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La nonviolenza e' in cammino. 905
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 905
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 20 Apr 2005 00:41:15 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 905 del 20 aprile 2005 Sommario di questo numero: 1. Giuseppe Burgio: Verso un'ecologia dei conflitti (parte prima) 2. Eleonora Cirant: Un'esperienza di riflessione collettiva sull'intreccio tra nascita e tecnologie 3. Maddalena Gasparini: Riflessioni attorno agli interrogativi prodotti dalle tecnologie biomediche 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. GIUSEPPE BURGIO: VERSO UN'ECOLOGIA DEI CONFLITTI (PARTE PRIMA) [Ringraziamo Giuseppe Burgio (per contatti: giuseppeburgio at libero.it) per averci messo a disposizione questo suo saggio, "Verso un'ecologia dei conflitti. Gregory Bateson e la gestione pedagogica delle differenze", pubblicato nel volume di Gian Luigi Brena (a cura di), Etica pubblica ed ecologia, Edizioni Messaggero, Padova 2005. Giuseppe Burgio, docente e saggista, da anni impegnato in iniziative didattiche e associative di prevenzione del disagio nella scuola, si occupa di pedagogia interculturale all'Universita' di Palermo. Gregory Bateson e' nato nel 1904 in Inghilterra, figlio di un eminente scienziato; compie studi naturalistici ed antropologici, di logica, cibernetica e psichiatria; un matrimonio con la grande antropologa Margaret Mead; Bateson ha dato contributi fondamentali in vari campi del sapere ed e' uno dei pensatori piu' influenti del Novecento; e' scomparso nel 1980. Opere di Gregory Bateson: Naven, Einaudi, Torino; Verso un'ecologia della mente; Mente e natura; Una sacra unita'; Dove gli angeli esitano (in collaborazione con la figlia Mary Catherine Bateson), tutti editi da Adelphi, Milano. Si vedano anche i materiali del seminario animato da Bateson, "Questo e' un gioco", Raffaello Cortina Editore, Milano. Opere su Gregory Bateson: per un avvio cfr. AA. VV. (a cura di Marco Deriu), Gregory Bateson, Bruno Mondadori, Milano; Sergio Manghi (a cura di), Attraverso Bateson, Raffaello Cortina Editore, Milano. Cfr. anche Rosalba Conserva, La stupidita' non e' necessaria, La Nuova Italia, Scandicci (Fi), particolarmente sulle implicazioni educative e la valorizzazione in ambito pedagogico della riflessione e dell'opera di Bateson. Una bibliografia fondamentale e' alle pp. 465-521 di Una sacra unita', citato sopra. Indicazioni utili (tra cui alcuni siti web, ed una essenziale bibliografia critica in italiano) sono anche nel servizio con vari materiali alle pp. 5-15 della rivista pedagogica "Ecole", n. 57, febbraio 1998. Tra i frutti e gli sviluppi del lavoro di Bateson c'e' anche la "scuola di Palo Alto" di psicoterapia relazionale: di cui cfr. il classico libro di Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma; e su cui cfr. Edmond Marc, Dominique Picard, La scuola di Palo Alto, Red Edizioni, Como] La violenza mi interroga, mi tira in ballo come educatore, e' una sfida alla mia professione. Tutte le forme della violenza, dal recente conflitto armato in Iraq fino alle violenze piu' piccole - la violenza di un gesto, di una parola, di un silenzio - che hanno come teatro le citta', le famiglie, le aule scolastiche... Secondo me, scopo di ogni educatore e' ottenere una migliorata capacita' di essere felici, di produrre senso, di creare valore (1), la conquista di un miglior agio nel mondo. L'esistenza della violenza mi sembra quindi mettere in crisi il senso stesso della scuola: che senso ha un insegnamento, qualunque esso sia, se non autorizza la speranza nella liberazione da cio' che provoca paura e dolore? D'altro canto, in molti - genitori, studenti, insegnanti - affidano alla scuola, spesso inconsciamente, le speranze di un cambiamento. Ma, a ben guardare, la violenza non e' solo fuori dagli istituti scolastici, e' presente anche all'interno: tra i docenti, tra docenti e studenti, tra studenti. Violenze sottili, psicologiche, a volte istituzionali, altre volte schiettamente manesche. Mi riferisco a fenomeni eterogenei che vanno da una risposta sgarbata data all'insegnante alla pesante ironia fatta dal docente sull'ignoranza di un alunno, da una rissa tra compagni al bullismo vero e proprio. Una cosa hanno pero' in comune fenomeni cosi' diversi: sono espressione (e costitutivi) di un conflitto. Tra la violenza della guerra e i nostri comportamenti quotidiani (anche quelli che non definiremmo "violenza") e' possibile evidenziare un collegamento, interpretarli tutti all'interno di un'unica cornice concettuale: quella, appunto, del conflitto. Oggetto del mio lavoro vuole essere proprio il conflitto a scuola e, per guardare alle implicazioni molteplici di questo tema, partiro' dalla ricchezza teorica rappresentata dall'ecologia della mente di Gregory Bateson poiche' e' mia convinzione che l'apparato epistemologico con cui siamo soliti pensare sia concausa dell'esistenza stessa della violenza. Credo che la violenza nel nostro pianeta abbia un corrispettivo, un'implicazione, dei prodromi, nel modo in cui pensiamo e che, di conseguenza, il modo in cui di solito pensiamo a come combattere la violenza sia necessariamente viziato ed inefficace. * Violenza e conflitti A scuola, gli episodi di violenza sembrano nascere dal nulla, esplodere in maniera subitanea, per essere presto superati con una pacca sulle spalle o dimenticati. Ma prima che due alunni arrivino alle mani, come nasce il conflitto? E subito dopo, asciugate le lacrime, dove va a finire? Sembra essere uno sgradevole incepparsi (raro o frequente non importa) di una convivenza serena e senza ombre. Un malinteso irenismo tende infatti a isolare il conflitto violento dal contesto che lo produce: la quieta quotidianita' non ha responsabilita' per il conflitto. Il conflitto e' negativo, l'assenza di conflitto positiva, cosi' come la guerra e' negativa, l'assenza di guerra positiva. In realta', l'equivalenza conflitto=violenza e' falsa: il conflitto esprime semplicemente la differenza, incontriamo un conflitto ogni volta che incontriamo una differenza. Conflitto e' un altro nome della differenza. La scuola presenta conflitti perche' presenta l'interazione tra differenze. Ogni conflitto (in quanto differenza) e' fertile, produttore di senso, pedagogicamente utilissimo. La violenza invece e' la negazione del conflitto, e' il suo congelamento, segna la fine dell'interazione tra le differenze, la trasformazione dello scarto in mancanza o eccedenza. La violenza e' uno dei tanti modi (il peggiore) in cui puo' risolversi un conflitto. La mia esperienza quotidiana a scuola e' intessuta di conflitti, positivi e creativi o incancreniti, esplicitati o nutriti in silenzio dall'odio, non riconosciuti e sedati oppure paralizzati dalla violenza verbale o fisica... Ma a scuola vediamo in genere i conflitti solo quando sono degenerati in violenza e li dimentichiamo al cessare della violenza. Avremmo meno conflitti violenti se tenessimo conto della differenza tra conflitto e violenza. Avremmo meno violenza se ponessimo veramente attenzione ai conflitti, cercando di gestirli in maniera creativa. * L'illusione del controllo Se chiediamo a qualunque studente o docente un esempio di conflitto a scuola rispondera' con un luogo comune: "se non la smetti ti rompo la faccia... non sono stato io... ora basta! oppure ti faccio una nota sul registro... ci vediamo all'uscita... lascialo perdere, sii superiore... non mi fai paura... non dovevi reagire ma dirlo all'insegnante... ha detto cose su mia madre... ora ti mando dal preside... non ho paura ne' di lei ne' del preside...". Un conflitto del genere appare di difficile soluzione, si sente in bocca un amaro sapore d'impotenza non rassegnata. Cosa puo' fare l'insegnante? Gli studenti? Riguardo ai conflitti, sia tra studenti sia tra questi e i docenti, abbiamo poche scelte. Come nota Marianella Sclavi, "il repertorio di comportamenti che sia insegnanti che bambini hanno a disposizione di fronte al conflitto e' estremamente povero e si esaurisce in tre alternative: 1) Imporre le proprie ragioni con la forza; 2) Fare appello a una autorita' superiore; 3) Far finta di niente, isolare la 'fonte' del conflitto" (2). Piu' o meno quel che succede nelle controversie tra gli stati. Il docente, che si percepisce (e viene percepito) come un giudice e un poliziotto, si sente frustrato. Il conflitto violento tra i nostri studenti ci ingenera ansia, vorremmo ristabilita al piu' presto una situazione di "normalita'" (purtroppo spesso fatta di conflitti sopiti), abbiamo la penosa sensazione di non controllare quello che succede e l'unica cosa che ci tranquillizza e' agire. Meno conosciamo quello che succede, maggiormente desideriamo controllarlo, maggiormente desideriamo agire. La nostra azione sembra tanto piu' urgente quanto maggiore e' la nostra ignoranza di cio' che sta realmente accadendo a livello profondo. Ecco allora l'intervento del docente: ordina, minaccia, esorta, suggerisce soluzioni, cerca di persuadere, giudica o critica, approva, ridicolizza, analizza e interpreta, rassicura, promette (3). Il risultato, manco a dirlo, e' generalmente fallimentare. Secondo l'ecologia della mente, e' proprio questo atteggiamento mentale - voler creare un'azione semplice, intenzionata verso un effetto diretto - l'ostacolo principale a qualsiasi azione efficace. Ci illudiamo di potere controllare gli alunni in classe con un'azione finalizzata: immettiamo alcune cause e ci aspettiamo determinati effetti cosi' come, quando colpiamo una palla su un tavolo da biliardo, ci aspettiamo una traiettoria e una velocita' determinata. Sembra chiaro, invece, dalla poverta' dei risultati ottenuti che dobbiamo abbandonarci ad una angosciante (e allo stesso tempo dolcissima) consapevolezza: non possiamo controllare i nostri alunni. Non perche' non siamo abbastanza bravi, abbastanza rigorosi, non perche' non sappiamo applicare le metodologie apprese nell'ultimo corso d'aggiornamento, ma semplicemente perche' dentro l'aula c'e' un sistema formato dagli alunni, dagli insegnanti e dalle loro relazioni in co-evoluzione reciproca. L'insegnante e' parte del sistema, puo' cercare di imprimere un certa direzione alle dinamiche della classe, non puo' dirigere la classe verso tale direzione. Cosi' come nessun dirigente scolastico puo' indirizzare la propria scuola come vuole. Puo' imporre una decisione formale, ma sara' il sistema formato da docenti, personale Ata, studenti e genitori, a realizzare, modificare, boicottare, snaturare, perfezionare, reinterpretare, il progetto iniziale. Ancora, non e' possibile controllare la nostra comitiva di amici facendole scegliere sempre il nostro locale preferito. Piu' esattamente, e' possibile realizzarlo per brevi periodi ma il costo appare enorme e i rischi continui. Succede esattamente come all'essere umano che non puo' indicare una direzione, scelta da lui solo, all'intero ecosistema, se non a costo di distruggerlo. Questa consapevolezza non significa necessariamente abbandonare al teppismo gli istituti scolastici ne' abdicare alla propria funzione docente. Significa sapere che se trattiamo un sistema complesso con una logica semplice siamo votati al fallimento. Riguardo al problema dei conflitti scolastici, io penso allora che, ecologicamente, piuttosto che affannarsi alla risposta, precipitarsi alla ricerca delle soluzioni, sia meglio sostare sulla domanda, complessificare e problematizzare la domanda. Come dice von Glasersfeld, infatti, "le opportunita' di riflettere sul processo in atto sono cento volte piu' importanti dei risultati immediati" (4). * Leggere i conflitti Capire perche' litighiamo con nostra moglie, cosa ci infastidisce del comportamento di un turista giapponese, perche' nasce una rissa in classe, e' una questione di osservazione. Come insegna Sclavi, "quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista" (5). Quando noi insegnanti vediamo un conflitto (e non di tutti i conflitti ci rendiamo conto) lo vediamo a partire dal nostro corpo, dalla nostra epistemologia, dalla nostra storia, dalla nostra concezione della scuola, ecc., insomma a partire dal nostro punto di vista. Prendo a prestito da Sclavi il seguente esempio (6). Spesso i bambini usano quello che per me e' un tavolo da cucina come capanna sotto cui ripararsi e giocare. Generalmente questo atteggiamento mi fa pensare che i bambini sono appunto... bambini, esseri cioe' in evoluzione, con un cervello, una conoscenza del mondo, un sapere, inferiori al mio. Mancano di qualcosa che col tempo acquisteranno. Non ho dubbi che la mia descrizione ("tavolo da cucina") e l'uso che faccio dell'oggetto siano quelli giusti. In realta', i bambini, piuttosto che non ancora del tutto sviluppati dal punto di vista mentale e cognitivo, sono semplicemente... bassi. Generalmente, i bambini sono piu' bassi degli adulti e su questo fondamento non teorico ma esperienziale si struttura il loro punto di vista: non pertinentizzano il piano superiore del tavolo (che non arrivano a vedere) ma il vuoto sottostante. Probabilmente anche un adulto, vedendo quattro pali su cui poggia una copertura che lo sovrasta di trenta centimetri, penserebbe a riutilizzare quell'oggetto, certo avrebbe difficolta' ad usarlo come desco. Ho l'impressione che una cosa non diversa accada per la scuola: come percepiscono gli studenti la loro classe? E' un contesto di apprendimento o l'unica occasione della giornata in cui possono confrontarsi con coetanei/e? Sono loro a disturbare l'insegnante che spiega o e' l'insegnante che disturba la relazionalita' altrimenti sana di un gruppo di bambini che si sta divertendo insieme? E' lo studente che risponde aggressivamente a una richiesta dell'insegnante oppure e' sentito come aggressivo l'insegnante che sovrasta (perche' piu' alto) lo studente e mostra un viso irritato? La descrizione di qualunque cosa dipende da cio' che per noi e' pertinente e da quello che tralasciamo. Anche di un conflitto e' difficile vedere tutto. Ogni descrizione e' un'interpretazione. Nonostante quello che ci e' stato insegnato sull'obiettivita', noi esseri umani - sempre - produciamo immagini concrete anche in presenza di informazioni insufficienti. Secondo Sclavi, ad esempio, "ogni volta che qualcuno inizia una frase, incominciamo immediatamente a produrre congetture sul significato dell'intera enunciazione e man mano che va avanti modifichiamo sia la nostra interpretazione delle singole parole che il senso complessivo quel tanto che e' necessario perche' la nostra interpretazione rimanga plausibile" (7). Nell'incontro con l'altro, nel conflitto, questo meccanismo ha effetti particolari: "maggiore e' l'autorita' e il prestigio di una persona, piu' ci rendiamo automaticamente disponibili a darci da fare per rendere 'sensato' quello che dice e fa... [invece] quando chi 'parla e fa' e' una persona emarginata dalla societa' o comunque in posizione marginale, altrettanto automaticamente tendiamo a risparmiarci, a posizionarci sull'ascolto passivo. Questa mancata attivazione e collaborazione e' il motivo principale per cui 'i marginali' cosi' spesso 'hanno poco da dire' e quello che dicono 'ha poco o nessun senso'" (8). Siamo in un circolo vizioso: abbiamo una minore voglia di comprendere cio' che invece dovremmo sforzarci di comprendere meglio, proprio perche' lontano da noi (come uno studente o un collega col quale non c'e' empatia). Abbiamo urgenza di classificare per potere agire e tendiamo a tralasciare i "casi particolari", le "eccezioni" che confermano la regola. Se facessimo attenzione alle eccezioni vedremmo che sono possibili svariate descrizioni dello stesso oggetto, vedremmo che una capanna ad alcuni puo' sembrare addirittura... un tavolo da cucina. Cio' significa superare l'ovvio, complessificare una visione ingenua: preziosa conquista, perche' la visione ingenua, una volta perduta, non e' piu' restaurabile. Potremo scegliere che una descrizione e' migliore di un'altra ma non potremo piu' pensare che sia "ovviamente" l'unica (9). Risalire alle cornici epistemologiche non significa condividerle, ma solo capirle meglio (10): tenere conto delle esigenze di socializzazione degli studenti non significa rinunciare a fare lezione, ma prevedere spazi di socialita' e di relazionalita' a scuola. Uno sguardo ecologico sui conflitti a scuola significa cambiare modo di pensare, non concentrarsi su cosa vediamo ma su come guardiamo (11). * Il paradigma della colpa Questa e' la sfida, ma quanto spesso, invece, noi insegnanti usiamo la scorciatoia di etichettare e colpevolizzare, ponendo su un solo elemento della relazione il carico del problema? Questo atteggiamento rende piu' difficile gestire il conflitto. Il paradigma della colpa e' a somma zero: se io ho ragione l'altro ha torto. Io non voglio avere torto. Io non ho torto. Ne sono sinceramente convinto. "La psicologia della Gestalt ha mostrato che qualsiasi processo conoscitivo, qualsiasi attribuzione di senso comporta una strutturazione di campo, un decidere cosa viene messo a fuoco, portato in primo piano, e cosa lasciato sullo sfondo... La psicologia della Gestalt ha anche mostrato che, per cosi' dire, 'le Gestalt si difendono'. Ogni volta che tendiamo a ignorare i confini del campo gestaltico avvertiamo delle precise resistenze, quel movimento trasgressivo ci appare insensato" (12). Per quanto possa sembrare impossibile, la visione dell'altro, per quanto assurda e contraria alla "evidenza", e' quasi sempre in buona fede, nasce da un convincimento sincero. Ma soprattutto, noi esseri umani siamo molto affezionati alle nostre idee e alla considerazione di noi stessi. Se tra azione e autore dell'azione non viene fatta una distinzione sentiamo come necessario "salvare la faccia", anche a costo di mentire, di arrampicarsi su improbabili specchi argomentativi, di scaricare la responsabilita', di minimizzare... Gli alunni e gli insegnanti sono esseri viventi che difendono la loro esistenza reale e simbolica. In piu', lo sguardo colpevolizzante crea la colpa: una volta dato nome ad un campo di relazioni, aggressore e vittima giocheranno immediatamente a quel gioco, dentro quella cornice concettuale. Chi colpevolizza, infatti, "non si limita a pronunciare determinate parole e a fare dei gesti congruenti: evoca una cornice, uno scenario di cui lui e' gia' parte attiva, un campo definito da dei confini e da attese implicite bilaterali condivise, non solo sue, ma anche nostre. Per questo e' piu' facile 'aderire'... a uno scenario gia' proposto che non cambiarlo. Per cambiarlo dobbiamo non solo 'squilibrare l'altro', spiazzarlo dall'immaginario relazionale in cui e' gia' impegnato, ma in una certa misura (proporzionale all'autorita' che gli attribuiamo) dobbiamo spiazzare anche noi stessi" (13). Uno studente che accusa un altro, un insegnante che rimprovera, non stanno descrivendo un conflitto, stanno evocando uno schema omologo alla scuola, alla societa'. Sclavi: "sia Goffman che i 'labeling theorists' (i teorici dell'etichettamento) hanno ampiamente mostrato che quasi sempre una persona stigmatizzata in modo negativo (per esempio definendo 'un delinquente' un giovane che ha compiuto dei furti, o 'un drogato' uno che fuma la marijuana, o 'un incapace' uno studente che non studia) finira' col trovare piu' facile adeguarsi a questa etichetta che non ingaggiare un'estenuante e difficile battaglia di contro-definizioni. Le etichette e i comportamenti sociali di cui sono il riflesso diventano profezie che si autoadempiono" (14). Il problema e' che la percezione di studenti e docenti vede la genesi di un conflitto in un autore specifico, causa diretta dello scontro, vede un aggressore (male) agire contro una vittima (bene), vede una colpa. Il primo ostacolo che incontriamo e' proprio il paradigma della colpa, dell'autore, del responsabile unico. Questa descrizione non e' l'unica possibile e l'ecologia della mente descrive la genesi dei conflitti in altro modo: "il conflitto e il disagio della non riuscita comunicazione molto spesso non e' 'colpa' di nessuno; e' una normale questione di dissonanza di matrici cognitive" (15). Ma cosa significa? Facciamo un esempio. Per noi italiani, toccare l'interlocutore mentre gli si parla e' considerato un comportamento fastidioso e poco riguardoso, cui si risponde scostandosi per mettersi fuori portata oppure opponendo una lamentela, una protesta, una richiesta esplicita. Un marocchino ritiene invece lo stesso comportamento un segno di rispetto verso l'interlocutore cui si dimostra di non "provare schifo" del contatto fisico, tanto che lo si tocca. E' chiaro che l'interazione tra questi due atteggiamenti, ciascuno considerato "ovvio", diventa subito conflitto [Segue una tabella - che abbiamo omesso per esigenze grafiche - in cui viene rappresentato visivamente quanto appena descritto - ndr -]. Ma di chi e' la colpa? Individuarne una, oltre che difficile, e' controproducente nell'ottica della risoluzione del conflitto. Molto piu' utile risalire alle premesse epistemologiche implicite, ovvie e non riflettute, che guidano il nostro agire. La gestione dei conflitti ha allora molto a che fare con l'intercultura, molto a che fare con l'apprendimento e quindi con la scuola. Come dice Pinto Minerva, "in tal senso, 'l'educazione e' l'arma della pace', come gia' sosteneva Maria Montessori... E' proprio attraverso l'educazione che e', dunque, possibile formare e alimentare un pensiero della pace, oppositivo nei confronti di un pensiero della guerra... Il pensiero che nutre la pace e' un pensiero attivo e non passivo, problematico e antidogmatico, un pensiero interculturale" (16). Gestire i conflitti significa acquisire uno sguardo interculturale capace di leggere le matrici epistemologiche che stanno dietro le parole e le azioni: se vuoi la pace prepara l'intercultura. Le nostre classi infatti sono teatro di conflitto, di differenze, non solo quando vi sono presenti studenti stranieri: la globalizzazione, se da un lato omogeneizza le differenze, dall'altro le evidenzia in contesti omogenei, un italiano e un angolano sono molto piu' simili di prima, gli italiani sono molto meno simili tra loro, notiamo una maggiore interdipendenza globale e una maggiore differenziazione locale. Intercultura e conflitto sembrano essere le categorie concettuali con cui dobbiamo abituarci a guardare ai nostri studenti, superando la vecchia concezione: il problema non e' una persona (il caratteriale, il violento, il disadattato) ma un sistema di relazioni. Rispetto ad un conflitto, che nasce come confronto di differenze, l'ecologia (scienza del contesto) ci spinge a non concentrarci sulla colpa, ne' sulle posizioni espresse dai vari soggetti, ma ad allargare la visuale al contesto di enunciazione: tutti noi parliamo, ci confrontiamo, a partire dalla cultura (in senso antropologico) di cui siamo parte e che e' parte di noi, e sempre a partire da essa interpretiamo, diamo senso a cio' che osserviamo (17). Non sempre e' facile capire. E' esperienza di ogni docente notare come talvolta gli studenti si insultino tra di loro, offendendo addirittura i genitori, ma che a questo non segua una lite. Altre volte, insulti meno gravi scatenato sanguinose battaglie. La discrepanza sembra essere legata al contesto, che gli studenti comprendono benissimo ma che ai docenti sfugge spesso. Bisogna imparare a leggere i segnacontesto: "alcuni esempi sono la stretta di mano dei pugili prima dell'incontro che sta ad indicare che e' vero che si prenderanno a botte, ma lo faranno 'sportivamente'; oppure la cornice del palcoscenico che indica che e' vero che le persone che si muovono in quel contesto si sposeranno, divorzieranno, daranno in escandescenze e quant'altro, ma stanno 'solo' recitando" (18). Comprendere il gioco e' necessario per essere efficaci: dare un rinforzo negativo ogni volta che sente un insulto e' il miglior modo, per un docente, di rendere inefficace il suo intervento. L'efficacia di un'azione e' legata alla sua frequenza. Dobbiamo economizzare i nostri interventi perche' abbiano senso, evitando di abusarne, sprecandoli per occasioni che non potrebbero mai degenerare. Oltre a questo fatto, bisogna sottolinearne un altro: per una rissa ma anche per un insulto bisogna essere (almeno) in due, nessun aggressore e' tale senza una vittima e viceversa. L'ecologia della mente insegna a guardare piu' che agli oggetti, alle relazioni tra gli oggetti. Allora piu' che colpevolizzare l'aggressore e consolare la vittima e' utile guardare alla relazione, alla danza, che essi creano. Come dice Sclavi sulla scorta di Simmel, "se lo scenario instaurato e' 'facciamo la lotta', 'fammi da nemico', ogni azione tesa a ferire l'altro e' una collaborazione a tener vivo quel sistema. Quindi... si e' nemici sul piano dei comportamenti, ma si coopera su quello della configurazione relazionale... e allora devo sapere che quando reagisco anch'io con un pugno, ad un livello - quello dell'azione - mi sto opponendo, ad un altro - quello del contesto relazionale - sto collaborando. Mi sono lasciata coinvolgere in quella danza che l'altro col pugno proponeva. D'altra parte, se non reagisco e faccio la vittima, non mi sottraggo a quella danza, sto solo collaborando (forse) a chiuderla piu' in fretta. Era una danza vincitori-vinti e lui ha vinto. L'unico modo per non collaborare e' proporre una danza diversa e indurre l'altro a cambiar danza" (19). E' importante capire veramente a che gioco si sta giocando, perche' aiuta ad uscirne se non ci piace. * La relazione In una parte di un celeberrimo libro (20), Bateson analizza le possibili configurazioni delle relazioni. Questo schema mi pare utile perche' applicabile ai diversi casi di conflitti percepibili a scuola. Lo studioso infatti individua due modelli; il primo e' la "Differenziazione simmetrica. A questa categoria possono essere ascritti tutti quei casi in cui gli individui di due gruppi, A e B, hanno le stesse aspirazioni e le stesse strutture di comportamento, ma sono differenziati quanto all'orientamento di queste strutture. Cosi' i membri del gruppo A manifestano le strutture di comportamento A, B, C nei loro rapporti interni, mentre adottano le strutture X, Y, Z nei rapporti con elementi del gruppo B. Analogamente il gruppo B adotta le configurazioni A, B, C nei rapporti interni e manifesta X, Y, Z nei rapporti col gruppo A. In questo modo si crea una situazione in cui il comportamento X, Y, Z e' la risposta consueta ad X, Y, Z. Questa situazione contiene elementi che possono condurre a una differenziazione progressiva o schismogenesi lungo le stesse linee" (21). La configurazione simmetrica e' un conflitto, che puo' portare alla violenza, alla schismogenesi, alla spaccatura che si accresce via via sino al collasso o sino ad un nuovo equilibrio. Spesso assistiamo a questa differenziazione simmetrica a scuola: gli studenti devono decidere, ad esempio, chi debba essere il capitano della squadra, due personalita' forti ambiscono a quel ruolo, sentito come riconoscimento del loro status di leader, di persone in gamba e autorevoli. La contrattazione si struttura come gara di meriti, elencazione dei propri e denigrazione di quelli dell'altro. Si assiste ad una escalation in cui ogni azione dell'uno stimola una reazione dell'altro, teso a superare il primo, e in cui forte e' il rischio dell'esito violento. E' anche la gara simmetrica che abbiamo conosciuto con il nome di "corsa agli armamenti" durante la guerra fredda. L'altro modello batesoniano e' la "Differenziazione complementare. Possiamo ascrivere a questa categoria tutti quei casi in cui il comportamento e le aspirazioni dei membri dei due gruppi sono fondamentalmente diversi. Cosi' i membri del gruppo A trattano fra loro con le strutture L, M, N e manifestano le strutture O, P, Q nei rapporti col gruppo B. In risposta ad O, P, Q i membri del gruppo B manifestano le strutture U, V, W, ma tra loro adottano le strutture R, S, T. Ne segue dunque che O, P, Q e' la risposta ad U, V, W, e viceversa. Questa differenziazione puo' diventare progressiva. Se, per esempio, la serie O, P, Q include strutture che da un punto di vista culturale sono considerate assertive, mentre U, V, W includono la soggezione culturale, e' possibile che la soggezione induca ulteriore assertivita', che a sua volta indurra' ulteriore soggezione. Tale schismogenesi, se non viene frenata, conduce a una progressiva distorsione unilaterale della personalita' dei membri dei due gruppi, che sfocia in una reciproca ostilita', e inevitabilmente conduce al collasso finale del sistema" (22). E' difficile non vedere quella "distorsione unilaterale della personalita'" nella tendenza dei docenti all'autoritarismo culturale (vera e propria deformazione professionale), originata dalla asimmetrica ripartizione del potere e del sapere, dal monopolio della valutazione tenuto dagli insegnanti... Ma ancora, complementare e' la strutturazione tipica del bullismo in cui soggetti con caratteristiche e attitudini diverse sono intrappolati in un gioco in cui uno compie sempre la stessa azione (ad esempio, aggredire verbalmente) e l'altro sempre l'azione complementare (subire), senza reciprocita', senza scambio di ruoli. Questa strutturazione porta alla esasperazione dei comportamenti dell'uno e dell'altro: l'aggressore e' sempre piu' violento, la vittima sempre piu' remissiva. Le due configurazioni relazionali - simmetrica e complementare - sono state pensate da Bateson in relazione a problemi di antropologia culturale e non in relazione diretta con la scuola, ma e' lo stesso studioso, a mio avviso, a consentire il dislocamento nell'ambito scolastico, quando dice: "proporrei di includere nel capitolo 'contatti tra culture' non solo i casi in cui il contatto avviene tra due comunita' con diversa cultura e sfocia in una profonda perturbazione della cultura di uno o di ambedue i gruppi; ma anche i casi di contatto all'interno di una singola comunita'. In questi casi il contatto avviene tra gruppi differenziati di individui, ad esempio tra i sessi, tra vecchi e giovani, tra aristocrazia e popolo, tra due clan, ecc., gruppi che vivono insieme in equilibrio approssimativo. Estenderei addirittura l'idea di 'contatto' fino ad includervi quei processi mediante i quali un bambino e' plasmato ed educato a conformarsi alla cultura in cui e' nato" (23). Certo la scuola fa parte integrante di quei processi di educazione e accultu razione dei bambini nella nostra societa' (24). E in quel che Bateson definisce "equilibrio approssimativo", interagiscono sicuramente variabili quale il sesso (nei conflitti tra studenti ma anche nell'atteggiamento diverso che gli studenti hanno verso gli o le insegnanti), l'eta' (nella differenza generazionale tra studenti e docenti), ma spesso anche di status (economico, sociale, dato dal ruolo...). Mi pare poi interessante l'espressione "equilibrio approssimativo". A scuola siamo abituati a pensare all'interno della dicotomia ordine-disordine, silenzio-confusione, etc. Bateson evidenzia invece la natura approssimativa dell'equilibrio: imperfetta, grossolana, imprecisa, superficiale. Ma indica anche la caratteristica dinamica dell'equilibrio, il suo approssimarsi, avvicinarsi, all'ordine statico, senza mai raggiungerlo, garantendolo grazie ad aggiustamenti continui, il suo carattere artigianale, indicativo, tendenziale. Da un lato, approssimativo indica l'ordine che riusciamo a mantenere, l'equilibrio precario, la calma gravida del suo opposto che spesso regna nelle aule o nei corridoi. Dall'altro lato, implica che gestire l'equilibrio nelle nostre classi significa evitare che i conflitti si trasformino in violenza, significa non ragionare piu' in termini di opposizione binaria (ordine-disordine) ma in termini di tendenziale approssimazione verso un equilibrio dinamico. Visto che i fattori operanti nello stato di equilibrio dinamico appaiono, come gia' affermato, identici o analoghi a quelli che operano nello stato di disequilibrio. * Note 1. Cfr. T. Makiguchi, L'educazione creativa, introd. di M. Tarozzi, La Nuova Italia, Milano 2001. 2. M. Sclavi, Insegnamenti impliciti ed espliciti nella scuola italiana e in quella statunitense in P. Perticari, M. Sclavi (a cura di), Il senso dell'imparare. Per far riprendere il fiato e la parola a insegnanti e studenti, Anabasi, Milano 1994, p. 39-40. 3. D. Francescano, A. Putton, S. Cudini, Star bene insieme a scuola. Strategie per uníeducazione socio-affettiva dalla materna alla media inferiore, Carocci, Roma 2000, p. 40 sgg. 4. E. von Glaserfeld, Cosa si prova quando s'impara? in Perticari, Sclavi (a cura di), Il senso dell'imparare. (cit.), p. 19. 5. M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Le Vespe, Pescara-Milano 2002, p. 73. 6. Ivi, pp. 82-8. 7. Ivi, p. 104. 8. Ivi, pp. 104-5. 9. Ivi, p. 75. 10. Ivi, p. 44. 11. Ivi, p. 121. 12. Ivi, pp. 32-3. 13. Ivi, p. 289. 14. Ivi, p. 203. 15. Sclavi, Insegnamenti impliciti (cit.), p. 42. 16. F. Pinto Minerva, L'intercultura, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 124. 17. Cfr. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, (cit.), p. 37. 18. Ivi, p. 151. 19. Ivi, pp. 234-5. 20. G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, pp. 101-114. 21. Ivi, p. 109. 22. Ivi, pp. 109-110. 23. Ivi, pp. 104-5. 24. Ancora, Bateson dice: "questo schema e' orientato verso lo studio di processi sociali, piuttosto che psicologici, ma si potrebbe costruire uno schema strettamente analogo per lo studio della psicopatologia. Qui si studierebbe la nozione di 'contatto', specie nei contesti della plasmazione dell'individuo, e si osserverebbe che i processi di schismogenesi avrebbero una parte rilevante non solo nell'aumento del disadattamento del deviante, ma anche nell'assimilazione dell'individuo normale al suo gruppo" (ivi, p. 105). Mi pare che qui Bateson autorizzi ancora un passaggio: i problemi legati all'incontro tra culture coinvolgono il rapporto tra il Se' e l'Altro-da-se', il rapporto tra l'individuo e il mondo. Siamo insomma alle soglie dell'intercultura. Bateson profetizza una concezione complessa della "cultura", determinata dalle molteplici differenze che la caratterizzano al livello del singolo individuo. L'intercultura non si occupa piu', come faceva il multiculturalismo, dell'incontro di due "culture", bensi' della costruzione dell'identita' e delle differenze coinvolte nella vita di ogni singolo individuo. Mentre il multiculturalismo si preoccupava dell'integrazione dello studente straniero, l'intercultura si occupa ora delle differenze (etniche, religiose, di sesso, socioeconomiche...) che attraversano ciascuna persona e che relativizzano espressioni come "cultura italiana", facendo di ogni alunno/a un portatore di una sua propria "cultura". Mi pare allora che, coerentemente con un approccio interculturale, lo schema di Bateson possa essere utilizzato a scuola per analizzare l'interazione tra gruppi e singoli, area di confronto tra differenze che noi leggiamo sotto lo specifico del conflitto. Lo studioso non usava certo il termine "conflitto", ma analizzava "le possibilita' di differenziazione dei gruppi" (ivi, p. 108). Proprio l'identificazione da noi fatta tra "differenza" e "conflitto" permette di rileggere le parole di Bateson sui vari tipi di "differenziazione", dislocandole nell'ambito del "conflitto". (Parte prima - Segue) 2. RIFLESSIONE. ELEONORA CIRANT: UN'ESPERIENZA DI RIFLESSIONE COLLETTIVA SULL'INTRECCIO TRA NASCITA E TECNOLOGIE [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riprendiamo il seguente intervento. Eleonora Cirant e' impegnata nella Libera universita' delle donne di Milano, nell'Unione femminile nazionale, ed in altre rilevanti esperienze dei movimenti femministi di cui e' anche acuta studiosa] Un anno fa partecipavo ad un gruppo di donne che per quattro mesi si e' riunito periodicamente alla Libera universita' delle donne di Milano per discutere di Procreazione medicalmente assistita. Partivamo dal presupposto che, nonostante i diffusi e partecipati eventi promossi dalle donne contro la "legge crudele", poco si stava procedendo rispetto alla comprensione delle problematiche sollevate dalle tecnologie applicate alla nascita. Rilevavamo la mancanza non tanto di teoria femminista, quanto di una pratica che affrontasse, a partire dalle nostre vite, il tema della maternita' nell'intreccio con l'elemento tecnologico. Nel manifesto programmatico scrivevamo che nel proliferare di manifestazioni contro la legge 40 il rischio fosse la dispersione delle energie e il rapido estinguersi mediatico delle informazioni. Intendevamo sviluppare "un percorso che, accanto alle mobilitazioni" ci permettesse "di approfondire e riempire di contenuto la nostra posizione, anche per poterla meglio articolare nel momento della cosiddetta sensibilizzazione", dichiarando: "percorrere il piano dei diritti e della liberta' delle donne e' opportuno; focalizzare l'attenzione esclusivamente su di esso e' un rischio: potremmo accorgerci di camminare su un terreno friabile, perche' non sostenuto da una presa di coscienza di noi donne - e gli uomini? - su cio' che sta dentro e intorno a questa legge; il sospetto e' che rimanere solo entro una logica di contrapposizione di diritti ci escluda la possibilita' di esplorare contraddizioni, immaginario, percezione di se' correlate alle molte forme del nascere". Volevamo "capire a partire da noi che cosa ci sta accadendo, che cosa sta succedendo ad un paese che risolve con una legge sadico-repressiva problemi che riguardano l'umano nella sua radice piu' profonda: l'origine della vita e il confine con la morte; l'invasione della tecnologia nei processi stessi della vita e della morte; la sessualita'; la coppia e la famiglia; il desiderio, l'istinto, il sogno, l'amore; la con-fusione di animalita' e cultura che caratterizza l'essere umano; il miscuglio di trascendenza e materialita' che accompagna l'esperienza del generare la vita (e approdare alla morte); i vincoli necessari in un mondo sbranato dal profitto e dall'appagamento individuale ad ogni costo". Scavando in questa direzione, attraverso la discussione e la condivisione dei saperi e delle riflessioni, abbiamo osservato la procreazione medicalmente assistita come specchio e lente d'ingrandimento di una partita epocale. Si tratta di come una societa' attraversata da posizioni etiche differenti possa darsi regole condivise in materia di vita e di morte. Si tratta della laicita', della capacita' di sottrarre il desiderio alla macchina mercantile, di comprendere come la paura e il suo controllo siano funzionali ad equilibri di potere e di mercato. Gli schieramenti politici tradizionali sono scompaginati dalle questioni sulla vita e la morte e le emozioni che si condensano intorno a questi temi diventano terreno di scontro elettorale. Quante/i sanno degli enormi interessi commerciali che sottendono la questione se l'embrione sia o meno una persona? * In un tale ginepraio, ragionare e prendere posizione richiede un senso di responsabilita' - individuale, dunque sociale - che non si estingue nel barrare si/no ad un referendum. Nel lavoro di gruppo abbiamo tentato, dunque, una via che non procedesse da semplificazioni. Ci siamo affacciate su un paesaggio non facile da esplorare, quello in cui prende forma e senso il desiderio materno nel suo intreccio con il ruolo e l'identita' femminile. L'elemento tecnologico, infatti, si e' ben presto rivelato evidenziatore di contraddizioni latenti del nostro rapporto con la maternita', con il desiderio e il suo potenziale di trasformazione/conservazione dell'esistente. Ci soffermammo a riflettere sul principio di autodeterminazione della donna, ieri e oggi. Dico "affacciate" perche' abbiamo iniziato appena a srotolare la matassa ed individuarne i fili. Il trascorrere dei mesi ha scandito la fatica nel tenere il passo: a primavera inoltrata, era quasi dimezzata la dozzina che eravamo nella prima riunione di gennaio. Accanto alla fatica, che non posso non registrare e mantenere in forma di domanda aperta, voglio sottolineare l'importanza che ha avuto per me questa esperienza. Ne sono uscita con le idee molto piu' chiare, sono cresciuta in consapevolezza. Lo scambio che avviene nella relazione apre porte di comprensione, da' opportunita' di cogliere sfumature, discernere cio' che e' confuso e nominare cio' che altrimenti resta non detto. La domanda aperta riguarda i modi e le forme della partecipazione politica oggi. Nel chiedermi quale ne sia il motore, non posso che partire da me, non come risposta, ma come possibile elemento di riflessione. Il mio interesse, e conseguente impegno sul tema della procreazione assistita e' venuto sulla spinta di due forze: la rabbia e il bisogno. Rabbia e' stata nel vedere come ancora una volta si legiferasse sulle donne a prescindere dalle donne, come la morale di una parte fosse fatta valere per la morale comune. Il bisogno e' stato di iniziare a sbrogliare una matassa interiore, di farlo nell'incontro con l'esperienza di altre donne. All'origine, una domanda: perche' una donna e' disposta a sottoporsi alla manipolazione della tecnologia pur di soddisfare il proprio desiderio materno? Evidentemente, questa domanda era ed e' rivolta al mio stesso desiderio di maternita'. Sono una donna giovane e, come altre coetanee, non vivo la maternita' ne' come certezza ne' come destino, ma come possibilita' che si dispiega in forma di contraddizione. Negli scenari possibili spalancati dal crollo dei ruoli tradizionali e' difficile determinare se la fecondazione artificiale sia una promessa di liberta' o un ulteriore strumento di controllo sulla scia della medicalizzazione del corpo e della mente. Su questo e gli altri temi in cui la politica entra nella vita personale, credo nell'insostituibile valore della discussione collettiva. Auspico che le donne si diano l'occasione di incontrarsi per parlarne, che altrettanto facciano gli uomini rispetto alle mutazioni del potere paterno. 3. RIFLESSIONE. MADDALENA GASPARINI: RIFLESSIONI ATTORNO AGLI INTERROGATIVI PRODOTTI DALLE TECNOLOGIE BIOMEDICHE [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riprendiamo il seguente intervento. Maddalena Gasparini, laureata in medicina e chirurgia e specializzata in neurologia, ha svolto attivita' clinica e curato l'organizzazione di congressi e corsi di aggiornamento e formazione in collaborazione e per conto di strutture ospedaliere del Consiglio nazionale delle ricerche, della Regione Lombardia e della Provincia di Milano; grazie all'incontro con la Libera universita' delle donne, da anni segue gli sviluppi delle tecnologie riproduttive approdando agli interrogativi etici che l'evoluzione delle biotecnologie pone alla collettivita'; dal 2003 e' vicecoordinatrice del gruppo di studio di "Bioetica e cure palliative in neurologia" della Societa' Italiana di Neurologia] Il 12 giugno saremo chiamati a dare il nostro parere sulla legge n. 40 che regola la procreazione medicalmente assistita. Dichiarato inammissibile il referendum per l'abrogazione della legge nel suo complesso, la vittoria dei si' nei referendum abrogativi parziali otterrebbe un risultato simile: l'obbligo di ridiscutere le regole. Gli interrogativi e le inquietudini prodotte dalle tecnologie biomediche (e non solo quelle riproduttive) possono favorire scelte proibizioniste; eppure e' dal riconoscimento delle difficolta' che nasce il cambiamento e possono venire regole condivise in grado di garantire le liberta' personali e insieme proteggere da rischi e abusi. Rammento qui alcuni dei temi referendari: la natura dell'embrione ("il concepito" dell'art. 1), la legittimita' di destinare alla ricerca scientifica quelli non piu' richiesti o adatti al trasferimento in utero, le procedure biomediche che riguardano l'autonomia e la salute delle donne, la fecondazione eterologa. * L'embrione e la ricerca biomedica Malgrado ogni anno in Italia nasca da fecondazione in vitro non piu' dell'1,5-2 % dei bambini, decine di migliaia di embrioni sono stati prodotti e immagazzinati, e qualche migliaio non e' piu' richiesto a fini riproduttivi, o perche' il desiderio di maternita' e' stato esaudito o perche' e' stato lasciato cadere dopo i primi insuccessi. Per quanto interroghiamo la nostra esperienza di donne, gravidanza e aborto innanzitutto, non troveremo risposte sulla natura di questo organismo, certamente umano, certamente vivo e che, per slittamenti progressivi, e' diventato "vita umana", addirittura persona, e non solo per chi fa proprio il Magistero cattolico. La sua collocazione nei laboratori ne fa, infatti, un oggetto che, pur invisibile, e' in grado di animare progetti, fantasmi, timori, speranze. Se l'affermazione che "l'embrione e' uno di noi" ha bisogno di conferma divina, l'evocazione di un passato immemore che la scienza definisce embrione, tocca la sensibilita' personale, soprattutto di chi e' piu' giovane, piu' vicino al tempo dell'origine. Ne viene un sentimento di fragilita' e dunque una richiesta di protezione. Con abile e antica mossa, la legge si schiera si' per la protezione dell'embrione, ma dalla madre piuttosto che dai possibili abusi della scienza e dalla logica del mercato: al "concepito" vengono riconosciuti diritti come se fosse una persona, alla donna vengono imposti obblighi e divieti. Mentre ferve il dibattito su quella che io chiamo "metafisica dell'embrione" (puo' - si chiedono i neo-aristotelici - essere dichiarato "in atto" cio' che e' "in potenza"?) sta a noi riconoscere che un embrione in vitro e' radicalmente diverso da un embrione in vivo e che a definirne la sorte non basta l'obbligo del consenso preliminare della donna che potrebbe accoglierlo in se' per far nascere un figlio, servono regole condivise; che insomma una protezione e' si' necessaria, finche' e salvo che una donna decida di accoglierlo e accompagnarne il lento, irregolare diventare un altro da se', fino alla nascita di una nuova persona. L'inevitabile distanza che la fecondazione in vitro mette fra noi e il prodotto del nostro desiderio lascia lo spazio per interventi di cui e' necessario definire modi e limiti: la selezione degli embrioni prima del trasferimento in utero, il tempo massimo consentito alla crescita in vitro dell'embrione, gli indirizzi prioritari della ricerca (per esempio migliorare la qualita' di vita piuttosto che la durata, favorire l'attenzione alle malattie giovanili e alle piu' debilitanti), l'opportunita' che tale ricerca sia approvata, finanziata e controllata dal pubblico in modo di ridurre al minimo (ed e' gia' troppo) la dipendenza della ricerca dal profitto, la necessita' di un'Authority che vegli sulla ricerca e ne garantisca la trasparenza... Su tutto cio' e' facile immaginare che sara' necessario mediare, anche fra donne: non manchera' chi difende la liberta' di commissionare un bebe' a misura delle proprie preferenze o delle necessita' di cura di un fratellino malato e chi evoca l'eugenetica per la conclusione volontaria del ciclo vitale dell'embrione, chi ritiene non ci sia spazio per il progresso scientifico fuori dalla competizione di mercato e chi si interroga sul significato profondo della "donazione" quando si tratta di gameti o embrioni, chi pensa che a fini scientifici si possa usare solo quel che resta della procreazione medicalmente assistita, chi teme che cure sempre piu' sofisticate e costose aumentino il divario fra ricchi e poveri e chi da' voce alla sofferenza che potrebbe giovarsi delle conoscenze e dell'uso delle cellule staminali. * Significati e valori Il confronto cui ci obbliga la campagna referendaria va ben oltre lo scardinamento di una legge che gia' si e' dimostrata inapplicabile, e ci interroga sul nuovo significato da attribuire ai valori che ci sono piu' cari: la liberta', la giustizia e la diversa coniugazione che assumono per un uomo e una donna. Se il liquido seminale puo' essere donato con un semplice atto masturbatorio, gli ovociti devono essere prelevati dopo stimolazione ormonale con una manovra invasiva; se il gesto maschile non e' estraneo al piacere, la procedura sul corpo femminile comporta un rischio di gravi complicanze nell'1,5% dei casi. Laddove e' permessa la commercializzazione dei gameti, a questa differenza corrisponde un diverso valore economico: poche decine di dollari per il liquido seminale, qualche migliaio per ovocita ("lo faccio per pagarmi l'universita'" ha dichiarato una studentessa americana). Ma in quasi tutti i paesi e' previsto un rimborso spese e di recente la Gran Bretagna ha aperto un pubblico dibattito sull'opportunita' di elevare il rimborso per le donne da 500 a 1.000 sterline, mettendo a dura prova tanti discorsi sulla solidarieta' e la relazione fra donne e ricordandoci che sulla differenza ha messo radici la disuguaglianza. E se alla donazione dei gameti a scopo riproduttivo si aggiungesse quella a scopo di ricerca o addirittura terapeutico? Per avere una sola linea di cellule staminali embrionali un'equipe sud-coreana ha avuto bisogno di sedici donne che hanno "donato" 242 ovociti. Anche questa e' liberta'? La liberta' riproduttiva assume nuovi significati passando attraverso istituzioni potenti come la medicina e la scienza. L'involontario legame che si e' stabilito fra il "generare" e la speranza di "rigenerare" i tessuti malati con cellule staminali derivate dagli embrioni mostra il persistere della fantasia, tutta maschile, di controllare la vita e le sue origini vuoi subordinando le scelte riproduttive a leggi feroci vuoi appassionandosi a una scienza che qualcuno vorrebbe senza limiti. 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 905 del 20 aprile 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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