[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]

La nonviolenza e' in cammino. 745



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 745 del 30 novembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Emergency: cessate il fuoco
2. Rete Lilliput: una lettera aperta sulla questione irachena
3. Tavola della pace: l'Italia per l'Iraq. Ripartiamo dall'Onu
4. Dara Dibitonto: la domanda ulteriore. Filosofia e nonviolenza
5. Mao Valpiana: i bambini ci guardano ma noi non li vediamo
6. Giobbe Santabarbara: un approccio colonialista
7. Elizabeth Mehren: costruttrici di pace si incontrano
8. Elio Rindone: delle parole lo scempio, e delle vite
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. APPELLI. EMERGENCY: CESSATE IL FUOCO
[Riceviamo e diffondiamo il seguente appello promosso da Emergency (per
contatti: www.emergency.it)]

I cittadini del mondo non riescono neppure piu' a piangere le tragedie del
terrore: a una bomba segue un'autobomba, a ogni morto una vendetta che
genera altri morti e altre vendette.
Nomi diversi - guerra, terrorismo, violenza - si traducono poi, tutti, in
corpi umani fatti a pezzi e in pezzi di umanita' perduti per sempre.
Non vogliamo piu' vedere atrocita': e' disumano che gli esseri umani
continuino ad ammazzarsi. Fermiamo questa spirale, o alla fine non restera'
piu' niente, nessuno avra' avuto ragione o torto, ci sara' solo una catena
infinita di lutti e distruzioni.
Chiediamo a tutti coloro che stanno praticando e progettando attentati e
guerre di fermarsi.
Chiediamo il tempo per riflettere, non possiamo assistere impotenti al
dilagare della follia omicida.
A tutti coloro che promuovono la violenza, clandestini organizzatori di
stragi o visibilissimi dittatori o presidenti, noi cittadini chiediamo:
"cessate il fuoco".
*
Aderisci all'appello
(http://www.emergency.it/cessateilfuoco/adesione.php?ln=It)
*
L'appello e' promosso da: Emergency; Noam Chomsky, docente al Massachusetts
Institute of Technology; Ignacio Ramonet, direttore di "Le Monde
Diplomatique"; Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica 1992-1999;
Hans van Sponeck, gia' coordinatore Onu per l'Iraq; Rigoberta Menchu',
premio Nobel per la pace 1992; Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la
medicina 1986; Dario Fo, premio Nobel per la letteratura 1997; Jack
Steinberger, premio Nobel per la fisica 1988; Leonardo Boff, teologo della
liberazione; Tavola Valdese, Unione delle chiese valdesi e metodiste in
Italia; Inge Schoental Feltrinelli, editrice; Gino Strada, fondatore di
Emergency; Ermanno Olmi, regista; Riccardo Muti, direttore d'orchestra;
Pietro Ingrao, scrittore; Carlo Ossola, docente al College de France; padre
Alex Zanotelli, missionario comboniano; Rabbi Michael Lerner, direttore
della rivista "Tikkun"; Sari Hanafi, direttore del Palestinian Diaspora and
Refugee Centre; Peretz Kidron, giornalista e scrittore; Yesh Gvul, movimento
dei soldati israeliani contro l'occupazione; Sylvie Coyaud, giornalista;
Farid Adly, giornalista; Hebe de Bonafini, presidente delle Madri di Plaza
de Mayo; Teresa Sarti, presidente di Emergency; don Luigi Ciotti, presidente
di Libera; Carlyle Vilarinho, capo di gabinetto del governo brasiliano;
Jose' Graziano da Silva, ministro fome zero del governo brasiliano; Amos Oz,
scrittore; Andrea Camilleri, scrittore; Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta;
Tiziano Terzani, scrittore; Giulietto Chiesa, giornalista; Vauro Senesi,
giornalista; Franca Rame, attrice; Lella Costa, attrice; Moni Ovadia,
attore.

2. DOCUMENTAZIONE. RETE LILLIPUT: UNA LETTERA APERTA SULLA QUESTIONE
IRACHENA
[Dall'ufficio stampa della Rete Lilliput (per contatti:
ufficiostampa@retelilliput.org) riceviamo e diffondiamo. La Rete Lilliput e'
una rete di esperienze di volontariato, di solidarieta', per la pace, per
un'economia di giustizia e la globalizzazione dei diritti. Rileviamo con
dispiacere che si tratta di un documento purtroppo confuso e contraddittorio
(in taluni punti fino allo stridore), mosso da un impulso giusto e
condivisibile, ma assai inadeguato sia nell'analisi che nelle proposte]

Cari amici,
gravemente preoccupati dall'accelerazione che ha subito il confronto fra le
forze della pace e quelle della guerra, soprattutto nel nostro paese, ci
rivolgiamo a tutti voi, per sottoporvi le considerazioni e la proposta che
seguono.
*
1. L'andamento del conflitto in Iraq (e anche la situazione in Afghanistan)
stanno confermando le piu' fosche previsioni. Soprattutto si stanno
prefigurando delle situazioni in cui la gestione da parte di poche potenze
sara' esposta con ogni probabilita' a perdite ulteriori, nonche'
protagonista e vittima di violenze crescenti: ogni giorno che passa senza
che vi sia un mutamento di rotta sostanziale la crisi diventera' sempre piu'
difficile da risolvere con modalita' politicamente accettabili.
Vediamo anche governi e partiti invischiati nelle prevedibili e previste
conseguenze delle loro decisioni di guerra, a partire dalla crescita del
terrorismo. Esso ha ampliato le sue capacita' operative, gode di aree di
sostegno popolare, opera ormai su uno scacchiere internazionale ed e' in
grado di infliggere perdite difficili da prevedere e da evitare. La lotta
contro un nemico del genere puo' facilmente vedere giustificata anche in
ampi strati popolari e nell'immaginazione comune il ricorso a misure
estreme, a ritorsioni, massacri, soppressioni di diritti umani. Occorre,
oggi piu' che mai, interrompere questa spirale con mezzi che escludano il
ricorso alla violenza degli Stati.
*
2. La situazione, sotto la minaccia di questo terrorismo internazionale, e
nel clima da esso alimentato, si e' negli ultimi giorni talmente deteriorata
che risulta addirittura inutile insistere per un ritiro immediato delle
forze armate dell'Italia e degli altri paesi in Afghanistan e in Iraq,
perche' la richiesta stessa alimenta risposte improntate a valori
nazionalistici e al peggior patriottismo.
In queste ore tristi, infatti, segnate dalla morte di tanti giovani, vediamo
riemergere e montare disvalori e isterie che speravamo scomparsi da quasi un
secolo. Un impegno diffuso per interrompere questi arretramenti culturali e'
ormai urgente e dovrebbe anche indurre a superare le divergenze marginali e
a sospendere le contrapposizioni spesso solo verbali tra organismi che
condividono alcune ispirazioni di fondo. Le diversita' di punti di vista si
riveleranno invece feconde di intuizioni e di nuovi modelli non appena
saremo in condizione di avviare una costruzione della pace che non sia per
l'ennesima volta solo un intervallo tra due guerre.
*
3. I valori e le posizioni piu' largamente condivisi sono ormai evidenti:
- Condanna e rifiuto del terrorismo, e determinazione a isolarne gli attori,
a prevenirne le cause, a svuotarne i moventi;
- Illegittimita' e rifiuto della guerra, considerata ormai uno strumento
sorpassato per risolvere difficolta' nei rapporti tra Stati;
- Illegittimita' e rifiuto delle guerre "preventive", "umanitarie",
"inevitabili per lottare contro il terrorismo";
- Illegittimita' e rifiuto della guerra contro l'Iraq, sia nella fase
iniziale che in quella attuale;
- Cambiamento nei modelli e nelle logiche degli interventi internazionali
volti ad eliminare le cause dei conflitti e maggiore diffusione delle
metodologie nonviolente di risoluzione dei conflitti.
*
4. Le organizzazioni che presentano questa iniziativa sono decise a
esercitare ogni possibile pressione per perseguire i seguenti obiettivi:
- affinche' l'Onu intervenga immediatamente in Iraq, con l'invio di un
contingente multinazionale, con funzioni di polizia internazionale, di
peacekeeping e di peacebuilding, con compiti ben definiti nei tempi e nei
modi, formato e guidato da paesi non attualmente belligeranti e che
rappresentino i diversi gruppi di paesi che sono presenti nell'Onu. Il
contingente dovra' comprendere sia forze armate, sia forze non armate in
misura consistente e in collaborazione non subordinata alle prime;
- per un contemporaneo ritiro delle truppe, anche italiane, che attualmente
agiscono da forze di guerra e di occupazione e non godono del consenso
internazionale di paesi e di popoli che e' condizione necessaria per
esercitare una funzione realmente di pace e di prevenzione e svuotamento -
non solo repressione - del terrorismo;
- per l'invio di una equipe di mediazione, scelta in sede Onu, formata da
esponenti di paesi non belligeranti, capace di avviare un reale processo di
ascolto, negoziazione e mediazione diretto ad iniziare e ad accelerare la
transizione dell'Iraq verso un processo di autodeterminazione
politico-economica, basato sulle scelte delle popolazioni locali;
- per l'invio in forme organizzate di volontari, coordinati con le ong che
gia' operano in Iraq, che realizzino, autonomamente anche se in
collaborazione con il contingente Onu, gli interventi di aiuto, sostegno
umanitario, ricostruzione materiale e sociale.
*
5. Le organizzazioni ribadiscono il loro impegno a proseguire insieme:
- In azioni di mobilitazione caratterizzate dall'attenzione, dal rispetto,
dal dialogo nei confronti delle opinioni diverse, dalla nonmenzogna, dalla
coerenza tra i fini indicati ed i mezzi impiegati, dimostrando (a questo
servono le dimostrazioni) che la pace puo' solo con mezzi pacifici essere
conseguita. E' per questo che proponiamo di attivare assieme azioni dirette
nonviolente, dal basso, come iniziative di protesta/proposta,
noncollaborazione attiva-boicottaggi, disobbedienza civile;
- Verso una economia di giustizia che preveda drastici mutamenti dei
peggiori meccanismi economici e sociali, in quanto l'economia di giustizia
rappresenta l'unica vera via di uscita dalla violenza strutturale sulle
popolazioni, reale causa non remota delle guerre e dei terrorismi;
- Verso il disarmo internazionale, il superamento del commercio e della
produzione di armamenti, la riconversione dell'industria bellica;
- Verso un profondo rispetto della natura, attribuendo priorita'
all'ambiente rispetto ad uno "sviluppo" basato solo sulla crescita
illimitata, e un progressivo rifiuto del modello neoliberista.
*
6. Gli organismi cui questa lettera si rivolge nella sola Italia sono
centinaia e tutti conosciamo le reali dimensioni del movimento
internazionale contro la guerra, non da oggi presente anche negli Usa, in
Israele e in altri paesi tormentati da conflitti.
Riteniamo sia necessario un salto di qualita' nella nostra opposizione, che
senza voler far scomparire differenze e distinzioni, permetta una
mobilitazione che non possa essere facilmente cancellata da contromisure
informative o da ragionamenti capziosi. Una mobilitazione che duri finche'
gli attuali focolai di guerra non siano messi al margine delle politiche
internazionali e si avvii la elaborazione di misure alternative, dirette
alla costruzione di una pace non formale.
Vi ringraziamo per l'attenzione che vorrete dedicare a queste nostre
considerazioni e proposte, e aspettiamo al piu' presto una vostra risposta,
che ci auguriamo positiva, e la vostra disponibilita' per un incontro di
tutte le forze per la pace e contro la guerra per definire e verificare
assieme un nuovo percorso di pace.
Il gruppo di lavoro tematico "Nonviolenza e conflitti" della Rete Lilliput

3. DOCUMENTAZIONE. TAVOLA DELLA PACE: L'ITALIA PER L'IRAQ. RIPARTIAMO
DALL'ONU
[Riceviamo e diffondiamo questo documento della Tavola della pace (per
contatti: www.tavoladellapace.it), il principale network pacifista italiano.
Non possiamo non rilevare alcune profonde ambiguita', reticenze e
contraddizioni di questo testo (tre esempi per tutti: sorvolare sul fatto
che l'Onu e' responsabile del piu' che decennale embargo genocida; la
cancellazione completa della nonviolenza che non compare mai in questo testo
neppure come riferimento ideale; una visione grottescamente caricaturale e
profondamente offensiva della popolazione irachena da cui discende una
formulazione del quid agendum dai tratti neocolonialisti), cosicche' questo
documento, pur apprezzabile nelle intenzioni, tanto nell'analisi quanto
nelle proposte resta assai inadeguato, e incondivisibile su alcuni punti
sostanziali]

La Tavola della pace rilancia un forte appello all'impegno per la pace in
Iraq proponendo il documento "L'Italia per l'Iraq: ripartiamo dall'Onu" che
propone l'impegno dell'Italia a sostenere il rapido rientro dell'Onu in Iraq
e a mettere fine all'occupazione anglo-americana. L'invito e' a sostenere la
proposta in occasione del 10 dicembre 2003, LV anniversario della
Dichiarazione universale dei diritti umani: "Mai piu' violenza, mai piu'
guerra, mai piu' terrorismo".
*
L'Italia per l'Iraq
E' tempo di cambiare strada. Chi vuole la pace non propone il disimpegno ma
un diverso e migliore impegno. Non piu' a sostegno delle potenze occupanti
ma a sostegno dell'Onu.
Lo aveva detto padre Ernesto Balducci nel 1991 e lo abbiamo ripetuto noi in
ogni occasione: "La guerra non ha piu' senso per il semplice fatto che non
si vince piu'. Per il semplice fatto che anche una guerra vinta non chiude
il conflitto che voleva chiudere: lo riapre in forme piu' nuove e
terribili".
Oggi questa drammatica verita' e' sotto gli occhi di tutti. La guerra non e'
servita a sconfiggere ma ad infiammare il terrorismo che continua a spargere
sangue e terrore senza limiti ne' confini. Non e' servita a rendere il mondo
piu' sicuro perche' ha indebolito l'Onu e la comunita' internazionale,
violato il diritto e la legalita' internazionale, diviso i paesi e i popoli
impegnati nella lotta al terrorismo, alimentato i bacini di odio e la
proliferazione delle armi. Non e' servita a portare la liberta' e la
democrazia in Afghanistan e in Iraq, ne' a mettere fine alle sofferenze di
quei popoli. La guerra non ha piu' alcun senso. Bisogna cambiare strada.
Perche' alcuni si ostinanano a non riconoscere questa verita'?
*
Ricominciamo dall'Onu
Ce lo impone la ragione. Lo suggerisce il buon senso.
All'indomani della tragedia di Nassiriya, la Tavola della pace rilancia un
forte appello all'impegno per la pace in Iraq e in Medio Oriente. Il dolore
profondo che oggi ci unisce alle famiglie di queste nuove vittime italiane
ed irachene deve dare impulso ad un rinnovato impegno comune per impedire
che la violenza, la guerra e il terrorismo possano continuare a prevalere
sulla domanda di pace, liberta', dignita' e giustizia.
Nostro dovere e' domandarci cosa possono fare l'Italia e l'Europa per il
popolo iracheno. Un popolo che, tra gravissime complicita' e silenzi della
comunita' internazionale, ha subito l'oppressione di Saddam Hussein, la
guerra contro l'Iran, la guerra del 1991, le sanzioni economiche,
l'invasione angloamericana del 2003 e le sue conseguenze.
La guerra che ha abbattuto il regime di Saddam non ha risolto i problemi
degli iracheni ne' ha ridotto le loro sofferenze. Il cancro che i signori
della guerra dicono di aver voluto estirpare si sta invece riproducendo
rapidamente in forme altrettanto violente e inaccettabili. La cronaca di
tutti i giorni testimonia come la prosecuzione dell'occupazione militare
angloamericana alimenti una spirale sanguinosa di attentati terroristici,
violenze e misure repressive che condannano la societa' irachena a vivere
ancora nel dolore, nell'insicurezza e nel caos. Cosi' non puo' continuare.
Solo l'Onu e un'Europa unita possono aiutare il popolo iracheno ad uscire da
questo vortice di lutti e sofferenze ricostruendo il proprio paese in un
quadro pacifico e democratico. E l'Italia, anche in qualita' di presidente
di turno dell'Unione Europea, ha il dovere di impegnare ogni sua energia in
questa direzione.
L'obiettivo non puo' essere solo la fine dell'occupazione e il trasferimento
dell'autorita' alle forze irachene. L'Onu e l'Europa sono indispensabili per
promuovere un autogoverno democratico, rispettoso dei diritti umani.
Il futuro dell'Iraq non puo' essere affidato ne' ad un governo imposto dagli
Stati Uniti, disconnesso dalla societa' irachena, teso a tutelare gli
interessi americani nell'area, ne' ad un insieme di gruppi religiosi, etnici
o tribali impegnati ad estendere il proprio potere senza rispetto per i
diritti umani. Entrambe le ipotesi di ricostruzione politica, coltivate dai
neoconservatori americani e dai piu' pragmatici inglesi, sono destinate ad
alimentare altre frustrazioni, altro malcontento, altra violenza e altro
terrorismo. Il rischio e' che il popolo iracheno non passi dalla dittatura
alla democrazia ma da una dittatura ad un sistema altrettanto violento,
ingiusto e antidemocratico.
La democrazia non potra' mai essere imposta dall'alto secondo un modello
importato dalle potenze occupanti o affidata ai diversi gruppi che oggi
prevalgono nel paese. La costruzione della democrazia esige tempo e pazienza
che mal si conciliano con l'escalation della violenza e con le esigenze
elettorali dell'amministrazione americana. Per questo abbiamo bisogno che
l'Onu - quale autorita' sovranazionale imparziale - sia presente in Iraq:
per sostenere un processo di transizione alla democrazia che affondi le
radici tra la popolazione e si nutra della promozione dei diritti umani.
*
L'Italia deve dunque investire subito sull'Onu e fare ogni sforzo per
favorire il suo rapido rientro in Iraq.
Invece di prolungare la missione dei nostri tremila soldati a Nassiriya a
fianco delle truppe d'occupazione, l'Italia deve destinare tutte le proprie
risorse umane e finanziarie per rafforzare il ruolo vitale dell'Onu.
Invece di restare in Iraq agli ordini del comando anglo-americano, l'Italia
deve mettersi a disposizione e agire di concerto con il segretario generale
dell'Onu.
Invece di sprecare altri soldi in una missione militare dai contorni confusi
e discutibili, l'Italia deve investire nel ridare credibilita' all'unica
autorita' sopranazionale che puo' rispondere ai bisogni vitali di una
popolazione stremata da decenni di guerre e dittature e che puo' aiutare gli
iracheni a recuperare capacita' di autodeterminazione e autogoverno
democratico.
Invece di agire ancora una volta da sola, l'Italia deve lavorare perche'
questa diventi la posizione e l'iniziativa comune dell'Europa: un'Europa che
s'impegna a ricostruire l'Iraq e la pace in Medio Oriente ma anche il diritt
o e la legalita' internazionale violate.
Questa e' la svolta che noi chiediamo al parlamento e al governo italiano.
Continuare come se niente fosse accaduto sarebbe un grave errore.
*
L'Italia e l'Europa unita devono porsi l'obiettivo di sostenere l'azione
delle Nazioni Unite a partire da quelle missioni che la stessa Risoluzione
1511 elenca: assicurare la necessaria assistenza umanitaria alla
popolazione, promuovere la ricostruzione economica, favorire una rapida
transizione politica in modo che il popolo iracheno possa determinare
liberamente il proprio futuro politico e controllare le proprie risorse
naturali, favorire il dialogo nazionale e la costruzione del consenso che
dovra' portare alla stesura della nuova costituzione e alla convocazione di
elezioni democratiche, accelerare gli sforzi per costruire istituzioni
locali e nazionali democratiche e rappresentative, promuovere la protezione
dei diritti umani in tutto il paese, favorire lo sviluppo di media
indipendenti, sostenere lo sviluppo della societa' civile irachena e delle
sue organizzazioni indipendenti, etc.
La decisione di investire sull'Onu dovra' essere accompagnata da una
importante azione diplomatica di concertazione con tutti i paesi della
regione e le organizzazioni regionali, come la Lega Araba e l'Organizzazione
della Conferenza Islamica.
Per aiutare le Nazioni Unite a raggiungere questi obiettivi l'Italia e
l'Unione Europea devono inoltre impegnarsi per aprire le porte dell'Iraq a
tutte quelle organizzazioni internazionali della societa' civile che hanno
dimostrato di saper intervenire con efficacia anche laddove i governi non
osano avventurarsi e alle quali ancora oggi viene sostanzialmente impedito
di agire. Queste organizzazioni sono una risorsa insostituibile della
comunita' internazionale: meritano di essere sostenute, incoraggiate e
valorizzate a partire dal nostro paese.
*
All'indomani della strage di Nassiriya e dei numerosi attentati terroristici
che stanno angosciando il mondo, rinnoviamo il nostro appello di pace
convinti che sia necessario operare piu' attivamente e con maggiore
determinazione nel cantiere della pace positiva. In un mondo sempre piu'
globalizzato, al positivo e al negativo, la via obbligata della pace e'
quella della cooperazione, del multilateralismo, della legalita'
internazionale, della centralita' delle Nazioni Unite.
La lotta al terrorismo non puo', non deve conoscere tregue. Perche' sia
vincente, essa deve essere condotta sulla strada maestra della sicurezza
collettiva, dell'economia di giustizia e di "tutti i diritti umani per tutti
gli esseri umani", una via che passa attraverso le legittime Istituzioni
internazionali. L'unilateralismo, oltre che illegale, non paga neppure alla
luce del calcolo costi/benefici. I governi, non altri, hanno la
responsabilita' e tutto il potere che e' necessario per far funzionare
efficacemente le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali. La
societa' civile globale preme da lungo tempo in questa direzione.
*
Nel 1989 abbiamo tutti sognato un mondo di pace. All'inizio degli anni
novanta, l'allora segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros-Boutros
Ghali, disse chiaro e tondo agli Stati che non avevano piu' alibi da addurre
per non far funzionare le Nazioni Unite, e presento' loro il Rapporto
conosciuto come "Un'agenda per la pace". La risposta fu una sequela di
guerre, a cominciare da quella del 1991, la prima guerra del Golfo. E il
terzo millennio si e' inaugurato con altre guerre: tutte inaccettabili. E'
tempo di dire basta. Tutti insieme.
In tempi di dolore, di ambiguita' e di insicurezza come quelli che stiamo
angosciosamente vivendo, rinnoviamo il nostro impegno di pace invitando
tutte le donne e gli uomini di buona volonta' a gridare insieme, il prossimo
10 dicembre 2003, LV anniversario della Dichiarazione universale dei diritti
umani: 'Mai piu' violenza, mai piu' guerra, mai piu' terrorismo".

4. EDITORIALE. DARIA DIBITONTO: LA DOMANDA ULTERIORE. FILOSOFIA E
NONVIOLENZA
[Ringraziamo Daria Dibitonto (per contatti: dariadibitonto@libero.it) per
questo intervento. Daria Dibitonto, dottoranda in filosofia con una tesi sul
desiderio nel pensiero di Ernst Bloch, si e' laureata nel 2001 in filosofia
con una tesi sul fondamento della speranza reale nel pensiero di Juergen
Moltmann. E' tra i soci fondatori di "Incontri e percorsi - associazione
multietnica vercellese"; ha compiuto soggiorni di studio e ricerca in
Germania, a Kiel, Berlino e Tuebingen; collabora con la redazione della
rivista "Filosofia e teologia"]

Mai come nel Novecento la filosofia e' stata sottoposta a critica cosi'
assidua e radicale dai suoi stessi rappresentanti, i filosofi, che nel
secolo passato sono stati autori e attori della sua profonda crisi
d'identita'.
La filosofia e' stata smascherata, quindi denudata di tutti i veli con i
quali nei secoli si era ricoperta e, anche, adornata: verita', Dio, essere,
ma anche linguaggio e storia vengono scoperti, gia' a partire dal secondo
Ottocento, nelle loro funzioni mistificanti e ideologiche, e le tragedie
storiche che nel Novecento si compiono conferiscono ulteriore drammaticita'
a questa scoperta. Cio' che viene svelato e' la profonda ambiguita' di quei
concetti: quando la verita' pretende di essere senso ultimo e definitivo
della storia e dell'uomo si presta ad essere strumentalizzata a fini di
predominio politico, economico o anche intellettuale fino a perdere se
stessa, cosicche' essa, da apertura al senso del mondo e dell'uomo, passa ad
essere strumento di annientamento della liberta' e della vita. Gli esempi
sempre citati sono le ideologie fasciste e comuniste, e la scia di vittime
da queste causate.
Cosi', se Nietzsche, scrivendo, nel 1888, il Crepuscolo degli idoli, puo'
ancora ergersi altezzosamente a giudice di un "Platone rosso di vergogna"
per eliminare con dileggio dalla filosofia la sua idea di "mondo vero", e
con essa l'invalsa distinzione tra verita' e apparenza, Adorno nel
dopoguerra non puo' piu' fare altro che appello al silenzio e
all'autocritica, dichiarando da un lato l'impossibilita' di fare poesia dopo
Auschwitz, dall'altro elaborando una filosofia che sia esercizio di critica
costante e sistematica al carattere strumentale della ragione di cui si
serve (Dialettica dell'illuminismo, 1947, e Dialettica negativa, 1966). Cio'
significa che se prima delle due guerre mondiali puo' ancora farsi strada,
in filosofia, la speranza di riuscire a comprendere il mondo piu' a fondo e
meglio di quanto sia stato fatto in passato, nel dopoguerra lo smarrimento e
l'orrore diffusi annichiliscono questa speranza e costringono i filosofi a
reimpostare i termini della questione.
*
Si puo' quindi esprimere cosi', a mio parere, una delle grandi domande
lasciateci in eredita' dalla filosofia, se non anche dalla storia, del
Novecento: e' la filosofia una cattiva maestra?
Ricapitoliamo l'accusa in una tesi (non e' infatti questo il luogo per
ripercorrere il pensiero dei singoli filosofi del Novecento): alla filosofia
si rimprovera da piu' parti di rendere eterno e presente (anche nel senso di
"disponibile, a portata di mano", come in Heidegger) cio' che eterno e
presente non e', cioe' il mondo e, con esso, il suo significato.
Questo processo avverrebbe tramite l'uso di quelle categorie razionali
attraverso le quali il mondo viene filosoficamente conosciuto: il pensiero
formula giudizi che aspirano a essere veri universalmente e costituisce
criteri di verita' che garantiscano questa conoscenza universale come vera.
Il problema e' che una verita' di questo tipo, non piu' presunta, bensi'
fondata razionalmente, rischia, innanzitutto, di farsi presuntuosa e volersi
imporre con diritto sulle altre, diventando, infine, strumento di potere, e
inoltre, alla fine, di non essere piu' cosi' vera, perche' cio' che col
nostro giudizio abbiamo fissato in una verita' definitiva puo' essere nel
frattempo cambiato, e dunque non essere piu' come avevamo ritenuto che
fosse: quel che e' ritenuto vero diventa, infine, falso, perche' pretende,
appunto, di rendere eterno e invariabile cio' che eterno e invariabile non
e', ovvero il mondo conosciuto.
*
Questa critica variamente svolta alla filosofia nella molteplicita' di
linguaggi che le appartengono, le permette pero' di farsi consapevole di un
conflitto interno che e' suo proprio e che costituisce la sua peculiarita' e
il suo fascino. La filosofia, infatti, amore per il sapere, ricerca della
conoscenza, si nutre della stessa tensione che alimenta l'amore:
l'aspirazione all'unione di cio' che e' diviso, all'unita' di cio' che e'
molteplice, all'eternita' di cio' che e' temporale. Quest'aspirazione, che
sorge dalla fedelta' a cio' che ha una fine, eppur si vorrebbe esistesse
ancora e sempre, infinitamente, si espone pero' al rischio del tradimento,
volendo trasformare cio' che ama (il finito, il mondo) in cio' che non e'
(infinito ed eterno). La fedelta' estrema si rovescia nel suo contrario, e
l'amore, che aspira all'unione assoluta, porta a tradire sia l'amato, che
l'amore vorrebbe trasformare da molteplice in uno, sia l'amore stesso,
poiche' l'unione assoluta, una volta raggiunta, impedirebbe di continuare ad
amare.
Questo e' il conflitto in cui la filosofia si trova a combattere, e che vede
sempre in gioco sia la sua essenza, sia il suo oggetto, sia l'amore sia la
conoscenza: la filosofia, infatti, cerca quella conoscenza che, una volta
raggiunta, la porterebbe all'annullamento di se', negandole la possibilita'
di cercare ancora, e ricerca la conoscenza come quel che di stabile ed
eterno si lascia leggere attraverso il divenire del reale, che viene quindi
sempre esposto al rischio di essere conosciuto solo a prezzo di essere
tradito. Il rischio di tradimento insito nella conoscenza e' cio' che la
filosofia incarna, nella sua essenza come nella sua storia.
Se Platone combatte strenuamente contro i sofisti per evitare che la ragione
con i suoi strumenti venga asservita alla politica dimenticando il suo
scopo, cioe' la conoscenza fine a se stessa, l'indagine su cosa significhi
"conoscenza" dovra' compiere numerosi percorsi attraverso i secoli e
attraverso il dialogo tra i singoli filosofi per portare l'uomo a capire,
infine, che nemmeno una conoscenza razionalmente "pura", nemmeno una verita'
illuministicamente umana, sottoposta al vaglio della ragione, puo' tutelare
l'uomo dal male e dall'errore.
Detto altrimenti, una teoria razionalmente pura non puo' rimanere vera se
non accetta di mettersi in discussione nella prassi, ma una prassi che
pretenda di farsi teoria senza mettersi in discussione non puo' che essere
prevaricatrice.
*
E' questo un discorso che tocca tutte le sfere della nostra vita umana,
profondamente concreto. Ed e' qui, in questo nucleo piu' ambiguo, piu'
fragile e quindi forse piu' vero, o almeno piu' umano, che la filosofia
incontra la questione della pace, e la relativa riflessione sulla
nonviolenza: qui incontriamo la parola "mediazione".
Se la verita' creduta tale e' sempre esposta al rischio di farsi arrogante e
astratta (qualita' che sono tra loro reciprocamente legate: una teoria che
si fa arrogante e' una teoria che perde contatto col reale, diventando
astratta, e viceversa, una teoria che resta astratta, perdendo contatto col
reale potra' a maggior ragione pretendere di essere l'unica vera), una via
prettamente filosofica per tutelarci da questo rischio e' proprio mediare,
cioe' mettere sempre di nuovo in gioco, a confronto con la realta', la
verita' acquisita.
Cio' significa, allora, che la verita' stessa e' sempre in cammino, aperta
alle sorprese, ai cambiamenti, alle novita', ma anche carica di ricordi e
speranze. Attenta alle persone e alle cose che incontra lungo il cammino,
attenta a capire i motivi di cio' che esiste e a definire ogni volta se
stessa in relazione a cio' che la circonda. Solo questa sembra poter essere
una verita' a misura d'uomo. Solo questa sembra poter essere una verita'
testimone di pace, capace di accogliere e ampliare la riflessione sulla
nonviolenza.
Perche' la filosofia, vi si assiste nello scorrere della sua storia
attraverso i secoli, e' sempre esposta a una domanda ulteriore - in questo,
e' sempre maestra. Nell'insegnare a porre questa domanda ulteriore, nel
tenere lo spazio aperto per accogliere sempre nuove domande, nel dialogare
insieme alla ricerca di una risposta comune, in questo filosofia e
nonviolenza saranno sempre alleate. Ricordando, pero', che insegnare e'
anche, di nuovo, sempre imparare.
Nello spazio sempre aperto a una domanda ulteriore risiede la nostra
profonda umanita'.

5. EDITORIALE. MAO VALPIANA: I BAMBINI CI GUARDANO MA NOI NON LI VEDIAMO
[Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: azionenonviolenta@sis.it) per
averci messo a disposizione il suo editoriale che apre il numero di dicembre
2003 di "Azione nonviolenta" (la rivista del Movimento Nonviolento, fondata
da Aldo Capitini nel 1964; per informazioni e contatti: "Azione
nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212,
e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org, abbonamento
annuo: 25 euro sul ccp n. 10250363; e' possibile avere una copia omaggio
inviando una mail di richiesta a azionenonviolenta@sis.it). Mao (Massimo)
Valpiana e' una delle figure piu' belle della nonviolenza in Italia; e' nato
nel 1955 a Verona dove vive ed opera come assistente sociale e giornalista;
fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento (si e'
diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di
intervento nel sociale"), e' membro del comitato di coordinamento nazionale
del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di
Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel
1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese
militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il
riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega
obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante
la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta
per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e'
stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione
Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters
International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e'
stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle
forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da
Trieste a Belgrado nel 1991; un suo profilo autobiografico, scritto con
grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4
dicembre 2002 di questo notiziario]

Difficile scegliere l'argomento per questo editoriale. C'era solo
l'imbarazzo della scelta: la strage di Nassiriya e le sue conseguenze in
Iraq e in Italia, le bombe antisemite in Turchia, la minaccia terrorista, la
guerra infinita, l'aumento delle spese militari, le sparate del presidente
del consiglio sulla Cecenia, le scorie radioattive in Basilicata, e chi piu'
ne ha, piu' ne metta.
Mentre facevo mentalmente questo elenco dell'orrore, ho pensato "ma cosa
puo' pensare di questo mondo un bambino che vede la televisione o sfoglia un
giornale?" e mi e' venuto alla mente quel terribile passo del Vangelo: "guai
a chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli,  sarebbe meglio per lui
che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato
negli abissi del mare". Quanto macine ci vorrebbero per riscattare tutti i
bambini del mondo che sono scandalizzati, violentati, torturati, sfruttati,
abbandonati, ammazzati?
I dati che l'Unicef ha fornito per la giornata dell'infanzia, ci inchiodano
alle nostre responsabilita'. Ancor oggi nel mondo il 40% dei nati non viene
registrato: non un nome, non una nazionalita' per bambini che nella
maggioranza dei casi muoiono subito per malattie che potrebbero essere
facilmente prevenute (in certe zone dell'Africa subsahariana questa cifra
raggiunge il 71%). Malattie prevenibili e curabili come la pertosse ed il
tetano o la difterite uccidono ancora nella Federazione Russa, in Brasile,
in Vietnam e in Nigeria.
Quando non uccide, la poverta' compromette lo sviluppo fisico e mentale dei
bambini: ad oggi sono 150 milioni i fanciulli sottopeso nei paesi del terzo
mondo. A causa dell'Aids entro il 2010 il 20% dei bambini sotto il 15 anni
sara' orfano in Swaziland, Lesoto, Zimbabwe, Botswana. In Africa un bambino
orfano o, peggio ancora, venduto dalla famiglia, puo' essere arruolato con
forza nei corpi militari per diventare soldato; nell'Asia meridionale molti
di loro diventano schiavi sessuali e non ne conosciamo il numero poiche' si
tratta di paesi dove la registrazione anagrafica non avviene con
regolarita'.
Nel mondo un fanciullo su otto, in eta' compresa tra i 5 e i 17 anni, e'
sfruttato, coinvolto nelle peggiori forme di lavoro minorile o nel business
della tratta dei minori, un affare colossale da un miliardo di dollari
l'anno che trascina in schiavitu' le bambine africane e del sud-est
asiatico, a cui si aggiungono ora quelle clandestine provenienti da Moldavia
e Ucraina. In Africa il 53% delle femmine non va a scuola. Sono piu' di 100
milioni gli adolescenti nel mondo che non hanno fissa dimora e vivono per
strada, abbandonati a se stessi. Nei paesi che hanno subito una guerra, come
in Cambogia o in Afghanistan, le mine a forma di giocattolo hanno mutilato
intere generazioni di fanciulli.
Questa imbarazzante lista potrebbe andare avanti per molto. Erode al
confronto era un principiante. Sono milioni e milioni i bambini che non
hanno volto, che non fanno notizia, che non contano niente, che non meritano
nemmeno uno straccio di funerale. Bambini che nessuno vede, ma in base ai
quali Dio giudichera' l'umanita', che sara' condannata "per aver commesso il
fatto". Se poi verra' perdonata, non sara' certo per meriti che non ha, ma
per la volonta' di qualcun altro.
Fra pochi giorni sara' il 25 dicembre, giorno del ricordo della nascita in
Palestina di un bambino ebreo, povero, senza casa, clandestino. Assisteremo
anche quest'anno all'orgia dei buoni sentimenti. Accomodiamoci pure al
banchetto sacrilego del consumismo, ma almeno non strumentalizziamo
l'infanzia. Lasciamo quel bambino nella sua solitudine fino a che morira' in
croce. Poi le Nazioni Unite si riempiranno la bocca: "l'infanzia ha diritto
a misure speciali di protezione ed assistenza". Buon Natale.

6. EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: UN APPROCCIO COLONIALISTA
[Giobbe Santabarbara e' ruvido e dispiacevole un collaboratore di questo
foglio]

Circolano vari documenti elaborati in aree del movimento per la pace che
nell'approccio alla situazione irachena riproducono, senza rendersene conto,
un approccio colonialista, basato sul disprezzo per la popolazione irachena,
anzi sul non ritenerla neppure un soggetto attivo della propria stessa vita.
E quindi si formulano proposte, talora confusamente arzigogolate oltreche'
stucchevolmente ripetitive ed internamente contradittorie fino al grottesco,
che del tutto prescindono dal fatto che in Iraq, piaccia o dispiaccia, gli
iracheni ci sono, con una storia e una cultura (anzi, molte storie e molte
culture) fin antichissime e straordinariamente complesse, e ogni intervento
internazionale che non voglia essere assassino, rapinatore, imperialista,
dovra' basarsi sul riconoscimento della loro esistenza come esseri umani e
come popolo.
Finche' invece si continuera' a ragionare secondo schemi da strateghi in
sedicesimo o ingegneri sociali da bar dello sport, e finche' si continuera'
a considerare la popolazione irachena non come portatrice di cultura e
titolare di diritti bensi' alla stregua di mandria da governare, non si
sara' movimento per la pace, ma solo razzisti di complemento.

7. INCONTRI. ELIZABETH MEHREN: COSTRUTTRICI DI PACE SI INCONTRANO
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
averci messo a disposizione questa sua traduzione di un articolo del 20
novembre 2003 di Elizabeth Mehren. Elizabeth Mehren e' caporedattrice del
"Los Angeles Times" e corrispondente per "Women's e-News"]

"La logica suggerirebbe, ha detto l'ex ambasciatrice statunitense Swanee
Hunt, che una donna che ha perso un figlio o una figlia in una guerra basata
sull'odio etnico divenga amara e rabbiosa. Ci si aspetta che questa madre si
dedichi alla vendetta, e ad alimentare i fuochi dell'odio. Invece scopriamo
che queste donne dicono: 'Cio' che e' accaduto a me non deve piu' accadere a
nessun'altra, perche' io so quanto e' terribile, e cosa si prova'. Percio',
per favore, non compatite queste donne. Queste donne sono giganti. Sono
donne dall'enorme coraggio, e dal grandissimo impegno".
Sawsan Al-Barak, per esempio, viene da una citta' fra le colline irachene
chiamata Hilla. Durante il regime di Saddam Hussein, piu' di 20.000 persone
sul mezzo milione di residenti della sua citta' sono state imprigionate e ne
hanno riportato cicatrici fisiche e psicologiche. Lo scorso giugno Al-Barak,
che lavora come ingegnera al Ministero dell'Industria del suo paese, ha
fondato il "Centro per le donne Fatima Al-Zahara", dove le donne possono
avere consigli legali, aiuto contro la violenza domestica, e frequentare
corsi di formazione.
Visaka Dharmadasa dello Sri Lanka e' la fondatrice e la presidente
dell'associazione genitori dei dispersi in guerra e dell'associazione di
donne che si oppongono alla guerra. Lavorando per porre fine alla guerra
civile che ha insanguinato il suo paese per vent'anni, Dharmadasa insegna i
diritti umani ai soldati, ai giovani, ai leader delle comunita' e promuove
lo sviluppo sociale ed economico delle donne attraversando le linee del
conflitto.
*
Queste donne, e dozzine di altre come loro, formano il cuore di "Women
Waging Peace", un'organizzazione internazionale che negli Usa ha sedi a
Cambridge e Washington. L'organizzazione fu fondata quattro anni fa proprio
dall'ex ambasciatrice Hunt, allo scopo di sostenere il ruolo delle donne
nella ricostruzione di luoghi e comunita' feriti dalle guerre. Citando il
rapporto annuale di "Women Waging Peace", Hunt ha raccontato come nelle zone
di guerra le donne lavorino per sostenere economicamente le loro famiglie e
per migliorare le condizioni delle donne, mentre sono attive nella
costruzione di pace. Le loro azioni vanno dall'offrire seminari sulla
risoluzione nonviolenta del conflitto, all'ideazione e sviluppo di nuovi
mezzi per la protezione dei diritti umani, al provvedere istruzione e
formazione alle donne.
Poiche' sono molto di frequente ritratte solo come vittime, esse ricevono
scarso riconoscimento per il ruolo effettivo che giocano nel ristabilire e
promuovere pace e sicurezza. E' una percezione che deve cambiare, dice Hunt,
perche' "I politici e i diplomatici di solito ignorano le donne presenti e
parlano solo agli uomini, dimenticando che sono le donne ad organizzarsi a
livello di base, e a parlarsi l'un l'altra attraversando le linee del
conflitto".
*
Nella sessione del mattino, il direttore dell'Istituto di Pace a Washington,
George F. Ward jr., ex ambasciatore in Namibia, ha raccontato come ha visto
le donne cambiare gli orizzonti del loro paese nel 1997, mentre il paese si
stava riprendendo dopo una lunga guerra di guerriglia. Gli stupri e la
degradazione delle donne erano fatti giornalieri, ha detto, e completamente
ignorati sino a che lo stupro di una bimba di due anni non venne reso
pubblico. L'atto fu la goccia che fece traboccare il vaso per la popolazione
femminile della Namibia: "Le donne dissero: Ora basta. Diedero inizio ad
un'intensa campagna contro la violenza sessuale, fino a che il presidente
della Namibia dovette pubblicamente condannarla in un discorso televisivo e
promuovere nuove leggi al proposito".
Oltre a documentare il ruolo delle donne quali costruttrici di pace, "Women
Waging Peace" preme perche' esse prendano posto ai tavoli della diplomazia,
ed allo scopo le mette in contatto l'una con l'altra e con le donne che sono
gia' in posizioni influenti.
Il forum di cui parliamo, che ha riunito donne provenienti da piu' di
quaranta zone di guerra, ha fatto questo. Membri di governi, direttore di
ong, educatrici, donne d'affari e giornaliste hanno incontrato le donne che
vivono o hanno vissuto inimmaginabili devastazioni: dal Sudan allo Sri
Lanka, dalla Colombia alla Bosnia, dal Medio Oriente alla Sierra Leone.
*
Era presente anche Ala Talabani, co-fondatrice dell'Alto Consiglio delle
donne irachene, che ha ribadito il ruolo centrale delle donne del suo paese
nel saper conciliare le differenze etniche e culturali, ed ha chiesto per
esse maggior riconoscimento nel processo di ricostruzione: "Oggi siamo piu'
del 55% della popolazione irachena. Le donne vogliono svolgere il loro ruolo
nella ricostruzione. La nostra e' una societa' molto varia: siamo curdi,
turchi, musulmani, ed altro ancora. Ma noi donne irachene siamo unite. Lo
abbiamo detto e ripetuto: noi saremo coloro che costruiranno la pace. Non
permetteremo che le divisioni etniche distruggano un paese che neppure un
dittatore e' riuscito, in decenni, a distruggere".
Al forum le donne dell'Afghanistan, dell'Iran, dell'Iraq e di Israele si
sono sedute accanto alle donne delle Fiji, del Guatemala, del Kosovo, della
Liberia e del Congo. Hanno parlato delle tecniche per la costruzione della
pace e della frustrazione nell'aver a che fare con corpi diplomatici
dominati da uomini in divisa. Si sono anche scambiate le loro storie
personali: quando una di esse toccava un punto familiare o condiviso, le
altre intervenivano entusiasticamente. "Ecco il punto!", ha esclamato la
sudafricana Kemi Ogunsanya, quando Noeleen Heyzer, responsabile del Fondo
Onu per le donne, ha lodato le costruttrici di pace per aver osato "rompere
la cultura della vergogna e del silenzio".
*
Nel suo intervento conclusivo, Hunt ha ricordato che le donne spesso
mostrano scarsa deferenza per i confini politici, etnici o nazionali.
Proprio per questo, ha detto, e per la loro abilita' nel risvegliare la
comune umanita' in forze ostili, esse sono cruciali nei processi di pace:
"Le donne si mettono di fronte agli uomini armati. Alzano le braccia quando
si alzano i fucili e dicono: Fermi!. Le donne vanno in luoghi in cui gli
uomini, al loro posto, verrebbero uccisi. E dicono: Si', sono serba, oppure
croata, oppure palestinese o israeliana, questo fa parte della mia
identita'. Ma sono anche una donna, e capisco le altre donne in questa
situazione".

8. RIFLESSIONE. ELIO RINDONE: DELLE PAROLE LO SCEMPIO, E DELLE VITE
[Ringraziamo Elio Rindone (per contatti: e.rindo@infinito.it) per questo
intervento. Elio Rindone e' docente di storia e filosofia a Roma, fa parte
dell'Associazione nazionale docenti, tiene sovente appassionanti seminari;
e' autore di perspicui libri e saggi di argomento teologico e filosofico]

Attenuatosi, col passare dei giorni, il clamore della retorica patriottarda
esploso in seguito alla strage di Nassiriya, vale la pena di soffermarsi su
alcune delle parole piu' usate in questa tristissima circostanza per
evidenziare, dizionario alla mano, il vero e proprio capovolgimento della
realta' operato da buona parte dell'informazione giornalistica e televisiva,
ormai palesemente ridotta a semplice megafono del potere.
E' appena il caso di ribadire la sincera, commossa e doverosa partecipazione
di tutto il popolo italiano al dolore dei familiari dei militari e dei
civili morti in Iraq, senza dimenticare la sofferenza di tutte le famiglie
che portano il peso dei lutti provocati dalla guerra in corso. Non sono qui
in discussione il rispetto e l'ammirazione per coloro che si sono recati in
Iraq per contribuire alla ricostruzione di quel Paese e che hanno perso la
vita, ma l'uso propagandistico che si e' fatto di questi morti.
*
Eroi sono stati definiti gli Italiani vittime dell'attentato. Eroe puo'
essere a buon diritto considerato chi da' prova di straordinario coraggio e
abnegazione. Queste virtu' non dipendono certo dall'essere dilaniati da una
terribile carica di esplosivo ma dalla decisione di recarsi in Iraq
nonostante i pericoli connessi alla missione. Ma allora perche' definire
eroi solo i morti e non tutti i 2.700 militari che hanno accettato di
partire affrontando gli stessi pericoli? Per dare prova di coraggio e
abnegazione, inoltre, bisogna essere consapevoli dei rischi che si corrono.
Ora, prescindendo dal giudizio sul grado di consapevolezza dei singoli, si
puo' essere certi che i militari italiani erano stati adeguatamente
informati sulla gravita' della situazione irachena? Se ne puo' dubitare, dal
momento che era stata proclamata la fine della guerra, si era parlato per il
contingente italiano di compiti umanitari e si era assicurato che la zona
meridionale dell'Iraq era lontana dai pericoli di Baghdad. E, prescindendo
sempre dalle motivazioni individuali, quanto ha pesato sulla decisione di
tanti uomini di recarsi in Iraq, accanto a un senso di solidarieta' con una
popolazione sofferente, il comprensibile desiderio di sfuggire alla poverta'
o alla disoccupazione? E' noto che tra i carabinieri c'e' una concorrenza
addirittura spietata per essere assegnati alle missioni estere, dato che con
cio' che si guadagna in pochi mesi e' possibile superare le ristrettezze
economiche proprie di chi vive con un misero stipendio.
*
Missione di pace quella italiana, e' stato ripetutamente affermato. Il
compito affidato ai militari italiani sarebbe stato dunque quello di
contribuire alla pacificazione di un Paese liberato, dopo una breve guerra,
da una dittatura sanguinaria. Ma tutti sappiamo che l'invio dei soldati e'
stato voluto da parlamentari che si sono affrettati a spedirli in Iraq non
appena gli Stati Uniti hanno proclamato la fine di una guerra preventiva,
scatenata assolutamente al di fuori della legalita' internazionale ed
esplicitamente approvata dai governanti italiani. In Iraq, invece, finita
non la guerra ma solo la prima fase di essa, quella delle bombe
"intelligenti" che hanno devastato il territorio e ucciso migliaia di
civili, e' iniziata la seconda, quella della guerriglia e degli attentati.
Anche i nostri militari, quindi, al di la' delle intenzioni soggettive che
in questa situazione evidentemente contano poco, non possono non apparire
agli occhi degli Iracheni che come truppe d'occupazione, oggettivamente
alleate degli aggressori americani esattamente come quelle inglesi o
polacche.
E' chiaro, allora, che un governo apertamente schierato non puo' affidare
una missione di pace perche', essendo la guerra in corso, i suoi militari
presenti sul terreno sono sentiti inevitabilmente come nemici.
*
Sacrificio e' stato infine chiamato quello dei caduti. Ma sacrificio e' la
disponibilita' ad offrire la vita per un nobile scopo. Per quale fine si
sarebbero sacrificati i militari italiani? Per portare la democrazia in
Iraq? Per combattere il terrorismo? Per la difesa della Patria e delle
liberta' dell'Occidente?
Penso che ormai piu' nessuno creda alla favola che la democrazia si possa
esportare con le bombe: questa era una bugia paragonabile solo a quella
dell'esistenza in Iraq di armi di distruzione di massa. E che la pratica del
terrorismo, che va combattuta nel quadro della legalita' internazionale,
dalla guerra irachena non sia stata debellata ma moltiplicata in modo
catastrofico e' sotto gli occhi di tutti. Caduta ogni finzione, e' ormai
chiaro che lo scopo vero dell'aggressione all'Iraq era l'affermazione
dell'egemonia planetaria degli Stati Uniti, decisi a difendere i loro
interessi economici mediante il ricorso alla forza anche senza il consenso
della comunita' internazionale.
Non e' dunque corretto parlare di sacrificio per i nostri militari: il loro
invio in Iraq non rispondeva all'interesse dell'Occidente ne', in
particolare, dell'Italia ma semmai dei suoi governanti, desiderosi di
accreditarsi presso l'amministrazione americana.
Percio' bisogna concludere che essi sono rimasti vittime, assieme a tanti
altri uomini di diversa nazionalita', non solo della follia della guerra ma
anche della propaganda che l'ha resa possibile perche' capace di stravolgere
il senso delle parole, chiamando lotta per la liberta' una politica di
conquista, forze di liberazione quelle d'occupazione e difesa della Patria
una guerra d'aggressione.
*
Ecco perche' parole che evocano nobili emozioni sono ora indispensabili per
dare un senso al dolore e coprire le responsabilita' di chi lo ha provocato.
Nulla di piu' adatto allo scopo della Patria, che diviene cosi' un idolo sul
cui altare si offre il sacrificio degli eroi caduti in una missione di pace.
E si capisce perche', per i responsabili di tante morti, nulla sia piu'
temibile di chi vuol dare alle parole il loro senso, svelando l'inganno
derivante dall'uso distorto di esse. Si spiega, quindi, la necessita' di
togliere, in questa occasione piu' che mai, la parola a coloro che erano e
sono contrari alla guerra e che, contestando la manipolazione mediatica,
chiamano le cose col loro nome, dicendo che la costrizione e' il contrario
della liberta', l'aggressione il contrario della difesa e la guerra il
contrario della pace. Gia' il nazista Hermann Goering sapeva che "i popoli
possono essere sempre ricondotti al volere dei capi... Basta convincerli che
stanno per essere attaccati e accusare i pacifisti di antipatriottismo e di
esporre il paese al pericolo. Funziona sempre cosi', ovunque". Ma forse
qualcosa sta cambiando: quest'anno oltre cento milioni di uomini e donne
sono scesi in piazza contro la guerra. E' un grande motivo di speranza e
c'e' da augurarsi che proprio questi uomini e queste donne, che provano vera
pieta' per i morti, possano far sentire con forza crescente la loro voce,
ridando alle parole il loro senso e battendosi perche' altri uomini non
perdano la vita per difendere gli interessi dei potenti.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini@tin.it,
angelaebeppe@libero.it, mir@peacelink.it, sudest@iol.it, paolocand@inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 745 del 30 novembre 2003