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La nonviolenza e' in cammino. 902
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 902
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 17 Apr 2005 00:51:31 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 902 del 17 aprile 2005 Sommario di questo numero: 1. Severino Vardacampi: Le pensioni di Salo' 2. Bruna Peyrot: Donne in guerra e in pace (parte seconda) 3. Una intervista a Luigi Bettazzi 4. Alessandro Portelli ricorda Saul Bellow 5. "Raggio" 6. Letture: Elena Liotta, Luciano Dottarelli, Lilia Sebastiani, Le ragioni della speranza in tempi di caos 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. SEVERINO VARDACAMPI: LE PENSIONI DI SALO' Non volevo crederci. Pensavo a una macabra burla. E invece qualcuno che siede in parlamento - e nei ranghi della maggioranza parlamentare che sostiene il governo in carica - ha proposto, presentando un disegno di legge, di equiparare il bene e il male, di ritenere gli aguzzini dell'ordine hitleriano benemeriti al pari di chi ad esso si oppose, di non piu' distinguere tra il carnefice e la vittima, tra chi massacrava innocenti e chi cercava di salvare vite umane. Pensavo a una macabra burla. Non volevo crederci. * Ma questo e' accaduto: che qualcuno che siede in parlamento, nel luogo in cui si fanno le leggi, ha proposto di dare ai torturatori complici di Hitler riconoscimenti morali e benefici economici per i servigi allora resi. I servigi resi a Hitler. Dare un premio agli armigeri dell'ordine hitleriano, ai complici della Shoah. Qualcuno questo ha proposto. A quando le medaglie al valore per i killer della mafia? A quando la cittadinanza onoraria a chi ha resecato piu' gole? A quando i monumenti alle SS? A quando il Nobel per il genocidio? * Sia chiaro: a tutte le persone anziane deve essere data una pensione che consenta loro di vivere dignitosamente i tardi anni ed estremi; e se non hanno fonte alcuna di reddito cui attingere, se non hanno svolto un'attivita' lavorativa onesta e legale tale da aver diritto a una pensione conseguente, ebbene, a tutti comunque una pensione decente deve essere data, a tutti. Indipendentemente da ogni altra considerazione. Poiche' tutti gli esseri umani sono esseri umani. Nessuno escluso. Ed a tutti vanno riconosciuti tutti i diritti umani, ed innanzitutto il primo e fondamentale di essi: il diritto a vivere, a vivere una vita dignitosa. Sia chiaro: tra i giovani reclutati - sovente a forza - nei ranghi della teppa di Salo' puo' ben essersi dato che ve ne fossero di inconsapevoli, di ignari, di disperati; dopo vent'anni di diseducazione fascista, nella fornace della guerra, avvezzi ai truci pensieri e alla visione della morte, nell'infamia allevati e dall'orrore avvolti, puo' capitare che giovani innocenti si trasformino in drago, o del drago in artigli. Non e' delle loro coscienze che qui si giudica. Non e' della coazione che subirono, e del travaglio, e di come seppero - coloro che seppero - riscattarsene poi: non pochi disertarono, non pochi passarono alla Resistenza, e tutti certo lungo sessant'anni avranno avuto modo di ripensare all'accaduto, con piu' nitida cognizione di causa. Sono passati sessant'anni, e sono passati per tutti: per tutti coloro che sono sopravvissuti. Per coloro che furono assassinati la vita e il mondo finirono li'. E tuttavia qui non si giudica del mistero delle anime, degli abissi e dei peripli morali ed esistenziali degli individui singoli. Qui si tratta del giudizio storico e giuridico, morale e politico, sull'evento della Shoah. * Ogni persona merita rispetto per il mero fatto della sua umanita'; ed ogni persona anziana merita per il fatto stesso di essere anziana (poiche' senectus ipsa eccetera) cura, sollecitudine. Ma dare un premio speciale agli esecutori della Shoah e' altra cosa. Sostenere che la criminale masnada degli scellerati di Salo' vada considerata alla stregua di un potere legittimo; sostenere che quell'attivita' di persecuzione, di torture, di omicidi, di deportazione di innocenti nei Lager nazisti sia un'attivita' legale; sostenere che non vada fatta distinzione tra gli esecutori della Shoah e coloro che contro lo sterminio si sono battuti: ebbene, tutto cio' non e' abominevole? * Anche questo foglio naturalmente si unisce alle voci delle associazioni dei deportati e dei resistenti, degli enti locali fedeli alla Costituzione democratica e antifascista, delle tante persone di volonta' buona che hanno gia' espresso la loro indignazione e la loro angoscia dinanzi a una proposta cosi' infame, cosi' obbrobriosa. 2. RIFLESSIONE. BRUNA PEYROT: DONNE IN GUERRA E IN PACE (PARTE SECONDA) [Ringraziamo di cuore Bruna Peyrot (per contatti: brunapeyrot at terra.com.br) per averci messo a disposizione il seguente capitolo tratto dal suo libro Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita', Edizioni Citta' Aperta, Troina (En) 2002, che tratta della scelta nonviolenta di un gruppo di sindacaliste colombiane. Bruna Peyrot, torinese, scrittrice, studiosa di storica sociale, conduce da anni ricerche sulle identita' e le memorie culturali; collaboratrice di periodici e riviste, vincitrice di premi letterari, autrice di vari libri; vive attualmente in Brasile. Si interessa da anni al rapporto politica-spiritualita' che emerge da molti dei suoi libri, prima dedicati alla identita' e alla storia di valdesi italiani, poi all'area latinoamericana nella quale si e' occupata e si occupa della genesi dei processi democratici. Tra le sue opere: La roccia dove Dio chiama. Viaggio nella memoria valdese fra oralita' e scrittura, Forni, 1990; Vite discrete. Corpi e immagini di donne valdesi, Rosenberg & Sellier, 1993; Storia di una curatrice d'anime, Giunti, 1995; Prigioniere della Torre. Dall'assolutismo alla tolleranza nel Settecento francese, Giunti, 1997; Dalla Scrittura alle scritture, Rosenberg & Sellier, 1998; Una donna nomade: Miriam Castiglione, una protestante in Puglia, Edizioni Lavoro, 2000; Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita', Citta' Aperta, 2002; La democrazia nel Brasile di Lula. Tarso Genro: da esiliato a ministro, Citta' Aperta, 2004] 2. La militanza perduta Tranne le ventenni, le donne intervistate hanno vissuto pienamente la stagione politica degli anni sessanta e settanta, con i mitici punti di riferimento, fra gli altri, di Ernesto Che Guevara, Fidel Castro, Camilo Torres. Alcune di loro entrarono nella guerriglia clandestina delle Farc che, come abbiamo visto all'inizio, nacquero a meta' degli anni sessanta, per difendere la terra di Marquetalia. Come narrano le donne quel pezzo della loro vita nella selva? Non la narrano affatto, la dicono di fretta, per passare subito a descrivere cio' che sono ora. "Feci la guerrigliera per un anno, poi mi coinvolsi nel processo di pace", dice Sonia Patricia. Quei ricordi emergono solo a tratti, in una passeggiata in montagna che ricorda l'andatura dei guerriglieri, o nella precarieta' delle case, non considerate mai definitive, o ancora nel sentirsi sempre di passaggio, mai stabili su un territorio. A volte ho colto la nostalgia per la vita nella foresta, quasi come una tensione verso qualcosa di piu' ancestrale, una specie di terra materna vissuta nella distorsione della violenza armata. Altre volte ho percepito un sogno insoddisfatto di giustizia che tenta sempre nuove strade, senza realizzarsi mai, e una di quelle era passata per la lotta armata. Il silenzio narrativo puo' avere molte spiegazioni. La principale e' che in Colombia la guerra civile non e' ancora terminata. Il confine fra passato e presente sfuma nell'indecifrabilita' di un chiaro passaggio fra guerra e pace, fra azioni militari e consegna delle armi. Questo ponte fra un prima e un dopo deve ancora essere costruito e la sua frontiera sancita formalmente. Nonostante la mancanza di una data che aiuti a periodizzare, il difficile processo del passaggio dalla guerra alla pace e' gia' cominciato. Le donne presenti nei partiti, nei sindacati, nelle Ong, nelle associazioni femministe, da tempo si sono dissociate pubblicamente da qualsiasi tipo di alleanza o collusione con forze che sostengono una soluzione armata al conflitto colombiano. Certo, se la guerra fosse finita, sarebbe piu' facile parlare e costruire la pace. Si comincerebbe da un traguardo gia' raggiunto in comune: l'accordo sul non uso delle armi per risolvere il conflitto. Invece in Colombia si parla e si costruisce la pace mentre si spara. Nelle citta' si sciopera e si manifesta, nelle campagne si e' in mano ai guardiani armati di turno sul territorio. Le testimoni hanno una peculiarita'. Hanno scelto la pace in un momento politico in cui la parte nella quale avevano militato, le Farc, godevano di legittimita' e sostegno internazionale. Il che significa che non avevano motivi politici generali per dissociarsi, proprio nel momento piu' "forte" dei gruppi guerriglieri. Hanno maturato l'uscita dalla lotta armata dentro un percorso di militanza politica, in cui hanno letto, piu' o meno consapevolmente, da un punto di vista di genere la loro presenza nelle varie organizzazioni. In altre parole, il loro e' un percorso che viene di lontano, forse troppo poco elaborato proprio perche' per altri non e' ancora terminato. * Se pensiamo che le donne partecipanti alla Resistenza al nazifascismo cominciarono a essere considerate soggetti storici interessanti per ricerche e testimonianze soltanto cinquant'anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, possiamo comprendere come il tempo ravvicinato e non finito dell'esperienza delle colombiane non abbia potuto trovare una sua adeguata collocazione narrativa. Di piu', la storia delle donne italiane comincio' a essere divulgata prima attraverso la letteratura - chi non ricorda L'Agnese va a morire, di Vigano'? - poi con la scrittura familiare di lettere e diari, infine con ricerche scientifiche. A quest'ultima fase finalmente corrispose il riconoscimento di aver combattuto "in guerra senza armi", dando un contributo fondamentale all'esito dello scontro antifascista (11). Proprio con le donne della Resistenza partigiana e' possibile, pur nella profonda diversita' di contesti e storie personali, fare un paragone. Per entrambe le parti, le colombiane e le resistenti italiane, si tratto' di una militanza totale, fedele al proprio patrimonio ideale. Le testimonianze raccolte da Bianca Guidetti Serra, delle donne che, nel dicembre 1943, costituirono i "Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai combattenti per la liberta'", vicini al Partito Comunista, narrano la loro storia in modo scarno e descrittivo come le colombiane. La militanza non ha bisogno di troppi commenti. Si dice attraverso poche date e molte iniziative. L'autrice sottolinea la continuita' fra la scelta politica precedente alla guerra che continua nel periodo bellico quasi inavvertitamente, come proseguimento di un impegno gia' preso. Dice la Guidetti Serra: "Il significato della loro vita, credo sia proprio questo: l'affermazione e la dimostrazione del valore e della portata della partecipazione dal basso, che si caratterizza e si qualifica per la fedelta' al proprio patrimonio ideale e al contempo per l'attenzione ai problemi immediati e concreti, per il rispetto delle grandi, ma anche delle piccole cose, per la tenacia di anni di lavoro, di sacrificio spesso solo apparentemente modesto giorno dopo giorno" (12). La militanza era accettata in vista di uno scopo superiore: migliori condizioni di vita, liberta', giustizia, valori non reclamati solo per se'. La stessa aspirazione colpi' le colombiane e le latinoamericane, protraendosi sino alle soglie del presente. La scrittrice nicaraguense Gioconda Belli, sandinista, la descrive intensamente: "Qual era la ragione per cui si era capaci di sacrificare la vita per un'idea, per la liberta' altrui? Perche' l'impulso eroico era tanto forte? Quel che a me sembrava straordinario era la felicita', la pienezza che c'era nell'impegno. La vita acquisiva un senso completo, una meta, uno scopo. Si provava una complicita' assoluta, un legame viscerale con centinaia di volti anonimi, un'intimita' collettiva nella quale scompariva qualsiasi sentimento di solitudine o di isolamento. Nel lottare per la felicita' di tutti, si trovava prima di tutto la propria" (13). * Ho trovato poche testimonianze di donne colombiane in armi. Alcune cominciano a uscire allo scoperto, ma il silenzio si impone per ragioni di sicurezza e per il conflitto ancora in corso. Gli uomini invece parlano della guerra e della guerriglia, anzi, le loro testimonianze diventano parte della strategia comunicativa del progetto politico di appartenenza. Potremmo dire che fanno parte della loro campagna d'immagine. E' interessante notare la gioia del combattere, da qualsiasi parte provenga. "El combate es el extasis del guerrillero", confessa il dirigente delle Farc, Arenas, al giornalista Carlos Arango Z., parafrasando Che Guevara (14). "Porque yo no soy hombre de negocios sino hombre de guerra, hombre de lucha", insiste il numero uno delle Farc, Marulanda (15). Molti altri esempi si potrebbero fare, tutti molto sicuri di se', centrati su un "io" forte, consapevole della propria identita' di guerrigliero rivoluzionario, impegnato in una presa di potere. Non e' cosi' per le donne, almeno nei pochi accenni delle testimoni, nella letteratura latinoamericana e nelle poche testimonianze colombiane pubblicate. Le donne sembrano dimenticare, nel racconto di vita, lo scopo finale della loro militanza armata, preferendo concentrarsi invece su altri aspetti soggettivi: dolore, morte, pena per i feriti, repulsione per le armi da fuoco, interiorizzazione della persecuzione, rapporto con i morti, paure. Si assiste a un passaggio interpretativo nel quale la guerra rivoluzionaria viene analizzata semplicemente come una forma di violenza, quasi staccata dai valori politici che l'avevano determinata. Di piu', questa violenza perde i toni soggettivi, ridotti a pochissimi accenni, quasi furtivi, e assume il tono oggettivo dell'analisi saggistica. Non si parla della violenza su di se', ma della violenza in Colombia. Non si narrano situazioni in cui si e' state oggetto di violenza, ma dei casi di violenza sempre in Colombia. Cio' puo' dimostrare molte cose, forse, prima fra tutte, l'inenarrabilita' della propria storia di violenza, se non si e' aiutati da un contesto che sappia riconciliarla con una memoria collettiva, legittimata a darle senso, e una storia individuale, innervata dai valori che nel presente si confessano. Oppure, altra spiegazione, si puo' narrare cio' che si e' gia' staccato da noi abbastanza da lasciarsi trasformare in racconto con linguaggio da fiaba. Come dicevamo, un grande dolore, una grande ferita spesso sono inenarrabili. Hanno bisogno di tempo e richiedono "modelli interpretativi fluidi che possano render conto del rapporto fra forme di continuita' e momenti di rottura delle identita'" (15). Nel caso colombiano manca uno schema, un canovaccio, una trama dell'esperienza di guerriglia che con l'immaginario proponga "ganci" utili a interpretare una storia individuale legittimata socialmente da un gruppo o dalla societa' nazionale intera, una condizione per ora assolutamente impossibile per la Colombia. * Altre condizioni, tuttavia, sembrano influenzare il silenzio sulla selva. Anche se parlano almeno un poco dei loro sentimenti, le testimoni colombiane sono lontane da una elaborazione collettiva dei lutti di guerra e cio' contribuisce a rafforzare il loro silenzio narrativo. Due sono i tipi di lutto di cui devono prendere coscienza. Il primo e' quello dell'allontanamento dall'esperienza complessiva della selva. Il secondo e' l'abbandono delle armi per risolvere i conflitti sociali colombiani. Le due esperienze, spesso coincidenti, sono state profondamente diverse nelle motivazioni e nella collocazione personale e sociale delle sindacaliste. Sono state invece simili nel coinvolgimento con le dinamiche della violenza che, sia praticata in prima persona, sia appoggiata in modo indiretto, ha dovuto essere elaborata in entrambe le situazioni. Periodi storici separati cronologicamente possono essere letti uniti nel sentimento interiore del dolore per la violenza. Per questi motivi, risulta difficile dare coerenza alla propria storia di vita rispetto a queste narrazioni. Inoltre, "l'esperienza di guerra non e' nient'altro che la continua trasgressione di categorie" (16). In altre parole, lo sfondamento di confini fra cio' che e' possibile e cio' che non lo e', fra il lecito e l'illecito, fra il noto e l'ignoto, fra l'umano e il non umano provoca il pensiero razionale e lancia prove alla capacita' di sopravvivenza fisica dell'individuo. Non si sa di cosa sia capace l'uomo in guerra che in quel momento deve dividere il mondo in amico e nemico, senza alcuna attenzione alla complessita' esistenziale. Infine, non va dimenticato che la rottura con l'opzione armata e' avvenuta dentro il paradigma della sinistra latinoamericana, nel progressivo assistere al deterioramento dei suoi valori originari e nel verificare la sua inefficacia nel raggiungere grandi obiettivi sociali, compreso quello di potere di governo. Soprattutto, evento scatenante, le donne hanno voluto prendere le difese della societa' civile colombiana di cui si sentono componente essenziale, presa in mezzo al conflitto armato, di cui sta pagando i costi piu' alti. "La mia nonviolenza e' passata per molte prove del fuoco e ne e' uscita rinvigorita", dice Patricia, a conferma che l'uscita dalla violenza e' stato un processo lungo e faticoso, proceduto di pari passo al rafforzamento dell'identita' di genere. La conseguente politica femminista ha rafforzato, infatti, un tipo di progettualita' molto legata alla formazione delle coscienze che per procedere nella loro evoluzione pretendono contesti sereni e attenti ai piccoli passi, molto diversi dal tipo di maturazione richiesta per un'azione militare, del tipo "vigilanza costante, diffidenza costante, mobilita' costante" (17). L'attenzione alla persona richiede inoltre l'abbandono di atteggiamenti cospirativi e sospettosi, sostituiti dalla fiducia nella collaborazione reciproca. * Tutti questi valori che rivalutano la centralita' dell'essere umano, chiunque esso sia e a qualunque gruppo sociale appartenga, furono assunti dalla cultura delle donne che li ripropose sotto forma di obiettivi concreti per la loro emancipazione. Il fatto poi che molte di loro avessero visto sbocciare la propria femminilita' durante la guerriglia o avessero dovuto affrontare aborti per continuare a combattere, o semplicemente avessero notato gli svantaggi dell'essere donna nella dura quotidianita' clandestina, gestita da gruppi dirigenti maschili, tutto questo non fece che aumentare, seppure lentamente nel corso degli anni, la loro percezione identitaria, gia' disarticolata da tante contraddizioni interne ed esteriori. La violenza e' entrata da ogni parte nel percorso d'identita' delle testimoni, da quella familiare psicologica e fisica, a quella della repressione ed emarginazione dei primi ambienti lavorativi, al sindacato dove come donne, per farsi sentire, hanno dovuto sovente comportarsi da uomini. Il loro percorso di uscita dalla violenza ha sempre richiesto un doppio movimento, dentro e fuori di se', dal dato oggettivo storicizzato da inchieste e indagini sociali, che rassicurava sul fatto di non essere sola a subire una condizione di subalternita', al dato soggettivo fondato sul dolore che, anche se condiviso, restava pur sempre una dura prova individuale. Forse, solo accettando tutta questa violenza, le sindacaliste hanno potuto riprendere nelle proprie mani un'identita' spezzata. Solo "accettandola" e "perdonandola" nel senso di capire che poteva avere almeno una spiegazione storica, politica e culturale al suo perpetuarsi, solo in questo lungo processo di autocoscienza individuale e collettiva, la violenza ha potuto essere elaborata. E continuare a esserlo finche' intorno prospera la vertigine della guerra che concede agli uomini "la bellezza morale che la maternita' concede alle donne" (18). Un'altra esperienza che aiuta a elaborare l'avvenuta immersione nella violenza delle armi e' quella delle ex terroriste degli anni settanta italiane, studiate da Luisa Passerini. Nel loro caso, le censure sul periodo clandestino avvenivano nella scrittura autobiografica, in cui lo sviluppo della storia di vita dimenticava i ricordi della lotta armata. Essi venivano affidati all'oralita' che, a differenza della scrittura, concedeva meno fissita' alle idee e piu' dilazioni nella ricerca di significati da attribuire a cio' che si aveva fatto. La lotta armata italiana offriva, al tempo dei colloqui di Passerini, "un immaginario in declino" (19) e una interpretazione della stessa molto mediata dal discredito dei mezzi di informazione, cosa che puo' aver certamente influito sui racconti. Pur nella profonda diversita' di contesti e motivazioni, un tratto comune appare fra le colombiane e le ex terroriste, ed e' la memoria lacerata, "cosparsa di silenzi, crivellata di buchi, come se i ricordi di chi ha colpito fossero a loro volta colpiti da un'erosione interna" (20). In altre parole, sul piano narrativo, in qualsiasi situazione avvenga, dalla resistenza antifascista al terrorismo o, nel caso colombiano, nell'aver militato nella guerriglia, il "colpire qualcuno" da parte delle donne non e' mai giudicato un piacere di combattere, come nel caso degli uomini. Neppure si sottolinea la sua inevitabile necessita', imposta dalla difesa della causa in nome della quale si combatte. Le donne sospendono semplicemente il racconto. Non sono in grado di fare nuova memoria e la lasciano "crivellata di buchi". L'azione del colpire qualcuno si trasforma in sentimento diffuso di dolore per la violenza, mentre la riflessione si sposta sul senso complessivo della militanza politica. Come abbiamo visto, la dissociazione dalla violenza e' avvenuta, per le donne colombiane, dentro questo ambito, rielaborato da un punto di vista femminista. Altre donne, in altri paesi, hanno compiuto gli stessi passi, a riprova della forza del pensiero di genere. Un caso esemplare e' quello di Aura Marina Arriola che nel suo libro Ese obstinado sobrevivir, rivela i retroscena della guerriglia del Guatemala, di cui e' stata dirigente, e i lunghi trentasei anni di violenza che percorsero questo paese, fino alla firma degli accordi di pace del 1996. Arriola, che si definisce, come molte donne colombiane, aventurera nomada (21), denuncia a chiare lettere la pratica maschilista dentro la sinistra guatemalteca che non aveva saputo valorizzazione le lotte civili che pur si preannunciavano fruttuose (22). Non solo, Arriola ben descrive anche l'esperienza durissima del tradimento e della crudelta', spesso provenienti da quelli che si dicono amici e compagni e che "colpisce di piu' perche' piu' raffinata e viene da quelli dai quali ci si aspetta solidarieta', affetto, comprensione" (23). * Alla luce di tutto quanto detto finora, l'atteggiamento verso la violenza da parte delle donne colombiane suggerisce un'altra comparazione, ancora una volta tratta dalla Resistenza partigiana al nazifascismo descritta da Claudio Pavone. Egli considera l'esercizio della violenza, nell'Italia del 1943, lo sbocco di un'accumulazione di lunga data, cosa che "rese la violenza da una parte piu' ovvia, dall'altra piu' spietata; ma preparo' allo stesso tempo il passaggio a una riconsiderazione dei limiti del ricorso a essa e della possibilita' di un suo uso contingente per renderla nel futuro impossibile. La violenza come seduzione e la violenza come dura necessita' si scontrarono cosi' in modo palese, pur convivendo talvolta nelle stesse persone" (24). La moralita' della lotta armata si impose sia come scelta personale, sia nell'organizzazione sociale delle zone liberate dai partigiani che dovevano risolvere la gestione dei territori sotto il loro controllo, garantendone la legalita'. Proprio sulla moralita' di un'azione violenta, di cui non si capiva piu' la ragione, si e' rotta la solidarieta' delle sindacaliste con le organizzazioni di appartenenza. Furono scelte che anche molti uomini fecero, ma le donne in questo furono piu' fortunate. Ebbero la possibilita' di provare a creare collettivamente nuove politiche. * Un caso maschile interessante di dissociazione, che fece molto discutere e provoco' non pochi sommovimenti nel Partito comunista colombiano, fu l'uscita dalle sue fila del suo maggiore ideologo fino a quel momento: Nicolas Buenaventura, che nel 1992 aveva gia' firmato, con un gruppo di intellettuali fra i quali Gabriel Garcia Marquez e Fernando Botero, una lettera aperta ai dirigenti della guerriglia, sostenendo che le loro forme di lotta non rappresentavano la volonta' popolare ed erano contrarie al sentido della storia della Colombia. Nell'introduzione al suo libro Que paso' camarada?, edito nello stesso anno, Horacio Serpa Uribe, candidato liberale alle elezioni presidenziali del maggio 2002, arriva al cuore del problema: "La protesta rivoluzionaria basata sulla violenza e la distruzione e' superata. Il dogmatismo e l'ortodossia non hanno piu' spazio nella coscienza collettiva dei popoli. Piu' importante dei modelli di guerra, sono i criteri per superarla" (25). I capitoli del libro di Buenaventura sono una lunga autobiografia che egli compone in controluce, da un lato raccontando gli accadimenti piu' importanti del suo percorso politico, dalle assemblee operaie alla "scuola superiore" di formazione a Mosca, e dall'altro confessando i sentimenti provati allora e che non aveva osato esprimere fino al momento della scrittura, quando il riconoscimento del loro valore divenne nucleo centrale delle sue analisi politiche. Il caso emblematico di Buenaventura, tipico di molte successive biografie politiche non solo latinoamericane, evidenzia il passaggio, nel militante, a maggior ragione se dirigente, da un'identita' data e garantita da un ente esterno a se', nel caso il partito, a un'identita' coerente con cio' che egli e' internamente, nell'universo profondo dei suoi valori. Prima di scegliere la coerenza con se stessi, era il partito a dare la certezza di essere dalla parte giusta, tanto che l'autore camminava per il mondo in altro modo, con un "sentido mesianico" (26). Con ironia Buenaventura entra nei luoghi comuni dell'agire politico del Partito comunista colombiano e soprattutto si interroga su cosa sia la democrazia. Fra i molti concetti che approfondisce, uno tende a ripetersi sotto molte angolature: "la democrazia e' il contrario di una ideale piramide centralista, nella quale il gruppo dirigente separato o isolato dalla base, si insuperbiva sempre piu', convertendosi in dinastia" (27). In questo contesto, una condizione del militante, condivisa anche dalle donne, come narra Patricia, e' la solitudine di chi sente di possedere la verita', ma non puo' mai comunicarla del tutto alle masse, verso le quali mantiene la responsabilita' della linea politica e deve, per questo, stare sempre un po' piu' in avanti degli altri. La solitudine fu un sentimento provato da molti militanti, uomini e donne. Per le colombiane divenne una costante, soprattutto nel passaggio dalla violenza alla nonviolenza, quando l'abbandono delle rispettive organizzazioni comporto' anche la perdita di un riferimento collettivo certo. Al suo posto resto' nell'animo il senso di una militanza perduta che soltanto anni di femminismo successivo riuscirono a riempire di nuovo. * Note 11. A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Bari, Laterza, 1995. 12. B. Guidetti Serra, Compagne, Torino, Einaudi, 1977, vol. I, p. X. 13. G. Belli, Il paese sotto la pelle. Memorie di amore e di guerra, Roma, Edizioni e/o, 2000, p.1 27. 14. C. Arango Z., Farc. Veinte anos. De Marquetalia a la Uribe, Bogota', Ediciones Aurora, 1986, p. 42. 15. Ivi, p. 91. 16. E. J. Leed, Terra di nessuno, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 33. 17. R. Debray, Rivoluzione nella rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 41. 18. R. Caillois, La vertigine della guerra, Roma, Edizioni Lavoro, 1990, p. 60. 19. L. Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg & Sellier,1991, p. 57. 20. Ivi, p. 84. 21. A. M. Arriola, Ese obstinado sobrevivir. Autoetnografia de una mujer guatemalteca, Guatemala, Ediciones Pensativo, 2000, p. 13. 22. Ivi, p. 40. 23. Ivi, p. 46. 24. C. Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralita' della Resistenza, Milano, Bollati Boringhieri, 1991, p. 416. 25. H. Serpa Uribe, Introduzione, in N. Buenaventura, Que paso' camarada?, Bogota', Ediciones Apertura, 1992, p. XVII. 26. N. Buenaventura, Que paso' camarada?, cit., p. 18. 27. Ivi, p. 40. (Parte seconda - Segue) 3. TESTIMONI. UNA INTERVISTA A LUIGI BETTAZZI [Dalla mailing list "Ecumenici" (per contatti: e-mail: ecumenici at aliceposta.it, sito: http://ecumenici.altervista.org/html/) riprendiamo questa intervista a monsignor Luigi Bettazzi. Luigi Bettazzi, nato a Treviso nel 1923, per molti anni vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi, e' una delle figure piu' vive della cultura e della prassi di pace. Ordinato sacerdote nel 1945 e vescovo dal 1963; teologo, professore di filosofia, di storia della filosofia e della morale sociale, padre conciliare e vescovo emerito di Ivrea, e' stato presidente di Pax Christi Italia e di Pax Christi International (il prestigioso movimento cattolico internazionale per la pace), presidente della commissione "Justitia et pax" della Conferenza episcopale italiana (Cei), ed e' una delle figure di riferimento per il movimento pacifista e le persone di volonta' buona. Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (www.emsf.rai.it) ci piace riportare, come esempio del garbo (e dell'autoironia) di monsignor Bettazzi, l'esordio di autopresentazione personale di alcune sue conversazioni televisive tenute anni fa con studenti di scuole medie superiori: I) "Sono Luigi Bettazzi. Sono nato a Treviso, dove mio padre lavorava, nel 1923. Poi, con la famiglia, ci siamo trasferiti a Bologna, che e' la citta' di mia madre, dove sono diventato prete, son diventato vescovo. Nel 1963 ho fatto ancora tre anni del Concilio Ecumenico Vaticano II. Sono uno dei due vescovi in funzione ancora, che hanno fatto il Concilio. Dalla fine del '66 sono vescovo di Ivrea. Nel 1968 fui nominato presidente nazionale di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace. Nel 1978 sono diventato presidente internazionale, fino all'85. Ed e' in questo ruolo che ho avuto occasione di interessarmi dei diritti dell'uomo, del disarmo, di avere anche qualche intervento di carattere pubblico, per cui qualche volta si e' parlato di me". II) "Da 32 anni sono vescovo di Ivrea. Sono stato per molti anni presidente di Pax Christi, il movimento cattolico internazionale per la pace. Per diciassette anni presidente italiano, per gli ultimi sette anche internazionale. Mi hanno coinvolto in tanti problemi, missioni in Centro America, in Africa, conoscenza col Vietnam. Forse questi sono i motivi per cui ho dovuto interessarmi in modo particolare di questi problemi, di carattere sociale, anche internazionale". III) "Mi chiamo Luigi Bettazzi, sono nato a Treviso, ma mio padre era torinese, di famiglia toscana, mia mamma bolognese ed e' lei che m'ha insegnato a parlare. La lingua e' materna. Sono stato prete a Bologna, poi vescovo ausiliario a Bologna e nel gennaio del '67 vescovo di Ivrea. Avendo compiuto i 75 anni sono andato in pensione. Gia' e' entrato a Ivrea il mio successore. Sono stato insegnante di filosofia nel seminario e di religione nelle scuole. Cosi', qualche contatto e il piacere di parlare con i giovani l'ho ancora". Opere di Luigi Bettazzi: tra le molte sue pubblicazioni segnaliamo ad esempio Intelligenza e fede (1963); Una Chiesa per tutti (1971); La Chiesa fra gli uomini (1972); La carne di Dio (1974); Farsi uomo (1977); Al di la'... al di dentro (1978); Cari bambini, caro vescovo (1979); Ateo a diciotto anni (1982); Il cristiano e la pace (1983); tra le opere piu' recenti: La sinistra di Dio, La Meridiana, Molfetta; Don Tonino Bello. Invito alla lettura, Paoline, Cinisello Balsamo; Giovani per la pace, La Meridiana, Molfetta. Opere su Luigi Bettazzi: segnaliamo la lettera aperta di Bettazzi al segretario del PCI Luigi Berlinguer del 1976, che diede luogo ad una risposta di Berlinguer nel '77; e' stata pubblicata con altri materiali in Antonio Tato' (a cura di), Comunisti e mondo cattolico oggi, Editori Riuniti, Roma 1977] - "Ecumenici": Come vede l'ecumenismo di base di questi ultimi anni: vi sono tanti cattolici, evangelici, non credenti e persone di altre fedi viventi che discutono ogni giorno di tematiche legate alla pace, alla giustizia e alla salvaguardia del creato. - Luigi Bettazzi: Fu determinante l'assemblea ecumenica che si tenne a Basilea nel maggio 1989. dopo secoli di divisione i cristiani europei - ortodossi, cattolici, protestanti delle diverse confessioni - si trovarono a pregare insieme e a dialogare su "pace, giustizia, salvaguardia del creato". Ci si rese conto che se alcune prospettive di fede cristiana ci dividevano, potevamo e dovevamo lavorare insieme per la salvezza e lo sviluppo concreto dell'umanita'. Come le divisioni nacquero da contrapposizioni etniche o politiche trasferite poi sul piano religioso, cosi' un'unita' operativa puo' renderci reciprocamente piu' accoglienti: due segnali pratici sono stati il togliersi delle scomuniche dopo l'incontro in Terra Santa di Paolo VI e il patriarca ortodosso Atenagora nel gennaio 1964, e la firma comune con i luterani, nell'autunno 1999, circa la dottrina della "giustificazione" da cui era partita la divisione. - "Ecumenici": Cosa pensa dell'apporto di molti settori conservatori dell'elettorato cattolico statunitense nella rielezione dell'attuale presidente degli Stati Uniti d'America? Quali implicazioni hanno avuto certe posizioni integraliste trasversali e il duro fronte per la guerra? - Luigi Bettazzi: E' tipico che si insista piu' sulla morale individuale, in particolare su quella sessuale, (tanto, ognuno poi fa come vuole...) che non su quella sociale - come ad esempio sulla guerra e le violenze - che ovviamente sconfina nella politica. Ed e' cosi' che una buona parte dei cattolici statunitensi (e del loro clero), mentre osteggiano il cattolico Kerry come non sufficientemente antiabortista, sostengono il metodista Bush, determinato con tutti i mezzi alla guerra in Iraq nonostante l'esplicita insistente dissuasione del Papa. - "Ecumenici": Cosa auspica nell'aggiornamento del magistero della chiesa cattolica nei prossimi anni? - Luigi Bettazzi: Auspico che le posizioni cosi' determinate di Giovanni Paolo II contro la guerra, giunte a rivendicare per i cristiani l'impegno per la nonviolenza attiva, possano essere accolte e vissute da tutti i cattolici con la stessa convinzione e coerenza con cui cercano di dissuadere dall'aborto. - "Ecumenici": Come testimonia nel quotidiano il suo impegno a favore della pace? - Luigi Bettazzi: Accogliendo gli inviti che mi vengono fatti per conferenze (nel 2003 ho tenuto in Italia oltre sessanta commemorazioni della "Pacem in terris", l'Enciclica di Giovanni XXIII di cui ricorrevano i quarant'anni) o scrivendo articoli per riviste. Ho scritto anche un libretto, proprio partendo dalla Pacem in terris, rivolto in particolare ai giovani (Giovani per la pace, edito dalla Meridiana di Molfetta), stimolandoli a farsi protagonisti di una grande campagna per la pace e la nonviolenza. - "Ecumenici": Cosa ritiene di dire agli industriali lombardi e italiani che producono armi da guerra? E agli operai e agli impiegati che vi lavorano? - Luigi Bettazzi: Vorrei far sentire loro la responsabilita' che si assumono nell'alimentare cosi' le guerre e le violenze. Dovrebbero studiare e attuare la riconversione industriale delle loro imprese per manufatti di pace; e' lo sforzo che si fece al termine della seconda guerra mondiale, quando molte industrie, che prima lavoravano per la guerra, furono trasformate in imprese per opere di pace. - "Ecumenici": Qual e' lo stato di salute di Pax Christi in Italia e nel mondo? - Luigi Bettazzi: Non si deve contare la salute di un movimento dal numero degli iscritti, soprattutto di un movimento d'opinione e controcorrente, come e' Pax Christi, in una societa' che cerca il guadagno dalla produzione e dal commercio delle armi e in una comunita' cristiana attenta alla morale individuale ma restia a trarre nella vita sociale le conseguenze dei principi evangelici. Ma ci rendiamo conto di come, pur con fatica e diffidenze, certe idee che Pax Christi ha sentito come proprio patrimonio si facciano strada nella Chiesa e nel mondo, dal valore dell'obiezione di coscienza, alla pace come difesa dei diritti dei piu' deboli, appunto alla nonviolenza attiva come unica via per una pace ispirata al Vangelo. 4. LUTTI. ALESSANDRO PORTELLI RICORDA SAUL BELLOW [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 aprile 2005. Alessandro Portelli, studioso della cultura americana e della cultura popolare, docente universitario, saggista, storico, militante della sinistra critica, per la pace e i diritti. Opere di Alessandro Portelli: segnaliamo particolarmente L'ordine e' gia' stato eseguito, Donzelli, Roma 1999. Saul Bellow (1915-2005), premio Nobel per la letteratura nel 1976, e' stato uno dei maggiori scrittori del Novecento, maestro di stile e quindi di morale, e indagatore acutissimo, illuministico e barocco a un tempo, insieme cartesiano e funambolico, di questo mistero di cui consistiamo, di "questo trenino a molla / che chiamiamo cuore" (Pessoa)] Alla fine di Un uomo in bilico, il primo romanzo di Saul Bellow, il protagonista si lascia andare a un perturbante sospiro di sollievo. Gli e' finalmente arrivata la chiamata per l'esercito, dopo una lunga e incerta attesa, e lui conclude ironicamente: evviva l'irreggimentazione, evviva il controllo... L'uomo in bilico e' una delle figure decisive del complicato dopoguerra americano, di quella generazione che ha avuto in Saul Bellow il suo ultimo gigante, una figura possente e non poco ingombrante. Sospeso fra il momento in cui sa che dovra' partire, e quindi comincia a tagliare tutti i suoi rapporti, e la sempre rinviata partenza, il personaggio si trova in una condizione profondamente americana, in cui una liberta' senza legami sembra tradursi in una solitudine carica di incertezze e di dubbi. Come altre figure prese in tempi sospesi - uno per tutti, l'adolescente Holden di Salinger, e poi la generazione di prolungata adolescenza del dopoguerra - l'antieroe di Bellow deve ricostruire con le sue sole forze la propria identita'. Di li' a poco, Erich Fromm avrebbe scritto della "fuga dalla liberta'" nella societa' di massa. A un primo livello, e' di questo che parla Saul Bellow, anticipando una crescente omologazione delle coscienze, un'euforica rinuncia alla propria liberta' mentale (sara' un tema degli anni '50, dalla Folla solitaria di David Riesman a The Organization Man di William Whyte). Ma su un altro piano, quella di Saul Bellow e' anche l'orgogliosa rivendicazione di una liberta' interiore di cui fara' bandiera e testimonianza nei decenni seguenti: come se l'uniforme del conformismo esteriore diventasse una protezione, una corazza che garantisce la piena autonomia della sfera interiore da intrusioni sgradite. * Sono questi i temi che Saul Bellow seguira', sostanzialmente, nella sua opera successiva: la relazione complicata fra la liberta' profonda del singolo e un contesto che sempre piu' si involgarisce e si degrada. Il momento piu' limpido di questo tragitto restano le pagine brevi e indimenticabili di Seize the day, dove il protagonista comincia a tirarsi da parte, a guardare, riflettere e prendere le distanze anche davanti alla morte. Ma la linea di fondo del percorso intrapreso dai personaggi di Bellow e' un declino progressivo, accompagnato dal ciclo della vita, che comincia con prodigiose energie vitali e immaginative in Augie March - protagonista delle omonime Avventure - e in Henderson, re della pioggia, romanzi con una presa planetaria e protagonisti straripanti che fanno i conti con la tradizione di Mark Twain e di Hemingway; e poi a mano a mano si stringe e si scava, e da' vita al dubbio e al dialogo filosofico con se stesso di Herzog, nel romanzo che ne prende il nome, al Pianeta di Mr. Sammler, al dicembre del Professor Corde. Sono anche gli anni in cui Richard Hofstadter pubblica la sua memorabile ricerca sull'antiintellettualismo nella storia e nella vita culturale degli Stati Uniti. E intellettuali, sempre piu', sono gli eroi di Saul Bellow, destinati a sentirsi via via piu' lontani dalla temperie dominante, con fasi di stanchezza e lampi di ironia alimentati dalla tradizione ebraica, che e' al centro della rinascita del romanzo americano nel dopoguerra; ma piu' lontani questi stessi personaggi lo sono anche dal rapporto fra un progressivo "europeizzarsi" del pensiero (anche qui c'entra il modo con cui Bellow ha vissuto la tradizione ebraica) e una voce che resta sempre intrinsecamente americana, intrinsecamente di Chicago, intrinsecamente di confine. * Ammetto che non ho avuto sempre un rapporto tranquillo con Saul Bellow. La sua tensione morale e intellettuale resta ammirevole in ogni momento, il fascino della scrittura e' capace di avvilupparti e non lasciarti piu' andare; il suo disincanto verso le forme piu' banali della modernita' e' un antidoto salutare. Eppure, a mano a mano che i suoi protagonisti si consolidano nella autonomia della loro coscienza, affiorano talora vene di incomprensione sprezzante nei confronti di quello che e' tutto sommato il nostro mondo, un senso di superiorita' morale che ce li allontana. Saul Bellow aveva partecipato, come molti giovani intellettuali della sua generazione, alla stagione dell'impegno politico e sociale negli anni '30; se ne era separato, ancora come molti altri, ed e' come se quella rinuncia avesse comportato un senso incombente di sconfitta: se negli anni '30 gli intellettuali americani avevano per un momento pensato di poter contribuire a cambiare il mondo, gia' nel dopoguerra il gesto piu' radicale che poterono fare fu staccarsene. Il degrado fu irrimediabile. Questa sensazione accentua il vigore della critica, naturalmente: gli eroi di Bellow non si sporcano le mani, ma non fanno nemmeno compromessi. Anche per questo la sua scrittura si fa sempre piu' tagliente, anch'essa senza compromessi, in una ricerca di stile che e' al tempo stesso ricerca morale - e con la conseguente capacita' di diventare provocatoria, anche intenzionalmente irritante, nei confronti di ogni facile ottimismo "progressista". Mi viene da chiedermi: ma siamo poi cosi' sicuri che questo atteggiamento non contenga a sua volta una sua dose di conformismo, di rassicurazione? Tornando al mio carissimo uomo in bilico: siamo poi cosi' sicuri che la maschera esteriore di adeguamento non si ripercuota poi anche nel foro interno? * Il fatto e' che con giganti della misura di un Saul Bellow (o, per una generazione precedente, di uno Henry James) anche scontrarsi e' produttivo, anche litigare costringe a farsi domande. E certo di un gigante si e' trattato, dell'ultimo protagonista di una generazione che ha saputo inventarsi le forme narrative per un mondo trasformato. La sua e' stata la generazione dell'eroe ironico, del perdente vincitore, della ricerca dei miti portanti della narrativa occidentale. Bellow viene a mancare in un momento in cui dall'America arrivano ancora, certo, voci significative (ma molto diverse: Toni Morrison, Don DeLillo; forse - per dirne uno meno lontano da lui - Philip Roth), ma non e' piu' l'America, come in quel momento straordinario di cui Bellow fu protagonista, a indicarci la strada del futuro. 5. RIVISTE. "RAGGIO" [Dal sito www.rivistaraggio.org riprendiamo questa scheda di presentazione della rivista] "Raggio" nasce nel 1934 come "foglio familiare" delle suore comboniane "pie madri della nigrizia", per mantenere informate ed unite le missionarie che operano in Egitto, Sudan, Uganda ed Eritrea. La testata richiama un passo fondamentale delle regole date da Daniele Comboni nel 1871 al suo Istituto: "un piccolo cenacolo di apostoli, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanti sono i suoi zelanti e virtuosi missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono e insieme riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano". Il primo numero di questa "newsletter" ante litteram fu scritto interamente a mano, con la paziente calligrafia di una amanuense, su una matrice di carta incerata per ciclostile. Gia' dal secondo numero tuttavia, le redattrici erano passate alla macchina da scrivere e per risparmiare non solo usavano l'interlinea 1, ma non lasciavano il benche' minimo spazio bianco ai bordi. Per i primi due anni l'umile ciclostilato si limita a far circolare all'interno dell'Istituto le notizie delle pioniere del Vangelo in terra d'Africa. E' nel settembre del 1936 che "Raggio" passa finalmente alla stampa e si lancia al pubblico, come rivista bimestrale di taglio prettamente missionario-africano-femminile con l'obiettivo di far conoscere anche all'esterno questa prorompente vitalita' missionaria. In questi sessantacinque anni il suo cammino ha segnato le tappe della missione comboniana che via via si e' estesa, aprendosi anche ad altri continenti (America e Asia) e a nuovi orizzonti ecclesiali e socio-culturali. Pur rinnovando nel tempo la sua veste tipografica "Raggio" nella fisionomia e nei contenuti e' rimasta fedele all'impegno di far luce su "fatti, problemi, linee della missione". La rivista esce ogni mese a 36/40 pagine. Aperta al mondo, attraverso reportages, interviste e testimonianze, "Raggio" intende dar voce, volto, nome a coloro ai quali questo diritto e' negato, essere espressione di culture diverse. In particolare, secondo il carisma comboniano, vuole far luce sul "pianeta donna" in Africa e nel mondo. Con i suoi dossier affonda lo sguardo nei problemi piu' attuali dell'umanita' e della donna, facendone risaltare condizioni oppressive, potenzialita' e valori, cammino e conquiste. Attualmente si stampano diecimila copie (dodicimila per qualche "speciale"). Di queste, ottomila in abbonamento il resto per diffusione, animazione, scambio con altre riviste, biblioteche. Oggi la rivista e' visibile anche sul sito www.rivistaraggio.org ed e' letta anche da giovani, gruppi, associazioni, persone di vario ambiente sociale e livello culturale. 6. LETTURE. ELENA LIOTTA, LUCIANO DOTTARELLI, LILIA SEBASTIANI: LE RAGIONI DELLA SPERANZA IN TEMPI DI CAOS Elena Liotta, Luciano Dottarelli, Lilia Sebastiani, Le ragioni della speranza in tempi di caos, La Piccola Editrice, Celleno (Vt) 2004, pp. 96, euro 7. Tre conversazioni svolte nel convegno su "In tempi di caos, le ragioni della speranza" promosso dalla comunita' di famiglie del convento di Celleno (Vt) in occasione della pasqua 2004, con una presentazione di Luciano Comini. Una lettura appassionante ed a tratti fin commovente, all'ascolto delle nitide voci e soavi di assai care persone amiche. Per richieste: La Piccola Editrice, via Roma 5, 01020 Celleno (Vt), tel. e fax: 0761912591, e-mail: convento.cel at tin.it, sito: www.conventocelleno.it/lapiccola.index.htm 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 902 del 17 aprile 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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