La nonviolenza e' in cammino. 814



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 814 del 19 gennaio 2005

Sommario di questo numero:
1. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte nona)
2. Lia Cigarini: Insopportabile
3. Diana Sartori:La vittima che mi preme di piu'
4. Edoarda Masi: Lu Xun, classico solitario
5. Letture: Amnesty International, Un altro mondo e' possibile... con i
diritti umani
6. Letture: Erasmo da Rotterdam, Pace e guerra
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE NONA)
[Ringraziamo di cuore Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci
permesso di riprodurre sul nostro foglio ampi stralci dal suo utilissimo
libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, la cui lettura vivamente
raccomandiamo. Riportando alcuni passi di esso abbiamo omesso tutte le note,
ricchissime di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali
ovviamente rinviamo chi legge al testo integrale edito a stampa. Bruno
Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, si e' occupato di
sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del
Movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha fatto parte del
Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano;
dal 1991 presiede l'Associazione italiana "Amici di Neve' Shalom / Wahat
al-Salam"; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet"
(e-mail: segreteria at keshet.it, sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno
Segre: Gli Ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore,
Milano 1998, 2003]

Alcune formidabili domande
In uno degli ultimi capitoli del Doctor Faustus (1947) Thomas Mann
(1875-1955) espone le proprie riflessioni sui tragici accadimenti del 25
aprile 1945, quando ormai "la nostra resistenza in Occidente sta
evidentemente dissolvendosi"; e le esprime attraverso osservazioni
attribuite a Serenus Zeitblom, il bravo umanista tedesco, avverso ai
nazisti, che nel romanzo funge da portavoce dell'autore.
In quelle pagine, scritte nel segno dell'angoscia per la catastrofe
nazionale che proprio in quelle ore si stava consumando, Serenus registra il
cupo fatalismo con il quale "il nostro popolo sciagurato, emaciato dal
dolore e dallo spavento, incapace di comprendere" si pone di fronte al
precipitare degli eventi. "L'uomo raccapricciante che or e' un anno sfuggi'
all'attentato di patrioti disperati (...) ha ordinato ai suoi soldati di
affogare in un mare di sangue l'attacco contro Berlino, di fucilare ogni
ufficiale che osi parlare di resa". Su questo sfondo di ferocia e
distruzione, quando "un generale d'oltre-Atlantico fa sfilare la popolazione
di Weimar davanti ai crematori di quel campo di concentramento"
(Buchenwald), coloro che vengono costretti a visitare il campo sono
"cittadini che hanno tenuto dietro apparentemente con onore ai loro affari e
tentato di non saper nulla, benche' il vento portasse alle loro nari il
puzzo di carne umana bruciata". Hanno tentato di non sapere nulla, dunque
sapevano. "La nostra vergogna e' esposta agli occhi del mondo" incalza
Serenus Zeitblom. "Chiamatelo tenebrosa possibilita' della natura umana,
quel che ora si scopre; ma uomini tedeschi, a decine, a centinaia di
migliaia hanno commesso cio' che fa rabbrividire l'umanita'".
Sul versante opposto a quello delle centinaia di migliaia di "volonterosi
carnefici di Hitler" (secondo l'icastico titolo di un'opera, molto discussa,
del politologo americano Daniel J. Goldhagen) che misero fisicamente in atto
lo sterminio, e dei milioni di europei che "non videro nulla" o assistettero
alla Shoah con occhi distratti, vi furono casi non rari, in quei terribili
anni, di singole persone prive di potere e lontane da esso che, aiutate
talvolta da sparuti nuclei di collaboratori, scelsero a proprio rischio di
prodigarsi per sottrarre gruppi di ebrei a un destino di sicura
eliminazione.
Tre nomi per tutti: Giorgio Perlasca, il "fascista buono" (1910-1992) e
Raoul Wallenberg, il diplomatico svedese (1912-?), che a Budapest, tra il
1944 e il gennaio del 1945, salvarono varie migliaia di ebrei ungheresi; e
Oskar Schindler (1907-1974), l'imprenditore tedesco dei Sudeti che, facendo
lavorare un migliaio di ebrei in alcune sue fabbriche nella Polonia
occupata, riusci' a evitare che finissero nei crematori di Auschwitz.
A Berlino, nel cuore stesso del Terzo Reich, a partire dal 27 febbraio 1943
varie centinaia di donne "ariane" si raccolsero spontaneamente nella
centralissima Rosenstrasse dando vita a una protesta impensabile e inaudita
nella Germania hitleriana. Le manifestanti erano le mogli e le madri di un
migliaio di ebrei "mezzosangue" e "imparentati" (cioe' sposati con donne
"ariane"), che la Gestapo aveva prelevato nelle diverse fabbriche in cui
erano costretti a lavorare per condurli e rinchiuderli in vari centri
berlinesi di raccolta, in vista della deportazione "verso est".  Senza gesti
di violenza, camminando per giorni interi, nell'arco di una settimana,  su e
giu' in Rosenstrasse davanti all'ex sede amministrativa della Comunita'
ebraica (in cui era stato allestito il centro principale di raccolta degli
uomini da deportare), queste donne audaci riuscirono a ottenere la
liberazione dei detenuti al grido di "Ridateci i nostri mariti! Ridateci i
nostri figli!".
Alla fine del conflitto, nella stessa Berlino circa cinquemila ebrei
risultarono essere stati nutriti, nascosti e messi in salvo da singoli
"ariani" animati da coraggio e senso di umanita'. Nel mare magnum
dell'indifferenza, questi isolati esempi di solidarieta' ebbero un'enorme
importanza.
Ma nell'Europa egemonizzata dai nazisti, al di la' di questi casi
individuali vi furono alcune nazioni (si pensi alla Bulgaria o alla
Danimarca) in cui esponenti dell'elite, interpretando anche gli orientamenti
delle popolazioni, osarono opporre varie forme di resistenza alla politica
dello sterminio, riuscendo a incepparla efficacemente.
*
Non v'e' dubbio che, nel mondo, settori molto ampi di opinione pubblica
tardarono parecchio a rendersi conto che le uccisioni sistematiche di ebrei
nei paesi baltici e nelle zone dell'Unione Sovietica conquistate dai
tedeschi erano in realta' soltanto i primi passi di un piano per dare corso
e compimento al genocidio degli ebrei d'Europa. E' altresi' probabile che
sino alla fine della guerra la pratica delle gassazioni di massa rimanesse
sconosciuta ai piu'.
Tuttavia i documenti oggi disponibili ci informano che, appena dopo l'inizio
dell'"operazione Barbarossa" (22 giugno 1941), gli alti comandi della
Wehrmacht gia' sapevano degli eccidi compiuti dalle Einsatzgruppen, e che a
Berlino la burocrazia ministeriale, anche quella "dei piani bassi", ne era
informata.
Non piu' tardi dell'agosto 1942 ne erano al corrente il governo di Roma,
molti governi neutrali e quelli delle potenze in guerra con la Germania
(Gran Bretagna e Stati Uniti, oltre naturalmente all'Unione Sovietica, sul
cui territorio le stragi si stavano compiendo). Lo sapevano le Chiese
tedesche (quella cattolica e quelle protestanti) e lo sapeva il Vaticano,
come dimostra il promemoria fatto pervenire il 17 marzo 1942 da
rappresentanti dell'Agenzia ebraica, del Congresso mondiale ebraico e della
Comunita' ebraica elvetica (nelle persone di Richard Lichtheim e Gerhardt
Riegner) al nunzio apostolico a Berna, monsignor Bernardini.
Una sensibilissima testimone del nostro tempo, Gitta Sereny - giornalista e
saggista viennese di origine ungherese, che per lunghi anni si e' data ad
analizzare cio' che accadde al popolo tedesco durante il nazismo, cercando
poi anche di cogliere i sentimenti dei tedeschi d'oggi nei riguardi del loro
passato - sostiene con  argomenti apprezzabili che dopo la fine della
guerra, a parte la comunita' mondiale ebraica, il paese che con maggiore
convinzione si e' rivelato disposto a considerare la Shoah come il crimine
piu' infame e atroce del secolo e' stato proprio la Germania. "E' in
Germania", scrive la Sereny, "che sono stati introdotti i provvedimenti
legali ed educativi piu' efficaci per affrontare questo terribile passato".
Ed ella rammenta come nell'autunno del 1958 il Congresso dei ministri della
giustizia dei Laender della Germania Ovest abbia costituito  a Ludwigsburg,
non lontano da Stoccarda, l'Agenzia centrale per le indagini sui crimini
nazionalsocialisti. Nei quattro decenni successivi circa 130 pubblici
ministeri e giudici, assistiti da 300 funzionari di polizia, indagarono su
piu' o meno centomila persone, sospettate di avere commesso crimini nazisti.
"Gli svariati processi che ne risultarono - alcuni dei quali durati mesi,
perfino anni - hanno rappresentato una pietra miliare nel percorso compiuto
dalla Germania Ovest per affrontare il suo passato e cominciare a venire a
patti con esso. (...) Nel corso degli anni i media e le autorita' preposte
all'istruzione hanno appoggiato senza mezzi termini i processi per crimini
nazisti, ai quali hanno assistito migliaia di studenti dei licei e delle
universita'". In Germania, sostiene in conclusione la Sereny, la presa di
coscienza della natura e delle conseguenze della tirannia hitleriana ha
costituito e costituisce una scoperta che coinvolge i tedeschi di tutte le
generazioni, non soltanto delle generazioni del tempo di guerra. Si tratta
di una scoperta che in milioni di persone, compresi i giovani d'oggi, ha
prodotto una ferita molto profonda che tarda a rimarginarsi. "Il fatto che
questa ferita esista e sia stata sentita con tanta profondita' per ben mezzo
secolo ha alterato quello che solitamente veniva chiamato il 'carattere
tedesco'. E se oggi la Germania (in modo del tutto diverso da quanto
pianificato da Hitler) e' diventata non la padrona, ma il cuore dell'Europa,
ritengo che sia proprio perche' e' con questa ferita che continuano a
confrontarsi ancor oggi i tedeschi di ogni eta'".
*
Detto cio', persistono due formidabili domande di fondo alle quali, a mio
avviso, ne' la celebrazione di processi contro i crimini nazisti ne'
l'apertura di archivi rimasti a lungo sigillati riusciranno mai a offrire
risposte esaurienti. Come e' stato possibile che un paese quale la Germania
abbia dato corso al genocidio ebraico? Quali iniziative si sarebbero potute,
o dovute, prendere per impedire il massacro di milioni di vittime inermi?
Per quanto imbarazzo lo storico della Shoah incontri nell'affrontare una
tematica di questa natura, conviene qui elencare alcuni altri fra i molti
quesiti che, ancora dopo piu' di mezzo secolo, sogliono essere riproposti.
Quale fu nei vari Stati dell'Europa continentale occupata, e quale peso
ebbe, la collaborazione degli organi locali di governo e di polizia nella
deportazione degli ebrei? Quali furono gli atteggiamenti prevalenti fra le
popolazioni? Quali furono i gesti e le politiche delle Chiese cristiane, e
in particolare del Vaticano? Come reagirono i governi alleati, soprattutto
quelli di Londra e Washington, e i loro organi militari quando constatarono
la natura e le dimensioni dell'eccidio in corso? Con quanta tempestivita' si
mossero i governi neutrali (in particolare la Svizzera e la Svezia) e le
grandi organizzazioni internazionali (come la Croce Rossa)? In che misura
gli ebrei destinati allo sterminio vi si opposero mettendo in atto tentativi
di autodifesa? Che cosa impedi' agli ebrei di Germania, la cui integrazione
nella vita tedesca prima del 1933 era da molti considerata esemplare, di
avere un'esatta percezione della vocazione criminale dell'antisemitismo che
andava emergendo, e quindi di predisporre efficaci contromisure? Le
organizzazioni ebraiche non sottoposte al dominio nazista (ossia i
rappresentanti degli ebrei residenti nella Palestina sotto mandato
britannico e i dirigenti di molte importanti comunita' della diaspora)
furono all'altezza delle responsabilita' imposte loro dalla piu' orrenda
catastrofe della storia degli ebrei?
Nel dedicare a questi temi qualche riflessione, prendero' in esame alcune
interpretazioni significative che la critica storica ha espresso negli
ultimi anni.

2. RIFLESSIONE. LIA CIGARINI: INSOPPORTABILE
[Da "Via Dogana" n. 69 del giugno 2004 riprendiamo questo articolo di Lia
Cigarini; nei prossimi giorni riproporremo altri materiali estratti da
questo e dal successivo fascicolo di "Via Dogana". Ringraziamo le amiche
della Libreria delle donne di Milano per averci messo a disposizione questi
testi che contengono riflessioni che sentiamo decisive. Per richiedere "Via
Dogana" (rivista la cui lettura vivamente raccomandiamo) e per contattare la
Libreria delle donne di Milano: e-mail: info at libreriadelledonne.it, sito:
www.libreriadelledonne.it. Lia Cigarini e' una delle figure piu' vive del
pensiero e dell'agire delle donne, di molte e di molti maestra]

"Via Dogana" ha messo a tema la lingua corrente. Non e' una proposta
politica, "non si tratta cioe' di sostituire il pensiero della differenza
sessuale con un pensiero piu' avanzato. Ma piuttosto di tenerlo disarmato
vicino al non pensiero di cose che non c'entrano ma capitano".
Per me, insofferente negli ultimi tempi al linguaggio un po' rarefatto e
ripetitivo di questa rivista (le parole a me o danno energia per capire e
agire o sono morte), l'idea di lingua corrente ha significato immediatamente
un ripensare e far parlare le scelte che andavano facendo le mie clienti
separande nei loro rapporti con gli uomini e i figli in nome del femminismo
dei diritti, scelte magari opposte alle mie e dettate da un desiderio di
rivincita che mi e' estraneo. La mia lettura puo' essere discutibile e,
infatti, e' discussa.
Ma il punto non e' qui. Questo materiale - la relazione/conflitto con gli
uomini mi (ci) ha sempre coinvolto da vicino - e', diciamo cosi', pane per i
nostri denti. Eí vero che io, insieme ad altre, ho fatto un salto a lato
sottraendomi ai molti disagi della relazione quotidiana con un uomo.
Tuttavia la riflessione sui rapporti con gli uomini, sempre viva e
approfondita, ha creato un sapere che puo' circolare nonostante le scelte
diverse tra me e le mie clienti, tra le lettrici di "Via Dogana" e forse si
puo' dire tra le donne. Perche' si e' sempre cercato, con un'estesa pratica
di relazioni, che non fosse una collocazione marginale (separatista) ed
estranea al mondo.
Questa collocazione a lato ma strettamente connessa con il mio (nostro)
desiderio di esistenza libera, si e' rivelata preziosa anche per capire
qualcosa della sempre maggiore femminilizzazione del lavoro. La riflessione
di tanti anni in un gruppo a partire dalla nostra esperienza lavorativa,
insieme agli scambi con altre donne lavoratrici e sindacaliste e con uomini
interessati al tema del lavoro, mi permette di leggere il conflitto tra i
sessi, la contraddizione tra vita e lavoro, la parlante differenza
femminile, anche sotto quello che si presenta come un discorso di
uguaglianza raggiunta con gli uomini e di adeguamento indolore al loro modo
di lavorare. Ho la sensazione che, se il confronto andra' avanti con sempre
piu' donne lontane dalla pratica della differenza, senza pretendere di
ordinare il materiale secondo la lingua che si e' gia' costituita in questi
trenta anni tra di noi (sono state le linee seguite negli incontri sul
lavoro voluti da Pinuccia Barbieri in Libreria), ci sara' una contaminazione
dei linguaggi e del pensiero nel mettere in discussione il modo di lavorare
maschile o perlomeno nel creare movimento e riflessione.
*
E poi e' capitato l'Iraq, le soldate, le torturatrici con scatto
porno-fotografico. Qui non mi sembra che abbiamo una riflessione collettiva
e una pratica politica adeguata. Il salto a lato, nelle questioni della
guerra (di questo tipo di guerra), lo abbiamo fatto ma risulta essere un
salto nella marginalita' o perlomeno nell'estraneita': la pratica di
relazione tra donne non ha inciso ne' deciso, la relazione di differenza con
gli uomini e' faticosa.
Da qui, l'impotenza politica piu' assoluta e frustrante rispetto al
susseguirsi delle guerre (Israele-Palestina, Golfo, Kosovo, Iraq) e alla
teorizzazione americana della guerra preventiva.
Eppure Luisa Muraro, gia' nel 2001, subito dopo l'11 settembre, nel testo
intitolato Che cosa ci sta capitando? ("Via Dogana" 58/59), invitava ad
uscire dall'autosufficienza, perche' "capita qualcosa per cui non posso aver
ragione ed e' perfino ridicolo cercare di averla in quanto l'essenziale e'
ancora da pensare" e chiedeva di esserci in questa sfida: essere tutta con
tutto senza restare attaccata a nessun contenuto perche' i contenuti nascono
dallo scambio e sono frutto della mediazione di volta in volta.
La riflessione collettiva non si e' pero' avviata, forse perche' le
mediazioni che usiamo per pensare e agire, vale a dire l'esperienza e la
relazione con altre/i, qui non funzionano. Ma, d'altra parte, penso che
senza riflessione collettiva niente si possa aggiungere a quello che tanti
uomini di buona volonta' hanno pensato e fatto.
Poi, l'Iraq, le torture e soprattutto la foto della giovane Lynndie England
con il prigioniero iracheno nudo al guinzaglio, foto che e' gia' diventata
l'icona di questa guerra.
*
Ma, finalmente, a Roma, all'incontro su "Via Dogana" e lingua corrente,
presso la Casa internazionale delle donne, l'8 maggio scorso, e' scoppiata
una vivacissima e interessante discussione che ha prodotto una spietata e
utile decostruzione del femminismo. Il dolore, la vergogna e lo scacco hanno
costituito il punto vivo dell'esperienza, che prima mancava, almeno per
quelle che erano li', ma chissa' per quante altre. Ed e' a partire da quelle
emozioni che si e' iniziato a ragionare con originalita'.
Qui mi preme discutere, in particolare, delle osservazioni e delle idee
avanzate a Roma da Luisa e da Ida Dominijanni.
Luisa ha parlato delle carceriere americane che hanno partecipato ridendo
all'umiliazione (e forse alle torture) dei prigionieri iracheni, come di un
evento catastrofico che segnala il modo con cui molte donne hanno inteso la
liberta' femminile. Ha aggiunto che, comunque, dopo trent'anni di femminismo
la liberta' femminile non puo' non c'entrare con questi orribili fatti.
Percio' il sesso femminile non puo' piu' presentarsi come civilizzatore. I
sessi da civilizzare sono due. Ha detto anche, senza esprimere valutazioni,
che, per effetto della partecipazione di alcune donne alle torture,
l'idealizzazione maschile delle donne come esseri salvifici e'
definitivamente caduta.
Ida Dominjanni ha aggiunto e poi scritto, sul "Manifesto", che l'immagine di
Lynndie England con il prigioniero iracheno nudo al guinzaglio segnala un
immaginario femminile degradato e reificante, un "immaginario
post-femminista sul femminismo che trasfigura quello che e' stato e resta un
movimento di liberta' dalla fissita' dei ruoli sessuali in una competizione
per il potere...".
*
Io non so se l'immaginario femminile americano e' cambiato a tal punto in
seguito ad anni di femminismo aggressivo, competitivo, di legislazione di
pari opportunita' che ha coperto l'intuizione originale che i sessi sono
due, propria delle femministe americane (Shulamit Firestone, La dialettica
dei sessi; Kate Millet, La politica del sesso, ecc.).
So che in Italia e in altri paesi quel femminismo aggressivo e'
assolutamente minoritario, e dubito che abbia avuto l'effetto di far
straripare le fantasie sadiche-falliche, che le donne pure hanno, oltre il
limite costituito dall'accoglienza dell'altro nel proprio corpo e nella
propria vita, limite che la cultura umana conosce e pratica da sempre. Devo
dire che in quello che ho letto delle femministe americane in anni recenti,
ho trovato pochissima elaborazione della differenza e della relazione con
l'altra/o.
Di fronte a quella fotografia, dunque, io non ho pensato tanto a una
questione di immaginario, ho provato invece un senso di scacco perche'
quella Lynndie mi e' sembrata una ragazza fallo inebetita e mi sono detta
che, come prima del femminismo, ci sono donne le quali continuano a mettersi
a disposizione dei desideri e del simbolico degli uomini. A me non sembra
che si tratti di una deriva della liberta' femminile, come pensa Luisa, ne'
di perdita secca del simbolico femminile. Constato invece che nel contesto
di guerra, cosi' come nei luoghi del potere economico e politico, si
aggirano sempre piu' numerose donne falliche (come la Rice, la Thatcher e
altre). E penso che in questi contesti trionfi la sessualita' fallica di
alcune donne, una sessualita' che non ha alcun interesse alla liberta':
vuole rigare diritto secondo le regole maschili e guadagnare qualcosa. Certo
mi mettono in contraddizione lacerante con parte delle mie simili.
*
E' questa la contraddizione che dobbiamo affrontare. Prendendo sul serio il
lavoro politico che abbiamo fatto in questi anni sul simbolico, io mi trovo
a pensare che senza relazione con l'altra/o, che e' il significante della
sessualita' femminile, non c'e' donna. Per cui guardo quelle mie simili e
non vedo quello che considero l'essenziale della loro umanita'. Ora
veramente la cosa della guerra ci tira per i capelli fuori dalle
collocazioni che ci siamo date. Impossibile rifugiarsi nell'estraneita'.
Gli uomini hanno cercato in tutti i modi di regolamentare la guerra e di
"normalizzarla". Ma nel momento in cui vi compaiono anche donne in ruoli
attivi - in realta', distruttivi di se' e degli altri, simbolicamente fatte
a pezzi - viene in terribile evidenza tutto quello che la guerra ha
d'insopportabile.

3. RIFLESSIONE. DIANA SARTORI: LA VITTIMA CHE MI PREME DI PIU'
[Da "Via Dogana" n. 70 del settembre 2004, fascicolo monografico sul tema
"Non c'e' archivio per quelle immagini" (e sono le immagini delle torture di
Abu Ghraib) riprendiamo questo articolo di Diana Sartori. A chi legge
chiediamo venia per aver mantenuto nel corpo del testo - dopo aver a lungo
esitato - una parola del lessico detto da caserma o da taverna, che
l'autrice, fine saggista, ha usato espressionisticamente  e con evidente
disgusto per disgusto ed orrore trasmettere nei confronti dello sporco
"lavoro", dell'infame "missione", di chi tortura e sevizia; e ad un tempo
per denunciare con esatta sintesi ermeneutica la ferocia del paradigma
fallocratico. Nei prossimi giorni riproporremo altri materiali estratti da
questo e dal precedente fascicolo di "Via Dogana". Ringraziamo le amiche
della Libreria delle donne di Milano per averci messo a disposizione questi
testi che contengono riflessioni che sentiamo decisive. Per richiedere "Via
Dogana" (rivista la cui lettura vivamente raccomandiamo) e per contattare la
Libreria delle donne di Milano: e-mail: info at libreriadelledonne.it, sito:
www.libreriadelledonne.it. Diana Sartori e' filosofa e lavora da sempre con
la comunita' filosofica femminile di Diotima. Insieme a Barbara Verzini
coordina la rivista on-line di Diotima "Per amore del mondo"
(www.diotimafilosofe.it); fa parte anche della comunita' scientifica
femminile "Ipazia". Ha contribuito a vari volumi collettanei, tra cui:
Mettere al mondo il mondo, La Tartaruga, Milano 1990; Autorita' scientifica,
autorita' femminile, Editori Riuniti, Roma 1992; Oltre l'uguaglianza,
Liguori, Napoli 1995]

"Insopportabile" e' la parola che Lia Cigarini ha scelto per dire della
guerra in corso in Iraq e delle foto delle donne militari americane con i
prigionieri e i morti iracheni. Non so se e' la parola giusta, e nemmeno se
c'e' una parola giusta quando come in questo caso vengono meno le parole.
Qualcosa ha risuonato in me di quella insopportabilita' della guerra e mi ha
richiamato le parole di Simone Weil sulla sventura: "Ogni secondo che passa
trascina un essere nel mondo verso qualcosa che egli non puo' sopportare"
(Quaderni, I, p. 235).
Si', c'e' qualcosa di questa sventura nella guerra e certo nella sorte di
chi e' travolto dall'orrore suo malgrado, "che non potra' sopportare e che
tuttavia verra'". Per gli sventurati e per quanto c'e' di fatale,
indominabile, incontrollabile in una guerra. E per quanto in essa c'e'
comunque di sempre soprattutto subito, patito.
Pero' la parola per il resto c'e', ed e' "male". Col che si e' forse solo
sulla soglia della prima parola che vien da dire, o forse all'estremo
dell'ultima che si puo' dire. All'estremo: solo prima dell'inizio o alla
fine del discorso, solo all'inizio che spinge alla politica oppure ormai la'
dove finisce la politica. Perche' come il male e il dolore tolgono la parola
cosi' la guerra fa questo, toglie la parola e toglie la politica. Si dice:
la politica della forza, parlano le armi, solo che proprio non sono parole e
non e' politica. Anche se il tempo della forza e della guerra sembrano
capaci di imporre la loro logica ad ogni altra logica, ad ogni altro
discorso e tempo, chiedendo di rispondere in quei termini, in quella logica,
in quei tempi.
E' una richiesta forzosa che spinge a ottenere una risposta forzata che a
sua volta rafforzi la pretesa di assolutezza e necessita' della logica della
forza. Quella che proclama, ancora con le parole di Weil, che al mondo non
c'e' altra forza che la forza. O, in altre parole, che la forza e' la
sostanza del mondo e della politica. Con l'effetto, collaterale si' ma
niente affatto secondario, che ogni altra pratica del mondo e della politica
appare inesorabilmente destinata all'inefficacia e alla vacuita'. Quando al
mondo domina il realismo politico ogni altra politica subisce un effetto di
irrealta' e sembra perdere la presa sul mondo. Cosi' viene quella parola:
impotenza.
*
Anche Lia Cigarini la usa, e coglie certamente un sentimento comune, lo ho
avvertito in molte e molti, piu' donne che uomini di buona volonta' e
solitamente niente affatto inclini all'inazione politica o all'indifferenza
per il mondo. Fossero o no esplicitamente sollecitati a fare qualcosa, o
quanto meno a dare una risposta di fronte alla guerra, la prima parola era
quella che dava voce al sentimento di impotenza. Parlo naturalmente di
quelle e di quelli che per sensibilita' e pratica politica non giudicano sia
una risposta politicamente adeguata limitarsi a dar voce all'orrore,
all'indignazione o alla rabbia, con tutto che le loro manifestazioni mi
sembrano sacrosante, purche' non siano parole e azioni che servono a
mettersi a posto la coscienza, che vanno a riempire il vuoto aperto
dall'impotenza.
C'e' infatti anche della verita' nell'impotenza e nel guardarla lucidamente,
piu' potente di qualsiasi immaginazione di potenza, e certo di piu' della
potenza immaginaria e delle sue rappresentazioni. Ma non e' questo il punto,
non intendo affatto raccomandare di fissare dritto lo sguardo all'impotenza.
Piuttosto di tenerlo sgombro da quell'effetto collaterale dell'emergenza
della guerra per cui la forza attrae a se' ogni sguardo distogliendolo da
ogni altra realta' che sembra di colpo svaporare nell'irrealta' e
nell'impotenza. Tenere ferma l'attenzione proprio li' dove la si era
appuntata, al punto di mira della realta' proprio li' dove stava. Ricordare
e insistere a ricordare che la politica non puo' niente contro la guerra
finche' la politica e' pensata sul modello della guerra. Se non si rompe la
continuita' della politica con la guerra, continueremo a pensare la guerra
in continuita' con la politica. Non e' proprio una cosa facile da fare, anzi
certe volte, e questa e' una, sembra quasi che si lasci cadere il mondo.
Le volte che mi e' capitato nell'occasione delle tante guerre di questi
anni, per via del sorgere di un improvviso bisogno di parola femminile, di
essere richiesta di parlare, di dire o fare qualcosa di fronte all'orrore,
ho sentito bene questa difficolta'. La guerra faceva apparire inetta e
impotente la politica in cui avevo scommesso, di questo mi si chiedeva
conto, e la mia preoccupazione ancor piu' che per la guerra era per questo
sentimento di scacco. A dirlo mi sentivo un mostro, mentre lo dico mi sento
cosi' anche adesso. Eppure piu' del dolore e delle sofferenze e delle
offese, dei morti di questo tempo di guerra quel che mi tocca di piu' e' la
sorte di quella dimensione di vita, di senso, di pratica della nostra
politica civile, prossima, quotidiana, del tempo di pace. Del rischio di
questa vittima mi preme di piu', di cio' in cui finora riponevo il senso e
la fiducia, anzi ripongo proprio in questo momento, per quanto in mezzo a
questo attacco di negativita', bombardamento al senso, esodo forzato dai
luoghi della vita e della politica. Forse c'e' davvero, letteralmente, qualc
osa di male in questo mio sentire, forse e' la contaminazione di questo male
corrente che si abbatte sulla presunzione di una vita pacificata,
privilegiata e protetta tanto da crogiolarsi nell'irenismo. Puo' essere, e
tuttavia sento che c'e' in tutto questo qualcosa di vero, se quello che per
me e' essenziale del mio modo di intendere il vivere, il pensare e l'agire
finisce per apparirmi di colpo mostruoso. Se la realta' pare improvvisamente
stare da un'altra parte, non li' dove vivevo.
*
Ora il realismo declama il linguaggio elementare della forza, sono parole
rozze ma colpiscono duro e vanno a fondo. E li' sul fondo ci si sente
impotenti. Il sentimento che prende ora e' quello che la vita, la politica,
il linguaggio stesso pensati altrimenti siano impotenti di fronte alla
forza, che impone lei la sua misura di realta'. Come faccio adesso a dire
che la realta' e' altrove da dove adesso sembra? Che e' sempre li' dove
stava prima, cosi' come li' dove stavano prima stanno la mia forza, la mia
potenza, la mia efficacia? Come si fa a dirlo a chi adesso si sente
impotente? E di quella impotenza non del proprio dolore, ma del dolore
altrui.
La spinta a dire, fare qualcosa e' fortissima, attrae a se' ogni mossa. Ma
dire, fare, in forza di che? Con quale agire politico? A una come me, che
pratica la politica delle donne, viene naturalmente da pensare alla Virginia
Woolf delle Tre ghinee: quello, allora ricordo, che e' un testo natale del
femminismo della differenza, nasce proprio sulla spinta della guerra e con
davanti agli occhi le foto dei suoi orrori. Quante volte si e' dovute
tornate e ritornare su quelle pagine, tutte le ricordiamo, e ricordiamo
soprattutto che li' c'e' quella parola, "estraneita'". Ce la ricordiamo
cosi' bene, dal nostro presente di oggi che la rende politicamente
consegnata al passato, che quasi ci dimentichiamo che quel che fa Virginia
con quelle foto li' sul suo tavolo non e' proprio teorizzare l'estraneita'
come posizione femminile, ma prima di tutto interrogarsi sull'efficacia
dell'azione femminile, su dove stia la sua forza. Col che porta lei stessa,
le foto, il tavolo e il chiuso della sua stanza tutta per se' nello spazio
aperto della realta', della politica, e li' al cuore della sua forza.
E' passato, noi stesse ora stiamo con forza in quella realta' aperta. Pero'
sui nostri tavoli ci sono ancora le foto dell'orrore.
E' diverso, pero', qualcosa e' cambiato. Anzi dopo le foto della soldatessa
Lynndie, come ha detto Ida Dominijanni, tutto e' cambiato. E non perche' sia
caduta l'illusione della naturale bonta' femminile, che quella non c'entra
nulla con l'esercizio della liberta' femminile. E quelle foto non pongono
una questione alla bonta', ma alla liberta'.
*
Fa bene Lia Cigarini a dire che c'e' una domanda che quelle foto impongono
al senso della politica della liberta' su cui lei, tante abbiamo scommesso.
A osservare che quelle foto, nel modo piu' brutale e estremo, non possono
non evocare i fantasmi di tutte quelle, tante, donne che vogliono "rigare
dritto secondo le regole maschili e guadagnare qualcosa". Che cosa e' questo
guadagno? Ma si guadagna poi qualcosa? Cercando anch'io di trovare parole
anch'io con le foto sul tavolo ho scritto un pezzo per la rivista di diotima
in rete ("per amore del mondo"). Ero turbata, piena d'ira, e le parole ancor
piu' che in lingua corrente mi sono venute in lingua scurrile, e il titolo
e' stato "Missione del cazzo, soldato Lynndie". Anche a me si e' parata
davanti l'immagine, quella si' mostruosa, della donna devota alla mimesi
fallica e al desiderio maschile. Lo confesso di nuovo, il senso di orrore
era anche piu' forte di quello mosso dalle torture, dall'abiezione, dai
corpi umiliati. Ho sentito di un'altra umiliazione, altrettanto
insopportabile.
Il tempo e' passato, Virginia, al corteo degli uomini colti e anche a quello
degli incolti tante donne si sono unite, e alla domanda su dove ci conduce
quel corteo abbiamo la risposta.
Le ghinee, poi, le abbiamo fatte fruttare e ora sono molte di piu'. La
nostra influenza non e' piu' solo quella sugli uomini influenti. La liberta'
femminile e' venuta al mondo, sta nel mondo, fa mondo. Qui viviamo, quegli
uomini non mi cacceranno nell'estraneita', la forza della guerra, la forza
della forza non mi fara' diventare anch'io profuga dai luoghi della vita,
non mi deve esiliare e allontanare da dove ho vissuto, dal senso di quella
vita, perche' quello e' il solo luogo dove si puo' vivere, l'unica realta'
vitale, l'unica risorsa e l'unica forza. La sento la minaccia, certo, ma non
sto parlando di Lynndie e della sua schifosa missione impossibile, parlo di
altre missioni femminili, missioni in tempo di pace di sedicenti femministe,
per conto mio altrettanto impossibili se parliamo delle liberta' di una
donna, si', ma pericolose. Quelle sono insopportabili, e, ormai va detto,
ora politicamente intollerabili.

4. RIFLESSIONE. EDOARDA MASI: LU XUN, CLASSICO SOLITARIO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 gennaio 2005.
Edoarda Masi e' nata a Roma nel 1927, intellettuale della sinistra critica,
di straordinaria lucidita', bibliotecaria nelle biblioteche nazionali di
Firenze, Roma e Milano, ha insegnato letteratura cinese nell'Istituto
Universitario Orientale di Napoli; ha vissuto a Pechino e a Shangai, dove ha
insegnato lingua italiana all'Istituto Universitario di Lingue Straniere. Ha
collaborato a numerose riviste, italiane e straniere, tra cui "Quaderni
rossi", "Quaderni piacentini", "Kursbuch", "Les temps modernes". Tra le
opere di Edoarda Masi: La contestazione cinese, Einaudi, Torino 1968; Per la
Cina, Mondadori, Milano 1978; Breve storia della Cina contemporanea,
Laterza, Bari 1979; Il libro da nascondere, Marietti, Casale Monferrato
1985; Cento trame di capolavori della letteratura cinese, Rizzoli, Milano
1991. Tra le sue traduzioni dal cinese in italiano: Cao Xuequin, Il sogno
della camera rossa, Utet, Torino 1964; una raccolta di saggi di Lu Xun, La
falsa liberta', Einaudi, Torino 1968; e Confucio, I dialoghi, Rizzoli,
Milano 1989.
Lu Xun, scrittore cinese, nato nel 1881 e scomparso nel 1936, al magistero
letterario uni' l'impegno democratico per la trasformazione della societa'.
Opere di Lu Xun: in italiano per la saggistica la migliore antologia e' La
falsa liberta', Einaudi, Torino 1968; per la narrativa, Fuga sulla luna, De
Donato, Bari 1969, Garzanti, Milano 1973; ma in Lu Xun i generi letterari
sono fortemente intrecciati. Altri volumi: Cultura e societa' in Cina,
Editori Riuniti, Roma 1962, 1974; La vera storia di Ah Q e altri racconti,
Feltrinelli, Milano 1955; Letteratura e sudore, Mazzotta, Milano 1978;
Storia della letteratura cinese, Editori Riuniti, Roma 1960]

Il consenso massmediatico ai successi della Cina nella competizione
economica internazionale e nella velocissima e superficiale imitazione di
usi e costumi europei-americani-giapponesi ignora la realta' autentica di
quel paese, la sua civilta', la sua storia lontana e recente.Trascura le
strade maestre della conoscenza, come la lettura dei grandi saggisti, primo
fra tutti Lu Xun.
Personaggio a un tempo centrale e solitario, Lu Xun oggi e' un classico,
incontestabilmente il piu' grande scrittore cinese del Novecento e fra i
maggiori della saggistica mondiale. Eppure fu attaccato per anni da ogni
parte, in vita, fino a quando la sua figura si impose al pubblico in misura
tale da rendere sconsigliabili gli attacchi, come pure la persecuzione
politica aperta. Ma rimane profonda l'ostilita' in molti settori
intellettuali, e periodicamente riemerge.
Il suo primo racconto, Il diario di un pazzo, fu accolto come una svolta
storica nelle lettere cinesi. La novita' non consisteva nel fatto che fosse
scritto in volgare: gran parte della narrativa, inclusi alcuni dei massimi
capolavori, era stata scritta in lingua parlata. E non sarebbe stato una
novita' neppure il carattere eterodosso, la sua opposizione alla morale e ai
principi tradizionali e ufficiali: le piu' grandi opere della letteratura
cinese sono opere di opposizione piu' o meno velata. Ma qui non si trattava
di eterodossia all'interno di un contesto ma di rovesciamento: l'intera
civilta' cinese era messa sotto accusa: "quattromila anni di cannibalismo".
L'espressione "mangiatori d'uomini" (cannibali) sarebbe divenuta in breve
proverbiale, ed e' impiegata ancora oggi.
*
Quanto alla "via dei re" - il buon governo - non e' cosa diversa dalla "via
dei tiranni". Se lo scandalo non fu poi cosi' grande, tranne che presso i
conservatori, e' perche' le condizioni di una rivoluzione formidabile erano
gia' mature e Lu Xun dava voce a quello che molti gia' sentivano e
pensavano. La gerarchia e' il dato sociale fondamentale. "In cielo ci sono
dieci soli, fra gli uomini ci sono dieci classi. Gli inferiori servono i
superiori, i superiori obbediscono agli spiriti immortali. Cosi' i principi
hanno sottoposti i duchi, i duchi i grandi dignitari, i grandi dignitari i
gentiluomini, i gentiluomini i funzionari medi, i funzionari medi i
funzionari di grado piu' basso, i funzionari di grado piu' basso gli
impiegati, gli impiegati i servi, i servi i servi di infimo grado (...)
Pero' per i servi di infimo grado non e' assai penoso non aver sottoposti?
Non c'e' da preoccuparsi: ci sono, ancor piu' in basso, le mogli, ancor piu'
deboli, i figli. E anche per i figli c'e' speranza, cresceranno (...) A
ciascuno tocca il suo (...) Questa civilta' non solo inebria gli stranieri
ma ha gia' inebriato tutti quanti i cinesi, fino a farli sorridere".
Lu Xun deride i cinesi ignoranti e assoggettati, che rivendicano vuote
glorie e peculiarita' nazionali e superiorita' morale. Con strazio senza
perdono si denuda nell'alienazione estrema di personaggi come Ah Q o Kong
Yiji. Attacca i funzionari delle classi dirigenti vecchie e nuove e in
formazione, "rinviando il fair play" e guardando in faccia senza rimuoverla
la condizione propria di abitante della periferia.
*
Svestito l'abito della civilta' centrale offesa, e' realmente cosmopolita
perche' colonizzato, nella miseria, fra i colonizzati del mondo. Anche i
letterati occidentalizzanti e i sostenitori della "letteratura
rivoluzionaria" furono oggetto della polemica e dell'ironia di Lu Xun.
"Figli ribelli di famiglie decadute": i membri della Chuangzao she (la
"Societa' creazione") in particolare, dove decadentismo e lotta politica,
romanticismo e rivoluzione, Nietzsche e surrealismo si mescolavano in un
unico zibaldone, nutrimento del ribellismo di un ceto medio nascente. Erano
gli stessi che attaccavano Lu Xun per i vizi di piccolo borghese, per la
debolezza sentimentale e l'atteggiamento di spettatore alla finestra (anzi,
con lo sguardo un po' annebbiato, da una finestra d'osteria). E' compito
degli intellettuali evitare la demagogia e aiutare il popolo a liberarsi
dall'ignoranza e dai pregiudizi, che gli vengono dalla inferiorita' anche
culturale imposta dalle classi dominanti. "Gli studiosi (...) spesso credono
che espressioni relativamente nuove e difficili possano capirle loro ma non
le masse e che quindi per il bene di queste sia necessario sbarazzarsene:
per essi, piu' si e' rozzi nel parlare e nello scrivere, meglio e'. Se
questa opinione si sviluppa, senza accorgersene finiranno per diventare una
nuova corrente sostenitrice delle peculiarita' nazionali. (...) E arrivano,
per 'adeguarsi' alle masse, a deliberatamente impiegare espressioni volgari
per guadagnarne il consenso (...)".
*
Perfino la possibilita' di comunicare per mezzo di una lingua comune
restera' sterile privilegio del letterato, finche' non si estendera' a
tutti: e' necessaria, per questo, la rivoluzione politica.
Ma a cominciare dagli anni successivi alla fondazione della Repubblica Lu
Xun e' consapevole anche dell'insufficienza della politica. Prima che la
liberazione maturi, il rinnovamento ancora in embrione tornera' a
imputridire, riemergeranno le strutture del vecchio ordine, si riaffermera'
la morale di colpevolizzazione degli individui e di invito al sacrificio, a
garantire lo stato di oppressione del popolo. Alla necessita' dell'azione
politica e alla sua inadeguatezza fanno riscontro il significato peculiare
e, ad un tempo, l'insufficienza della letteratura come strumento di
rivoluzione. E l'insufficienza anche dei "lumi" che il letterato puo'
trasmettere; piu' e piu' volte la realta' delude le speranze di mutamento.
Lu Xun e' fra gli scrittori che fin dall'inizio hanno avuto chiaro questo
aspetto tragico del XX secolo, e per esso hanno visto cancellato o irriso il
senso delle proprie parole.
*
Dal 1927 fino alla morte vive a Shanghai del lavoro di scrittore. Come
decano partecipa alla fondazione della Lega degli scrittori di sinistra.
Sembra che in questa fosse rispettato di piu' e contasse di fatto meno dei
piu' giovani attivisti e organizzatori. Nell'indirizzo ad essi rivolto nel
1930 individua con una chiarezza precorritrice i fenomeni di integrazione
della sinistra nel sistema dominante. In realta' - come risulta anche
dall'epistolario nei primi anni trenta - egli ha una coscienza lucida sia
della propria condizione contraddittoria nel rapporto con la politica, sia
della incompatibilita' fra rivoluzione e attivita' autoconservatrice degli
apparati.
Ormai e' in corso la rivoluzione, la guerra civile nelle campagne e la lotta
clandestina nella citta'. Lu Xun sa che il discorso letterario e'
un'allegoria. Allegorie sono perfino la professione di scrittore e le
organizzazioni di scrittori. I giovani "scrittori di sinistra" sono in
realta' militanti comunisti che svolgono attivita' politica clandestina piu'
che attivita' letteraria. Vengono uccisi prima di raggiungere l'eta' in cui
generalmente si e' abbastanza maturi per diventare veri scrittori - qualche
loro poesia ha la bellezza di un grido o di un lamento.
La Lega e' uno strumento del partito comunista per organizzare non tanto gli
scrittori quanto la lotta politica. Se ne occupa, clandestinamente, Qu
Qiubai, che e' stato segretario del Pcc. Lu Xun collabora con lui, lo ospita
nella sua casa. Durante le repressioni del Guomindang nel 1930-'31 e'
ricercato dalla polizia ed e' costretto a fuggire con la famiglia e a
nascondersi. Sono vicende che rientrano nella "normalita'", coperte dalla
normalita' della vita quotidiana e dell'attivita' di scrittore. Non c'e'
piu' bisogno ne' possibilita' di confondere e surrogare la rivoluzione con
la letteratura rivoluzionaria.
*
Con l'invasione giapponese e la guerra di resistenza, la guerra civile e'
formalmente sospesa, il partito nazionalista e il partito comunista
promuovono nel 1936 il fronte unito - in obbedienza, in Cina come in Europa,
alle direttive dell'Internazionale comunista.
Nel periodo iniziale il mondo della cultura ebbe un ruolo rilevante nella
sua formazione. Nella contingenza di un'apparente uscita dal settarismo da
parte dei comunisti, di una liberalizzazione e apertura a tutte le correnti,
si accentuava la pretesa delle dirigenze politiche di imporre le proprie
direttive alla letteratura, in particolare definendone le tematiche. Da
queste infatti la lotta di classe doveva essere esclusa, o dovevano esserne
smussati i termini, per porre al centro l'antifascismo e la difesa
nazionale.
In Cina come in Europa, la protesta contro la svolta in questi termini venne
da grandi scrittori comunisti di spirito non servile (in Europa, in primo
luogo da Bertolt Brecht al Primo congresso internazionale degli scrittori
per la difesa della cultura, a Parigi nel 1935). Nel medesimo periodo Lu
Xun, gia' quasi dal letto di morte, interviene in quella che fu chiamata "la
battaglia degli slogan". Affinche' l'alleanza sia la piu' larga e aperta -
egli sostiene - ciascuna sua componente deve conservare la propria
identita'; cosi', per i comunisti, i fini e i contenuti propri non possono
essere sostituiti dal solo tema della "difesa nazionale". La "letteratura di
difesa nazionale" e' la porta aperta al patriottismo-nazionalismo, la
mistificazione per anni presa di mira dalla sua satira.
Egli accetta un fronte di lotta fondato sull'alleanza di classi diverse e di
gente con opinioni diverse, per interessi temporaneamente e parzialmente
comuni contro un comune nemico. "Non e' che i letterati rivoluzionari
debbano metter da parte il compito di guida della classe; anzi questo
compito si deve fare ancor piu' pesante ed esteso". La "letteratura di
difesa nazionale", cioe' il fronte unito indiscriminato e non qualificato,
equivarrebbe alla proposta di battersi per gli interessi del nemico di
classe (non opposti ma in competizione con quelli dell'aggressore
imperialista). Ma Lu Xun va piu' in la', quando afferma che ciascuno
scrittore puo' partecipare alla comune resistenza contro il nemico adottando
qualsiasi forma e trattando di qualsiasi argomento. La liberta' di essere e
restare comunisti si associa alla rivendicazione di autonomia dello
scrittore in quanto tale dall'autorita' politica. "La politica mira a
bloccare le condizioni presenti realizzando l'unita' (...) La letteratura
provoca la scissione della societa' (...)", aveva scritto nel 1927. Nel
momento in cui la scelta rivoluzionaria e' contro "la politica" che "mira a
realizzare l'unita'", gli interessi del popolo e quelli dello scrittore
tornano a coincidere.
*
Postilla: Una notizia biografica
Nato nel 1881 a Shaoxing in una famiglia impoverita della piccola nobilta'
locale, Lu Xun - pseudonimo di Zhou Shuren - fu allevato dalla madre (dal
cui cognome derivo' il suo Lu) perche' il padre era malato e il nonno
funzionario era in prigione.
Nel 1897 si trasferi' a Nanchino, e dal 1901 in Giappone, dove entro' nella
facolta' di medicina dell'universita' di Tokyo, lasciando gli studi nel 1909
quando decise di tornare in Cina per svolgervi attivita' letteraria. Nel
corso del periodo giapponese lo scrittore comincio' a sviluppare i suoi
rapporti con la cultura occidentale e a tradurre dal russo e dalle
letterature slave e scandinave, e a Tokyo partecipo' all'attivita' politica
degli studenti cinesi, a carattere progressista e patriottico.
Di nuovo a Shaoxing, la sua citta' natale, insegno' per qualche tempo fisica
e chimica, ma con la rivoluzione del 1911 divenne direttore della scuola
normale e nel 1912 si trasferi' a Pechino come funzionario del ministero
della pubblica istruzione, carica che ricopri' fino al 1926.
Nel 1918 su "Hsin ch'ingnien" ("Gioventu' nuova"), la principale rivista del
movimento per la nuova cultura, usci' il suo racconto Diario di un pazzo. In
quel periodo Lu Xun aderi' al "movimento del 4 maggio" e nel 1921 pubblico'
il suo testo piu' famoso, La vera storia di Ah Q.
Costretto nel 1926 a lasciare Pechino in mano ai signori della guerra, fu
all'universita' di Amoy e poi a quella di Canton, ma dopo i massacri
dell'aprile 1927 si ritiro' a Shanghai, dove rimase fino alla morte,
avvenuta nel 1936.
Gli ultimi anni furono segnati da un'intensa attivita' politica: nel 1930
entro' a far parte della neonata Lega degli scrittori di sinistra e
partecipo' in primo piano alla "battaglia degli slogan", la rivendicazione
contro le strumentalizzazioni dei burocrati per il diritto-dovere degli
scrittori a non scendere a compromessi sul piano teorico e ideologico.

5. LETTURE. AMNESTY INTERNATIONAL: UN ALTRO MONDO E' POSSIBILE... CON I
DIRITTI UMANI
Amnesty International, Un altro mondo e' possibile... con i diritti umani.
L'azione di Amnesty International per i diritti economici e sociali,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 2004, pp. 32, euro 3. Un utile opuscolo che
segnala anche alcune rilevanti campagne specifiche di Amnesty International.

6. LETTURE. ERASMO DA ROTTERAM: PACE E GUERRA
Erasmo da Rotterdam, Pace e guerra, Salerno Editrice, Roma 2004, pp. 228,
euro 12. A cura di  Italo Francesco Baldo, quattro classici testi erasmiani:
la Oratio de pace, la Querela  Pacis, il De bello Turcis inferendo, la
Precatio pro pace Ecclesiae. Traduzioni eleganti, note accurate, un
pregevole apparato. Rileggere Erasmo, questo nostro antico e sempre attuale
maestro e campione, e' ogni volta una festa dello spirito.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 814 del 19 gennaio 2005

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