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La nonviolenza e' in cammino. 770



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 770 del 30 dicembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Rossana Rossanda ricorda Lorenza Carboni
2. Barbara Spinelli: i due minuti d'odio
3. Edoarda Masi: alle radici dell'ultima crociata
4. Danilo Zolo: processare il nemico
5. Giampaolo Calchi Novati: le leggi del piu' forte
6. Associazione giuriste d'Italia "Giudit": una legge incostituzionale
7. Ida Dominijanni: i paradossi della laicita'
8. Riviste: "A. Rivista anarchica"
9. Riviste: "Keshet. Vita e cultura ebraica"
10. Riletture: Karl Rahner, Corso fondamentale sulla fede
11. La "Carta" del Movimento Nonviolento
12. Per saperne di piu'

1. MEMORIA. ROSSANA ROSSANDA RICORDA LORENZA CARBONI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 dicembre 2003. Rossana Rossanda e'
nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista,
dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla
rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure
piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista
prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei
movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica
attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Opere di
Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o
della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche
per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987;
con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma
1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione,
immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri,
Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della
testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e
politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e
interventi pubblicati in giornali e riviste]

Si e' spenta ieri, dopo tre mesi di una malattia che non le ha lasciato
tregua, Lorenza Carboni.
Lorenza, come dire Montegiove per i molti che in oltre dieci anni la sua
voce gentile ha chiamato a confrontarsi nel settecentesco e ormai quasi
deserto eremo dei Camaldolesi che sovrasta l'Adriatico a Fano. Era lei che
tenacemente ha tenuto in piedi l'esile struttura che si chiama "Itinerari e
Incontri", itinerari perche' studiava non dogmi ma percorsi, e incontri
perche' si trattava di parlarsi e ascoltarsi fra religiosi - cattolici,
protestanti, ebrei, recentemente anche musulmani - e non credenti,
interrogati dalle stesse grandi domande di senso che ogni epoca storica
rideclina.
Lorenza era marchigiana, una bellissima piccola donna che appena andata
sposa a Giovanni Pelosi, anche lui insegnante, aveva incontrato nel
bergamasco i nostri compagni della Dalmine. Cattolica nel profondo, con loro
aveva vissuto, dopo le speranze e qualche delusione del Concilio Vaticano
Secondo, la protesta sociale, mai disgiunta nella testa di Lorenza e
Giovanni dalle grandi domande cristiane. Poi erano tornati ambedue nella
terra d'origine a insegnare, avevano - Giovanni ha ancora - quel dono
particolare di far sentire ai ragazzi che la scuola vale la pena, anche se
pare che sia diventata un'impresa sempre piu' difficile. Ma per Lorenza non
c'era soltanto la scuola, c'era Montegiove e c'era una pratica ecologica
condivisa con i suoi bambini e quelli di un villaggio dell'Africa
occidentale a causa delle rondini, da aspettare e veder partire con il naso
in su di tutta la classe e difendere da molteplici minacce, incluse quelle
della fame.
Aveva studiato, Lorenza, con Italo Mancini e da lui aveva preso la
predilezione per Bonhoeffer, che distribuiva agli amici. Ne era venuto
quell'essere a Montegiove una specie di zona franca, dove ci si trovava tre
volte l'anno intorno alle interpretazioni di un testo (il Libro di Giobbe,
il Cantico, il Siracide) o un tema sapienziale, di quelli ben prediletti da
Benedetto Calati (terra ed esilio, legge coscienza e liberta', errore colpa
peccato) o un tema dell'attualita' (la gratuita', o il dopo 1989). Nessuno
di coloro che erano invitati mancava di venire una volta o l'altra - tanto
rari sono i luoghi nei quali ci si parla senz'altra intenzione che
ascoltarsi e discutere, condividendo i paesaggi di mattone rosato delle
Marche, i sentieri del boschetto, perfino gli orari imperativi e il
refettorio comune. Molto gaio perche' Lorenza non aveva nulla di spartano
nel badare all'ospitalita' e, come i relatori, anche i sovrintendenti alla
cucina erano volontari di quella bizzarra razza romagnola che fa manicaretti
anche con il niente e discutendo magari di Roland Barthes.
Era Lorenza che ci aspettava al treno sorridendo con una cortesia che poteva
parere timidezza - grave errore, perche' era rimasta una ragazza allegra,
piena di vitalita' e curiosita', ostinata e per niente arrendevole. Come a
Benedetto Calati, che patrocino' e frequento' Montegiove finche' visse, le
apparteneva un'ironia e il senso della risata, come in questa fotografia che
li ritrae assieme all'eremo dopo che manifestamente egli ha infilzato con
benevolenza qualcuno. Montegiove deve sopravvivere, ma sara' un'altra cosa.
Perche' ci sono persone che danno la loro impronta ai luoghi ed era lei a
dargli quel sorriso e quello sguardo acuto e insaziato del quale non so come
faremo a meno.

2. RIFLESSIONE. BARBARA SPINELLI: I DUE MINUTI D'ODIO
[Da "La stampa" del 21 dicembre 2003. Barbara Spinelli e' una prestigiosa
giornalista e saggista; tra le sue opere segnaliamo particolarmente Il sonno
della memoria, Mondadori, Milano 2001. Ringraziamo Nanni Salio per averci
segnalato questo articolo]

"Ho provato pieta' nel vedere quest'uomo distrutto trattato come una vacca
cui si controllano i denti", cosi' ha dichiarato il cardinale Raffaele
Martino, presidente della commissione pontificia Giustizia e Pace, subito
dopo aver visto le immagini della cattura di Saddam Hussein. Un'immagine che
non si dimentica facilmente, per l'indicibile violenza che contiene e per le
emozioni contraddittorie che suscita: ecco un dittatore feroce che
senz'altro merita di pagare per i propri crimini, ecco il despota che ha
gasato gli iraniani e i curdi, che ha massacrato gli sciiti e ogni sorta di
oppositori, e tuttavia d'un tratto non sembrava piu' l'orrore che era stato.
Sembrava aver acquisito una dignita' che poco prima non possedeva, uno
sguardo umano di cui in passato non era stato capace. Era ridotto alla sua
umanita', e precisamente questa umanita' e' stata imbestialita dai modi
dell'arresto e della successiva spettacolarizzazione. La violenza e'
indicibile perche' non e' un'esecuzione, quella ripresa dalle telecamere. E'
una violenza subdola, tanto piu' sconcertante: ancor prima del processo e
della condanna, si son viste in rapida sequenza due trasformazioni inaudite.
Nella prima scorgiamo inaspettatamente l'essere umano, in Saddam. Nella
seconda quest'umanita' appena riconquistata gli viene sprezzantemente,
igienicamente strappata.
Non abbiamo assistito infatti alla normale cattura di un nemico di guerra.
Abbiamo assistito, in mondovisione forzata, alla trasformazione del nemico
in bestia da soma che si vende sul mercato. Per venderla a buon prezzo e
convincere l'acquirente si spalanca la bocca dell'animale, si guarda lo
stato e l'eta' dei suoi denti, si controlla se magari nel pelo non
s'annidino pidocchi. Gli acquirenti della bestia siamo tutti noi,
teleconsumatori di guerre e anche cittadini che camminano ignari per strada:
l'immagine della bocca aperta di Saddam e del soldato che fruga nei suoi
capelli arruffati l'hanno vista anche gli abitanti di New York che passavano
da Times Square. Il despota tramutato in accattone veniva riprodotto anche
la', su schermo gigante: come nel film Blade Runner o - scrive su "Ha'aretz"
il commentatore israeliano Rogel Alpher - come nel romanzo 1984 di Orwell.
Nel romanzo e' la faccia di Emmanuel Goldstein che maniacalmente viene
ritrasmessa sugli schermi. Goldstein e' il Nemico del Popolo per eccellenza,
e' il Gran Sabotatore che serve da spauracchio. Il suo volto e la sua voce
sono strani, osserva Orwell: fanno pensare a una pecora. Diffusa a
intervalli regolari, la trasmissione cui tutta la popolazione di Oceania e'
condannata s'intitola: "Due Minuti d'Odio" (Two Minutes Hate).
Esattamente come Goldstein, anche Saddam e' stato in passato l'alleato piu'
sicuro di chi oggi lo esibisce come preda: e' stato alleato di Washington,
di Parigi, di Bonn, di Roma. Il ministro della Difesa Rumsfeld si reco' due
volte a Baghdad, nel dicembre '83 e nel marzo '84, per esprimere fiducia nel
tiranno e renderselo amico. La seconda volta Baghdad aveva gia' usato,
contro l'Iran, l'iprite e il gas VX.
*
Al programma Due Minuti d'Odio abbiamo assistito tutti, domenica 14
dicembre, e non e' detto che i risultati siano positivi per la lotta delle
democrazie al terrorismo.
Alcuni despoti saranno spaventati da Saddam degradato ad accattone, forse.
Un'intera regione del mondo, attorno al Medio Oriente, verra' forse
trasformata da questo simbolo d'umiliazione, molto piu' possente
dell'abbattimento della statua di Saddam. Gli uomini di Bush sosterranno
forse che proprio grazie alle guerre americane Gheddafi ha cominciato a
cedere e si e' dichiarato disposto, pochi giorni dopo la cattura del
dittatore iracheno, a smantellare le sue armi di distruzione di massa.
Ma quei Due Minuti d'Odio restano conficcati nei nostri cervelli, e non
saranno guardati e ricordati solo da despoti o da partiti decisi a
rovesciare i tiranni. Tutti i diseredati e gli impotenti del mondo
riconosceranno se stessi e il proprio destino, nel volto di Saddam
prigioniero, e risponderanno ai Due Minuti d'Odio con un senso d'abbandono e
un odio raddoppiati. Non approveranno l'umiliazione di un tiranno che sugli
schermi e' apparso piu' che mai essere umano nella sua nudita'. Si
sentiranno proprio come lui: defraudati d'ogni eredita', ridotti a merce
bovina, non rispettati come persone.
Si puo' capire lo sgomento del cardinale Martino: per il cristianesimo la
persona umana e' creata a immagine di Dio ed e' dunque sacra. Per tutte le
grandi religioni e' cosi', e quel viso di Saddam trasformato in poster
pubblicitario e' forse una vittoria militare e nel medio termine anche una
vittoria politica, ma nell'immediato e' un'incalcolabile sconfitta morale,
un tabu' che cade, un buco nero nell'idea che abbiamo dell'uomo, delle sue
fedi. Non e' Bush con i suoi trionfalismi a risultare credibile, ma Simone
Weil nel libro l'Ombra e la grazia: "Bisogna... essere sempre pronti a
cambiare parte: come la Giustizia, questa 'fuggitiva dal campo dei
vincitori'".
*
Quando la giustizia fugge dal campo dei vincitori e quando i vincitori sono
le democrazie non si puo' facilmente parlare di vittoria, riportata contro i
terroristi. Quando guerre e catture del nemico sono sistematicamente
ottenute al di fuori della legge non c'e' da sperare molto, ne' per la
diffusione della democrazia ne' per il consolidamento delle nostre stesse
democrazie.
E sono tante, ormai, le leggi che la guerra al terrorismo ha violato.
L'offensiva contro l'Iraq e' avvenuta senza che si badasse a legittimarla
internazionalmente. I guerrieri afghani o talebani rinchiusi a Guantanamo
sono detenuti in dispregio della convenzione di Ginevra sui prigionieri di
guerra o dei piu' elementari diritti dell'habeas corpus, che e' il diritto
di ciascun "corpo umano" a esser tradotto davanti ai tribunali per sapere se
la detenzione e' legittima. L'ultima violazione e' quella commessa, con
igienico accanimento, sul corpo di Saddam: il governo Usa aveva accusato i
soldati del rais, all'inizio della guerra, quando sulle reti arabe apparvero
i volti dei militari americani catturati. Ora e' esso stesso a macchiarsi
del reato di violazione della Convenzione di Ginevra, e in particolare
dell'articolo 13: "I prigionieri di guerra devono... essere protetti in ogni
tempo specialmente contro gli atti di violenza e d'intimidazione, contro gli
insulti e la pubblica curiosita'". Lo si sa anche da guerre passate. Ci sono
circostanze in cui a forza di combattere furiosamente un nemico dispotico
finiamo col diventare il suo sosia.
Gli stessi accordi raggiunti nelle ultime ore con Gheddafi sono
significativi, e inquietanti. In apparenza Gheddafi s'e' allarmato,
osservando l'esempio di Saddam. Ma in realta' e' stato un lungo negoziato, a
persuadere e costringere il dittatore libico. Un negoziato oculato, condotto
in parallelo da Onu e Casa Bianca. Era dunque possibile smantellare un
programma di armi biologiche e chimiche, senza guerra preventiva. Gheddafi
non ha dovuto subire un'aggressione come Baghdad: e' stato piegato dalla
diplomazia, dalle sanzioni, da una politica lenta, paziente.
Lo stesso forse poteva accadere con Saddam, e secondo alcuni il rais era
addirittura disposto a un passo simile a quello compiuto da Gheddafi. Lo ha
rivelato sul "New York Times" un'inchiesta di James Risen, il 6 novembre
scorso. Il dittatore era pronto a concessioni essenziali, poco prima che la
guerra scoppiasse: a smantellare le armi, ad accogliere in Iraq ispettori
americani, a organizzare libere elezioni sotto controllo internazionale.
Puo' darsi fosse un bluff, ma nessuno ha chiesto di vedere le carte, e la
pazienza avuta con Gheddafi non c'e' stata con Saddam.
Forse perche' bastano quei Due Minuti di Odio, a seminare nel mondo la
cultura della paura e a presentare l'America come potenza capace non solo di
diffondere umanita' ma anche di negarla. Gli schermi piccoli e grandi
s'accendono, e tutti siamo mobilitati in una guerra che ha da essere senza
fine. Fin tanto che dura questa paura e questo stato d'emergenza bellico,
dimenticheremo meglio quel che per Washington sta diventando sempre piu'
difficile, soprattutto ora che il nemico e' catturato: costruire la pace e
la democrazia, e non solo fare guerre prima che il pericolo si manifesti, e
senza che il pericolo sia stato ancora provato.

3. RIFLESSIONE. EDOARDA MASI: ALLE RADICI DELL'ULTIMA CROCIATA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 dicembre 2003. Edoarda Masi e' nata a
Roma nel 1927, bibliotecaria nelle biblioteche nazionali di Firenze, Roma e
Milano, ha insegnato letteratura cinese nell'Istituto Universitario
Orientale di Napoli; ha vissuto a Pechino e a Shangai, dove ha insegnato
lingua italiana all'Istituto Universitario di Lingue Straniere. Ha
collaborato a numerose riviste, italiane e straniere, tra cui "Quaderni
rossi", "Quaderni piacentini", "Kursbuch", "Les temps modernes".
Intellettuale della sinistra critica, di straordinaria lucidita'. Opere di
Edoarda Masi: La contestazione cinese, Torino 1968; Per la Cina, Milano
1978; Breve storia della Cina contemporanea, Bari 1979; Il libro da
nascondere, Casale Monferrato 1985; Cento trame di capolavori della
letteratura cinese, Milano 1991. Tra le sue traduzioni dal cinese in
italiano: una raccolta di saggi di Lu Xun, La falsa liberta', Torino; e
Confucio, I dialoghi, Milano. Edoarda Masi e' da molti anni per chi scrive
queste righe una molto ascoltata maestra, proprio per questo ci permettiamo
di esprimere qui un netto dissenso rispetto ad alcuni punti di questo suo
pur piu' versi apprezzabile intervento]

Il "pensiero unico" andrebbe meglio definito oggi "ideologia globale":
favorita dalla babele linguistica, occupa le menti, prone a conformarsi alle
convenzioni dominanti, impegnate a disegnare falsi nemici per negare
l'evidenza di quelli reali, e a cercare la conciliazione, perfino teorica,
la' dove c'e' solo divisione e lotta inevitabile.
L'ideologia globale impone il comune denominatore della lotta contro il
terrorismo. Tutti vi consentono, prima ancora di esigere che di questo
termine venga data una chiara definizione. Sarebbe vano esercizio di ragione
ricordare che il terrorismo e' una pratica di singoli individui o gruppi
minoritari isolati che, per disperazione o per folle esaltazione del proprio
io, si illudono, separati dalle lotte del popolo e clandestini, di poter
combattere un nemico seminando, appunto, il terrore: non importa dove e fra
chi, per mezzo di stragi indiscriminate oppure per mezzo di omicidi ritenuti
esemplari. Alla fine dell'Ottocento il terrorismo fu teorizzato e praticato
da una parte dei populisti russi, magnificamente rappresentati da
Dostoevskij, e venne condannato da Lenin come controrivoluzionario, con
lucidissimi argomenti.
L'esperienza storica ha confermato che il carattere clandestino e
destabilizzante, oltre che disumano, della pratica terroristica consente a
chi detiene un potere antipopolare di impadronirsene, e confondendo le carte
in tavola di usarla a sua volta cinicamente come arma efficace e segreta
contro gli oppositori (basta ricordare la strategia della tensione gia'
praticata in diversi paesi, ed estesa oggi a gran parte del mondo).
Ignoranza e presunzione (alimentate ancora da una disperazione inconfessata)
fecero risorgere in Italia velleita' terroristiche, alla fine degli anni
Settanta e negli Ottanta, fra giovani che stoltamente si illudevano di agire
per la rivoluzione, mentre erano strumento, per lo piu' inconsapevole, di un
nemico feroce che stava operando per destabilizzare il paese e distruggere
un movimento ancora immaturo, ma temuto dai detentori del potere economico e
politico interno e internazionale. Non si rendevano conto di contribuire
all'opera criminale con cui le forze piu' conservatrici, appoggiate dai vari
servizi segreti interni e stranieri, organizzavano le stragi di ignari
cittadini (piazza Fontana, Italicus, Bologna, piazza della Loggia...).
*
Per una cinquantina d'anni - dalla fine della seconda guerra mondiale alla
caduta del muro di Berlino e all'implosione dell'Unione sovietica - ogni
nefandezza esercitata sui popoli, violazione dei diritti civili e umani,
interferenza negli affari interni di altri paesi, repressione di movimenti
popolari con milioni di morti, e fino alla ricolonizzazione di gran parte
del mondo, e' stata motivata dai governanti degli Stati Uniti e dai loro
alleati con la necessita' di combattere il comunismo. Il comunismo veniva
rappresentato come un'oscura congiura internazionale messa in atto con la
complicita' della potenza avversa, l'Unione sovietica (in Italia o in
Francia non ci rendevamo ben conto del peso di una simile ideologia,
giacche' i comunisti erano troppo forti e numerosi, avevano radici troppo
profonde nel popolo perche' simili panzane potessero attecchire anche fra i
loro avversari). Perfino un evento formidabile come la rivoluzione cinese
veniva presentato come una rivolta di banditi sanguinari contro il governo
legittimo.
Una volta crollata l'Unione sovietica, sconfitti o scomparsi quasi ovunque i
partiti comunisti, la crociata avrebbe dovuto concludersi. Anche le alleanze
militari costituite per combattere "l'impero del male" non avrebbero dovuto
avere piu' ragion d'essere. Invece abbiamo assistito e assistiamo a una
progressiva escalation nell'aggressivita' e nella relativa propaganda, negli
interventi armati fuori dei confini nazionali, nella riorganizzazione della
Nato, nella repressione violenta di qualsiasi movimento popolare.
L'etichetta "lotta al comunismo" e' stata sostituita con quella di "lotta al
terrorismo" - per procedere sulla vecchia strada e per gli stessi
inconfessati vecchi motivi, in misura piu' pesante e in forme piu' gravi.
La fabbricazione di un "impero del male" appare dunque come un'assoluta
necessita'. Al "terrorismo" viene arbitrariamente associata ogni forma di
violenza (armata, fisica, morale) e infine di lotta (armata o disarmata): si
tratti di rivolta individuale o di gruppo, insurrezione popolare, guerra di
liberazione o di indipendenza, guerriglia, conflitto sociale, lotta di
classe e perfino rivendicazione sindacale. Sia chiaro che neppure gli
attentati contro forze nemiche organizzati segretamente nel corso di una
guerra o di una guerriglia popolare possono essere condannati come
terroristici. Non erano terroristiche, per esempio, le azioni dei partigiani
durante la Resistenza, neppure quelle dei Gap nelle citta' occupate da
truppe straniere (anche se gli stranieri occupanti le consideravano tali):
erano azioni di guerra, miravano a colpire un nemico in campo aperto piu'
forte, non a seminare terrore fra la popolazione; e dalla maggioranza della
popolazione ricevevano il consenso.
*
Chi non fosse accecato dall'ideologia globale, almeno di un fatto avrebbe da
rallegrarsi: le cose sono divenute assai piu' chiare. Nel periodo della
"lotta al comunismo", lo scontro fra potenze (guerra fredda) si presentava
come l'elemento fondamentale, l'anticomunismo poteva apparire una copertura
della rivalita' degli Stati Uniti verso l'Unione sovietica. Oggi la medaglia
si e' rovesciata: ridimensionata la potenza avversa e dissolto il suo
carattere comunista, la lotta prosegue, piu' aperta e intensa. Contro chi,
realmente, e in nome di che cosa siamo chiamati a unirci tutti e combattere?
Chi si nasconde dietro "l'impero del male" vuoi comunista, vuoi
terroristico? Scomparso lo scontro politico fra blocchi di potenze, emerge
un conflitto piu' radicale e durevole, di cui sono taciuti i motivi e i
contenuti, pur cosi' evidenti. Chiusa la guerra fredda, non e' mancata la
corsa a fabbricare ideologie tutte nuove: scontro di civilta', di religioni;
asse del male, stati canaglia; immigrati delinquenti; terrorismo
internazionale. Accanto alle ideologie, si sono fabbricati i fatti,
all'interno dei popoli guerre di religione immotivate, scontri di etnie
(incerta categoria di origine razzista). Pretesti per l'ingerenza negli
altrui affari interni e per l'intervento armato.
Scrivono Pietro Basso e Fabio Perocco (in Gli immigrati in Europa, Franco
Angeli, Milano 2003 - libro di cui si raccomanda la lettura): "Da quando si
e' esaurito il ciclo di sviluppo post-bellico (1945-1973), il tasso di
accumulazione del capitale e' rimasto, nel complesso, ansimante; e non
potra' risollevarsi senza una massiccia iniezione supplementare di valore
che puo' venire solo da una complessiva svalorizzazione della forza lavoro
alla scala mondiale. Le politiche neo-liberiste che, a partire dal
reaganismo e dal thatcherismo, si sono imposte, con varianti estreme o
temperate, all'intero mondo, rispondono a questa necessita'". E ancora: "Il
conflitto fra l'Europa delle imprese, dei governi, degli stati, degli
ingegneri della cosiddetta pubblica opinione e gli immigrati e' al fondo un
conflitto di classe, che e' parte integrante del piu' vasto conflitto fra
capitale e lavoro. Il razzismo istituzionale, in tutte le sue varianti, non
si limita infatti a inferiorizzare le popolazioni di colore: cerca di
convertire tale conflitto tra capitale e lavoro in un conflitto tra
lavoratori, tra popoli, tra culture, tra religioni, facendo leva su reali
disuguaglianze... per acuirle fino al parossismo e allo scontro".
Partendo dall'analisi della condizione riservata agli immigrati - i
proletari estremi, quelli che "non hanno da perdere che le loro catene" -
Basso e Perocco individuano i veri motivi sia della svolta liberista nel
sistema del capitale, sia della nuova crociata contro chiunque si rivolti in
qualsiasi forma a quel dominio. La nozione che il capitale contiene in se'
il lavoro come elemento costitutivo assoluto e come contraddizione interna
assoluta e' alla base delle teorie e della pratica della lotta di classe
dalla meta' del XIX alla meta' del XX secolo. Via via che la contraddizione
si esaspera, diminuisce la possibilita' dei compromessi politici. Il
capitale ha bisogno di restringere sempre piu' lo spazio del lavoro, e nella
seconda meta' del XX secolo arriva a divorare il lavoro quale entita'
politica e a distruggere la politica quale dimensione mediatrice. Il
meccanismo dell'accumulazione e della riproduzione allargata conduce alla
formazione di capitali immensi strutturati in organismi di dominio globale
che mirano al controllo totale e diretto degli stati-nazione e a creare un
proprio dominio assoluto sul lavoro che, disperso in particelle atomizzate e
flessibili, potenzialmente prive di ogni autonomia umana, sia manovrabile
come oggetto e ricondotto allo stato puro di merce. Le immense masse di
lavoratori, anche non industriali, che popolano le zone del mondo non
metropolitane, sono le prime assoggettabili al piu' alto grado di controllo
e di sfruttamento.
Si torna cosi' a forme di banditismo peggio che ottocentesco, alla
ricolonizzazione diretta e indiretta di gran parte del mondo. E' questa la
prima fonte della politica di aggressione e della guerra permanente, con
tutte le ideologie di copertura, quelle che mirano, secondo l'espressione di
Basso e Perocco, a "mobilitare la popolazione lavoratrice autoctona contro
altre popolazioni e contro se stessa". E' "l'antico" conflitto
capitale-lavoro che ritorna centrale per contrastare la distruzione globale
in atto.

4. RIFLESSIONE. DANILO ZOLO: PROCESSARE IL NEMICO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 dicembre 2003. Danilo Zolo, illustre
giurista, e' nato a Fiume (Rijeka) nel 1936, docente di filosofia e
sociologia del diritto all'Universita' di Firenze; tra le sue opere
segnaliamo almeno: Stato socialista e liberta' borghesi, Laterza, Bari 1976;
Il principato democratico, Feltrinelli, Milano 1992; (a cura di), La
cittadinanza, Laterza, Roma-Bari 1994; Cosmopolis, Feltrinelli, Milano 1995;
Chi dice umanita', Einaudi, Torino 2000]

Il significato profondo dei Tribunali militari di Norimberga e di Tokyo,
istituiti dalle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale contro i
criminali di guerra tedeschi e giapponesi, non fu quello di "fare
giustizia". Fare giustizia significa tentare di interrompere la sequenza
politica della divisione, dell'odio e dello spargimento del sangue per
decostruire il conflitto e tentare di esorcizzarlo attraverso l'uso di mezzi
giudiziari.
La giustizia, in questo senso, si oppone alla faziosita' della politica
perche' e' la ricerca di uno spazio di imparzialita', e' il ricorso a
principi giuridici capaci di dirimere e neutralizzare il conflitto. Se la
metafora della politica e' la spada, quella della giustizia e' la bilancia.
Per questo c'e' chi ritiene che l'istituzione di tribunali speciali a
conclusione di una guerra - internazionale o civile - puo' essere il primo
passo verso la pace, non diversamente dalla amnistia, classico strumento di
pacificazione della memoria collettiva e di inibizione della vendetta
generalizzata. I processi internazionali di Norimberga e di Tokyo - e' stato
il massimo giurista del secolo scorso a sostenerlo, Hans Kelsen - hanno
stravolto l'idea di giustizia, annullandone ogni distinzione rispetto alla
politica e alla guerra. Sono stati una resa dei conti, il regolamento delle
pendenze, la vendetta dei vincitori sui vinti. E' stata una parodia
giudiziaria con una letale valenza simbolica. Essere sconfitti e uccisi in
guerra e' cosa normale e persino onorevole. Ma essere giustiziati dopo
essere stati sottoposti alla giurisdizione del nemico e' una sconfitta
irreparabile, e' la degradazione estrema della propria dignita' e identita'.
Hedley Bull, Bert Roeling e Hannah Arendt hanno condiviso questo rifiuto
della "giustiza politica" e della sua manichea contrapposizione della
moralita' dei vincitori alla malvagita' degli sconfitti.
*
Oggi gli Stati Uniti, potenza occupante dei territori dello stato iracheno,
stanno allestendo un processo contro Saddam Hussein, che nel frattempo
tengono prigioniero, esibiscono come una vittima sacrificale e sottopongono
a pesantissimi interrogatori, in flagrante violazione di una serie di
Convenzioni internazionali, a cominciare da quelle di Ginevra del 1949. Di
piu', per bocca del loro presidente Bush, fervido sostenitore della pena di
morte, raccomandano l'applicazione della "pena estrema" contro il dittatore.
Ritorna dunque lo spettro di Norimberga - al quale non pochi osservatori
occidentali si richiamano come a un modello da imitare - e ritorna la logica
della stigmatizzazione, della vendetta e del sopruso. In questo caso il
sopruso e' di proporzioni conclamate.
Gli Stati Uniti, con la complicita' della Gran Bretagna e di altri paesi
occidentali, inclusa l'Italia, occupano militarmente l'Iraq in palese
violazione della Carta delle Nazioni unite e del diritto internazionale
generale. Alla luce del diritto gli occupanti meriterebbero sanzioni
severissime e tuttavia accade esattamente il contrario.
Sono gli aggressori a erigersi a giudici degli aggrediti in nome di valori
universali - la liberta', la democrazia, il rispetto della vita - che essi
hanno sistematicamente calpestato. E si richiamano al diritto nonostante il
loro rifiuto di sottomettersi alla giurisdizione della Corte penale
internazionale che e' stata istituita proprio a difesa di questi valori.
Per opera del "proconsole" Paul Bremer e con la complicita' dell'Iraqi
Governing Council, da essi istituito, gli Stati Uniti hanno frettolosamente
addestrato un certo numero di giudici iracheni che dovrebbero dar vita ad un
Tribunale speciale, composto di cinque membri, incaricato di giudicare
Saddam Hussein e altri esponenti del suo regime.
Si tratta di una procedura illegale per una lunga serie di ragioni: perche'
gli Stati Uniti detengono illegalmente Saddam Hussein, perche' il Governing
Council e' privo di ogni legittimita' politica, sia internazionale che
interna, perche' l'istituzione di un tribunale speciale per volonta' delle
forze occupanti e' illegale, perche' il tribunale non offrirebbe le minime
garanzie di autonomia nei confronti della potenza occupante e di
imparzialita' verso l'accusato, e infine perche', rebus sic stantibus,
mancano le norme di diritto positivo iracheno sulla base delle quali
giudicare i crimini dell'ex-dittatore.
L'anomia giuridica e il vuoto di potere legittimo provocati dalla guerra
sono tali che il processo finirebbe in una teatralizzazione propagandistica
con il solo scopo di coprire i misfatti dei vincitori, di disumanizzare
l'immagine del nemico e di legittimare nei suoi confronti, in quanto nemico
dell'umanita', comportamenti ostili sino all'estrema disumanita'.
*
Un'esigenza minima di legalita' internazionale esigerebbe l'immediata
consegna di Saddam Hussein a una autorita' internazionale neutrale, sotto
l'egida delle Nazioni Unite, e la sua custodia in condizioni di dignitosa
detenzione preventiva. Al momento opportuno potrebbe essere decisa la sua
consegna alle autorita' irachene che la richiedano, a condizione che queste
autorita' siano del tutto emancipate dalla occupazione straniera e siano
democraticamente sostenute dalla maggioranza della popolazione. E a
condizione che, nel caso che l'ex dittatore venga sottoposto a processo, sia
esclusa la sanzione capitale, una sanzione che i tre Tribunali
internazionali penali oggi operanti hanno abolito.
L'assassinio rituale di Saddan Hussein offrirebbe un contributo non alla
pacificazione dell'Iraq ma alla causa dell'odio e del terrore.

5. RIFLESSIONE. GIAMPAOLO CALCHI NOVATI: LE LEGGI DEL PIU' FORTE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 dicembre 2003. Giampaolo Calchi
Novati, nato nel 1935, docente universitario, e' tra i massimi esperti
italiani delle questioni del sud del mondo. Tra le opere di Giampaolo Calchi
Novati: Neutralismo e guerra fredda (1963); L'Africa nera non e'
indipendente (1964); Le rivoluzioni nell'Africa nera (1967); La rivoluzione
algerina (1969); Decolonizzazione e terzo mondo (1979); La decolonizzazione
(1983); Dopo l'apartheid (a cura di, 1986); L'Africa (1987); Nord/Sud
(1987); Maghreb (a cura di, 1993); Il Corno d'Africa nella storia e nella
politica (1994); Dalla parte dei leoni (1995); Storia dell'Algeria
indipendente (1998); Il canale della discordia (1998)]

Pochi giorni prima della cattura di Saddam, in Iraq e' stato istituito un
tribunale speciale, composto da iracheni, per giudicare i crimini del regime
del Baath. Gli osservatori piu' sereni avevano subito obiettato che una
simile corte era priva della legittimita' e indipendenza necessarie per
assicurare un minimo di validita' ai verdetti di questo e di altri tribunali
dello stesso genere, in presenza di un'autorita' contestata come, nel caso
dell'Iraq, le forze d'occupazione americane. Non e' detto comunque che
l'ipotetico processo all'ex rais si svolgera' davanti a questo tribunale.
I dubbi avanzati sul tribunale speciale di Baghdad possono essere estesi ad
altri tribunali che funzionano o potrebbero essere attivati prossimamente
nella periferia turbolenta e tormentata del mondo post-bipolare. E' generale
la tendenza, in questa fase, muovendo magari da buone intenzioni, a
incrociare la politica e la giustizia, con risultati discutibili o
francamente perversi. Malgrado la maggiore dignita' che e' stata loro
conferita dalla matrice Onu, anche i tribunali sui crimini commessi in
Jugoslavia nelle guerre che hanno accompagnato il suo disfacimento o nel
Ruanda del genocidio contro i tutsi non sfuggono in effetti a riserve che
riguardano in ultima analisi la loro imparzialita' e l'universalita' (almeno
virtuale) della loro ratio.
*
Proprio ai primi di dicembre il Tribunale penale internazionale per il
Ruanda (Tpir), con sede ad Arusha in Tanzania, ha emanato alcune condanne
che fanno discutere.
Il Tpir e' stato creato dalle Nazioni Unite ed e' un po' il fratello minore
del Tribunale per la Jugoslavia che risiede all'Aja. Fino all'agosto scorso
i due tribunali avevano addirittura alla testa un medesimo procuratore, il
magistrato svizzero Carla Del Ponte.
Le sentenze di cui si parla hanno comminato l'ergastolo a due esponenti del
passato regime hutu e una condanna a 27 anni di reclusione (35 secondo
alcune fonti) per un terzo. I tre imputati erano accusati, e sono stati
ritenuti responsabili, di delitti a mezzo stampa o radio-televisione. Uno di
essi, Ferdinand Nahimana, storico e professore, e' uno dei fondatori della
Radio-Televisione delle Mille colline (Rtlm), di cui divenne l'ideologo e il
direttore di fatto. L'altro ergastolo e' stato pronunciato contro Hassan
Ngeze, che, senza avere i precedenti intellettuali di Nahimana, si
improvviso' una professione di giornalista lanciando nel 1990 la rivista
"Kangura" e pubblicando un libello, intitolato Les Dix Commandements des
Hutus, che era un inno alla "caccia ai tutsi". Figura fra i fondatori della
Rtlm, di cui durante il genocidio secondo i giudici era il "numero due",
anche il terzo condannato, Jean-Bosco Barayagwiza, gia' funzionario
internazionale prima di andare a far parte del gruppo piu' esagitato
dell'oltranzismo hutu al servizio dell'ala dura del governo del presidente
Habyarimana. La sua condanna a una pena detentiva meno grave si giustifica
con alcuni errori a suo danno nel corso del giudizio che sono stati ammessi
anche dalla corte.
Tutto il processo, iniziato nel 2000, ha peccato di lungaggini, confusione e
approssimazione, che, sembra, non avrebbero inficiato tuttavia la sostanza
delle accuse.
L'aspetto innovativo e controverso di questi giudizi, e delle relative
sentenze di condanna, deriva dal fatto che i reati contestati non erano di
partecipazione diretta ai massacri ma di istigazione alla violenza razziale.
I difensori hanno gridato allo scandalo come se le trasmissioni della
famigerata Radio delle Mille colline, che preparo' e sostenne gli assassinii
di massa, spesso indicando i diversi bersagli alle milizie hutu o ai singoli
cittadini in preda a quella furia omicida, possano essere scambiate per
"opinioni" da tutelare in nome della liberta' d'espressione. Vero e' che per
trovare un precedente del genere bisogna tornare ai tempi del processo di
Norimberga contro i capi del nazismo.
Piu' fondati appaiono altri interrogativi che hanno a che fare da una parte
con le responsabilita' dei sobillatori o complici occulti, meno esposti dei
"media dell'odio", e dall'altra con l'ambito della giurisdizione del Tpir, a
cui il governo ruandese vuole impedire di investigare o istruire processi
sulle vendette perpetrate dal regime tutsi nel dopo-genocidio. Fra l'altro,
sarebbero state le pressioni di Paul Kagame, l'"uomo forte" del regime di
Kigali, ad aver portato alla sostituzione della Del Ponte con la scusa della
sua doppia carica, all'Aja e ad Arusha, con conseguente scarso attivismo del
Tribunale per il Ruanda, che con uno staff di 872 persone e un bilancio di
88 milioni di dollari all'anno ha prodotto solo 17 sentenze in nove anni
(contro le 30 condanne in 10 anni del Tribunale dell'Aja). Prima delle
ultime tre condanne, erano stati giudicati dal Tpir solo personaggi
secondari. Le associazioni delle vittime avevano espresso la loro sfiducia
invitando i testimoni a non deporre piu' davanti al Tribunale.
*
Sulle colpe e sui colpevoli da ricercare in Belgio e in altre capitali
dell'alta politica c'e' qualcosa di piu' di un sospetto. Il generale Romeo
Dallaire e' un militare canadese che comandava la missione distaccata
dall'Onu in Ruanda per mantenere la pace. La piccola forza di caschi blu si
dimostro' del tutto impotente quando esplose il genocidio. Dallaire ha
pubblicato un libro drammatico sulla sua esperienza (J'ai serre' la main du
diable) e in un recente servizio sul "Monde" ha ribadito le sue accuse.
La sintesi del suo pensiero e' presto fatta: "Questo mondo diretto da Stati
Uniti, Francia e Regno Unito, ha facilitato e incoraggiato il genocidio". Le
grandi potenze avrebbero sabotato, per motivi differenti, l'operazione
dell'Onu, negandole i mezzi e il mandato che avrebbero forse potuto
prevenire o quanto meno arrestare la carneficina. Gli ottocentomila tutsi
uccisi in cento giorni, per lo piu' a colpi di machete, continuano a turbare
la mente di Dallaire. Inchieste anche complesse sulle varie responsabilita'
a livello di governi e organismi internazionali sono state condotte dall'Oua
e dalla stessa Francia. Malgrado tutto, pero', nessuno fuori del Ruanda e'
mai stato chiamato a rispondere, fosse pure politicamente, di quelle cataste
di morti.
*
Dopo Auschwitz si ripete sempre "mai piu'". Ma e' angoscioso e imbarazzante
dover constatare che nei fatti quel monito e' inteso dai piu' in modo
riduttivo: "mai piu' per i bianchi". Soprattutto quando si tratta di
violenze o usurpazioni di diritti a danno di popoli africani, asiatici o
arabi, tanto piu' se attuate dalle potenze europee o dagli Stati Uniti, o da
Israele (lasciando da parte i "mostri" locali), la vigilanza della
cosiddetta "comunita' internazionale" - e, peggio, della coscienza
dell'umanita' tutta - e' a dir poco distratta o compiacente. Anche quando
non siano in atto strumentalizzazioni politiche. Per il solo "effetto
lontananza".
Nel caso del Ruanda e' stato varato un tribunale internazionale, ma
anch'esso opera a senso unico. Non e' di buon auspicio per gli altri
tribunali che dovrebbero o potrebbero pronunciarsi sui fatti della Liberia,
della Sierra Leone o del Congo, senza contare appunto l'Iraq, dove pesa in
modo particolare il vulnus di un'occupazione che l'arresto di Saddam Hussein
non ha certo reso piu' legale.
Questi tribunali, limitiamoci al quadro africano, sono una componente
essenziale di un sistema di "risoluzione dei conflitti" che ha bisogno di
un'estrema cautela, di neutralita'. Si sa invece che l'intervento delle
grandi potenze, dal cui benvolere dipendono in modo eccessivo per i
finanziamenti, gli esperti o consiglieri, e per la raccolta delle prove, e'
sempre orientato a soddisfare interessi di parte, siano essi economici o
strategici o piu' semplicemente clientelari in vista di un determinato
"ordine".
Oggi si fa politica anche e sempre di piu' attraverso l'azione mediatica. E
qui torna pertinente l'incriminazione di Nahimana e degli altri estremisti
hutu per reati di natura "ideologica". Nessun paragone e' possibile
ovviamente fra le Mille colline, in quella determinata emergenza, e la Cnn o
Fox News. Ma che dire di quell'insieme di informazione (o disinformazione) e
propaganda che concorre a fare "consenso", nei nostri paesi o sul piano
mondiale, a sostegno di una politica "democratica" che puo' avere, come ha
avuto, effetti letali per le persone, le cose e le istituzioni
internazionali o di paesi che sono poco protetti perche' illiberali o poveri
o al bando per qualche motivo?
E' anche cosi' che si arriva alle auto-assoluzioni e alla presunzione di
innocenza.
Secondo i risultati di una ricerca effettuata da studiosi dell'Universita'
del Maryland, fra un quarto e la mete' della popolazione americana credeva
ancora ieri che sono state accertate prove di legami fra l'Iraq di Saddam e
Al Qaeda, che dopo l'invasione sono state rinvenute armi di distruzione di
massa in Iraq e che l'opinione pubblica internazionale ha avallato la guerra
intrapresa da Bush. Fatte tutte le debite proporzioni, ci si puo' chiedere
se non siamo davanti a un'altra discrasia a vantaggio dei soliti potenti.
*
I governi dell'Africa o del mondo islamico, e ancora di piu' i movimenti
non-statali che agiscono nell'ombra, usano trincerarsi dietro le
frustrazioni o le rivendicazioni delle masse sfavorite. Pretesti fin troppo
evidenti per accreditare le loro politiche, spesso repressive e autoritarie.
Il paradosso e' che tutte queste discriminazioni nei fatti risparmiano le
elites e colpiscono pressoche' solo le popolazioni.
Tanto per restare alla fattispecie del Ruanda, il presidente Kagame e' gia'
stato a Parigi avviando un principio di riconciliazione con il paese che a
suo tempo Kigali accuso' di aver armato l'apparato di potere degli hutu.
L'Operazione Turchese orchestrata dalla Francia per "coprire" la propria
rete di supporto rimasta in Ruanda e' stata perdonata? Con quali ricompense?
Il Ruanda, intanto, a conferma che il suo governo ha ben meritato agli occhi
di chi conta, e' stato incluso dai dirigenti americani fra gli stati che
possono concorrere alle opere di ricostruzione in Iraq.

6. APPELLI. ASSOCIAZIONE GIURISTE D'ITALIA "GIUDIT": UNA LEGGE
INCOSTITUZIONALE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riprendiamo questo
appello dell'Associazione giuriste d'Italia "Giudit"]

L'associazione giuriste d'Italia "Giudit" invita giuriste e giuristi a
discutere e studiare insieme i possibili percorsi argomentativi sugli
aspetti di illegittimita' costituzionale della legge sulla fecondazione
assistita.
La legge in materia di procreazione medicalmente assistita una legge
mostruosa sotto molti profili:
1. perche' e' il frutto delle paure che popolano le fantasie maschili di
fronte alla liberta' femminile nella procreazione;
2. perche' propone pratiche sadiche sui corpi e le menti delle donne, che
saranno - tra l'altro - costrette a sottoporsi a trattamenti ormonali
devastanti e a subire coattivamente l'impianto dei tre embrioni "legittimi";
3. perche' a questi fini sacrifica la laicita' dello stato di diritto;
4. perche' e' una legge programmaticamente inefficace e destinata
inevitabilmente a produrre effetti perversi e discriminatori (turismo
riproduttivo, mercato nero dei gameti, ecc.).
Per contrastare questa legge una delle strade politico-giuridiche
praticabili e' mostrarne i profili di contrasto con i principi sanciti dalla
Carta Costituzionale.
A tal fine l'associazione "Giudit" invita giuriste e giuristi che hanno gia'
riflettuto e operato sui temi dell'autodeterminazione e della liberta'
riproduttiva in relazione alle innovazioni tecnologiche, a discutere e
studiare insieme i possibili percorsi argomentativi sugli aspetti di
illegittimita' costituzionale di questa legge.
Secondo noi, infatti, la legge costituisce una inaccettabile aggressione
alla liberta' e ai diritti fondamentali di donne e uomini. In particolare la
legge viola:
a. il rispetto della dignita', principio che include il riconoscimento della
liberta' di compiere autonomamente le scelte fondamentali della propria vita
personale, tra cui quelle riproduttive;
b. il diritto di liberta' personale;
c. il diritto alla salute;
d. il principio di non discriminazione;
e. il principio di liberta' della ricerca scientifica.
Cio' detto, riteniamo che altro sia il modo in cui il diritto possa, e
debba, intervenire a regolare questa materia. Avvertiamo la necessita' di
una discussione aperta e ancora da approfondire sugli aspetti nuovi e
problematici connessi allo sviluppo delle biotecnologie.
Dunque ci sentiamo impegnate a fare in modo che il dibattito politico e
culturale non resti pietrificato innanzi alla ferocia della pretesa
giuridica, ma al contrario proceda con maggiore slancio e coinvolga anche
chi e' rimasto/a finora silenzioso/a.

7. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: I PARADOSSI DELLA LAICITA'
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 dicembre 2003. Ida Dominijanni (per
contatti: idomini@ilmanifesto.it), giornalista e saggista, e' una
prestigiosa intellettuale femminista]

Sono passati solo pochi giorni dal solenne annuncio della legge sulla
laicita' da parte di Chirac, e gia' le cronache raccontano di alcune
manifestazioni spontanee contro la legge e a favore dell'uso "libero" del
velo. Sono manifestazioni di donne delle banlieues, ma non di sole donne: le
accompagnano padri, fratelli, amici. Le organizzazioni islamiche ufficiali
non c'entrano e non commentano. Le due ragazze che hanno organizzato il
corteo parigino (via Internet, tanto per smentire in partenza i tagli con
l'accetta fra arcaicita' islamica e modernita' occidentale) dicono che non
hanno nessuno alle spalle e che portare il velo e' una loro scelta.
Bisogna crederci? E' difficile rispondere. La scrittrice iraniana Chahdortt
Djavan ad esempio, intervistata qualche giorno fa dalla "Stampa", e' sicura
di no: "Il fatto di assoggettarsi volontariamente non rende meno infame
l'assoggettamento. Se ci sono delle donne che vogliono portare
volontariamente questo simbolo di umiliazione, le altre hanno il diritto di
contestarlo".
Certo che si', le altre hanno il diritto di contestarlo. Pero' le due
ragazze alla testa del piccolo corteo parigino col foulard una bianco
l'altra nero non sembrano tanto assoggettate. E la simbologia della
manifestazione manda messaggi complicati. Che vorra' dire ad esempio quel
foulard tricolore bianco, rosso e blu portato da alcune? Un tentativo di
sintesi (fatta dal basso, non per legge) fra appartenenza cultural-religiosa
all'Islam e cittadinanza francese, parrebbe. E gli slogan? Ecco due buoni
esempi di come i valori universali occidentali possano essere facilmente
presi in castagna: 'Tolleranza, dove sei?', 'Lasciateci il velo: liberte',
egalite'". Tradotto: che fine fa la liberta', se in suo nome si impone un
divieto? Che fine fa la tolleranza, se in suo nome non si tollera una
religione? Che fine fa l'uguaglianza, se non sopporta le diversita'?
*
Su "Le Monde", che dopo il pronunciamento di Chirac a favore della legge
sulla laicita' ha pubblicato diverse opinioni sul tema, il sociologo Edgar
Morin ha messo in guardia dall'uso di "usare un martello pneumatico per
rompere un uovo". Alain Touraine invece ha difeso la legge come garanzia
della costruzione di uno spazio di neutralita' protetta, nel quale i
conflitti identitari non diminuiranno ma potranno essere meglio vissuti e
affrontati. La filosofa Elisabeth de Fontenay l'ha difesa senz'altro.
Aristide Zolberg, professore di scienze politiche alla New York University,
ha detto che la legge rischia di produrre l'effetto perverso di rafforzare
le resistenze invece di scioglierle, imponendo un'ardua scelta fra fede
religiosa e integrazione nella cittadinanza francese; ha ricordato i
terribili conflitti che opposero cattolici e protestanti dal 1840 in poi nel
nuovo continente; ha avanzato l'ipotesi che l'adozione di pratiche morbide
di tolleranza sia preferibile all'adozione di leggi dure e poco flessibili.
Sono tutte opinioni plausibili (io preferisco la prima e l'ultima).
Cosa resta ancora da dire? Questo. A me non piace l'ennesimo conflitto fatto
in nome e per conto delle donne ma senza prestare grande ascolto a cio' che
le donne dicono.
Una posizione a favore della laicita' e contro l'oppressione del velo
rischia di scontrarsi con il paradosso con cui si e' gia' scontrata ai tempi
della guerra in Afghanistan, quando Bush chiamo' il mondo a combattere i
talebani per liberare le afghane dal velo e molto femminismo americano ed
europeo si trovo' stretto nella morsa fra istanza pacifista e istanza di
difesa dei diritti delle afghane. Una posizione di massima tolleranza delle
identita' religiose rischia di subordinare il problema dell'oppressione
femminile a quello del pluralismo.
Sono paradossi interni alla logica occidentale dei diritti universali;
quello che risulta chiaro e' che le donne, escluse in partenza da quella
logica all'inizio della sua parabola, non vi possono essere incluse oggi
senza svelarne i trucchi e le aporie. Invece che legiferare in loro nome,
converrebbe ascoltarne la parola e l'esperienza: quando parla di oppressione
e quando parla di liberta', e quando trova nuove combinazioni per
risignificare simboli scaduti e ideologie provate.

8. RIVISTE: "A. RIVISTA ANARCHICA"
Nel numero 295 del dicembre 2003 di "A. Rivista anarchica" come sempre molti
i testi di straordinario interesse. "A. Rivista anarchica" e' una delle
migliori riviste italiane di cultura e politica, e vivamente raccomandiamo
ai nostri interlocutori di leggerla e di sostenerla. Per contatti: c. p.
17120, 20170 Milano; tel. 022896627, fax: 0228001271, e-mail:
arivista@tin.it, sito www.arivista.org (un sito eccellente, in cui e'
possibile consultare l'archivio della rivista, invero un prezioso strumento
di conoscenza e di lavoro).

9. RIVISTE: "KESHET. VITA E CULTURA EBRAICA"
Una rivista da leggere dalla prima all'ultima pagina "Keshet. Vita e cultura
ebraica", di cui e' uscito il n. 1-2, anno II, settembre-ottobre 2003. Una
rivista che apporta contributi fondamentali per una cultura e una prassi di
pace; in questo ultimo numero raccomandiamo particolarmente l'editoriale
dell'amico e maestro Bruno Segre (che di "Keshet" e' direttore, e che come
tutti sanno e' uno straordinario costruttore di pace). Per contatti: via S.
Gimignano 10, 20146 Milano, tel. 024150800, fax: 024151178, e-mail:
keshet@libero.it

10. RILETTURE. KARL RAHNER: CORSO FONDAMENTALE SULLA FEDE
Karl Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, Cinisello
Balsamo (Mi) 1977, quinta edizione 1990, pp. 600, lire 32.000. Una grande
opera dell'illustre teologo (1904-1984).

11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

12. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini@tin.it,
angelaebeppe@libero.it, mir@peacelink.it, sudest@iol.it, paolocand@inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 770 del 30 dicembre 2003