[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
La nonviolenza e' in cammino. 884
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 884
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 30 Mar 2005 00:23:52 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 884 del 30 marzo 2005 Sommario di questo numero: 1. Luigi Ferrajoli: La Costituzione stravolta 2. Rosalie Gerut, Wilma Busse, Martina Emme, Tim Blunk: L'esperienza di "One by One" (parte prima) 3. Luisa Muraro presenta "Piccole donne" di Louisa May Alcott 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. APPELLI. LUIGI FERRAJOLI: LA COSTITUZIONE STRAVOLTA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 febbraio 2005 riprendiamo questo intervento di uno dei piu' illustri giuristi italiani. Come e' noto, successivamente il Senato ha approvato lo stravolgimento della Costituzione qui denunciato; restano ora, prima del compiersi del golpe, per poter fermare il golpe, i passaggi del voto dei due rami del Parlamento in seconda lettura, e successivamente il referendum: ma certo necessario e urgente un autorevole intervento del Presidente della Repubblica in difesa della Costituzione - di cui e' supremo garante -, della legalita', della democrazia, della liberta' nel nostro paese, della dignita' del nostro popolo e della vigenza del nostro ordinamento giuridico, ebbene, s'impone; un intervento come chiede ed argomenta Ferrajoli in punto di diritto e di fatto in questo denso articolo, un intervento che fermi i golpisti. Luigi Ferrajoli, illustre giurista, nato a Firenze nel 1940, gia' magistrato tra il 1967 e il 1975, dal 1970 docente universitario. Opere di Luigi Ferrajoli: della sua vasta produzione scientifica segnaliamo particolarmente la monumentale monografia Diritto e ragione, Laterza, Roma-Bari 1989; il saggio La sovranita' nel mondo moderno, Laterza, Roma-Bari 1997; e La cultura giuridica nell'Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999] E' cominciata silenziosamente in senato la discussione sul progetto governativo di revisione costituzionale gia' approvato dalla camera in una prima lettura nello scorso ottobre [ricordiamo ancora che questo articolo e' del 24 febbraio scorso, nel frattempo il senato ha sciaguratamente approvato in prima lettura la legge anticostituzionale -ndr-]. Si tratta chiaramente, per le sue dimensioni e per lo stravolgimento progettato, di una nuova costituzione, promossa da una coalizione di forze - Alleanza nazionale, Forza Italia e Lega nord - nessuna delle quali ha partecipato alla formazione della Costituzione attuale. Il senso politico dell'operazione e' chiaro. Cio' che si vuole realizzare e' una completa rottura della continuita' costituzionale al fine di rifondare la Repubblica sulle forze che alla Costituzione del '48 e alla sua origine antifascista furono estranee od ostili. Proprio perche' non si riconosce nella Costituzione vigente, questa nuova destra, oggi maggioritaria in parlamento ma non nel paese, pretende di archiviarla, di varare una sua costituzione a sua immagine e somiglianza, di rompere il vecchio patto di convivenza che non a caso Berlusconi ha squalificato come "sovietico". Di qui una prima domanda: e' legittima, sul piano delle forme e del metodo, una simile riforma, non consistente in una semplice "revisione" costituzionale ma nella confezione di una costituzione del tutto diversa, che cambia al tempo stesso la forma di stato, da nazionale a federale, e la forma di governo da parlamentare a para-presidenziale e tendenzialmente monocratica? La risposta e' chiaramente negativa. La nostra Costituzione, come del resto la quasi totalita' delle costituzioni democratiche, non ammette il varo di una nuova costituzione, neppure a opera di un'ipotetica assemblea costituente eletta con il metodo proporzionale che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dal suo articolo 138 e' un potere di revisione, che non e' un potere costituente ma un potere costituito, il cui esercizio puo' consistere solo in specifici emendamenti; laddove, se diretto a dar vita a una nuova costituzione, esso si converte in un potere costituente e sovrano, anticostituzionale ed eversivo, in contrasto, oltre che con l'articolo 138, con il primo articolo della Costituzione secondo cui "la sovranita' appartiene al popolo" che da nessuno puo' esserne espropriato. Cio' cui invece stiamo assistendo e' l'approvazione a colpi di maggioranza di un testo che altera l'intero assetto istituzionale, modificando competenze e regole di formazione e funzionamento di tutti gli organi costituzionali: del parlamento e del governo, del presidente della Repubblica e del presidente del consiglio, dello stato e delle regioni. Il precedente della sconsiderata riforma del titolo V varata dall'Ulivo e' invocato a sproposito: benche' gravemente colpevole, quella riforma fu pur sempre una revisione settoriale della Costituzione che per di piu' riprodusse, nella sostanza, una modifica che era stata approvata qualche anno prima dai due schieramenti nella bicamerale. L'attuale disegno riscrive invece ben 43 articoli della seconda parte, con gli inevitabili riflessi sulla prima. E' la vecchia idea che Gianfranco Miglio espresse brutalmente dieci anni fa, dopo la prima vittoria elettorale delle destre: la costituzione non e' un accordo tra tutti sulle regole del gioco ma e' un "patto che i vincitori impongono ai vinti". * Ma questa nuova costituzione e' illegittima non solo sul piano del metodo, ma anche su quello dei contenuti, che come stabili' una storica sentenza della Corte costituzionale del 1988 non possono derogare ai "principi supremi" della Costituzione. Non mi soffermo sulla cosiddetta "devolution", che assegnando in maniera esclusiva alle regioni scuola, sanita' e funzioni di polizia, rompe l'unita' della Repubblica che si basa sull'uguaglianza dei cittadini nei diritti fondamentali, quali sono in particolare i diritti sociali alla salute e all'istruzione. Neppure mi soffermo sull'incredibile complicazione, quasi un sabotaggio della funzione legislativa, divisa tra ben quattro tipi di fonti - leggi della camera, leggi del senato, leggi bicamerali, leggi del senato con "modifiche essenziali" su iniziativa del governo e, in piu', commissioni e comitati paritetici per decidere chi deve legiferare e mediare i conflitti - con l'inevitabile caos istituzionale, le incertezze e gli infiniti contenziosi che proverranno da una ripartizione inevitabilmente astratta e generica delle quattro competenze. L'aspetto piu' grave di questa riforma, senza confronti ne' precedenti in nessun sistema democratico, consiste nella demolizione del principio della rappresentanza politica, che e' indubbiamente un "principio supremo" sottratto al potere di revisione. Viene anzitutto capovolto il rapporto di fiducia tra parlamento e governo: non sara' piu' il primo ministro, legittimato direttamente dal voto popolare, che dovra' avere la fiducia del parlamento, ma sara' il parlamento che dovra' avere la fiducia del primo ministro, il quale potra' scioglierlo in forza di un potere affidato non piu' al presidente della Repubblica ma alla sua "esclusiva responsabilita'". E' prevista soltanto la mozione di sfiducia, votata dalla camera per appello nominale, approvata dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti e seguita dal suo scioglimento, salvo che sia accompagnata dalla "designazione di un nuovo primo ministro da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della camera". Non solo: "il primo ministro si dimette altresi' qualora la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante dei deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni". Io credo che queste norme cosiddette "anti-ribaltone" siano il vero cuore della riforma: il segno inequivoco della svolta che si intende realizzare. Grazie ad esse saranno impossibili le crisi di governo parlamentari. Maggioranza e minoranza vengono blindate, sicche' solo i parlamentari della maggioranza avranno un potere di iniziativa politica e di responsabilizzazione dell'esecutivo, mentre i parlamentari della minoranza non conteranno nulla. E' la fine della rappresentanza "senza vincolo di mandato", sancito quale principio basilare della democrazia politica dall'art.67, essendo ciascun parlamentare vincolato alla coalizione di appartenenza. Non si tratta di una semplice "riforma". Con questa rigida separazione tra maggioranza e minoranza il parlamento viene di fatto emarginato. Gia' con il sistema maggioritario e' stata abolita l'uguaglianza nel voto dei cittadini. Il nuovo sistema abolisce ora anche l'uguaglianza del voto dei parlamentari ed estromette di fatto l'opposizione da ogni funzione di controllo e di mediazione politica. Non solo. Esso vanifica anche la rappresentativita' e la responsabilita' politica dei parlamentari della maggioranza, i quali risulteranno vincolati da un rapporto di mandato imperativo, non gia' dal basso ma dall'alto, nei confronti del primo ministro. Queste norme sono infatti dirette non solo a neutralizzare l'opposizione ma soprattutto a disciplinare, a ricattare e di fatto a neutralizzare ogni potere di controllo della stessa maggioranza parlamentare. Ne risultera' una totale irresponsabilita' del primo ministro di fronte al parlamento in favore di un suo rapporto organico, diretto, con l'elettorato. * Si sta insomma progettando la soppressione della democrazia parlamentare e forse della democrazia tout court. Giacche' un organo monocratico non accompagnato da un parlamento indipendente non puo' per sua natura, come insegnava Hans Kelsen settant'anni fa, rappresentare tutto il popolo, che non e' un'entita' omogenea ma una pluralita' di soggetti e di interessi attraversata da conflitti politici e di classe. La democrazia, aggiungeva Kelsen, "e' un regime senza capi". E l'idea di un rapporto organico tra un capo e il popolo intero e' un'idea organicistica e populista che contraddice la nozione stessa della democrazia, non diciamo costituzionale ma semplicemente "rappresentativa". Per questo sarebbe essenziale - prima che lo scempio si compia, prima della seconda lettura del progetto da parte del parlamento - un messaggio motivato del presidente della Repubblica che quanto meno ricordi alle camere i limiti del potere di revisione, il fatto che la Costituzione e' un patrimonio di tutti e l'inviolabilita' dei principi supremi tra i quali rientrano indubbiamente la rappresentanza politica senza vincolo di mandato e il ruolo di iniziativa, di controllo e mediazione di un libero parlamento. Se c'e' un caso in cui l'esercizio del ruolo di garante della Costituzione del presidente della Repubblica e' doveroso, esso e' proprio questo; tanto piu' che per le leggi di revisione costituzionale ben difficilmente il presidente potrebbe ricorrere al potere di rinvio previsto dall'art. 74 prima della promulgazione, la quale fa seguito al referendum confermativo. Ma ancor piu' essenziale e' l'informazione dell'opinione pubblica e la sua mobilitazione intorno al pericolo incombente. Temo che alla base dell'inerzia dell'opposizione ci sia una scarsa consapevolezza intorno alla gravita' della posta in gioco e, insieme, il solito timore di "demonizzare" un avversario che si rivela ogni volta peggiore e, oltre tutto, accusa quotidianamente la sinistra di preparare al paese terrore, miseria e morte. E' invece necessario drammatizzare la questione costituzionale proponendola, semplicemente, come emergenza democratica: come la scelta, cui saremo chiamati con il referendum costituzionale tra l'istituzione di un regime e la sopravvivenza della democrazia. Solo cosi', del resto, il referendum potra' essere vinto: solo se diventera' una grande battaglia di principio, non inquinata da proposte di compromesso, consapevole della posta in gioco e dei guasti gia' prodotti dall'avventura berlusconiana, capace di rifondare, nel senso comune, il valore della Costituzione repubblicana quale fondamento della nostra democrazia. 2. ESPERIENZE. ROSALIE GERUT, WILMA BUSSE, MARTINA EMME, TIM BLUNK: L'ESPERIENZA DI "ONE BY ONE" (PARTE PRIMA) [Ringraziamo di cuore Carla Cohn (per contatti: carlacohn at tele2.it) per averci inviato l'introduzione del catalogo "One by One - Mostra di opere di artisti figli di sopravvissuti all'Olocausto e di discendenti del Terzo Reich", mostra tenutasi a Roma presso la Casa delle Letterature nel 2001, a cura di Roberto Mander (che parimenti ringraziamo per la cortesia di averci consentito questa ripubblicazione) della "Rete di Indra", Peacemaker Community-Italia (per richiedere copie del catalogo della mostra scrivere a: La Rete di Indra, viale Gorizia 25/c, 00198 Roma)] Nel febbraio del 1993, un improbabile gruppo di tredici persone si riuni' per un incontro di quattro giorni nella Foresta Nera, nel sud della Germania. Alcuni venivano dagli Stati Uniti. Tutti pero' avevano attraversato distanze incommensurabili di storia, fatte di lutti, rabbia, volonta' di negare e sensi di colpa. Questo gruppo davvero unico era composto da figli di sopravvissuti all'Olocausto e dai discendenti tedeschi degli aguzzini e degli spettatori del regime nazista. Il nostro viaggio era guidato da anni di conoscenza sul ruolo determinante che l'eredita' dell'Olocausto aveva avuto sulle nostre vite. Nessuno di noi poteva chiaramente prevedere che cosa sarebbe uscito dall'incontro ne' che cosa sarebbe stato, perche' nessuno aveva la minima idea di come avremmo reagito o saremmo cambiati trovandoci in presenza gli uni degli altri. Nel nostro cerchio sedeva una donna tedesca, Helga Mueller, che solo da poco aveva saputo che suo padre, un ufficiale delle SS, aveva preso direttamente parte all'assassinio di migliaia di ebrei nella Russia Bianca. L'ascoltammo sgomenti mentre raccontava la scoperta che aveva fatto e il ricordo della violenza che da bambina aveva subito da parte di quell'uomo e di come in seguito avesse tentato il suicidio. Per una incredibile coincidenza, nel cerchio c'era anche un uomo venuto dagli Stati Uniti, Alan Berkowitz, che un po' alla volta inizio' a realizzare che quella davanti a lui era la figlia dell'uomo che aveva partecipato direttamente al massacro della famiglia di suo padre. La rivelazione sembrava tremare sospesa nell'aria. I due, separati dal desolato abisso dell'Olocausto, dovevano decidere che cosa fare dei fili della storia che ancora li univano. Sgomento, Alan si trovo' davanti a un profondo dilemma: che cosa fare con la sua rabbia? Come comportarsi con la donna li' di fronte a lui? Ci vollero molte ore prima che il gruppo riuscisse a dare un senso a cio' che stava succedendo al suo interno. Alla fine, Alan disse a voce alta cio' che tutti noi avevamo finito per comprendere: anche Helga era una vittima di suo padre e della storia e anche lei aveva sofferto. Nonostante spinte emotive forti e contrastanti, Alan riconobbe la sincerita' di Helga nel voler affrontare la verita'; ne rispetto' la determinazione nel rompere il tabu' del silenzio della famiglia e del suo paese e il coraggio che aveva mostrato nel portare testimonianza dei crimini di suo padre. Quando poi i due si abbracciarono, il gruppo si commosse fino alle lacrime. Ma cio' che turbo' ancora di piu' il gruppo fu la presenza di un uomo tedesco di quasi settant'anni. Otto Ernst Duscheleit era stato membro della Gioventa' hitleriana e delle Waffen SS. Rosalie Gerut, la figlia ebrea di due sopravvissuti ai campi di concentramento, racconta cosi' la sua prima reazione davanti a Otto: "Sedevo gelata e senza fiato dall'altra parte della stanza, con davanti quell'uomo alto, magro, coi capelli bianchi e la barba che parlava solo tedesco, una lingua che quando viene parlata da persone della sua generazione mi fa sempre rizzare i capelli in testa. Quando disse che aveva fatto parte delle SS, immediatamente lo immaginai vestito con l'uniforme: stivali neri, alti e lucidi, un fucile in mano e pronto ad uccidermi. Non mi avrebbe mai visto come un essere umano con le mie speranze, il mio amori, i miei doni, la mia gentilezza. Per lui sarei stata solo qualcuno che andava sradicato. A fatica riuscivo a restare seduta ne' potevo, pero', muovermi. Quella notte sognai che mentre stavo parlando con un'amica , si avvicinava Otto come in trance, impugnando un coltello. All'improvviso prendeva la mia amica alle spalle e le conficcava il coltello nel cuore. Lei cadeva morta mentre lui passava oltre dicendo che non poteva farmi del male. Mi svegliai ancora stordita, senza piu' riuscire a riprendere sonno". Quella stessa notte, Anna Smulowitz, un'altra figlia di sopravvissuti, barrico' la porta della sua camera che confinava con quella di Otto: sentiva il bisogno di proteggersi da lui e da tutto cio' che simbolizzava. Il giorno dopo fu Anna a guidare i componenti di entrambe le parti nel porre domande a Otto. I tedeschi, che non avevano mai ascoltato confessioni o verita' dai loro padri, riversarono tutte le loro attese e tensioni su di lui mentre i discendenti dei sopravvissuti volevano sapere che cosa avesse fatto e visto. Otto, sebbene visibilmente scosso, si sforzo' di rispondere a ogni loro domanda. In contrasto con l'aura della sua storia, Otto Duscheleit e' un uomo mite e tranquillo. Di corporatura leggera, e' vegetariano, pacifista attivo e ultimamente anche buddhista. Otto racconto' al gruppo della sua famiglia, di cio' che fece nella Gioventu' hitleriana, dell'antinazismo di sua madre che faceva parte della Chiesa Confessionale di Martin Niemoeller e di Dietrich Bonhoeffer, della disillusione e del suicidio del fratello maggiore che non ce la fece piu' a restare nelle forze armate naziste. Grazie a Otto apprendemmo dalla sua testimonianza di prima mano numerosi aspetti del regime nazista, di alcuni dei quali non avevamo mai saputo nulla. Otto sostenne di non aver mai preso parte ad alcuna atrocita', ma di sentirsi comunque colpevole per non aver mai avuto il coraggio di opporsi al regime. "Si'", disse, "sono stato un membro delle Waffen SS. Ho cantato le loro canzoni e marciato insieme agli altri, ma senza mai sentire entusiasmo, mai". Attraverso di lui iniziammo a vedere come avesse funzionato la macchina nazista e con quanta facilita' le persone venissero manipolate. Capimmo anche quanto profondamente Otto non volesse piu' rivedere oggi cio' che aveva vissuto sotto il nazismo. A proposito del movimento neonazista in Germania dice: "Ogni persona adulta della mia generazione dovrebbe parlare e fermare questi giovani, gli skinheads, che aggrediscono gli immigrati". Otto sente di dover dire ai giovani cio' che e' realmente successo, e li sfida dicendo loro: "Ma che mondo volete? Un mondo dove si deve solo dire 'Jawohl, Jawhol...' a tutto e dove non si puo' parlare e avere una propria identita'? E' proprio questo che volete?". Ci ha poi raccontato delle battute di scherno con cui a volte si sente apostrofare in Germania da nazisti non pentiti: "Sei il disonore della divisa delle SS", gli gridano contro. Sentiamo tutti rispetto per Otto che consideriamo come uno dei pochissimi della sua generazione ad aver avuto abbastanza coraggio da mostrare la verita' del proprio personale coinvolgimento nella storia insanguinata del suo paese. Sebbene l'incontro, originariamente convocato come un progetto di ricerca, fosse formalmente terminato, sentivamo che il nostro lavoro insieme era solo all'inizio. Avevamo attraversato quattro giorni in cui avevamo ascoltato e raccontato le storie che di solito non vengono dette sugli effetti dell'Olocausto e la cultura nazista; quattro giorni in cui eravamo stati ascoltati nonostante la continua lotta con la traduzione. Quattro giorni di catarsi emotiva, di cambiamento profondo e di autorivelazione. E nella misura in cui queste storie risuonavano dentro di noi, il peso diventava piu' leggero, il cuore si apriva e nasceva la visione di cio' che potremmo essere l'uno per l'altro. Sia a livello individuale che come gruppo avevamo vissuto uno trasformazione. In seguito alcuni parlarono della sensazione di essersi tolti dalle spalle, dall'anima, il peso del fardello e di averlo deposto nel centro della stanza, per lasciarlo poi la', per sempre. "Molti mesi dopo, quando raccontai le tragedie della mia famiglia e i drammatici effetti che tutto cio' aveva comportato per la mia vita, fu proprio Otto a venirmi incontro, a baciarmi in fronte e a porgermi le sue scuse piu' sincere per cio' che era stato fatto alla mia gente e alla mia famiglia. La sua sincerita' libero' qualcosa dentro di me che per tutta la mia vita era rimasto soffocato" (Rosalie Gerut, co-fondatrice di One by One e facilitatrice dei gruppi di dialogo). Dopo l'incontro, ci recammo in gruppo alla Odenwaldschule, una scuola media privata nella citta' di Happenheim, per parlare della nostra esperienza. La sala era piena oltre ogni limite. Molti studenti avevano una spilla con scritto "coraggio". Quando chiedemmo di spiegarcene il significato, ci risposero che indicava l'impegno che avevano preso di reagire ogni qual volta si fossero trovati davanti a un atto di intolleranza o razzismo. Gli studenti rimasero molto toccati dai racconti dei figli dei sopravvissuti perche' mai prima di allora gli era capitato di ascoltare delle testimonianze dirette sull'Olocausto. Ascoltarono con grande attenzione la storia di Otto e vollero sapere che cosa avrebbero potuto fare per fermare i neonazisti. Il giorno dopo molti studenti si unirono volontariamente a noi nella visita al campo di concentramento di Buchenwald. * Ci accorgemmo che, nel presentare insieme la nostra esperienza di dialogo in pubblico, si sviluppava una particolare energia gli effetti guaritivi potevano essere recepiti anche oltre il circolo del gruppo. Aprirci al mondo ci permetteva di approfondire il nostro personale processo di trasformazione. Sapevamo che c'era da fare di piu' sia sul piano personale che politico, ma bisognava farlo insieme. Il potere guaritivo di cui avevamo fatto esperienza nasceva dal fatto che il lavoro veniva fatto insieme dalle due "parti", dal confronto e dall'ascolto dell'altro. Fummo in molti a notare che in quello speciale contesto avevamo fatto dei progressi a livello personale e terapeutico che non erano mai stati possibili precedentemente, in gruppi separati od omogenei in cui i tabu' del silenzio e dell'empieta' non potevano venire rotti. Nel luglio del 1993, prendemmo contatti con il Museo dell'Olocausto a Washington e venimmo invitati a fare una presentazione collettiva della nostra esperienza. Il pubblico, tra cui c'erano anche molti sopravvissuti, fu estremamente colpito dalle nostre testimonianze. I sopravvissuti rimasero commossi nell'ascoltare che i figli dei tedeschi che avevano sostenuto il nazismo fossero cosi' profondamente addolorati per cio' che era successo durante l'Olocausto e che ora dicessero la verita' assumendosi la responsabilita' per cio' che il loro paese aveva fatto. Era proprio questo che da piu' di cinquant'anni i sopravvissuti desideravano sentirsi dire. La reazione dello staff del museo fu estremamente positiva e cio' rinforzo' ancora di piu' la nostra convinzione su quanto fosse essenziale parlare in pubblico del nostro lavoro. Uno dei presenti piu' tardi ci scrisse: "Mentre stringevo la mano a una figlia di parte tedesca, esprimendole la mia gratitudine per il suo essere intervenuta, rimasi colpito dall'enorme coraggio che avevano avuto tutti loro nel parlare di un argomento cosi' doloroso davanti a noi. In quel momento compresi, forse per la prima volta, che il coraggio ha proprio un volto umano... Quella donna mi ringrazio' molto e aggiunse: 'Dopo la disperazione viene il coraggio'... Stare con loro e' stata un'esperienza che mi ha trasformato. Rappresentano un'ispirazione, e le loro parole sono servite a superare il mio ben radicato pessimismo sulla triste condizione umana, riaccendendo in me una flebile speranza. Se degli ex nemici possono stare insieme e trascendere cio' che precedentemente credevo non potesse mai essere trasceso, allora forse c'e' ancora un motivo per sperare nel genere umano" (Elyse Gussow, del Museo dell'Olocausto di Washington). * Alcuni mesi piu' tardi, alcuni membri dagli Stati Uniti e dalla Germania presentarono il lavoro di "One by One" a un gruppo di psicologi comportamentisti in una universita' di Berlino. L'effetto sul pubblico e sui relatori fu quasi lo stesso. Il fatto che tutte e due le parti parlassero insieme sprigionava una innegabile energia. Ci interrogammo su cosa fare per portare la nostra esperienza ad ancora piu' persone e possibilmente in quei paesi dove i conflitti storici e altri genocidio avevano creato fratture che ancora perduravano. Decidemmo che oltre ai discorsi in pubblico era necessario dare ad altri discendenti dell'Olocausto e del regime nazista la possibilita' di partecipare a nuovi gruppi. Immaginammo la creazione di sempre nuovi gruppi di dialogo in molte parti del mondo a cui potessero prendere parte anche individui di origine diversa; chi aveva ricevuto una formazione nei gruppi precedenti sarebbe diventato a sua volta punto di riferimento nell'impegno per la pace e per prevenire nuove guerre e genocidi e nell'educazione contro il razzismo e il pregiudizio. * Dopo numerosi viaggi in Europa e aver discusso e fatto piani per un anno, nel 1995 ci costituimmo negli Stati Uniti come associazione non a scopo di lucro, con un ramo in Germania. Il nome 'One by One' venne preso dal libro di Judith Miller sull'Olocausto. "L'astrazione e' il piu' fiero nemico del ricordo. Uccide perche' incoraggia la distanza e spesso anche l'indifferenza. Dobbiamo ricordare a noi stessi che l'Olocausto non e' stato sei milioni di persone. E' stato uno, piu' uno, piu' uno. Solo comprendendo che i popoli civilizzati devono difendere uno, poi uno, uno alla volta ciascun individuo... si potra' allora dare all'Olocausto, a cio' che e' incomprensibile, un senso" (Judith Miller, One, by One, by One: Facing the Holocaust). Quelli di noi nel gruppo dei fondatori che erano psicoterapeuti e psicologi riuscirono a formalizzare gli elementi essenziali dei nostri incontri. Prima di compiere il passo successivo e di avviare nuovi gruppi, decidemmo di analizzare la nostra esperienza valutando cio' che aveva funzionato e cio' che andava invece rivisto in modo di giungere a definire una struttura e un formato per il gruppo. Il gruppo di dialogo di "One by One" fu concepito e organizzato per la prima volta nel 1996. * Il gruppo di dialogo Nel nostro lavoro siamo stati guidati dalla compassione e dalla visione profonda del dottor Viktor Frankl, sopravvissuto al campo di concentramento di Dachau. "Non dobbiamo mai dimenticare che si puo' trovare un significato nella vita anche davanti a una situazione senza piu' speranza, quando il nostro destino non puo' essere cambiato. Quello che conta e' portare testimonianza alla potenzialita' umana al suo meglio che consiste nel trasformare una tragedia personale in un trionfo, nel cambiare la propria situazione difficile in una conquista umana. Quando non siamo piu' in grado di cambiare una situazione... siamo sfidati a cambiare noi stessi" (Viktor Frankl). Molti di coloro che hanno vissuto da vicino la guerra e il genocidio soffrono la sindrome da stress post-traumatico che colpisce quasi ogni aspetto delle loro vite. Coloro che portano con se' il dolore del trauma non ancora risolto facilmente trasmettono le proprie ansie, paure, avversioni e pregiudizi alla generazione successiva. Il nostro scopo in parte era quello di aiutarci a vicenda per liberarci dagli effetti devastanti del trauma e di interromperne la trasmissione alla generazione successiva. Il gruppo di dialogo e' stato il nostro strumento primario. Spesso, usando una metafora, descriviamo la nostra esperienza di dialogo come un ponte sospeso che unisce le due sponde di un profondo burrone. I partecipanti del gruppo si incamminano lungo il ponte muovendo dai due lati opposti, e sta a ciascuno decidere quanto voglia spingersi in avanti per incontrare la persona che sta venendogli incontro. Sono loro a scegliere quale debba essere la distanza tra loro; se lo vorranno, si potranno incontrare a meta' del ponte. Per i discendenti dei sopravvissuti il baratro sottostante e' riempito dai loro parenti assassinati, feriti, torturati o perseguitati e dal ricordo dei loro avi. Mentre ascoltano i racconti dell'altra parte, puo' succedere che sentano dentro di se' un monito: "Non ti fidare dei tedeschi. Tu sei il custode della nostra memoria. La verita' e la giustizia devono essere onorati". Per i discendenti degli aguzzini, il baratro e', invece, colmo di un senso di vergogna come nazione e come individui, di senso di colpa e di volonta' di negare. Puo' succedere anche a loro di sentirsi ripetere un monito: "Non essere sleale. Resta con noi nel silenzio. Tu non capisci che cosa e' stato". I discendenti dei sopravvissuti a ogni passo lottano con sentimenti di profondo lutto, di rabbia e paura. I discendenti dell'altra parte combattono con la paura della vendetta e con la vergogna di essere tedeschi; sono lacerati tra l'amore e l'odio verso coloro da cui sono nati. I moniti e le emozioni suscitate devono essere riconosciuti, capiti e accettati se i partecipanti al gruppo vorranno incontrarsi sul ponte. Uno degli architetti filosofici del nostro ponte e' Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz. Il suo lavoro ci suggerisce la possibilita' di unire due apparenti opposizioni: il desiderio di giustizia e la contemporanea offerta di dialogo con l'altra parte. Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, riassume che cosa abbia significato per lui la pubblicazione in Germania del suo testamento: "Il libro lo avevo scritto... per chi non sapeva, per chi non voleva sapere... ma I suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come un'arma, erano loro, I tedeschi... Era venuta l'ora di fare i conti, di abbassare le carte sul tavolo. Soprattutto l'ora del colloquio. La vendetta non mi interessava... A me spettava capire, capirli". Comprendere spesso e' considerato uguale a giustificare. Primo Levi ha mostrato che comprendere il nemico non significa giustificarne gli atti. E "comprendere" nella sua opera non significa mai studiare un "oggetto", in questo caso l'ex nemico. Egli richiese, o perfino pretese, in particolare dai tedeschi, una risposta. Riusci' a mettere insieme cio' che di solito non si ritiene possa coesistere: giustizia, testimonianza e allo stesso tempo l'offerta di dialogo con "l'altra parte". Secondo noi si tratta di una lezione che va appresa. Levi ha offerto un modello di dialogo attraverso l'abisso dell'Olocausto; ci ha offerto un modo per interrompere il ciclo generazionale di vittima e aguzzino. Allo stesso modo, il dialogo non va confuso con il perdono, la ricerca di armonia o la costruzione di consenso. Non vi e' mai la minima intenzione di paragonare la sofferenza della parte dei sopravvissuti con quella dell'altra parte. Ascoltare l'altra parte non vuole dire coprire od offuscare la differenza che c'e' tra i due gruppi o eliminare cio' che li divide. Fin dall'inizio, i rappresentanti delle due parti sono costantemente consapevoli della distanza che c'e' tra loro: l'attenzione resta sempre focalizzata su questo punto. Per i discendenti degli aguzzini in particolare, ascoltare la storia di qualcuno che viene dalla parte dei sopravvissuti e' un tentativo di riparare i fili della nostra comune umanita' che la Germania nazista cerco' di spezzare una volta per tutte. Piu' spesso comunque la distanza tra i due gruppi inaspettatamente sembra ridursi. Ascoltandoci a vicenda iniziamo a comprendere le complessita' delle nostre vite individuali invece di vederci come il simbolo di un gruppo o di una nazione. Alcuni figli di nazisti raccontano i traumi che hanno subito da bambini. I figli dei tedeschi che sono stati detenuti o torturati per la loro opposizione al nazismo, proprio come i figli degli ebrei sopravvissuti, sono cresciuti con genitori traumatizzati che nello stesso modo hanno trasmesso loro i propri traumi. A volte il conflitto storico sembra lasciare la stanza e allora, come per miracolo, rimangono solo persone che realmente aspirano ad aiutare coloro che hanno sofferto, cercando di volgere al bene cio' che e' stato tanto profondamente sbagliato e di amare gli altri aiutandoli a diventare integri. La profondita' del dialogo e' un tentativo di trovare la verita'. Le persone parlando possono anche scoprire che l'abisso tra loro non puo' essere superato e che non si incontreranno mai piu'. Pero' comunque si riconosceranno come persone e non come stereotipi. Sono proprio gli stereotipi infatti a mascherare la verita' costituendo una barriera tra la verita' e chi la sta cercando. Ne I sommersi e i salvati, Levi insieme a uno dei suoi interlocutori conclude che L'Olocausto non puo' essere compreso, nel senso che sia possibile trovarne una facile spiegazione. Ben piu' importante e' la necessita' di imparare il piu' possibile su di esso, con tutte le sue contraddizioni, in modo da garantirsi che nulla di simile possa ripetersi un'altra volta. * Dal 1996 ogni anno abbiamo organizzato un gruppo di dialogo. Di solito chi vi ha preso parte lo aveva saputo incontrando direttamente uno dei fondatori o sentendo parlare di "One by One" da amici o da qualcuno che aveva partecipato a un precedente gruppo. Oppure ascoltando qualcuno di "One by One" parlare in chiese, sinagoghe o in altri incontri pubblici negli Stati Uniti o in Germania. I potenziali partecipanti si incontrano nel proprio paese con i facilitatori che ne valutano la capacita' e stabilita' psicologica e se siano pronti ad affrontare delle interrelazioni cosi' emotivamente cariche. Si valuta anche se il candidato puo' contare su una adeguata rete di sostegno di amici e familiari. Vogliamo essere sicuri che i partecipanti al gruppo di dialogo non vengano allo scopo di perseguitare l'altra parte o per cercare una qualche forma di assoluzione. I facilitatori iniziano a stabilire un rapporto con i partecipanti per creare un maggiore senso di sicurezza prima e durante i gruppi. Ai candidati del futuro gruppo viene anche data l'opportunita' di incontrarsi tra loro prima e di porre delle domande ai facilitatori. Poi, prima che il gruppo inizi, vengono stabiliti degli accordi molto chiari per tutelare la riservatezza su tutto cio' che verra' detto. Fino ad oggi, i gruppi di dialogo si sono sempre svolti in Germania, in un centro per conferenze poco fuori Berlino. I partecipanti, di solito tra i sedici e i venti, trascorrono insieme cinque giorni condividendo tutte le attivita', i pasti e le sistemazioni per dormire. La settimana del gruppo di dialogo si divide in due parti: durante i primi cinque giorni, ogni mattina e pomeriggio, ci sono le sessioni di gruppo che durano tra le due e le tre ore ciascuna, nel week-end invece si partecipa a manifestazioni pubbliche. Il programma puo' comprendere musica, arte, poesia, teatro, in modo che i partecipanti possano raccontare la storia della loro famiglia e l'esperienza con "One by One". Vengono anche organizzate delle visite guidate ai luoghi storici come i quartieri ebraici di Berlino o il palazzo in cui si svolse la Conferenza di Wansee dove venne definita la "soluzione finale". In questi due giorni, i membri tedeschi di "One by One" ospitano nelle loro case i partecipanti al gruppo di dialogo e spesso prendono parte insieme a funzioni religiose in chiese o sinagoghe. Mentre i nuovi gruppi si incontrano per la prima volta, chi vi ha gia' partecipato prosegue il lavoro contribuendo alle iniziative pubbliche nelle scuole oppure parlando in chiese e sinagoghe o incontrando i mezzi di informazione e i nuovi membri. Chiunque abbia partecipato ai gruppi di dialogo, se vuole, puo' partecipare alle presentazioni in pubblico. * Il gruppo dei fondatori scopri' che era importante che i gruppi di dialogo si tenessero in Germania. Infatti, quando sono stati proposti dei luoghi diversi negli Stati Uniti, la parte ebraica non si e' mostrata interessata: volevano andare a Berlino. Perche' mai fare questo viaggio - spesso anche contro il parere dei nostri genitori che sono dei sopravvissuti - e mettere piede su una terra macchiata di tanto sangue? Le ragioni sono diverse per ciascuno. Quando gli viene posta questa domanda, alcuni non riescono a dire altro che: "Non lo so, ma si tratta proprio di qualcosa che sento di dover fare". Tra noi molti sostengono che poiche' la Germania era la terra dei nostri avi, e' importante rivendicare il nostro diritto ad andarci. Viste le finalita' del gruppo di dialogo, da parte nostra volevamo che i discendenti dell'altra parte si incontrassero con noi proprio in Germania e che qui affrontassero coloro che sarebbero potuti essere i loro vicini di casa, anch'essi nati li'. Vedere degli ebrei che tornano in Germania rappresenta una tappa importante del loro prendere coscienza della rimozione che e' stata operata; e' una prove dell'Olocausto. Coloro tra noi che sono figli degli aguzzini e degli spettatori del nazismo hanno accolto la sfida per comprendere meglio che cosa ci sia stato tolto, attraverso l'orrore del genocidio, a noi, alla nostra umanita' e alla cultura tedesca. Molti tedeschi sono cresciuti senza aver mai incontrato un ebreo in vita loro. Anche se in tutto il paese ci sono monumenti dedicati alle vittime dell'Olocausto, molti di noi non avevano mai parlato con un ebreo della sua storia prima del gruppo di dialogo di "One by One". Sembra che condurre i gruppi di dialogo in Germania - la scena del delitto - abbia un grande valore da un punto di vista terapeutico. Trovarsi li', proprio nel paese dove sono state commesse le atrocita', sedere nella stessa stanza con di fronte le "facce ariane", sentire parlare tedesco, provoca nei figli dei sopravvissuti uno stato emotivo molto intenso. Essi sentono pronunciare le parole che nei racconti dei genitori venivano pronunciate nella Germania nazista, in Polonia, in Ucraina e in Bielorussia e cioe' che gli ebrei dovevano essere uccisi perche' avevano ucciso Gesu', che gli ebrei erano i cosiddetti "Untermenschen" (sotto-uomini). Le storie questa volta vengono direttamente dalla fonte. E percio' la verita' risuona piu' profondamente nella psiche. Puo' capitare di sentire un forte dolore e una grande indignazione perche' la persona seduta dall'altra parte della stanza potrebbe essere il figlio di colui che ha assassinato i membri della nostra famiglia. Niente viene lasciato a livello di mero intelletto e il modo in cui si affrontano questi sentimenti puo' cambiare la vita. E' ormai da tempo che gli specialisti delle sindromi da trauma, come la dott.ssa Judith Herman, hanno indicato il valore che condizioni come queste possono avere nel far affiorare i sentimenti di rabbia e di lutto rimasti a lungo sepolti. "Le atrocita'... rifiutano di essere sepolte... I fantasmi... rifiutano di riposare nelle loro tombe fino a quando le loro storie non verranno raccontate... Dire la verita' su fatti terribili (e' una) tappa essenziale per la guarigione individuale delle vittime, dei carnefici e delle famiglie, e per il ripristino dell'ordine sociale". * Molti partecipanti di entrambe le parti si sono ritrovati a raccontare proprie esperienze personali di cui, fino a quel momento, non avevano mai parlato con nessuno. Alcuni figli di sopravvissuti hanno raccontato storie di abuso e abbandono subiti da parte dei genitori che a loro volta erano rimasti segnati dal trauma subito. Anche tra i figli degli aguzzini c'e' stato chi ha raccontato storie di abuso, caratterizzate anch'esse da minacce e dal silenzio circa il passato. Finalmente alcuni sono stati in grado di parlare delle immagini in apparenza inconciliabili che hanno dei loro genitori: il loro essere da una parte affettuosi e la loro partecipazione diretta alle atrocita' - o anche il loro essere rimasti semplici testimoni silenziosi - dall'altro. Ogni gruppo di dialogo e' stato organizzato e sostenuto da un gruppo di facilitatori abilitati e con una formazione in counseling, nelle dinamiche di gruppo e nel lavoro con le sindromi da trauma. I facilitatori - e cosi' anche gli interpreti - hanno tutti gia' partecipato a precedenti gruppi. Il loro compito e' di creare un contesto "centrato sulla persona", nel quale ogni atteggiamento, sentimento od opinione possa venire espressa liberamente, con la sola eccezione degli attacchi personali. Si cerca di assicurare a ogni partecipante un tempo sufficiente per raccontare la sua storia e per l'interazione di gruppo. Dato il peso emotivo di ogni storia, lo spettro di reazioni e le possibilita' di conflitto, i facilitatori devono essere sempre consapevoli delle loro stesse reazioni, mentre contemporaneamente si prendono cura dei bisogni dei partecipanti durante e tra le sessioni di gruppo. I facilitatori cercano principalmente di arrivare a un equilibrio tra il riconoscimento delle ingiustizie sociali e l'accettazione senza giudizio delle reazioni dei partecipanti. C'e' in loro un rispetto implicito per il coraggio e la volonta' di ogni componente del gruppo di porsi davanti all'altro, a se stessi, alle proprie paure e alla verita'. E' chiaro che il ruolo dei facilitatori e' essenziale per la riuscita del gruppo. * Uno degli obiettivi del primo giorno e' di aiutare i partecipanti a sentirsi protetti; i facilitatori iniziano l'incontro raccontando ciascuno la propria storia e spiegando che loro sono li' solo come guide, allo scopo di mantenere un clima di rispetto, onesta' e compassione. Poi viene chiesto a ciascuno dei presenti di riassumere in dieci minuti le esperienze della propria famiglia durante e dopo la guerra, l'impatto che queste esperienze hanno avuto su di loro e i motivi che li hanno portati a partecipare al gruppo. In seguito ogni sessione si apre con un esercizio per favorire la descrizione da parte dei partecipanti dei loro pensieri ed emozioni e termina con un periodo di riflessione su cio' che e' emerso. Il grosso delle sessioni successive e' dedicato al racconto particolareggiato della storia di ciascuno, e in particolare alla risposta alla domanda: "In che modo il periodo nazista e l'Olocausto hanno segnato la tua vita?". La dott.sa Judith Herman si e' occupata a lungo del significato che ha per I sopravvissuti il poter raccontare la propria storia; lo scopo non e' una semplice catarsi, ma cio' che e' necessario e' la reintegrazione del ricordo: la trasformazione di immagini senza forma e statiche in una narrazione in cui ci sia sentimento, movimento e significato. E la nostra intenzione e' proprio di costruire un ambiente che favorisca tale processo. Nel gruppo ciascuno parla per trenta minuti, a cui ne seguono altri quindici in cui la persona puo' continuare a parlare oppure invitare gli altri a fare domande o commenti. Il compito per il resto del gruppo e' di ascoltare - nel senso migliore e piu' attivo del termine - in modo che ciascuno possa vivere l'esperienza di sentirsi ascoltato. L'enfasi che poniamo sull'importanza del vero ascolto ci viene dal lavoro di Carl Rogers e della scuola di psicologia umanistica, cosi' come dalla filosofia di Martin Buber. In base al "principio dialogico" di Buber, la costruzione di relazioni autentiche e' un aspetto basilare dell'esistenza umana. Attraverso l'incontro concreto con gli altri possiamo comprendere la nostra interdipendenza con lo spirito della vita. "La vita come dialogo" e' la sintesi programmatica della filosofia di Buber. L'ascoltarsi a vicenda puo' essere visto come una profonda esperienza - il ponte invisibile - che ci unisce. L'ascolto implica una dimensione sociale e anche etica: riconoscere l'altro, e fare esperienza di questa alterita' non solo rende possibile il dialogo, ma e' un movimento che va dall'essere centrati su se stessi verso l'interazione sociale in cui gli stereotipi vengono lasciati alle spalle. L'ascolto e' una parte essenziale di cio' a cui Buber si riferisce quando parla della relazione "io-tu". L'ascolto viene visto come una volonta' esistenziale di passare da una modalita' distorta e inadeguata di rapportarsi agli altri visti come mezzi, a una comunicazione autentica con altri se'. Tutti conosciamo la differenza di qualita' che si ha in un incontro quando, in una fase speciale dell'interazione, emerge un momento di profonda intensita'. Di solito diciamo: "Sono toccato" o "Mi sento commosso dalle tue parole", volendo con questo sottolineare che tra noi e' passato qualcosa. Si tratta di una risposta emotiva, un'eco della nostra "inter-umanita'". Quando succede, allora la storia dell'altro diventa anche la nostra. All'improvviso capiamo che avremmo facilmente vissuto cio' che lui, o lei, ha fatto se fossimo nati al suo posto. Le due parti di un vero dialogo intravedono cio' che Buber chiama "il noi essenziale". (Parte prima. Segue) 3. LIBRI. LUISA MURARO PRESENTA "PICCOLE DONNE" DI LOUISA MAY ALCOTT [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it). Luisa Muraro insegna all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel 1997". Del libro che e' occasione per queste meditazioni e' disponibile ora, dopo la prima presso La Pietra, Milano 1976, una nuova edizione: Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Louisa May Alcott (Germantown, Pennsylvania 1832 - Boston 1888) e' ad un tempo una delle piu' influenti e segrete scrittrici dell'Ottocento; figlia del pedagogista e riformatore Amos Bronson Alcott, introdotta fin da giovanissima nella cerchia di Ralph Waldo Emerson e dei trascendentalisti, autrice di romanzi (anche, ma non solo "per la gioventu'" - qualunque cosa tale formula significhi), racconti, fiabe, versi, diresse un periodico, si batte' nelle grandi lotte sociali, ed in particolare per il diritto di voto alle donne. Piccole donne (1868) e' la sua opera piu' celebre] Questo romanzo e' un capolavoro di astuzia femminile, per centocinquant'anni e' riuscito a farsi stampare, tradurre e raccomandare come un romanzo di formazione (un Bildungsroman, dicono i letterati) per giovinette di buona famiglia, e ne ha tutti gli ingredienti, in effetti, ma intanto riesce ad annunciare la fine del patriarcato. Si tratta della storia di quattro sorelle che crescono sotto la guida di una madre e in assenza del padre. Il padre e' andato volontario in guerra, nella terribile guerra di Secessione che insanguino' gli Stati Uniti intorno al 1860. Louisa May Alcott dice la cosa giusta: gli uomini si stanno autoeliminando a forza di guerre. Resta vivo il simbolico delle donne. Nella famiglia March non ci sono fratelli. Le poche figure maschili, il padre lontano, il ragazzo Laurie, si affacciano sul bordo di un mondo di sole donne, e non hanno il potere di turbare la sua vita ne' di istallarsi nel suo centro focale. Le quattro sorelle sono tipe fra loro molto diverse e tutta la trama si sviluppa dal gioco libero delle loro differenze. Viene soprattutto da questo gioco libero, secondo me, il grande successo del libro. Viene cioe' dal ritratto della differenza femminile che si manifesta attraverso le differenze fra donne: non dipende solo ne' soprattutto dalla figura di Jo, come ho sentito dire. Jo e' la sorella che vuole diventare scrittrice e costituisce indubbiamente il personaggio piu' cattivante, nel quale l'autrice si e' rispecchiata. Ma Jo, senza le altre tre, Meg, Beth e Amy, non sarebbe lei, e viceversa, perche' la singolarita' di ciascuna si riverbera e accentua nello specchio delle altre tre, passando tutte e ciascuna attraverso l'amore della madre. La madre e' una specie di dea, travestita da signora borghese. Lo dico apposta, lo dico pensando alla mitologia piu' arcaica. La signora March somiglia ad una divinita' che abita da sempre una caverna sacra. * Volendo usare etichette, per il capolavoro della Alcott, io parlerei di romanzo d'iniziazione. Il romanzo di formazione mostra un percorso per diventare quello che la societa' domanda o aspetta, mentre il romanzo di iniziazione racconta i passaggi che ti portano a scoprire quella che sei, e a diventare quella che puoi essere, piu' profondamente. L'iniziazione ha a che fare con la nascita della liberta', quella associata alla scoperta di se', ed e' una cosa che, se non hai l'idea di questa liberta', non esteriore ma intima e personale, puo' essere scambiata con la moderazione o il conformismo. La Alcott lo sapeva, io credo e penso che ne abbia approfittato per mascherarsi da scrittrice bempensante e cosi' fare il suo gioco. Le Piccole donne che tengo nella mia biblioteca, una traduzione, si aprono con l'introduzione di un letterato italiano, sicuramente bravo, ma, in questo caso, completamente fuori strada. Per meta' dell'introduzione insiste sul fatto che si tratterebbe di un romanzo datato, ancorato a certi ideali, ormai superati: donne che sono angeli del focolare, silenziose e pazienti, ecc. Leggiamo pure Piccole donne, conclude con un po' di supponenza, ma si tenga conto dell'epoca in cui fu scritto. Fa ridere: non si e' accorto di niente, non ha capito niente. 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 884 del 30 marzo 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 883
- Next by Date: La nonviolenza e' in cammino. 885
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 883
- Next by thread: La nonviolenza e' in cammino. 885
- Indice: