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Comunicare cio' che siamo
- Subject: Comunicare cio' che siamo
- From: "Santi Greco" <santigreco@katamail.com>
- Date: Thu, 1 Jan 2004 13:15:14 +0100
- Importance: Normal
Quanti modi conosciamo per comunicare cio' che siamo ed in cui crediamo?
Parole, gesti, abiti, oggetti, sono altrettante vie di espressione del
nostro essere e del nostro credere. In fondo, ogni cosa che diciamo o che
facciamo o che semplicemente usiamo, finisce col rispecchiare cio' in cui
crediamo.
Per non andare troppo lontano, ci basti pensare alle tante bandiere per la
pace che hanno sventolato e che ancora continuano a farlo, e che sono
un'unica voce che vuole annunciare la nostra contrarieta' alla guerra come
soluzione per dei problemi politici o economici.
Chi e' cresciuto in una societa' in cui la fede in Dio ha avuto un ruolo
notevole nella sua formazione, si porta dentro l'abitudine ad esprimere la
sua fede mediante segni esteriori, che vanno dalla croce per i cristiani, al
velo per i mussulmani, alle vesti per gli indu' e cosi' via, fino a giungere
a segni piu' radicali per chi aderisce alle sette.
Si tratta, in ogni caso, di mezzi per comunicare cio' che si e'. La
difficolta' consiste nel riuscire a far convivere certi gesti e segni con la
tolleranza che ogni Stato deve garantire nei confronti di una popolazione
con un credo eterogeneo, e che facilmente e' portata a guardare al diverso
come ad un estraneo da tener lontano.
Nelle ultime settimane si e' molto discusso di tolleranza nei confronti di
chi ha un credo diverso soprattutto in Francia, dove, proprio nei giorni
scorsi, il Presidente Chirac ha dichiarato che lo Stato deve essere laico e
non puo' consentire ai cittadini, nel caso specifico alle donne mussulmane,
di far ricorso al segno esteriore del velo nei luoghi pubblici, innanzitutto
scuole ed ospedali, nei quali e' diffuso il rifiuto di farsi curare da
personale di sesso maschile.
In effetti, accade che dietro il segno si celi una mentalita' di rifiuto per
chi quel segno non capisce, ed una concezione dei ruoli maschio/femmina che
si scontrano con la mentalita' dominante. Da queste constatazioni e' venuta
fuori una polemica che ha diviso l'opinione pubblica, non solo in Francia, e
nella quale nessuna legge puo' mettere ordine, per quanto perfetta sia.
Sarebbe necessario partire da un altro punto di vista. Se i segni intendono
essere una comunicazione della propria fede, bisognerebbe andare alla radice
di quest'ultima. Cosi' per noi che viviamo in una societa' che ha radici
cristiane, non e' poi cosi' difficile trovare una risposta all'uso dei
segni. Nei Vangeli e' scritto che l'unico segno di riconoscimento dei
cristiani e' l'amore reciproco. Non sono gli abiti, ne' tantomeno croci,
corone o spille che si possono portare addosso. Se odiamo il nostro vicino
di casa, per quante croci possiamo avere in tasca, la nostra fede è falsa.
Il segno dell'essere cristiani e' l'amore per il vicino di casa.
Piu' difficile e' fare un analogo discorso sulla fede di chi e' mussulmano,
sarebbe necessaria una conoscenza del testo sacro che non ho. Ma sicuramente
il Dio del Corano non incoraggia all'odio, ne' alla guerra contro il
diverso, ne' all'inferiorita' di alcuni su altri, della donna sull'uomo. Se
chi e' mussulmano, cosi' come chi e' cristiano, ha necessita' di trovare un
modo per esprimere il suo essere uomo di fede, potra' trovare indicazioni
per farlo tornando alla radice della sua fede.
Cosi' se portare il velo e' davvero un segno di fede autentica, il doverlo
togliere in certe corcostanze, dovrebbe essere un momento di gioia, un
comunicare che la propria fede va oltre quel pezzo di stoffa. Se toglierlo
causa angoscia o conflitti, diventa un segno chiaro di ben altra cosa: che
la materia e' ben piu' importante di Dio.
Cosi' se tutti i crocefissi venissero esclusi dai luoghi pubblici, per un
cristiano non dovrebbe cambiare nulla, perche' nessuna legge potrebbe
rimuovere il crocefisso che porta nel suo cuore. Se crede.