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La domenica della nonviolenza. 4
- Subject: La domenica della nonviolenza. 4
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 16 Jan 2005 12:38:29 +0100
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 4 del 16 gennaio 2005 In questo numero: 1. Enrico Peyretti: Pensare la nonviolenza 2. Roberto Mancini: La nonviolenza, respiro e risveglio della vita umana 3. Gianni Vattimo: Ironie nonviolente 4. Antonio Vigilante: Forzare la verita' 5. Una bibliografia minima di riferimento 1. EDITORIALE. ENRICO PEYRETTI: PENSARE LA NONVIOLENZA [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recentissima edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario. Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004. Per acquistare il libro (Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Edizioni Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 [edizione originale: Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995], pp. 336, euro 15, rivolgersi alla casa editrice: tel. 0502212056, fax: 0502212945, e-mail: info-plus at edizioniplus.it, sito: www.edizioniplus.it] Chi ha interessi e seria attenzione per i maggiori problemi del nostro tempo, quindi per il pensiero e la costruzione della pace nonviolenta e positiva (non la sola sospensione della guerra), sapra' valutare, anche criticamente, questo lavoro (Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus, Pisa 2004) che entra tra i classici della cultura nonviolenta; e vorra' farlo conoscere negli ambienti di studio e di impegno con cui e' in contatto. Come nota Roberto Mancini, dell'Universita' di Macerata, nella ricca prefazione, Muller non ha sviluppato del tutto, su violenza e nonviolenza, quella "implicazione metafisica di fondo", sulla quale Mancini utilmente impegna il suo contributo individuando nella "razionalita' vittimaria" delle culture dominanti l'oggetto della sua analisi critica. Il merito e valore del libro di Muller, che parla con un linguaggio chiaro ad ogni lettore attento e non ai soli filosofi specialisti, sta nei seguenti maggiori nodi interessanti: - la chiarificazione concettuale dei termini (forza, violenza, conflitto, aggressivita', costrizione, lotta), necessaria per togliere l'equivoco di una nonviolenza passiva e rassegnata; - l'individuare la sorgente della ricerca filosofica - come dice gia' il titolo - nello scandalo insopportabile e impegnativo della violenza; - l'indicazione che non si puo' superare la violenza eterodossa, estremistica (oggi il terrorismo) se non si riduce progressivamente la violenza ortodossa, legalizzata, istituzionale (guerra, economia violenta, sistema penale); - la discussione stringente, sul piano logico e su quello fattuale, con i filosofi di ieri e di oggi sostenitori della "ideologia della violenza"; - l'indicazione di vie positive alternative per un pensiero e un'azione in grado di costruire pace. 2. RIFLESSIONE. ROBERTO MANCINI: LA NONVIOLENZA, RESPIRO E RISVEGLIO DELLA VITA UMANA [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero:it) per averci messo a disposizione questo testo di Roberto Mancini, dell'Universita' di Macerata, apparso come prefazione al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus, Pisa 2004. Roberto Mancini, nato nel 1958, e' docente di ermeneutica filosofica presso la facolta' di Lettere e filosofia dellí Universita' di Macerata. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Comunicazione come ecumene. Il significato antropologico e teologico dell'etica comunicativa, Queriniana, Brescia 1991; L'ascolto come radice. Teoria dialogica della verita', Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995; Esistenza e gratuita'. Antropologia della condivisione, Cittadella Editrice, Assisi 1996; Etiche della mondialita'. La nascita di una coscienza planetaria, Cittadella Editrice, Assisi1997 (in collaborazione con altri); Il dono del senso. Filosofia come ermeneutica, Cittadella Editrice, Assisi 1999; Il silenzio, via verso la vita. (Il codice nascosto. Silenzio e verita'), Edizioni Qiqaion, Magnago 2002; Senso e futuro della politica. Dalla globalizzazione a un mondo comune, Cittadella Editrice, Assisi 2002] Questo libro di Jean-Marie Muller giunge ora al pubblico italiano grazie alla traduzione competente e amorevole di Enrico Peyretti, il quale ha saputo riconoscere per primo il valore e l'utilita' della riflessione mulleriana per la cultura del nostro paese. Un paese in cui le grandi tradizioni popolari, compresa la loro espressione politica, sono rimaste sino a oggi in gran parte estranee alla filosofia della nonviolenza. La cultura cattolica, quella comunista, quella socialista e quella laica, per richiamare le fonti della stessa Costituzione della Repubblica, non si sono spinte quasi mai, soprattutto nelle loro versioni canoniche e piu' diffuse, a pensare la nonviolenza come principio della vita personale e sociale e come metodo dell'agire politico. Cosi' una figura come quella di Aldo Capitini, nel suo tentativo di seguire fino in fondo la via della teoria e della prassi della nonviolenza in Italia, e' rimasta apolide, unica, quasi incomprensibile secondo i parametri abituali della cultura del nostro paese. Chiunque abbia cercato o cerchi attualmente di far maturare una svolta nonviolenta all'interno della propria tradizione ha dovuto e deve fare i conti con resistenze fortissime, come accade oggi, ad esempio, nel Partito della Rifondazione Comunista o come accade di norma a quanti hanno percorso questa strada nella Chiesa cattolica. E chi facesse qualcosa di analogo nel contesto delle altre forze politiche, in tutto l'arco del loro schieramento, sarebbe guardato come un ingenuo, un irresponsabile, oppure un furbo che punta in realta' a qualcosa d'altro. L'aspetto ironico della cosa sta nel fatto che proprio le tradizioni che, nella loro elaborazione concettuale, sono rimaste impermeabili al principio nonviolenza poi, nel modo di agire e talora anche di cooperare, l'hanno in certo misura praticato, consentendo all'Italia del secondo dopoguerra di vivere, nonostante molti limiti e contraddizioni, una sua forma di democrazia. E' l'esempio di come sia possibile anche in positivo - non solo in negativo, quando si commette un crimine in "buona fede" - non sapere veramente che cosa si fa, in questo caso senza rendersi conto in modo sistematico e definitivo di quanto la tessitura di una convivenza pacifica abbia il valore inestimabile di autentico principio del modo umano di stare al mondo. Proprio in tal senso Peyretti, nel tradurre il titolo originale del libro Le principe de non-violence, l'ha giustamente reso con Il principio nonviolenza: per sottolineare che qui non si tratta del principio di una realta' particolare chiamata nonviolenza, dunque di uno tra molti principi possibili, poiche' invece e' in gioco l'unico vero principio legittimo, umano, creativo e ragionevole della vita comune. * Il testo di Muller ha molto poco del trattato metafisico in senso tradizionale o comunque dell'opera di filosofia in quanto disciplina altamente specialistica. E' anzi un testo piuttosto diretto, pratico, di accessibile livello argomentativo e quindi opportunamente rivolto a un pubblico molto ampio. Proprio per questo esso non ha bisogno di un'introduzione che faciliti l'approccio alla sua comprensione. Per parte mia, nell'introdurne la lettura, desidero semmai metterne in luce l'implicazione metafisica di fondo, che rischia di rimanere in ombra poiche' l'autore, intento a seguire il filo della "ragionevolezza media" per il suo argomentare, non ne scandaglia specificamente lo strato piu' profondo. Questo fatto, che soprattutto a chi studia filosofia potra' sembrare un limite del testo, non comporta pero' lo scadere nella superficialit' sia perche' la riflessione mulleriana mantiene sempre la sua consistenza critica, sia perche' essa si muove su un piano intermedio tra approccio politico immediato e alta elaborazione teoretica senza mai rompere il filo delle implicazioni piu' metafisiche sottese al suo discorso. E' anche vero, d'altra parte, che piu' una riflessione si fa apertamente e intenzionalmente metafisica e piu' allontana da se' molti interlocutori con i quali invece puo' trovare effettivo consenso. Un consenso che consegue piu' facilmente se cerca una convergenza antropologica, etica e politica, preservando la legittimita' di un ventaglio di ipotesi diverse dal punto di vista delle visioni del mondo piu' generali. Percio' il lavoro di Muller puo' raggiungere meglio un vasto pubblico senza rinunciare a fare una proposta nitida e impegnativa, nella quale sono comunque indicate anche alcune coordinate teoretiche essenziali. * Prima di accennare alla fisionomia del percorso lungo il quale egli conduce lettrici e lettori, mi pare di poter riassumere il suo messaggio in un semplice invito. Se infatti il libro potesse parlare, come una persona viva, a chi si accinge a leggerlo, forse si udrebbe questo suggerimento pacato e fondamentale: "respira". Un invito a respirare. Infatti la logica e lo schema comportamentale che, come fosse ovvio, stringono alleanza con la violenza ci tolgono respiro, soffocano le energie migliori, la dignita', la liberta', il futuro delle persone e dell'umanita' intera. Adattarsi a vivere entro la tetra legge della violenza, facendo attenzione a chiamarla con nomi meno sgradevoli (difesa, sicurezza, giustizia, guerra legittima e umanitaria, lotta al terrorismo, competizione economica, mercato globale e cosi' via), significa sopravvivere senza respirare veramente. Nella sua portata esistenziale, "respirare" vuol dire poter essere se stessi nell'essere insieme agli altri, poter assumere la propria dignita' scoprendola nel contempo come legame originario con tutti e con il mondo, poter vivere senza ricorso a mezzi distruttivi. Forse e' in questo senso specifico che si puo' riprendere l'indicazione di Albert Camus, per il quale respirare e' gia' un giudizio di valore, e' scegliere la vita. Agostino ha parlato del tempo come "distensio animi". Ma il tempo, per noi, e' la condizione, la durata, il rinnovarsi appunto della vita. Il respiro cui alludo e' allora la "distensio vitae" di chi non e' piu' costretto ne' a dominare, ne' a essere dominato. E' il respiro della liberta', oggi completamente misconosciuta e rovesciata nella "liberta'" di rapinare, di abbandonare, di ignorare gli altri. La vita umana e quella del mondo stesso hanno bisogno della nonviolenza come i polmoni dell'aria. * Naturalmente, proprio per il retaggio delle nostre culture di violenza, per l'abitudine a oscurare anche le rivelazioni piu' luminose di quella vocazione, destinazione e verita' radicale che per noi e' la pace, un simile invito rimane impercettibile alla cultura corrente sia nelle sue elaborazioni piu' raffinate, sia al livello delle rappresentazioni ordinarie della quotidianita'. Gli "intellettuali" e la "gente", per usare due categorie sgradevoli ma ben conosciute nel linguaggio piu' diffuso, sono spesso accomunati dalla stessa estraneita' al messaggio della nonviolenza. Perche' la logica violenta che ha non solo inquinato, ma spesso strutturato le tradizioni dei popoli e le diverse visioni del mondo - secondo quello che Rene' Girard ha chiamato uno schema transculturale capace di superare i confini delle opposizioni religioso-non religioso, occidentale-orientale, antico-moderno - rinserra il nostro orizzonte percettivo e riflessivo entro un quadrilatero di barriere difficili da abbattere. Ecco i quattro sbarramenti in forma di proposizioni fondamentali che segnano i confini del senso della questione per il pensiero comune: 1. e' ovvio che la nonviolenza sia desiderabile in teoria; 2. e' ovvio che pero' non sia praticabile; 3. e' ovvio che in teoria la violenza sia da condannare; 4. e' ovvio che pero' la violenza sia da praticare nella realta'. Consegnandosi a questa sequenza "in teoria - pero'", il pensiero crede di essere vigile, attento alla concretezza del reale, giacche' sente di poter distinguere al tempo stesso bene e male, realta' e irrealta'. In verita', cosi' facendo, il pensiero si lascia accecare, annegando nell'apparente ovvieta'. Adattarsi a pensare e a organizzare la propria sopravvivenza entro questo quadrilatero di illusorie ovvieta' significa tentare, in modo inconscio o parzialmente consapevole, di venire a patti con la morte e con il male, di cui la morte stessa e' il paradigma essenziale. La violenza, per lo piu' creduta frutto di passioni irrazionali o di una natura malvagia che ci destina sin dall'inizio alla ferocia agita e subita, esprime e alimenta una Weltanschauung profondamente radicata nell'animo umano, in strati piu' viscerali e originari di quelli delle filosofie di vita (religiose, atee, variamente metafisiche) che assumiamo consapevolmente. Tale Weltanschauung e' data da un sentire-e-pensare secondo la morte, dove questa e' identificata come la destinazione e la verita' ultima della vita. La tesi di Girard secondo cui la violenza e' il sacro nelle societa' umane, ossia la potenza suprema che definisce, sconvolge e ricrea l'ordine sociale, e' vera sul piano sociologico, ma va poi integrata e chiarita, sul piano metafisico, dalla tesi per cui la morte e' il sacro. Per questo gli uomini credono di poter vivere solo se la esorcizzano, la allontanano da se stessi trasferendola sugli altri, la addomesticano al volere di una divinita' che dispensa come vuole la vita e la morte stessa. Per la medesima ragione anche le religioni, una volta messa a tacere la loro componente creativa e profetica, affermano un nesso strettissimo tra il dio e la morte. La morte come pena, come sacrificio espiatorio, come destinazione eterna dei dannati, come espressione della volonta' divina, come danno da infliggere agli infedeli. Percio', anche nelle religioni in cui l'uomo e' presentato come figlio di Dio, i fedeli, in maniera sorprendentemente incongruente, si comportano per lo piu' come schiavi che supplicano il Padre di avere un occhio di riguardo e di non distruggerli. Come schiavi, oppure come mercanti furbi che, grazie ai loro lungimiranti sacrifici, puntano a meritare la vita come premio per i buoni servigi resi. * A questo punto e' necessario riprendere il tema del nesso, sopra appena sfiorato, di morte e male. La prima puo' essere riguardata anzitutto come il modello esplicativo per capire che cosa sia il secondo, giacche' gli esseri viventi vedono normalmente nella morte un male assoluto, che puo' divenire relativo solo in condizioni estreme, come ad esempio nella scelta tra sopravvivere o dare la vita perche' viva un'altra persona. Inoltre, la morte e' stata considerata come effetto del male, che infatti la produce nelle forme peculiari dell'omicidio, del genocidio e della guerra. Piu' radicalmente, pero', questi significati del rapporto tra morte e male vanno intesi alla luce della definizione dell'essenza del male stesso. Lungi dall'essere un mistero insondabile, mistero che riguarda semmai la liberta' e i suoi dinamismi, l'essenza del male e' conoscibile ed evidente. Il male e' distruzione: di vite, di relazioni, di valori, di futuro, di verita'. Dove c'e' il male e' all'opera una distruttivita' ostile alla vita e al mondo. Il male, detto con una categoria teologico-metafisica, e' anticreazione, annientamento, nullificazione. La violenza, in quest'ottica, e' l'espressione conseguente e operativa del male. Essa, appunto, "viola" nel senso che offende, ferisce, colpisce un fine, come sottolinea Muller; arreca distruzione a cio' che e' vivo, dotato di valore e di apertura al futuro. Se l'alternativa tra morte, male, violenza, da un lato, e nonviolenza, dall'altro, cosi' e' gia' prefigurata, nondimeno e' opportuno chiedersi ancora: perche' questa intuizione metafisica della potenza sovrana della morte e' decisiva per l'alternativa tra violenza e nonviolenza ? Perche' essa e' alla base di quella razionalita' vittimaria secondo cui e' necessario, naturale, giusto, efficace, produttivo e persino sacro dare la morte, fare vittime o comunque metterle in conto come un dato inevitabile. Le nostre istituzioni, le politiche, le economie, le ideologie, le religioni, i sistemi educativi, le gerarchie sociali, la stessa grammatica dei sentimenti e delle relazioni interpersonali sono infatti, in molti casi, percorse da questa razionalita' vittimaria che porta a diffondere la "morte" nelle sue molte forme possibili: eliminazione fisica, morte civile, abbandono, esclusione, discriminazione, persecuzione, giudizio morale, colonizzazione religiosa, dominio culturale o economico, fame, sottosviluppo, castrazione della personalita'. Le molte culture del mondo, pur avendo in misura differenziata nuclei creativi e vitali, sono tendenzialmente e in buona parte immerse in questa razionalita' vittimaria. E' su questo crinale che il libro di Muller viene a portare il suo invito al respiro e al risveglio. In tal senso, sebbene il testo sia scritto in forma piana, senza asperita' concettuali che scoraggino quanti per formazione sono distanti dall'indagine teoretica, e benche', come ho detto, non sia propriamente un libro di filosofia teoretica, le coordinate di fondo del suo discorso restano in un certo senso metafisiche. Perche' e' l'esistenza umana a essere metafisica: richiedendo il confronto con le ragioni della vita e con l'eventualita' inaggirabile della morte; esigendo un senso e una verita' per cui valga la pena di vivere; aprendo al futuro e spingendoci a chiedere quale sia la nostra origine e la fonte della nostra misteriosa dignita'. Muller mostra con grande semplicita' come e perche' la nonviolenza sia il principio di scoperta e di assunzione di queste correnti fondamentali del cammino umano. * Le coordinate metafisiche cui ho ora accennato sono indicate dall'autore nel secondo, nel terzo e nel quarto capitolo. Qui egli evidenzia come l'esistenza personale e quella collettiva siano chiamate a farsi ricerca di una verita' ultima e di un futuro che non coincidono affatto con la morte. Percio', afferma l'autore, l'esigenza di nonviolenza e' anteriore e piu' radicale rispetto alla tendenza che ci spinge verso la violenza. Ma una ricerca simile puo' nascere e svilupparsi soltanto se usciamo dal tragico equivoco alimentato dall'illusione di vincere la morte uccidendo altre vite. In proposito Muller e' giustamente sobrio: nel demistificare l'oscura alleanza con la morte non imbriglia il suo discorso lungo una risposta definitiva riguardo all'alternativa che identificherebbe la verita' positiva della nostra condizione. Non ne formula il nome proprio, non dice e' questo o quel Dio, oppure l'Essere, la Vita, la Natura o altro. Rispetta il mistero e lo spazio di quel nome come si fa con un campo di ricerca aperto e con un dono che eventualmente giungera' in maniera originale a chiunque accetti la nonviolenza come percorso di guarigione e di risveglio. La parola che ho usato, mistero, non deve fuorviare; non segna la rinuncia a pensare, a cercare, a conoscere. Nel terzo capitolo Muller fa vedere come l'esercizio del pensiero critico e della filosofia cominci con la revoca del consenso alla violenza e alla razionalita' vittimaria. Perche' il contrario della violenza, insieme alla nonviolenza, e', in definitiva, la verita'. Verita' liberatrice, fonte di incontro e di dialogo, fondamento di convivenza e forza che attrae all'umanizzazione. Chi sinceramente cerca la verita' deve impegnarsi ogni giorno a disattivare la violenza che scopre in se' e fuori di se': la nonviolenza e' condizione della relazione tra l'essere umano e il senso. Ed e' condizione di umanita'. Si potrebbe dire che qui si delinea il compito, apparentemente paradossale, di aderire a cio' che ci inerisce. Infatti la dignita' e' si' una realta' originaria di valore inscritta nel nostro essere, ma potremmo anche ignorarla o sfigurarla. Si tratta invece di assumerla, confermarla, inverarla lungo un cammino in cui impariamo a risanare le logiche e gli impulsi distruttivi che possiamo portare in noi o dai quali possiamo essere contagiati, per giungere invece a esistere in modo creativo. * Dopo aver dato conto nel primo capitolo di quante difficolta' si frappongano alla riuscita di questo percorso e dopo aver mostrato, nei capitoli successivi, il valore della nonviolenza come principio, Muller analizza i suoi principi, ossia le energie specifiche che ne fanno una via, un metodo, un modo concreto di essere, di agire, di cooperare, di convivere. Tra essi egli ricorda: la capacita' di instaurare uno spazio vero di convivenza spezzando la rivalita' mimetica tra gli uomini e interrompendone il contagio; la proprieta' di mantenere in armonia mezzi e fini dotando l'azione di autentica efficacia e di fecondita' storica; l'energia sprigionata dalla noncooperazione a potenze oppressive e regimi dominativi; la rilevanza e la legittimita' della disobbedienza civile; la responsabilita' della testimoninanza resa alla verita' prendendo la parola proprio quando questo e' rischioso e comporta la persecuzione; il potere pacifico espresso dal dissenso organizzato; la forza dell'umorismo come fattore di demistificazione critica e anche come elemento di autocoscienza ironica che aiuta a non cadere nello scoramento quanti vogliono percorrere la via della nonviolenza; la facolta' di correlare la giustizia con una forza che non sia violenza. Nei capitoli dal sesto al decimo, Muller si confronta con le ragioni della Realpolitik e di tutte le teorie che sono solite fare della violenza una necessita' ineludibile della storia e della politica. Lo fa con pazienza e pacatezza pari alla sua capacita' di attrarre la riflessione verso le possibilita' alternative latenti o anche parzialmente manifeste e gia' sperimentate. Per quanto autorevoli siano i fautori della tesi secondo cui la necessita' della violenza e' insuperabile - da Machiavelli a Hegel, da von Clausewitz a Weber -, Muller riesce a mostrare le aporie del loro discorso dischiudendo prospettive ben piu' fertili per il pensiero e per la prassi. A questa parte del testo seguono due confronti di grande rilievo. Il primo, sviluppato nei capitoli undicesimo e dodicesimo, e' quello con le istanze della ragione, presentate nell'ottica proposta da Eric Weil. Il secondo, affrontato nei due capitoli successivi, e' invece il confronto, ancor piu' diretto, con la verita' come interlocutrice fondamentale dell'esistenza umana. Qui Muller riprende la lezione di Gandhi, spesso ignorata o marginalizzata nel dibattito politico e nell'evoluzione della filosofia europea e americana dopo la seconda guerra mondiale. Mentre l'opinione ovvia nella nostra cultura stabilisce che la democrazia sia monopolio della tradizione occidentale e che essa possieda un valore universale il quale si realizza effettivamente nella misura in cui tutto il mondo si adegua a usi e costumi dell'Occidente, l'autore mette in luce come proprio a partire dall'esperienza gandhiana sia divenuto chiaro che l'autentica democrazia si da' solo attraverso la pratica sistematica della nonviolenza. Ora, poiche' la democrazia stessa e' uno stile di vita, e non un modello rigido o un mero nucleo di procedure elettorali e parlamentari, Muller richiama infine l'attenzione sul fatto che solo la maturazione di una cultura adeguata puo' fondare davvero una societa' democratica su scala nazionale, macroregionale e mondiale. * Per questa ragione il capitolo finale del libro e' dedicato alla possibilita' di una cultura della nonviolenza che prepari, instauri, sviluppi e tuteli la pace. La guerra, dal canto suo, non scoppia per una tempesta di forze emotive, non e' come una rissa occasionale. Al contrario, e' "scientificamente" e lungamente preparata nei cuori, nelle menti, nell'educazione, nella tecnologia e nella scienza, nelle strategie economiche e politiche, finche', un giorno, fattasi matura, esplode nella sua virulenza. Capire questo significa operare finalmente un decisivo cambiamento di prospettiva: dalla solita solfa che, un po' da tutte le parti politiche e ideologiche, fa l'apologia dei casi in cui la violenza e la guerra sono necessarie e persino sacrosante, si passa a una nuova visione. Si cominciano a vedere infatti tutti quei passi che, per tempo e nelle sedi giuste, preparano la pace. La pace come metodo, ossia come prassi e via quotidiana, che approssima la realizzazione della pace come fine. La cattiva risposta della violenza, scrive Muller, cede il posto alla buona domanda della nonviolenza: si apre cosi' lo spazio dell'azione politica come ricerca e allestimento incessante delle condizioni della convivenza nella pace. In una pace, precisa l'autore, che non e' inibizione o assenza di conflitti, perche' semmai e' il risanamento dei conflitti stessi dalla distruttivita', con la liberazione delle possibilita' di vivere la conflittualita' e di attraversarla di volta in volta in modo nonviolento. Questo nodo e' evidentemente cruciale: come dilatare la giustizia nella societa', risanando le ingiustizie ed eliminando le cause di frustrazione per popoli e continenti interi? Come trovare canali di espressione dell'aggressivita' umana tali da impedire che essa si trasformi in forza distruttiva e politicamente organizzata? Come correlare e porre in rapporto di reciproca traduzione dialogica le differenze culturali, etniche, ideologiche, religiose, economiche, evitando che si cristalizzino in mondi non piu' comunicanti tra loro che finiscono per rappresentare l'uno una minaccia mortale per l'altro? Nell'ultima parte della sua riflessione l'autore affronta tali questioni illuminando, proprio rispetto a esse, la profonda ragionevolezza e il sano realismo della nonviolenza. * Il discorso mulleriano non risolve certamente tutte le questioni. Non e' un prontuario di risposte preconfezionate alle domande suscitate dall'alternativa storica tra violenza e nonviolenza. Direi piuttosto che il testo serve a percepire la concreta radicalita' di questa alternativa, a non prendere piu' per buone le illusorie e tragiche risposte di chi confida nella violenza e nella sua cultura della morte. E serve a lasciarsi attrarre dall'energia della nonviolenza come da una spinta benefica per cercare soluzioni piu' adeguate alla nostra umanita', al mondo, alla verita' della storia, qualunque sia il suo nome proprio. Si tratta quindi di uno strumento per pensare, per agire socialmente e politicamente con lucidita', per continuare la ricerca senza malafede. E soprattutto per desiderare di tornare a respirare e di risvegliarsi, divenendo, da atomi accecati e irresponsabili di una societa' distruttiva, persone libere, responsabili, creative. Persone divenute veramente umane perche', grazie alla nonviolenza come evento individuale e comunitario di nuova respirazione e di risveglio, hanno finalmente iniziato a vedere gli altri e a vedersi. L'esperienza della nonviolenza, infatti, e' la condizione esistenziale per vedere la realta' della pace, nonostante tutte le contraddizioni apparentemente insormontabili, cosicche' tra essa e la condizione umana s'instauri una reciproca, irreversibile ospitalita'. 3. RIFLESSIONE. GIANNI VATTIMO: IRONIE NONVIOLENTE [Dal sito www.giannivattimo.it riprendiamo questa recensione di Gianni Vattimo al libro di Muller apparsa su "L'espresso" del 2 dicembre 2004. Dal medesimo sito www.giannivattimo.it riprendiamo la seguente scheda biografica di Gianni Vattimo: "Gianni Vattimo e' nato nel 1936, a Torino, dove ha studiato e si e' laureato in filosofia; ha poi seguito due anni i corsi di Hans Georg Gadamer e Karl Loewith all'universita' di Heidelberg. Dal 1964 insegna all'Universita' di Torino, dove e' stato anche preside della facolta' di Lettere e filosofia. E' stato visiting professor in alcune universita' americane (Yale, Los Angeles, New York University, State University of New York) e ha tenuto seminari e conferenze in varie universita' di tutto il mondo. Negli anni Cinquanta ha lavorato ai programmi culturali della Rai. E' membro dei comitati scientifici di varie riviste italiane e straniere; e' socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino. Laurea honoris causa dell'Universita' di La Plata (Argentina, 1996). Laurea honoris causa dell'Universita' di Palermo (Argentina, 1998). Laurea honoris causa dell'Universita' di Madrid (2003). Grande ufficiale al merito della Repubblica italiana (1997). Attualmente e' vicepresidente dell'Academia de la Latinidade. Nelle sue opere, Vattimo ha proposto una interpretazione dell'ontologia ermeneutica contemporanea che ne accentua il legame positivo con il nichilismo, inteso come indebolimento delle categorie ontologiche tramandate dalla metafisica e criticate da Nietzsche e da Heidegger. Un tale indebolimento dell'essere e' la nozione guida per capire i tratti dell'esistenza dell'uomo nel mondo tardo moderno, e (nelle forme della secolarizzazione, del passaggio a regimi politici democratici, del pluralismo e della tolleranza) rappresenta per lui anche il filo conduttore di ogni possibile emancipazione. Rimanendo fedele alla sua originaria ispirazione religioso-politica, ha sempre coltivato una filosofia attenta ai problemi della societa'. Il "pensiero debole", che lo ha fatto conoscere in molti paesi, e' una filosofia che pensa la storia dell'emancipazione umana come una progressiva riduzione della violenza e dei dogmatismi e che favorisce il superamento di quelle stratificazioni sociali che da questi derivano. Con il piu' recente "Credere di credere" (Garzanti, Milano 1996) ha rivendicato al proprio pensiero anche la qualifica di autentica filosofia cristiana per la post-modernita'. Una riflessione che continua nelle ultime pubblicazioni quali Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000 (Garzanti, Milano 2001), Vocazione e responsabilita' del filosofo (Il Melangolo, Genova 2000) e Dopo la cristianita'. Per un cristianesimo non religioso (Garzanti, Milano 2002). Recentemente ha pubblicato Nichilismo ed emancipazione (Garzanti, Milano 2003). Con la volonta' di battersi contro i dogmatismi che alimentano violenze, paure e ingiustizie sociali si e' impegnato in politica... [anche come eurodeputato]. Collabora come editorialista a La Stampa, Il Manifesto, L'Unita', L'Espresso, El Pais e al Clarin di Buenos Aires"] Dei pacifisti si e' detto ormai di tutto, sono diventati quasi piu' nemici del "nemico", e oggi vengono anche bollati come quei "tiepidi" che saranno "vomitati" dalla bocca di Dio nel giorno dell'Apocalisse. E' dunque forse un eccessivo ottimismo quello di Levinas, per il quale "il nostro tempo non ha piu' bisogno di essere convinto del valore della nonviolenza". Almeno, cosi' pensa Jean-Marie Muller, direttore dell'Istituto parigino di ricerche per la risoluzione nonviolenta dei conflitti, che nel suo libro tradotto ora in italiano da Enrico Peyretti e introdotto da Roberto Mancini (Il principio nonviolenza, Edizioni Plus, Pisa 2004, pp. 335, euro 15), si richiama appunto a Levinas, a Simone Weil, a Michel Serres e agli altri classici della riflessione morale dell'Occidente, fornendo una suggestiva visione del suo tema capace di liquidare tante banalita' che lo oscurano ancora nella coscienza di oggi. Fin dalle prime pagine, la nonviolenza viene collocata nella sua giusta luce, che non ignora il carattere conflittuale dell'esistenza umana, ne' la necessita', per creare le condizioni di un negoziato ragionevole, di ricorrere talvolta anche alla forza. Per capire tutto cio' occorre una minuziosa analisi del significato filosofico della violenza, che si identifica da ultimo, piuttosto che con la costrizione fisica, con ogni azione diretta a tacitare l'altro, riducendolo a "cosa", o naturalmente anche uccidendolo. Ma accanto a questa parte teorica, il libro presenta vari casi storici esemplari, da cui ricava importanti indicazioni pratiche su come condurre lotte nonviolente; accanto alla disobbedienza civile e alla noncooperazione, una risorsa non ultima (raccomandata da Vaclav Havel) sono l'ironia e l'umorismo. 4. RIFLESSIONE: ANTONIO VIGILANTE: FORZARE LA VERITA' [Ringraziamo Enrico Peyretti per averci inviato questa recensione di Antonio Vigilante al libro di Muller. Antonio Vigilante (per contatti: chou at tiscali.it) e' studioso e amico della nonviolenza, di grande acutezza e profondita'; nato a Foggia nel 1971, dopo la laurea in pedagogia si e' perfezionato in bioetica. Collabora a diverse riviste ed e' autore di rilevanti saggi filosofici sulla nonviolenza. Tra le opere di Antonio Vigilante: La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza in Aldo Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999] Il 2004 e' stato un anno felice per l'editoria nonviolenta italiana. Sono comparsi nel corso dell'anno libri importanti, come quello di Federica Curzi su Aldo Capitini (Vivere la nonviolenza, Cittadella, Assisi), la nuova antologia capitiniana curata da Mario Martini (Le ragioni della nonviolenza, Ets, Pisa) e il notevole numero di "Quaderni Satyagraha" dedicato al conflitto israelo-palestinese; buon ultimo, Il principio nonviolenza di Jean Marie Muller, ottimamente tradotto e curato da Enrico Peyretti. Un libro che per completezza e rigore s'impone come una piccola summa della nonviolenza, ma anche (e soprattutto) una rivendicazione del suo valore culturale e segnatamente filosofico. Non a caso il titolo rimanda a due capolavori della filosofia del Novecento: Il Principio Speranza di Bloch e Il Principio Responsabilita' di Jonas (che e' la risposta al primo). E con i filosofi Muller dialoga: ma principalmente con quelli francesi - Simone Weil, Eric Weil, Emmanuel Levinas. Assenti non solo Aldo Capitini, che e' colui che ha elaborato una vera filosofia nonviolenta (non limitandosi all'esigenza della nonviolenza), ma anche Lanza del Vasto, che pure ha pubblicato in francese alcune delle sue opere piu' importanti. Punto di partenza dell'analisi di Muller e' l'affermazione che non solo la nonviolenza ha rilevanza filosofica, ma che essa e' l'unica autentica filosofia. "La nonviolenza - scrive - non e' una filosofia possibile, non e' una possibilita' della filosofia, e' la struttura della filosofia" (p. 68). E: "Ogni filosofia che non delegittimi la violenza e non opti per la nonviolenza, manca al suo scopo" (ibidem). Questa affermazioni sono inevitabili e tuttavia gravide di domande. Inevitabili, perche' la nonviolenza e' forza della verita', secondo la definizione gandhiana; ora, non e' possibile impiegare la forza della verita', se non si cerca la verita': e quindi se non si e' filosofi. Gravida di domande, perche' e' anche vero che la nonviolenza e la filosofia sono due cose ben distinte. La prima, come teoria e pratica etico-politica, compare nella storia solo in tempi relativamente recenti, e non nasce certo dall'esperienza filosofica dell'Occidente. La seconda esiste da millenni, ma solo raramente e' giunta al rifiuto radicale della violenza. Muller assegna alla filosofia il compito di delegittimare la violenza ed optare per la nonviolenza. Si tratta di due cose diverse. La delegittimazione della violenza, con l'affermazione che e' meglio subire la violenza che compierla, si trova gia' in Socrate, il quale pero' e' ben lontano dal negare il dovere di difendere la polis in armi. Platone giunge ad affermare la necessita' di difenderla dalle deviazioni ideologiche, sostenendo la necessita' di condannare a morte chi nega l'esistenza degli dei. E cosi' via. * Nei confronti della violenza, la filosofia non appare in una posizione diversa dalla religione. Sia nell'una che nell'altra si trovano principi etici molto alti (la preferenza socratica per la violenza subita, l'evangelico porgere l'altra guancia, l'ahimsa indiana, e cosi' via), che pero' restano confinati nel campo dell'etica privata, delle relazioni tra individui, mentre per il corpo politico valgono una morale e un diritto differenti, che se comprendono norme precise per l'inizio di una guerra ed il comportamento durante la guerra (jus ad bellum e jus in bello), sostengono anche con vigore l'inevitabilita' della difesa armata (insieme alla violenza interna al corpo politico). Ed allora, l'affermazione di Muller non sembra sostenibile, se non accompagnata da una critica di quel che la filosofia e' stata per secoli, dalla accusa di aver smarrito lungamente la sua stessa ragion d'essere, di essersi lasciata sfuggire la sua missione. L'accusa di un ulteriore lungo smarrimento del pensiero, dopo i tanti rilevati dalla filosofia del novecento - primo fra tutti, l'oblio della differenza ontologica. La filosofia si trova cosi' nella situazione paradossale di avere una storia violenta, pur avendo una vocazione nonviolenta. Il laico Muller chiede alla filosofia quel che altri (e lo stesso Gandhi) chiedono alla religione: di aderire alla propria vocazione, superando la propria storia violenta. Che la struttura tanto della religione quanto della filosofia sia una struttura violenta, e che le affermazioni morali siano solo una sovrastruttura, e' una possibilita' inquietante, che ora non e' il caso di discutere. Tanto la religione quanto la filosofia hanno la pretesa di conoscere la realta', la vita, l'essere. Affermare, gandhianamente, che la nonviolenza esige la fede in Dio, significa ritenere che il contatto con una concezione positiva, tranquillizzante, etica dell'essere sia fondamentale per la scelta etico-politica della nonviolenza. Una affermazione del genere, compiuta al di fuori della fede, comporta non poche difficolta'. Chi puo' sostenere, senza l'aiuto della fede, che l'essere ed il bene siano legati l'uno all'altro, che la conoscenza della verita' dell'essere possa sostenerci nei nostri sforzi morali - che, in altri termini, la verita' non sia terribile, ma dolce? La filosofia contemporanea dispera di poter fondare metafisicamente l'etica. Non tenta piu', cioe', di agganciare le nostre convinzioni morali all'essere. La realta' e' disperante, non offre conforto ne' direzione, l'essere e' un labirinto, la vita, la natura, la storia hanno si' regolarita', ma non criteri etici. Piu' che assecondare l'essere, l'uomo che compie scelte etiche combatte piuttosto contro di esso, cerca di sottrarsi e di sottrarre gli altri al nonsenso, lotta per ridurre l'assurdo, per accendere qualche debole luce nella notte. Quest'impresa non ha nulla del trionfalismo implicito nell'affermazione "forza della verita"'. Anzi, non ha nulla a che vedere con questa espressione, proprio perche' la verita' toglie forza, energie, slancio: conduce all'inazione o alla disperazione. La forza di chi agisce eticamente non deriva dalla verita', ma ad essa si contrappone. E' una sfida alla verita'. Non e' forza della verita', ma forzatura della verita'. Forza la verita', trasfigura il mondo, costringendolo a mettersi al servizio del bene. Rigetta le leggi del mondo, la freddezza dell'essere, l'indifferenza dell'universo, regola la vita come se vi fossero altre leggi, altro calore al fondo delle cose. * Per farlo fino in fondo, la nonviolenza/filosofia ha bisogno di mettere in discussione la violenza fin nelle sue piu' oscure radici: fin nel seno della natura. Non sono d'accordo con Muller quando scrive che "e' soltanto per metafora che possiamo parlare di 'violenza' della natura" (p. 47), poiche' la natura non ha l'intenzione di uccidere. Se cosi' fosse, dovremmo negare anche la violenza strutturale, perche' anche in quel caso la violenza (che puo' essere la morte per inedia dei soggetti piu' deboli, come i bambini) non e' il risultato di un piano premeditato, di una scelta consapevolmente omicida, ma di un sistema economico che stempera fino ad annullarla la responsabilita' dei singoli. Anche il linguaggio comune, del resto, parla di violenza della natura: una tempesta, un terremoto, un maremoto sono definiti violenti, e non soltanto per metafora. Questo non vuol dire personificare la natura, attribuirle intenzioni omicide e volutta' di sangue. Vuol dire, piuttosto, ribadire la sua indifferenza, contestare la convinzione (tanto filosofica quanto religiosa) della centralita' dell'uomo, dell'uomo-fine dell'universo, ente privilegiato cui tutto e' finalizzato. Un omicida puo' essere catturato, una guerra puo' essere contestata, un sistema economico puo' essere cambiato - ma la natura, l'essere? Anche la natura, anche l'essere puo' cambiare sotto la spinta del bene. Era questa la convinzione che alimentava la filosofia della compresenza di Aldo Capitini. E quand'anche l'essere restasse fermo nella sua alterita', amoralita', fredda trascendenza, pure resterebbe doveroso non assecondarne il corso, tenersi fermi al bene che addita il valore di ogni ente, di ogni singola esistenza. * A ragione Muller sostiene che principio della nonviolenza e' il superamento della paura della morte. Chi sceglie la nonviolenza, mentre rifiuta categoricamente di uccidere, si espone al rischio di essere ucciso. Questo non e' possibile, senza aver fatto i conti con la paura di morire. L'uomo nonviolento e' cosi' un uomo che ha accettato il proprio destino, la propria mortalita'. Parlare di uomo violento e di uomo nonviolento non ha, evidentemente, molto senso; e' il caso piuttosto di parlare di uomo inautentico e di uomo autentico. Il primo sfugge se stesso attraverso il male, con una dinamica esistenziale che era stata gia' individuata da Lucrezio nel terzo libro del De rerum natura. Il secondo, accettandosi come mortale, accetta anche la presenza dell'altro. Ma accettera' anche la mortalita' dell'altro? Seguendo Muller, dovrebbe essere cosi', poiche' la morte e' un evento naturale, una violenza di fronte alla quale il no del nonviolento deve arrestarsi. L'uomo autentico dovra' dire si' alla propria morte e si' alla morte dell'altro. Ma in questo modo il no della nonviolenza, il no del non-uccidere non ne risulta ridimensionato? Per rispondere a questa domanda bisogna interrogarsi sul perche' del non uccidere. Se esso consiste nella macchia, nel disordine, nel peccato (con termine religioso) che l'atto di uccidere introduce nella mia anima, allora posso ben accettare la mortalita' dell'altro, come evento di cui io non sono responsabile. Ma se il non uccidere e' iscritto nel volto stesso dell'altro - come afferma Levinas, cui Muller sostanzialmente rimanda -, allora esso scaturisce da un valore che s'impone alla mia coscienza come assoluto, tale che io non posso negarlo nemmeno a costo della mia stessa vita. Un valore assoluto eppure minuto, tutto iscritto nella singolarita' di questo-ente-qui, e percio' scampato al crollo dei valori. Ma un valore assoluto non puo' essere negato da alcun fatto. Anche dopo la morte, questa persona continua ad avere un valore assoluto; e la morte, che l'ha ridotta a cosa, non puo' ottenere da me alcun riconoscimento. Neghero' la mortalita' di questa persona, di questa singolarita' assoluta, perche' cio' sarebbe un primo, tragico cedimento alla violenza che attraversa l'essere. La scelta del non-uccidere in Muller sembra invece motivata, nonostante il richiamo a Levinas, dalla trascendenza di se', piu' che dalla trascendenza dell'altro. "La trascendenza dell'uomo e' questa possibilita' di preferire il morire per non uccidere che l'uccidere per non morire, perche' la dignita' della propria vita ha piu' valore ai propri occhi che non la propria vita stessa" (p. 98). Muller parla di una "trascendenza della vita" (p. 94) che e' la trascendenza della mia esistenza, la liberazione dall'impaccio della morte che da sempre mi condiziona; la "paura della morte dell'altro" e', in fondo, la paura di smarrire questa auto-trascendenza, e non l'affermazione della trascendenza dell'altro. * La condanna della violenza della natura introduce un dualismo, una scissione, un agonismo: e' un attentato all'Uno. Muller vede perfettamente che la logica nonviolenta non puo' essere la logica dell'Uno, ma trova che quest'ultima sia solo la logica di una "concezione organica della societa'" (p. 144), che riduca l'individuo alla collettivita'. C'e' invece anche una riduzione dell'uomo alla natura che e' non meno pericolosa, senza, d'altra parte, che la sua negazione debba condurre alla fede o allo spiritualismo. Precisa del resto Muller che la logica della nonviolenza non e' nemmeno la logica del Due, perche' il Due, "che esprime il faccia-a-faccia di due individui che rischiano di non coniugare altro che i loro individualismi, e' troppo povero per simboleggiare una vera unione" (p. 145). La logica della nonviolenza sara' dunque una logica del Tre. E', questo, un passaggio fondamentale e particolarmente delicato. E' il passaggio dall'etica alla politica, dal privato al pubblico. Si puo' contestare che l'unione dei due, quando e' autentica, sia compatibile con l'individualismo. Si puo' vedere piuttosto nell'apertura della relazione erotica la via che conduce all'apertura ai tutti. Vero e', pero', che nella relazione erotica vi e' una corrispondenza tra due persone che si sono scelte in base alla loro affinita'. Realizzare una societa' nonviolenta non puo' voler dire, evidentemente, creare un'accolita di affini, benche' non manchino esperienza in questo senso; vuol dire, invece, esistere con il Terzo. Con il Terzo, compare l'istituzione. Ma con l'istituzione compare anche la costrizione. Muller e' ben consapevole della violenza che comporta l'esistenza dello Stato e del rischio sempre presente che uno Stato democratico si converta in uno Stato totalitario, ma cio' non gli impedisce di tratteggiare i lineamenti di una democrazia autentica, necessariamente conflittuale perche' c'e' conflitto dove ci sono differenze, ma non violenta, perche' quelle differenze non sono criminalizzate. Una societa' in cui la polizia non ha funzioni repressive, ma e' al servizio della pace pubblica, in cui la partecipazione democratica non si limita al voto, in cui la magistratura non assolve i potenti condannando i deboli, e cosi' via. Tutti principi massimamente condivisibili; ma, appunto, solo principi, mentre i pericoli istituzionali richiedono soluzioni istituzionali. Pensare una societa' nonviolenta, un corpo politico nonviolento, significa ricercare nuove, inedite soluzioni istituzionali, che strutturalmente possano rimediare ai mali dello Stato pur democratico. Muller intravede la soluzione, soffermandosi sulla critica di Vaclav Havel alla democrazia dei partiti e sulla sua fiducia in "strutture aperte, di piccole dimensioni e dinamiche", "non orientate verso l'aspetto 'tecnico' dell'esercizio del potere, ma sul suo significato" (pp. 176-177). Per usare un'espressione di Danilo Dolci, il problema politico della nonviolenza e' quello di passare dalle vecchie strutture alle nuove. E' un problema non semplice. Se nei momenti di crisi politica evidente, quando un regime mostra segni di cedimento ed i tempi sono maturi per il suo crollo, le nuove strutture nascono spontaneamente, dal basso, piu' difficile e' quando un sistema, pur essendo in crisi, e' apparentemente solido, alimenta ricchezza, consumi, benessere; quando il cittadino non avverte la necessita' di abbandonare la dimensione domestica e televisiva per calarsi in quella pubblica e politica, perche' il sistema - e cio' e' indubbiamente un indice perverso della sua efficacia, se non della sua bonta' - gli trasmette in forme tanto subdole quanto persuasive il messaggio che tutto va bene e non c'e' nulla da fare. * Ho toccato brevemente i punti dell'opera di Muller che mi sembrano piu' significativi dal punto di vista strettamente filosofico; ma il libro contiene molto di piu': una analisi delle tecniche della nonviolenza, un avvincente dialogo con Eric Weil, un approfondimento del metodo gandhiano importante per la confutazione di alcuni pregiudizi correnti e, in appendice, la "Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente" curata da Enrico Peyretti, che e' uno strumento prezioso per quanti vogliano scorgere nel volto travagliato della storia l'impronta non meno travagliata, ma portatrice di speranza, della nonviolenza. 5. MATERIALI. UNA BIBLIOGRAFIA MINIMA DI RIFERIMENTO - AA. VV., Filosofia e violenza. Introduzione a Eric Weil, Congedo Editore, Galatina 1978. - Guenther Anders, L'uomo e' antiquato, vol. I, Il Saggiatore, Milano 1963, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 1992. - Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1964, 1994. - Franco Basaglia, Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1981-1982. - Gregory Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, 1990. - Ernst Bloch, Il principio speranza, 3 voll., Garzanti, Milano 1994. - Elisabeth Burgos, Mi chiamo Rigoberta Menchu', Giunti, Firenze 1987. - Albert Camus, La peste, Bompiani, Milano 1948, 1976. - Aldo Capitini, Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. - Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992. - Andrea Cozzo, Conflittualita' nonviolenta, Mimesis, Milano 2004. - Danilo Dolci, Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari 1974. - Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1973, 1996 (anche per il fondamentale saggio introduttivo di Giuliano Pontara). - Rene' Girard, La violence et le sacre', Grasset, Paris 1972, Hachette, Paris 1998. - Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985, 1996. - Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990, 2001. - Luce Irigaray, Speculum, Feltrinelli, Milano 1975, 1989. - Hans Jonas, Il principio responsabilita', Einaudi, Torino 1990, 1993. - Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto, Vinoba o il nuovo pellegrinaggio, Jaca Book, Milano 1980. - Raniero La Valle, Linda Bimbi, Marianella e i suoi fratelli, Feltrinelli, Milano 1983. - Giacomo Leopardi, Tutte le opere, 2 voll., Sansoni, Firenze 1969, 1988 (ma ora cfr. anche l'edizione, anch'essa in due volumi, diretta da Lucio Felici: vol. I: Tutte le poesie e tutte le prose, vol. II: Zibaldone, Newton, Roma 1997). - Primo Levi, Opere, 2 voll., Einaudi, Torino 1997. - Emmanuel Levinas, Totalita' e infinito, Jaca Book, Milano 1980, 1990. - Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia, Einaudi, Torino 1982. - Vandana Shiva, Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990). - Renate Siebert, La mafia, la morte e il ricordo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995. - Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001. - Simone Weil, Quaderni, 4 voll., Adelphi, Milano 1982-1993. - Virginia Woolf, Le tre ghinee, La tartaruga, Milano 1975, Feltrinelli, Milano 1987. - Chiara Zamboni, La filosofia donna, Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 1997. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 4 del 16 gennaio 2005
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