio di questi popoli, che si sono visti sottrarre le loro terre e si sono ritrovati inglobati in un sistema politico, giuridico, economico che ha cercato di eliminare le loro abitudini, i loro modi di vita comunitaria, la loro cultura. Un sistema che ha cercato allo stesso tempo di assimilarli, ghettizzarli e discriminarli. Oggi seppur molti atti legislativi hanno prodotto dei passi in avanti nella garanzia e protezione dei nativi americani, le discriminazioni in termini di diritti civili, politici, di accesso alla terra, sono la realta' con cui questi popoli si devono confrontare. La seguente intervista individua alcuni aspetti di queste discriminazioni, ma si concentra anche su cosa puo' voler dire nonviolenza in quel contesto. * Intervista a June Lorenzo, Laguna Pueblo e Navaho - Giulia Allegrini: Vorrei iniziare dal suo lavoro e dal percorso che vi e' dietro, che l'ha portata qui, oggi. - June Lorenzo: Al momento potrei dire di essere affiliata, ma non di appartenere, ad un'associazione, fondata da una nativa americana, Tania Fictioner, che ha base a New York, che lavora in generale per l'empowerment degli indigeni americani, in particolare offrendo servizi ed assistenza legale ai nativi che vivono a New York o fuori dalle loro comunita' di origine. Sono in contatto con loro dal 2002. Questa e' la seconda organizzazione con cui lavoro, precedentemente ho lavorato a Washington per quattro anni, e prima ancora anche per il Dipartimento della Giustizia americano. Nel 2000 ho deciso di ritornare nella mia comunita', perche' per me aveva piu' senso lavorare nella e per la mia comunita'. L'esperienza al di fuori, con le organizzazioni non governative, che erano coinvolte anche a livello internazionale nell'ambito delle Nazioni Unite e' stato fondamentale, ma poi ho sentito che era arrivato il momento di ritornare. Il mio desiderio, come quello di Tania, la fondatrice dell'organizzazione, e' quello di promuovere consenso tra i nativi rispetto al loro coinvolgimento all'interno delle Nazioni Unite. - Giulia Allegrini: Parlava della sua comunita', potrebbe spiegare meglio a quale si riferisce? - June Lorenzo: La zona di riferimento e' il sud-ovest degli Stati Uniti. Mia madre e' Navaho, mio padre del Laguna Pueblo. Hanno lingue diverse, ed anche culture diverse. Il popolo di mio padre pratica ancora un modo di vita comunitario ed io sento che mi appartiene molto, molto piu' di quel sistema individualistico che trovato a Washington. Le due comunita' si sono comunque poi mischiate. Io appartengo quindi a questa mescolanza. - Giulia Allegrini: L'empowerment degli indigeni americani e' al centro delle attivita' dell'organizzazione con cui e' in contatto e lavora. In che termini in particolare? - June Lorenzo: Per quello che riguarda il lavoro che ho fatto e faccio con loro si tratta soprattutto di empowerment in termini di diritti dei popoli indigeni, quindi nel quadro del lavoro delle Nazioni Unite. Io ho preso parte agli incontri presso le Nazioni Unite e soprattutto in quelli relativi alla Dichiarazione universale dei popoli indigeni. Tutto cio' l'ho fatto su base volontaria. Nella mia comunita' il lavoro di empowerment che faccio e' sempre legato all'ambito giuridico. Sono stata giudice e sono consulente legale per cio' che concerne la stesura di leggi. Vi e' infatti sempre piu' un coinvolgimento economico con i non nativi, questo vuol dire che spesso nasce la necessita' di regolare queste relazioni commerciali, che spesso riguardano l'uso della terra stessa. Da qui nasce la necessita' di chiarire, rendere comprensibili numerose leggi ai nativi, che all'interno di queste relazioni economiche sono la parte piu' debole, svantaggiata, che si ritrova a doversi confrontare con un sistema estraneo. - Giulia Allegrini: Quali sono le discriminazioni piu' forti oggi nei confronti dei nativi americani? - June Lorenzo: Credo che una delle piu' forte discriminazioni sia a livello di sistema elettorale. Io ho lavorato come procuratore al Dipartimento della Giustizia, nella sua divisione per i diritti civili, nella sezione chiamata "sezione votazioni". Il mio lavoro principale era quello di sostenere e garantire l'applicazione sia del Voting Rights Act, che riguarda l'accesso al voto negli Usa, che del Minority Languages Act, passato come emendamento al Voting Rights Act nei primi anni '80. La legge prevede che dove il censimento del 1980 ha registrato che una certa percentuale della contea parla una lingua minoritaria, le informazioni elettorali devono essere date anche in quella lingua. La zona sud-ovest dell'America, da dove io provengo, e' una delle zone con una piu' alta concentrazione di indigeni che hanno nel tempo conservato la propria lingua. Io quindi ho lavorato come procuratore al dipartimento per garantire che le informazioni elettorali fossero date in lingua Dine, Tewa e Keres. L'accesso al sistema elettorale per molti popoli indigeni americani e' stato considerato un importante diritto civile e diritto umano. Le discriminazioni si sono poi manifestate negli anni anche nel modo di individuazione dei distretti elettorali, in modo tale da impedire ai nativi di eleggere canditati delle loro comunita', questo viene definito come pratica del gerrymandering. Tuttavia le difficolta' ancora esistono, se non si controlla che le informazioni elettorali non vengono date nella lingua minoritaria molte persone vengono escluse. Infatti in molte comunita' non si parla inglese. C'e' sempre bisogno di monitorare. Vi e' poi da dire che i luoghi in cui si vota vengono sempre posti in zone lontane dalle zone in cui vivono le comunita' indigene. Tutto questo per fare alcuni esempi soltanto. In generale potrei dire che la discriminazione si manifesta a livello istituzionale, e' una discriminazione sistematica. - Giulia Allegrini: All'interno delle Nazioni Unite, per quanto riguarda soprattutto il progetto di stesura della Dichiarazione, il dibattito sul diritto all'autodeterminazione dei popoli indigeni e' centrale. Secondo lei per i nativi americani che cosa significa e cosa implica? - June Lorenzo: Credo che significhi soprattutto self government (autogoverno). Questo vuol dire anche avere proprie corti, proprie scuole, vuole dire soprattutto poter decidere del proprio sviluppo economico, perche' questo non si traduca in distruzione della nostra terra. Io non penso che uno stato-nazione indiano negli Usa sia un successo. Non credo sia sensato parlare infatti di autodeterminazione in senso "europeo", cioe' in termini di indipendenza. La lotta per i diritti sulla terra e' poi al centro dell'autogoverno. Ancora oggi sono molti i casi di reclami da parte dei nativi contro il governo. Si pensi poi a quante tribu' sono state divise con la nascita di molti stati negli Usa, molte si sono ritrovate divise anche tra Canada e Usa, e per loro viaggiare, passare da uno stato all'altro, non e' certo facile. - Giulia Allegrini: Volevo sapere se e in che termini il processo di globalizzazione ha influenzato le comunita' dei nativi, anche in termini di perdita di tradizioni culturali o spirituali? - June Lorenzo: Sicuramente la globalizzazione ha avuto i suoi effetti e li continua ad avere. Li ha generando ingiustizie e disuguaglianze. Si e' inevitabilmente entrati a fare parte del processo di globalizzazione, ma senza poterne godere i frutti; in questo senso, ad esempio il problema del "digital divide" e' molto forte. Molta gente delle comunita' non ha ne' elettricita' ne' linea telefonica, e il divario tra chi ha accesso alla televisione o altre tecnologie e' sempre piu' grande. La televisione, che comunque e' entrata in molte comunita', influenza poi la cultura, passa messaggi ai nostri figli, soprattutto messaggi di consumismo, e questo influenza il pensiero e il modo di vivere di una comunita' intera a sua volta. E la storia, la storia degli antenati che e' sempre stata fondamentale per noi nativi come parte della nostra identita' e cultura ne risente. - Giulia Allegrini: Crede che la nonviolenza sia uno strumento, uno principio, una filosofia che trova o puo' trovare spazio tra le popolazioni native americane? O c'e' un'idea piu' vicina alle loro tradizioni e culture che gli corrisponde? - June Lorenzo: Credo che l'idea di nonviolenza, all'interno del Laguna Pueblo e dei Navaho, si possa tradurre con l'idea di vivere in armonia, in equilibrio. Ci sono forze opposte che regolano il mondo, la vita umana nel suo complesso. La violenza, la guerra sono una manifestazione in questo senso di disequilibrio tra queste forze. Quindi la domanda da porsi sempre e': "come vivere in modo che le mantenga in equilibrio?". - Giulia Allegrini: Lei ha scritto un saggio molto interessante che conduce ad un nuovo modo di pensare all'autodeterminazione. Mi riferisco alla decisione presa da parte da alcuni popoli nativi di non partecipare alle elezioni e alla vita politica degli Stati Uniti. Questo potrebbe essere vista come una resistenza nonviolenta? - June Lorenzo: Si', proprio cosi'. Rimanendo all'interno del "vostro" framework culturale e concettuale posso bene accettare questa definizione. La Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni afferma il diritto a partecipare alla vita politica delle Stato: "I popoli indigeni hanno il diritto a mantenere e rafforzare le loro caratteristiche economiche, sociali, culturali, politiche, cosi' come il sistema legale, hanno il diritto a partecipare pienamente, se cosi' scelgono, nella vita economica, politica, sociale e culturale dello Stato". Quel "se cosi' scelgono" non aveva avuto mai un senso per me fino a quando, mentre lavoravo per i reclami di terra delle nazioni Mohawk e Tonawanda Seneca, che fanno parte della Confederazione Haudenosaunee o Confederazione delle Sei Nazioni, contro lo Stato di New York, venni a conoscenza della loro posizione contraria alla partecipazione nella vita politica del governo degli Usa. Questa loro posizione si fonda su di un trattato tra la Confederazione Haudenosaunee e gli Stati Uniti. Il trattato fu fatto per rispettare cio' che un profeta aveva ordinato ai popoli Haudenosaunee, ossia che loro e gli Usa dovevano vivere parallelamente, con un mutuo rispetto delle loro vite politiche, ma senza mai combinare o partecipare ai rispettivi affari politici. Per questo motivo questi popoli non hanno partecipato al censimento, non partecipano alle elezioni e rifiutano anche fondi per progetti e programmi da parte del governo statunitense. La lotta per ottenere il diritto di voto cosi' come il rifiuto invece di entrare nel sistema politico americano sono entrambi da considerare un esercizio del diritto all'autodeterminazione. Il rifiuto rimanda ad un concetto importante: quello dei diritti collettivi. Il diritto di voto per le minoranze si e' affermato negli Usa come diritto degli individui, non come diritto di un popolo. Questi popoli che hanno deciso di non partecipare alla vita politica degli Usa hanno deciso di portare avanti quel patto che i loro antenati avevano fatto. Voglio anche ricordare altre azioni di resistenza. Molti popoli del sud-ovest hanno delle cerimonie, parte di queste sono dei pellegrinaggi ai loro luoghi sacri. Molte delle terre sono state pero' perse e sono diventate dei range, terre da pascolo per bestiame. Negli anni non hanno pero' mai rinunciato a queste loro cerimonie e continuano a fare in questi luoghi i loro pellegrinaggio. Quello che fanno e' qualcosa di strettamente religioso, qualcosa di intimo, non vanno la' facendo una manifestazione, una marcia, non chiamano la televisione o la stampa. Credo che questo sia una forma di azione di resistenza spirituale nonviolenta. (Parte seconda - Fine) 2. RIFLESSIONE. LUISA MURARO: LA LIBERTA' DI IRIS MURDOCH [Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 maggio 2005. Luisa Muraro insegna all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel 1997". Iris Murdoch (Dublino 1919 - Oxford 1999), scrittrice e docente di filosofia, ha pubblicato vari romanzi di grande successo ed alcuni acuti saggi critici e filosofici] Iris Murdoch (1919-1999) fu filosofa e romanziera di lingua inglese. Non e' vero quello che si e' raccontato di lei, che prima fu filosofa e che poi, pentita, sarebbe passata alla letteratura. L'errore e' dovuto, credo, alla circostanza che la prima cosa da lei pubblicata, nel 1953, fu un saggio su Sartre, mentre il suo primo romanzo, Under the Net (da poco uscito in italiano, Sotto la rete, trad. di Argia Micchettoni, Rizzoli), apparve un anno dopo. Ma negli anni quaranta lei aveva gia' scritto due o tre romanzi, senza fortuna editoriale. Iris ha "sempre" scritto romanzi e ha "sempre" pensato, parlato e scritto di filosofia, voglio dire che non c'e' un inizio separato per le due scritture, quella narrativa e quella ragionante, e neanche una fine. Io le vedo come i due versanti di un'unica pratica segreta. Ma, attenzione, sono versanti asimmetrici, tant'e' che chi legge i suoi romanzi puo' tranquillamente ignorare gli scritti di filosofia, mentre non vale il viceversa, vedremo perche'. I lettori-lettrici del "Manifesto", sicuramente ricordano la bella recensione che Graziella Pulce ha dedicato a Sotto la rete (Le palline di Iris, in "Alias" del 12 marzo 2005). Il testo finisce parlando di una stagione, culturale e storica, che si annunciava irriconoscibile a se stessa e intimamente discorde. Queste ultime parole caratterizzano anche il pensiero di Iris e forse la sua stessa personalita'. Di cio' parla l'asimmetria che dicevo. La incarna anche la "coppia" protagonista di questo romanzo, Hugo che insegue la haecceitas (il qui-ora della realta' individua) come unica verita' possibile ma indicibile, e Jake, che ammira Hugo ma lo fugge cosi' come fugge dalla contingenza ("I hate contingency"). Nei romanzi successivi non troveremo piu' una cosi' appariscente intrusione della filosofia come in questo romanzo, fin dal titolo (una citazione di Wittgenstein), ma la presenza di coppie di contrari che s'incalzano senza arrivare ad alcuna sintesi, questa resta una caratteristica dell'opera di Iris Murdoch, romanzi compresi. Anzi, i romanzi danno a quest'ambiguita' un diritto di citta' che la filosofia non offre volentieri. * L'erronea credenza che ho citato in apertura, ha qualcosa di vero, dunque, e cioe' che c'e' un punto in cui, per Murdoch, la filosofia s'interrompe e bisogna mettersi a pensare in un altro modo. La fiction, per Iris Murdoch, e' lavoro dell'immaginazione che salva la realta', perche', mentre ci fa uscire dalla rete delle generalizzazioni, ordinatrice del reale ma sostanzialmente vuota, ci aiuta a non perderci nella casualita' delle nostre vite. Di noi si tratta, infatti, della nostra lotta contro l'irrealta', e di metterci praticamente in condizione di vedere gli altri, vedere che sono reali, per essere reali noi stessi. La scoperta della realta' degli altri e' l'esito della vicenda di Jake in Sotto la rete: "Anna really existed", egli si dice alla fine, cosi' come scopre che esisteva anche il taciturno e servizievole Finn. Lo scopre nel momento in cui, con sorpresa, non se lo ritrova piu' al fianco. Dov'e' finito? Dove sempre gli aveva detto che voleva andare, nella sua Irlanda cattolica, senza ottenere il minimo credito da parte di Jake, ancora troppo involto in se stesso. Devo avvertire che questa mia lettura del romanzo non sembra condivisa da chi lo legge senza preoccupazioni filosofiche, a giudicare almeno dalle recensioni. Io lo leggo come un romanzo del moral change, del cambiamento morale (tipo Resurrezione di Tolstoj, fatte le debite, cospicue, differenze). Qualche recensione, e' vero, parla di romanzo di formazione, e Graziella Pulce vede bene che la caotica trama non si sviluppa a caso, poiche' tutto comincia con la fuga di Jake da Hugo. Ma nessuno parla di un progresso morale per la storia di Jake. Fa eccezione Antonia Byatt, in una recensione che risale al 1965, guidata non a caso anche lei dagli scritti filosofici. Penso che questa discrepanza nelle diverse letture del romanzo, debba restare non sanata. C'entra, infatti, quella che ritengo una scommessa che sottende l'opera di Iris Murdoch, riguardante la liberta', una scommessa artistica e politica insieme che deve restare aperta. Negli scritti filosofici, lei non si sofferma molto ad esporre la propria idea della liberta' mentre insiste nel criticare le concezioni correnti. Critica quella liberale (della filosofia analitica inglese) perche' immiserisce la liberta' riducendola a un giro di shopping, trova che quella esistenzialista sia enfaticamente fissata sulla "scelta", mentre a quella hegeliana e marxista rimprovera l'orrore per la contingenza e la rincorsa della cosiddetta "necessita' storica". Ma questa sua apparente reticenza, secondo me, e' una schivata, paragonabile alla mossa che fanno gli animali inseguiti per uscire dalla traiettoria dei predatori. Cosi' lei fa con la sua filosofia della liberta', che e' nuova nel panorama della storia delle idee, come tutta la sua filosofia, secondo me. * La sua idea della liberta' la troviamo spostata sul terreno della sua esperienza di lettrice e scrittrice, sotto forma di un problema che le e' peculiare, quello della creazione di personaggi che siano liberi, liberi nel loro mondo inventato e, ancor piu' (ma le due cose si tengono), indipendenti dall'autore che li ha creati. Oltre che scrittrice, Iris fu anche grande lettrice di fiction; fra i suoi autori prediletti, ci sono Shakespeare, Jane Austen, George Eliot, Tolstoj, Proust. Uno puo' pensare che, in questo elenco, George Eliot sia il nome che non c'entra e percio' da depennare, come si fa in certi giochi della "Settimana enigmistica". Iris non e' d'accordo e la sua replica e' quanto mai illuminante. In polemica con il poeta Eliot, scrive con accento insolitamente vivace: e' imperdonabile che lui emetta un giudizio negativo su George Eliot, una scrittrice che "mostro' la quasi divina capacita' di rispettare e amare i suoi personaggi al punto da farli esistere come esseri separati e liberi". (Cito da Esistenzialisti e mistici, in corso di stampa presso il Saggiatore). La nostra domanda allora e' questa: quale rapporto fra l'arte di creare simili personaggi e la liberta', intesa come realizzazione di umanita' e principio politico? Risponde la filosofa che una societa' che puo' produrre grandi romanzieri e apprezzarli, e' una societa' nella quale fioriscono l'amorevole tolleranza (a lei non basta dire "tolleranza") e il rispetto per l'esistenza di altre persone anche molto diverse da se', con tutto cio' che questo implica di liberta' interiore. E' una risposta importante, ma il nesso tra le due liberta' si puo' formulare, proprio in base al suo pensiero, anche in altra maniera, meno realistica, non mediata dalla figura sociale del romanziere, una maniera piu' diretta e simbolica che consiste nel fare del lavoro dell'immaginazione, per se stesso, un agire morale e politico che, come una vera e propria schivata, ci fa esistere altrimenti e altrove, fuori dalle traiettorie del potere che ci condiziona da fuori e da dentro. * Chi ha visto il film di Abdellatif Bechiche che porta proprio questo titolo, La schivata (L'esquive), non ha difficolta' a intendere cio' che dico. Il film, ambientato nella cintura parigina, in un quartiere d'immigrati arabi, racconta i conflitti amorosi e amicali di un gruppo di adolescenti, maschi da una parte, femmine dall'altra, impegnati a mettere in scena una piece di Marivaux. Il film e' esso stesso una schivata, dell'autore che non si dedica a denunciare come si vive nelle periferie del mondo, e racconta invece una storia di giovanissimi, dove anche per loro si tratta di non farsi trovare sulla traiettoria di chi o di cio' che puo' schiacciarli o annullarli, dalla polizia ai luoghi comuni. Cosi', messi fuori da ogni stereotipo, quello razzista e quello militante della sinistra, noi li vediamo esistere realmente. E' la scoperta di Jake, nel corso del suo cammino a zigzag. Per Iris Murdoch questa scoperta - che gli altri esistono - e' liberta', e l'arte di farli esistere, nel nostro sguardo, nel nostro cuore, cosi' come sulle pagine di un romanzo o nelle immagini di un film, e' "lotta per la liberta'": la mia, la loro. L'arte di creare personaggi liberi diventa cosi' figura del lavoro simbolico che ci rende liberi (la pratica segreta di Iris...) ed e', insieme, via concreta di questo cambiamento, il lavoro dell'immaginazione essendo il modo per uscire dalle traiettorie piu' prevedibili. Prevedibili da chi? Dal potere, ho scritto sopra. Ora aggiungo, ed e' quasi la stessa cosa: e da noi stessi con le nostre fissazioni e con la poverta' delle nostre rappresentazioni. Uscirne per fare posto ad altro, agli altri, fra i quali uno, una potra' riconoscere anche se stessa per una specie di libera alienazione di se'. 3. GIAPPONE. CATHERINE MAKINO: UNA RIFORMA COSTITUZIONALE CONTRO LE DONNE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione questo articolo di Catherine Makino. Catherine Makino e' una giornalista indipendente, vive a Tokio, scrive per il "San Francisco Chronicle", il "Japan Times", l'"Asian Wall Street Journal" ed il "China Morning Post"] L'orologio tornera' indietro, per le donne giapponesi, se il partito liberal-democratico al potere avra' successo nel suo sforzo di cambiare la Costituzione, dicono le attiviste per i diritti delle donne. Alcune lo chiamano il ritorno al "periodo oscuro della storia". Molte sono anche offese dal fatto che un cambiamento drastico nella Costituzione sia cominciato sotto un velo di segretezza. La Costituzione giapponese, scritta nel 1946 dopo la seconda guerra mondiale, contribui' a ridisegnare la vita delle donne del paese. Uno dei maggiori cambiamenti in essa contenuto assicura che il matrimonio e' basato unicamente sull'accordo fra marito e moglie, che hanno eguali diritti. Precedentemente alle donne non venivano garantiti diritti civili o legali. Non votavano e non possedevano proprieta'. I mariti potevano chiedere il divorzio, le mogli no. Il progetto di revisione costituzionale proposto nel giugno dello scorso anno va a modificare l'articolo 24, enfatizzando il valore della famiglia. Le discussioni sulla proposta sono in corso, e sono principalmente centrate sull'articolo 9, di rinuncia alla guerra, che proibisce al governo di prendere parte o di preparare in proprio alcuna azione militare. La revisione dell'articolo 24 viene spiegata con la preoccupazione per "l'individualismo" e "l'egoismo" nel Giappone del dopoguerra, che avrebbero portato al collasso della famiglia e dei valori. Cosi' ha argomentato Masahiro Morioka, del partito di maggioranza, al Parlamento: "E' vergognoso che il popolo giapponese non si occupi piu' della famiglia, della comunita' e della nazione, e che alcuni insistano per avere un sistema che permetta di mantenere cognomi separati. La Costituzione deve assicurare la protezione della famiglia come fondamento della sicurezza della nazione". * Hisako Motoyama, di Osaka, attivista di base contro la revisione costituzionale dice: "Il governo sta prendendo a prestito questi 'valori familiari', che attaccano le donne, dagli Usa. E' la stessa cosa. L'unica differenza e' che qui non usiamo un linguaggio religioso, bensi' nazionalistico. Questo e' un attacco ai diritti costituzionali delle donne. Vogliono cambiare i principi fondamentali della Costituzione". I gruppi femministi sostengono che la revisione puo' disfare gli incentivi che hanno permesso alle donne di raggiungere posizioni di direzione nelle istituzioni e nel mondo dell'economia, e di ottenere standard di eguaglianza negli stipendi in molti lavori e professioni. "C'e' una ritorsione contro il femminismo. Il partito al potere sta facendo campagne contro l'educazione al genere e l'educazione sessuale - aggiunge Motoyama - Dicono che il femminismo sta distruggendo i fondamenti della nostra organizzazione sociale. Sono contrari all'uguaglianza di genere". Mamiko Ueno, scrittrice e docente di diritto costituzionale all'Universita' di Chuo a Tokyo, vede la revisione come un tentativo di trasferire ulteriori carichi di responsabilita' del lavoro di cura dallo stato alle famiglie, il che, in gran parte, significhera' alle donne. "Poiche' c'e' un problema di denatalita' in Giappone, l'Ldp (il partito liberal-democratico) pensa che creando un sistema in cui le donne stanno a casa avremo piu' bambini. Le donne diventeranno cittadine di seconda classe e gli uomini saranno i capifamiglia. Se un uomo non vorra' che sua moglie lavori, lei verra' forzata a stare a casa e ad occuparsi della famiglia. Questo significa anche che la cura degli anziani, in una societa' che sta invecchiando, diventera' sempre piu' difficile e ricadra' sulla figlie o sulle nuore". * Hajime Funada, presidente della commissione per le revisioni costituzionali del partito di maggioranza, dice che l'articolo 24 non tocchera' l'eguaglianza di genere: "Vogliamo solo aggiungere che il popolo di questa nazione dovrebbe assumersi e mantenere l'obbligo e la responsabilita' di proteggere e conservare le proprie famiglie. Dovrebbero anche rispettare i loro genitori. Cio' creera' un legame che terra' insieme le comunita' locali". Seiko Nodo, donna dello stesso partito, fa dire alla sua segretaria che "Non sara' una brutta cosa". Le aspettative sono che entrambi i rami del parlamento giapponese voteranno in favore della revisione costituzionale. Se essa passa con i due terzi di voti favorevoli in entrambe le camere, molti qui pensano gia' di sottoporla a referendum nazionale. Pema Gyalpo, docente alla facolta' di legge dell'Universita' Toin di Yokohama e consulente del partito liberal-democratico per gli affari costituzionali, predice che si votera' entro l'anno: "Il partito di maggioranza sente che l'opinione pubblica e' pronta per questo". L'opposizione alla revisione dell'articolo 24 sta montando. Lo scorso anno 15 gruppi di donne, con il sostegno di altri 80, hanno dato inizio alla campagna "Fermiamo la revisione dell'articolo 24". Le organizzatrici temono che molti votanti troveranno la revisione accettabile, a causa dei suoi riferimenti alla "importanza della famiglia" ed alla "autentica cultura tradizionale della nazione". "Sono molto preoccupata su questo punto - dice Motoyama - E' essenziale che le persone abbiamo la possibilita' di riflettere sul reale significato di questi emendamenti e che vi sia un dibattito reale, basato su informazioni accurate, ma i media nazionali non stanno riportando nulla che riguardi l'articolo 24". Il quotidiano conservatore nazionale "Yomiuri Shimbun", uno dei pochi giornali ad essersi occupato della revisione dell'articolo 24, ha pubblicato un editoriale a sostegno della revisione stessa. Il 61% di coloro che hanno risposto ad un'inchiesta recente dello "Yomiuri Shimbun sostengono la necessita' di rivedere la Costituzione. * In aggiunta alla revisione costituzionale, il governo giapponese sta facendo altre mosse per restringere i diritti delle donne. Circa due anni orsono, per esempio, il governo (per far fronte a quella che ha chiamato "un'allarmante crescita nel numero dei divorzi") ha ristretto l'accesso delle madri single all'assistenza sociale per i loro figli. Una donna single con un bambino deve guadagnare meno di 12.000 dollari l'anno per ricevere un massimo di benefici di circa 400 dollari. Precedentemente, una madre single che guadagnava meno di 23.500 dollari l'anno poteva ottenere lí'assistenza completa. Mami Nakano, avvocata, commenta: "Le recenti mosse del partito di governo mostrano un trend sociale verso la riduzione dei diritti delle donne, ed e' questo che noi donne giapponesi vogliamo fermare". 4. RILETTURE. SIMONE DE BEAUVOIR: A CONTI FATTI Simone de Beauvoir, A conti fatti, Einaudi, Torino 1973, 1980, pp. 464. Tutta l'opera di Simone de Beauvoir sarebbe saggia cosa rileggere almeno una volta ogni dieci anni. Ti accorgi quanto acuto e' il suo sguardo, certo esercitato dalla gran mole e varieta' di vicende di cui e' stata testimone e protagonista. Dell'opera sua memorialistica questo volume e' quello che rievoca e saggia gli anni '60 (dal '62 al '72), e resta preziosa e inesauribile una fonte per accostarsi a quella temperie, e per valutare fatti e persone e opinioni e compiti di allora e di oggi. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 10 del 5 maggio 2005
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