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La nonviolenza e' in cammino. 711
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 711
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac@tin.it>
- Date: Tue, 21 Oct 2003 18:10:38 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 711 del 22 ottobre 2003
Sommario di questo numero:
1. Maria Zambrano: per la pace
2. Adel Jabbar: musulmani, jihad, nonviolenza (un contributo alla proposta
di Lidia Menapace)
3. Luisa Morgantini: in Medio Oriente una speranza da sostenere
4. John Pilger: Afghanistan anno zero
5. Rete Lilliput: una campagna per cambiare la finanziaria
6. Riletture: Clara Levi Coen, Martin Buber
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'
1. MAESTRE. MARIA ZAMBRANO: PER LA PACE
[Ringraziamo di tutto cuore Elena Laurenzi (per contatti:
laurenzi_elena@dada.it) per averci messo a disposizione la sua traduzione di
questo testo di Maria Zambrano, scritto a Madrid nel novembre 1990, dal
titolo "I pericoli per la pace", ora edito in Maria Zambrano, Le parole del
ritorno, Citta' Nuova, Roma 2003. Scrive nitidamente Elena Laurenzi nella
sua lettera di accompagnamento: "segnalo questo saggio sulla pace scritto da
Maria Zambrano nel novembre del 1990, sei mesi prima della sua morte, di
fronte all'orrore della guerra del Golfo Persico. E' la sua ultima
testimonianza, il suo appello estremo. L'ultimo atto di quel suo 'stare nel
mondo' cui non aveva mai saputo ne' voluto rinunciare. Lette oggi, le parole
di Maria Zambrano acquistano un valore quasi profetico".
Maria Zambrano, insigne pensatrice spagnola (1904-1991), allieva di Ortega y
Gasset, antifranchista, visse a lungo in esilio. Tra le sue opere tradotte
in italiano cfr. almeno Spagna: pensiero, poesia e una citta', Vallecchi,
Firenze 1964; I sogni e il tempo, De Luca, Roma 1964; Chiari del bosco,
Feltrinelli, Milano 1991; I beati, Feltrinelli, Milano 1992; La tomba di
Antigone. Diotima di Mantinea, La Tartaruga, Milano 1995; Verso un sapere
dell'anima, Cortina, Milano 1996; La confessione come genere letterario,
Bruno Mondadori, Milano 1997; All'ombra del dio sconosciuto. Antigone,
Eloisa, Diotima, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997; Seneca, Bruno
Mondadori, Milano 1998; Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 1998.
L'agonia dell'Europa, Marsilio, Venezia 1999. Dell'aurora, Marietti, Genova
2000. Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000; Persona e
democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000; L' uomo e
il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001; Le parole del ritorno, Citta' Nuova,
Roma 2003. Opere su Maria Zambrano: un buon punto di partenza e' il volume
monografico Maria Zambrano, pensatrice in esilio, "Aut aut" n. 279,
maggio-giugno 1997.
Elena Laurenzi e' una prestigiosa studiosa, saggista e militante, impegnata
nell'esperienza dell'associazione internazionale di donne "Testarda", nel
progetto "Women for women: donne contro i fondamentalismi" (sito:
www.wfw.it), ed in numerose iniziative per i diritti delle donne, la pace,
la solidarieta', la dignita' umana; una utile scheda - ma che dovrebbe
essere aggiornata - sulle sue pubblicazioni e sul suo lavoro di ricercatrice
e' nel sito di "Duoda. Centre de Recerca de Dones" dell'Universita' di
Barcellona (www.ub.es/duoda)]
Nessuno oserebbe oggi manifestare dubbi sulla guerra: nessuno, in nome di
niente, puo' difenderne la causa. E nessuno, di conseguenza, puo'
tralasciare di deporre il suo voto per la pace nell'urna invisibile che
raccoglie le umane volonta'. Ma in molti casi non si sa con certezza se il
voto per la pace sia accompagnato dalla coscienza, o almeno dal
presentimento, dei problemi seri e profondi che lo "stato di pace"
comporta.
Perche' la questione non e' semplicemente che non ci sia guerra - una guerra
che sarebbe certamente l'ultima di tutta una storia - bensi' stabilire la
vita in vista della pace. E se la pace e' innanzi tutto l'assenza di guerra,
e' qualcosa di piu', molto di piu'. La pace e' un modo di vivere, un modo di
abitare il pianeta, un modo di essere uomini; e' la condizione primaria per
la realizzazione dell'uomo nella sua pienezza, perche' la creatura umana e'
una promessa.
Entrare nello "stato di pace" significa oltrepassare una soglia: la soglia
tra la storia, tutta la storia fino a oggi, e una nuova storia. Si tratta,
dunque, di una autentica "rivoluzione", il duplice compimento di quel sogno
di rivoluzione pacifica che hanno sognato tanti spiriti grandi. Compimento
duplice, perche' oltre ad essere una rivoluzione pacifica, avrebbe come
contenuto, appunto, la pace.
Retrocedere davanti a questa soglia non e' possibile. "Essere o non essere",
vivere in pace o cessare di vivere, questo e' il problema. Perche' in questa
circostanza la necessita' obbliga alla morale. E, per nostra vergogna, la
pace non e' imposta in considerazione della coscienza morale, ne' della
ripugnanza che il nostro cuore prova di fronte agli orrori e alla esistenza
stessa della guerra, ma dalla certezza che la guerra provocherebbe, in un
breve lasso di tempo, la distruzione di quello che chiamiamo il mondo
civilizzato, del nostro mondo.
Ma questa situazione non rappresenta ancora uno stato di pace, almeno
finche' e' il timore a determinare l'assenza della guerra. E',
semplicemente, uno stato di non guerra. Uno stato ambiguo e pericoloso.
Poiche' la storia ha dimostrato che i timori piu' fondati sono stati
cancellati in un istante di follia. Il fatto che qualcosa non si realizzi
per paura, se e' solo per paura, non significa che non si realizzera', anche
perche' l'uomo tende a liberarsi dalla paura e dimentica. La creatura umana
puo' trovare rifugio nelle situazioni piu' assurde e pericolose, e questo ha
reso possibile tanto sublime eroismo e anche tanto terrore e tanta vilta',
finche' un giorno la catastrofe si presenta implacabile.
E d'altra parte, una situazione che si sostiene solo sulla paura e' priva di
sostanza morale, di quella sostanza morale cui l'uomo non puo' rinunciare,
visto che ha cercato e cerca di farlo senza riuscirci.
Percio' non ci sara' uno stato di vera pace finche' non sorga una morale
vigente ed effettiva indirizzata alla pace, finche' le energie assorbite
dalla guerra non si incanalino, finche' l'eroismo di quelli che simbolizzano
nella guerra il compimento della propria vita non incontri vie nuove,
finche' la violenza non sia cancellata dai costumi, finche' la pace non sia
una vocazione, una passione, una fede che ispira e illumina. E certamente,
per tutto cio', alla nostra cultura occidentale non mancano i fondamenti
religiosi e morali.
2. RIFLESSIONE. ADEL JABBAR: MUSULMANI, JIHAD E NONVIOLENZA (UN CONTRIBUTO
ALLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE)
[Ringraziamo di cuore Adel Jabbar (per contatti: studiores@tin.it) per
averci inviato questo suo testo come contributo alla comune riflessione
sulla proposta di Lidia Menapace "per un'Europa neutrale e attiva, disarmata
e smilitarizzata, solidale e nonviolenta". Adel Jabbar e' sociologo e
ricercatore nell'ambito dei processi migratori e interculturali; insegna
Sociologia delle migrazioni presso il corso di laurea in Servizi Sociali
dell'Universita' Ca' Foscari di Venezia ed e' docente al master
sull'immigrazione presso la medesima Universita']
Nella costruzione del musulmano come minaccia si sostiene che l'Islam e'
intrinsecamente violento e prova ne sarebbe il jihad, tradotto
automaticamente come "guerra santa contro gli infedeli", in primo luogo
contro l'Occidente. Eppure jihad letteralmente puo' essere tradotto con
"sforzarsi", "applicarsi". Nella tradizione islamica jihad fi sabil Allah
significa "impegnarsi sulla via di Dio" e non contiene alcuna implicazione
di natura violenta o aggressiva.
"Da un punto di vista etimologico la parola araba jihad non ha alcuna
accezione che possa in un qualche modo avvicinarla ai concetti occidentali.
Jihad, infatti, e' etimologicamente parola derivata dalla radice Jhd, che
indica 'sforzarsi', 'applicarsi con zelo' e implica una lotta, un impegno,
sia contro un nemico visibile, sia contro il demonio, sia anche contro se
stessi" (1).
Lo sforzo, il jihad, maggiormente gravoso, e' quello richiesto dal vivere in
armonia seguendo gli insegnamenti religiosi. Secondo i seguenti hadith,
detti del Profeta: "Il jihad piu' meritevole e' un pellegrinaggio compiuto
piamente" (2), "Il piu' eccellente jihad mira alla conquista di se stessi"
(3).
Uno sforzo minore richiede la difesa, eventualmente, della comunita' da
aggressioni esterne. Il che significa anche che l'impegno piu' faticoso e'
quello individuale, e' quello riguardante se stessi, mentre lo sforzo minore
e' quello dato dall'azione collettiva.
La concezione originaria del jihad si riassume dunque nell'impegno con cui i
musulmani mettono in pratica l'insegnamento di Dio. Quello che la traduzione
del termine jihad presente nel Corano spesso rende come "combattimento", va
invece concepito come "sforzo". Ne e' un esempio il seguente versetto: "Ma
tu non ubbidire a quelli che rifiutano la fede, ma combattili con la Parola
in guerra grande" (4).
Di fatto l'utilizzo della Parola come strumento di combattimento denota un
uso metaforico anche del termine guerra. D'altra parte in alcuni casi il
termine e' stato tradotto nella sua corretta accezione, come nel versetto
seguente, dove la coniugazione duale della terza persona del termine Jihad
(Jiahadaka), viene resa da Bausani con il verbo "industrieranno": "Ma se tuo
padre e tua madre si industrieranno a che tu associ a Me quel che non
conosci, tu non ubbidire loro, fa loro dolce compagnia in questo mondo
terreno, ma tu segui la Via di chi si e' volto a Me..." (5).
In un altro passaggio del Corano che si riferisce ancora ai rapporti con i
genitori, lo stesso termine viene tradotto da Bausani con "insisteranno"
(6). Quindi un'interpretazione del jihad come guerra santa puo' essere
considerata errata oltre che fuorviante.
"Chiamarlo guerra santa induce chi e' estraneo ai termini del problema a
considerare un tal richiamo come ennesima espressione di fanatismo nei
confronti di chi musulmano non e', tanto da tentare di equiparare le
motivazioni di fondo al solito spirito di crociata, ben noto all'Occidente"
(7).
Cio' non significa che nel Corano non vi sia alcun riferimento al
combattimento, ma questo concetto e' espresso non come jihad, appunto,
bensi' come al-qital, o harb (guerra), e soprattutto in termini difensivi.
In effetti, se l'obiettivo ultimo dell'Islam e' la giustizia e la pace,
tuttavia sono considerate nel Corano le condizioni che possono creare
conflitto.
"Combattete [qatulu] sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non
oltrepassate i limiti, che' Dio non ama gli eccessivi" (8).
*
Dopo aver chiarito l'origine etimologica del termine jihad, cerchiamo di
calarne il significato nelle fasi storiche, e nello specifico di comprendere
come nell'Islam e' stato gestito il conflitto nel rapporto con l'altro.
Si e' visto che, durante il primo periodo, il Corano invita i musulmani ad
essere pazienti, a vivere quella che oggi viene definita una resistenza
passiva di fronte alla durezza degli eventi che caratterizzano gli anni
della missione del profeta nella citta' di La Mecca (610-622).
Successivamente, nel periodo della Medina (622-632), il tono dei versetti
sicuramente muta: dall'invito alla pazienza si passa a consentire la difesa
della Umma al-Islamiyya (comunita' islamica) - ora non piu' solo religiosa
ma anche politica e continuamente aggredita dall'esercito della Mecca - e
quindi al combattimento in termini difensivi (come nella sopracitata Sura
II - 190).
Jihad viene ad essere utilizzato dai musulmani stessi come elemento
simbolico di impegno e di lotta. E l'appello ad un principio di origine
religiosa non rappresenta d'altro canto un aspetto insolito nell'etica
dell'impegno sociale e individuale. Questo non implica un'inclinazione
violenta o aggressiva nei confronti degli altri.
"E' proibito a musulmani di entrare in guerra per acquisire ricchezze,
territori o potere. Impossibile anche far guerra a fini di proselitismo; il
testo coranico e' chiaro: non c'e' costrizione nella religione" (9).
Vale la pena sottolineare, per inciso, che in tutte le epoche, in ogni caso,
il riconoscimento di Dar al-Islam, basato su riferimenti islamici, non ha
implicato l'esclusione della gente non musulmana che vive dentro la
comunita', ne' di quella proveniente da Dar al-Harb (10) (territori non
islamici). Questo perche' nella societa' islamica sempre si e' mantenuta
quella connotazione di pluralita' che ha preceduto e accompagnato il suo
affermarsi.
Dunque, consapevole della continuita' esistente fra i diversi messaggi dei
profeti esistiti prima del profeta Muhammad, la societa' islamica e' portata
ad inglobare dentro di se' e a riconoscere la pluralita', secondo gli
insegnamenti stessi del Corano.
"Di': Crediamo in Dio e in quel ch'e' stato rivelato a noi e in quel ch'e'
stato rivelato ad Abramo e a Ismaele e a Isacco e a Giacobbe e alle Tribu',
e in cio' che fu dato a Mose', e a Gesu' e ai Profeti dal loro Signore senza
far distinzione alcuna fra loro, e a Lui noi tutti ci diamo" (11).
Tornando ora al percorso storico del jihad, nel periodo ottomano l'accezione
del termine nel senso di combattimento viene ulteriormente marcata. In tempi
ancora piu' recenti, e precisamente con l'impatto contro le potenze
coloniali europee (12), diversi pensatori islamici hanno operato una
rilettura del jihad alla luce di questi nuovi eventi. In base a tale
rilettura e' emersa un'interpretazione in termini di resistenza
all'ingerenza esterna. Lo shock coloniale viene infatti a mettere in
discussione i tre elementi fondanti della concezione islamica di comunita':
l'unita' della Umma al-Islamiyya, la sacralita' di Dar al-Islam e l'alta
dignita' dell'etica islamica.
Fino ad allora la societa' islamica, seppure indebolita, aveva mantenuto
rapporti di scambio con i vicini tutto sommato paritari. Da questo momento
in poi il declino comincia ad essere marcato e soprattutto viene avvertito
da tutti i musulmani.
*
"E' solo nell'ottocento che si produce una drammatica inversione di rotta in
questi rapporti: l'Europa si rivela piu' forte nella scienza e nella
tecnologia, nella potenza delle armi e nelle arti diplomatiche, nel piegare
gradualmente gran parte della societa' di tradizione musulmana al suo
dominio coloniale" (13).
Il mondo musulmano che oggi ci troviamo di fronte rappresenta l'esito di
questo sconquasso, che influenza tutto lo sviluppo successivo di questa
societa', in termini storici, sociali ma anche economici e
politico-istituzionali.
Il jihad acquisisce dunque in questo momento un significato di resistenza
all'invasore, in un contesto in cui l'Europa coloniale viene vissuta come
sopraffazione, anche se, almeno inizialmente, con una certa curiosita'.
"Sconcerto per la rapidita' dei cambiamenti, ammirazione per le impensabili
novita' tecniche e scientifiche, senso di impotenza, curiosita', anelito
all'imitazione: tutti questi sentimenti convissero nell'anima degli
intellettuali musulmani, posti di fronte a questa mutata situazione. Ma
presto subentrarono altri sentimenti, ridestati dalla stessa rapacita' e
arroganza degli invasori (o amministratori) europei: il senso di
umiliazione, lo spirito di rivalsa, l'odio verso le elite musulmane
'europeizzanti' e 'collaborazioniste'" (14 ).
A questo riguardo, Tariq Ramadan ci parla di un rapporto di
attrazione-repulsione tra Occidente e Islam.
"Per il Sud essere attratti dai miraggi tecnologici del Nord e' quasi
normale: c'e' qualcosa che ha la stessa forza della magia e del fascino.
Contemporaneamente, la stessa attrazione fa nascere una repulsione quasi
epidermica e a volte violenta. Il sentimento generalmente condiviso e'
quello di una vera e propria espropriazione di se', un'alienazione nel senso
forte del termine. Si sente l'attrazione ma non si sopporta di essere anche
costretti, 'nonostante il cuore', a negare la propria identita' con l'ondata
che ci porta via" (15).
*
La questione del jihad e le sue diverse manifestazioni hanno via via
acquisito sempre piu' importanza ed urgenza nel mondo e all'interno della
societa' islamica, soprattutto alla luce dei suoi rapporti con l'occidente.
Indicativa e' la riflessione di Mohammad Khatami, oggi presidente dell'Iran,
su come il musulmano vive nel mondo di oggi e sul potenziale ruolo
dell'Islam.
"Per quanto riguarda 'noi', (...) intendo questo termine nel senso di 'noi
musulmani'; (...) noi musulmani nel passato abbiamo creato una civilta',
abbiamo svolto un ruolo nella storia dell'umanita', mentre oggi la nostra
situazione e' differente, non ricopriamo piu' quel ruolo; eppure desideriamo
ritrovarci nel tessuto profondo della storia, e se possibile costruirci un
futuro che sia diverso dal nostro presente e persino dal nostro passato,
senza voler togliere spazio a chi non fa parte di noi, e senza trascurare le
conquiste della scienza, degli studi e del pensiero speculativo e pratico
dell'umanita'. Quale e', invece, il significato che attribuisco all'altro
termine, 'il mondo di oggi'? In breve, per 'mondo di oggi' intendo la
'civilta' occidentale'. Ovvero, tutto quanto in questa fase domina e
gestisce il mondo e l'umanita', esercita una influenza potente sulla nostra
vita economica, politica, culturale e sociale, e senza di cui - senza la sua
impronta, senza le sue conquiste - la vita sarebbe impossibile anche per chi
non e' occidentale (...). Il mondo di oggi, o e' esso stesso occidente (un
occidente di concezioni, di valori, di pensieri e teorie, non per forza
l'occidente geografico), e dunque la sua vita e' occidentale in tutte le sue
dimensioni; oppure pur non essendo collocato all'interno dell'occidente
geografico o nell'ambito della civilta' occidentale, ne subisce intensamente
l'influenza, e non ha alcuna possibilita' di vivere senza di esso. Tale e'
il nostro mondo attuale" (16).
Un mondo dunque che viene inglobato dall'Occidente, e da questo Occidente
tuttavia e' lasciato ai margini, alla periferia, sia in senso geografico sia
in senso economico, politico, sociale, e perennemente svalutato del suo
valore, oggi come ieri, come all'inizio di quel processo di colonialismo che
ha prodotto la realta' odierna, molto ben descritto da Bichara Khader.
"La spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto e in Palestina segna una
svolta cruciale nei rapporti fra Oriente e Occidente: si apre la corsa
coloniale. Fino ad allora al centro di curiosita', l'Oriente diventa una
posta geopolitica, mira di tutti gli appetiti, zona di passaggio per potenze
avide di affermazione. E' un oggetto di conquista. L'Occidente non osserva
piu', brama e non si afferma nel ripiego difensivo, ma nell'esplosione
offensiva.
"Fino al XIX secolo, l'Europa ha preso coscienza di se' opponendosi
all'Islam arabo (...). Ora cerca di espandersi dominandolo ed invadendo la
sua terra, sfruttandone le risorse, riducendone la cultura a mero folclore.
In breve, lo colonizza. I viaggiatori non sono piu' avventurieri in cerca di
esotismo e di sapere, ma partono per sondare. (...).
"Quanto e' stato detto e scritto di denigratorio sugli arabi, sui musulmani,
o sugli orientali, nei secoli precedenti, viene rispolverato ed utilizzato.
Se questi, fino ad allora, potevano essere odiati, di rado erano
disprezzati, poiche', in qualita' di avversari ideologici erano riconosciuti
per il loro sapere scientifico (XIV secolo) e per alcuni pregi sul piano
umano. Con il colonialismo, per provare la superiorita' dell'Occidente, si
deve denigrare l'Oriente ambito, avvilirne la religione, disprezzarne la
gente. L'apologia incondizionata di se' va di pari passo con la
demonizzazione dell'Altro.
"(...) Nel XIX secolo, il colonialismo condiziona ogni concezione in Europa.
L'etnocentrismo giustifica il predominio; tale e' il senso di superiorita'
che quanto non e' occidentale viene privato di valore, destituito della
propria dignita' storica, ridotto ad un livello periferico e folcloristico"
(17).
La visione etnocentrica, continua Khader, e' stata sostenuta da molti
pensatori europei, fra cui Lamartine, che hanno portato avanti la concezione
dei popoli colonizzati come fardello dell'uomo bianco di Kipling. Una
concezione che del resto permane tutt'oggi in molti settori del pensiero
europeo.
A fronte della consapevolezza che vede nelle condizioni economiche,
materiali e culturali dettate dall'Occidente una realta' con la quale oggi
e' necessario confrontarsi, accogliendo quanto di positivo esiste, vi e'
tuttavia nell'Islam la coscienza dei limiti intrinseci a questa egemonia,
alla sua idea di liberta' "rigida e unidimensionale" che "continua ad
esigere un prezzo pesante dall'umanita'" (18). Soprattutto vi e' la
coscienza di un ruolo culturale che proprio l'Islam, con la sua diversa
visione del mondo, con la sua diversa concezione etica - puo'
dialetticamente proporre. Non con la forza, con la violenza, ma attraverso
la conoscenza, la critica e il rigore intellettuale.
Per comprendere l'Occidente, lo strumento migliore e' la razionalita', non
l'emotivita' eccitata che agita le bandiere. Non solo qui, ma ovunque, la
forza non e' in grado di fornire una risposta efficace a un modo di pensare
che consideriamo deteriorato" (19).
Se dobbiamo fare nostri i tratti positivi della civilta' occidentale, e nel
medesimo tempo rigettare le sue mancanze (...) dobbiamo capire l'Occidente
in modo corretto ed omnicomprensivo; (...) A questo punto avranno efficacia
la riflessione approfondita, la razionalita' e l'obiettivita', non la
brutalita' verbale e la violenza" (20).
*
Anche nell'Islam - come nell'ambito di altre religioni, pensieri, correnti -
sono comparse delle figure che hanno svolto un ruolo importante nell'ambito
della testimonianza sulla nonviolenza come, ad esempio, Abdul Ghaffar Khan,
chiamato Badshah Khan (21), il quale, entrato in contatto con Gandhi e con
altri pensatori musulmani indiani, ne assorbi' l'influenza, si impegno' per
i diritti dei poveri, investendo molte energie nell'ambito dell'educazione,
considerata una via importante anche per la conquista della liberta',
prestando attenzione anche all'emancipazione della donna. Egli fondo' il
primo esercito nonviolento della storia, Khudai Khidmatgar (servi di Dio),
il cui giuramento recitava: "Sono un Khudai Khidmatgar, e poiche' Dio non ha
bisogno di essere servito, ma servire la sua creazione e' servire lui,
prometto di servire l'umanita' nel nome di Dio. Prometto di astenermi dalla
violenza e dal cercar vendetta. Prometto di perdonare coloro che mi
opprimono o mi trattano con crudelta'. Prometto di astenermi dal prendere
parte a litigi e risse e dal crearmi nemici" (22).
Il binomio Islam-violenza e' dunque molto discutibile. Come abbiamo visto,
si tratta di "calare nella storia" la dottrina. Solo cosi' si potra' capire
la complessita' del mondo islamico e abbandonare visioni dell'Islam
monolitiche, statiche, dottrinali e propagandistiche.
*
Note
1. Giorgio Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, Torino 1996,
p. 27.
2. Gabriele Mandel (a cura di), Maometto, Rusconi, Milano 1996, p. 78.
3. Ziauddin Sardar, Zafar Abbas Malik ( a cura di), Maometto, Feltrinelli,
Milano 1995, p. 40.
4. Corano, Sura della salvazione (al-Furqan), XXV, 52.
5. Corano, Sura di Luqman, XXXI, 15.
6. Corano, Sura del ragno (al-'Ankabut), XXIX, 8.
7. Biancamaria Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell'Islam,
Sansoni, Firenze 1974, p. 27.
8. Corano, Sura della vacca (al-Baqara), II, 190.
9. Jacques Neirynck e Tariq Ramadan, Possiamo vivere con l'islam?, Ed. Al
Hikma, Imperia 2000, p. 113.
10. Sul concetto di Dar al-Harb (letteralmente Casa della guerra, dove il
musulmano non era garantito poiche' non godeva della tutela di Dar al-Islam,
si veda Giorgio Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, cit, p. 25-29.
11. Corano, Sura della famiglia di 'Imran (Ahl 'Imran), III, 84.
12. Sulle origini del colonialismo europeo si veda Peter Partner, Il Dio
degli eserciti. Islam e Cristianesimo: le guerre sante, Einaudi, Torino
1997, cap. VIII, pp. 178-203; Biancamaria Scarcia Amoretti, Il mondo
musulmano. Quindici secoli di storia, pp. 171-204; Dominique Chevallier,
"Grande guerra, risveglio dei popoli" in Dominique Chevallier, Andre' Miquel
(a cura di), Gli arabi. Dal messaggio alla storia, Salerno editrice, Roma
1998, cap. XIII, pp. 402-418; Reinhard Schulze. Il mondo islamico nel XX
secolo. Politica e societa' civile, Feltrinelli, Milano 1998.
13. Enzo Pace, Sociologia dell'Islam, Carocci, Roma 1999, p. 164.
14. Carlo Saccone, Allora Ismaele si allontano' nel deserto. I percorsi
dell'Islam da Maometto ai nostri giorni, edizioni Messaggero, Padova 1999,
p. 288.
15. Jacques Neirynck e Tariq Ramadan, Possiamo vivere con l'islam?, p.127.
16. Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia, Editori Laterza,
Bari 1999, pp. 42-43.
17. Bichara Khader, L'Europa e il mondo arabo. Le ragioni del dialogo,
l'Harmattan Italia, Torino 1996, pp. 12-13.
18. Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia, cit. pp. 127.
19. Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia, cit. p. 125.
20. Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia, cit. p. 130.
21. A questo riguardo si veda Eknath Easwaran, Badshah Khan. Il Gandhi
musulmano, Edizioni Sonda, Torino 1990. Nell'ambito della teorizzazione e
della riflessione su Islam e nonviolenza si veda anche Chaiwat Satha-Anand,
Islam e nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1997.
22. Eknath Easwaran, Badshah Khan. Il Gandhi musulmano, cit., p. 132.
3. RIFLESSIONE. LUISA MORGANTINI: IN MEDIO ORIENTE UNA SPERANZA DA SOSTENERE
[Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini@europarl.eu.int)
per questo intervento. Luisa Morgantini, parlamentare europea e presidente
della delegazione del Parlamento Europeo al Consiglio legislativo
palestinese, fa parte delle Donne in nero e dell'Associazione per la pace;
il seguente profilo di Luisa Morgantini abbiamo ripreso dal sito
www.luisamorgantini.net: "Luisa Morgantini e' nata a Villadossola (No) il 5
novembre 1940. Dal 1960 al 1966 ha lavorato presso l'istituto Nazionale di
Assistenza a Bologna occupandosi di servizi sociali e previdenziali. Dal
1967 al 1968 ha frequentato in Inghilterra il Ruskin College di Oxford dove
ha studiato sociologia, relazioni industriali ed economia. Dal 1969 al 1971
ha lavorato presso la societa' Umanitaria di Milano nel settore
dell'educazione degli adulti. Dal 1970 e fino al 1999 ha fatto la
sindacalista nei metalmeccanici nel sindacato unitario della Flm. Eletta
nella segreteria di Milano - prima donna nella storia del sindacato
metalmeccanico - ha seguito la formazione sindacale e la contrattazione per
il settore delle telecomunicazioni, impiegati e tecnici. Dal 1986 e' stata
responsabile del dipartimento relazioni internazionali del sindacato
metalmeccanico Flm - Fim Cisl, ha rappresentato il sindacato italiano
nell'esecutivo della Federazione europea dei metalmeccanici (Fem) e nel
Consiglio della Federazione sindacale mondiale dei metalmeccanici (Fism).
Dal novembre del 1980 al settembre del 1981, in seguito al terremoto in
Irpinia, in rappresentanza del sindacato, ha vissuto a Teora contribuendo
alla ricostruzione del tessuto sociale. Ha fondato con un gruppo di donne di
Teora una cooperativa di produzione, "La meta' del cielo", che e' tuttora
esistente. Dal 1979 ha seguito molti progetti di solidarieta' e cooperazione
non governativa con vari paesi, tra cui Nicaragua, Brasile, Sud Africa,
Mozambico, Eritrea, Palestina, Afghanistan, Algeria, Peru'. Si e' misurata
in luoghi di conflitto entro e oltre i confini, praticando in ogni luogo
anche la specificita' dell' essere donna, nel riconoscimento dei diritti di
ciascun essere umano: nelle rivendicazioni sindacali, con le donne contro la
mafia, contro l'apartheid in Sud Africa, con uomini e donne palestinesi e
israeliane per il diritto dei palestinesi ad un loro stato in coesistenza
con lo stato israeliano, con il popolo kurdo, nella ex Yugoslavia, contro la
guerra e i bombardamenti della Nato, per i diritti degli albanesi del Kosovo
all'autonomia, per la cura e l'accoglienza a tutte le vittime della guerra.
Attiva nel campo dei diritti umani, si e' battuta per il loro rispetto in
Cina, Vietnam e Siria, e per l'abolizione della pena di morte. Dal 1982 si
occupa di questioni riguardanti il Medio Oriente ed in modo specifico del
conflitto Palestina-Israele. Dal 1988 ha contribuito alla ricostruzione di
relazioni e networks tra pacifisti israeliani e palestinesi. In particolare
con associazioni di donne israeliane e palestinesi e dei paesi del bacino
del Mediterraneo (ex Yugoslavia, Albania, Algeria, Marocco, Tunisia). Nel
dicembre 1995 ha ricevuto il Premio per la pace dalle Donne per la pace e
dalle Donne in nero israeliane. Attiva nel movimento per la pace e la
nonviolenza e' stata portavoce dell'Associazione per la pace. E' tra le
fondatrici delle Donne in nero italiane e delle rete internazionale di Donne
contro la guerra. Attualmente e' deputata al Parlamento Europeo, eletta come
indipendente nelle liste del Prc e aderente al gruppo Gue-Ngl. Presiede la
delegazione parlamentare per i rapporti con il consiglio legislativo
palestinese, oltre ad essere membro titolare nella commissioni diritti della
donna e pari opportunita' ed in quella per lo sviluppo e la cooperazione,
membro della delegazione per le relazioni con il Sud Asia e membro sostituto
della commissione industria, commercio esterno, ricerca ed energia. In
Italia continua la sua opera assieme alle Donne in nero e all'Associazione
per la pace"]
L'importanza dell'accordo sottoscritto da palestinesi e israeliani ad Amman
e' vitale per il futuro dei due popoli. La cerimonia ufficiale dovrebbe
avere luogo il 4 novembre a Ginevra alla presenza del governo svizzero, che
ha facilitato gli incontri, e di diverse personalita' internazionali.
Ho seguito fin dal primo appello lanciato nell'agosto del 2001, la sfida,
portata avanti da Yasser Abed Rabbo e Yossi Beilin, per riuscire a trovare,
nella trappola mortale della politica dei diversi governi di Sharon e
dell'estremismo palestinese di Hamas e della Jihad, una strada per la pace
che tenesse in considerazione i diritti dei due popoli
all'autodeterminazione, a due Stati che possano coesistere in reciproca
sicurezza. Via via che gli incontri si sono succeduti e' maturata l'idea di
non accontentarsi di un lavoro comune per la pace, ma di arrivare ad un vero
e proprio accordo che ripartisse da dove i negoziati erano stati interrotti
tra il governo Barak e il presidente Arafat con la presenza di Clinton.
Cio' che rende credibile questo tentativo, che dovra' essere sostenuto dalla
comunita' internazionale, ma anche trovare sostegno all'interno della
societa' palestinese e israeliana, e' la serieta' con la quale le due parti
hanno discusso e negoziato. Perche' di veri e propri negoziati si tratta,
con crisi continue, speranze e poi delusioni e poi ancora speranze e poi con
la testardaggine di andare avanti.
Due settimane fa insieme al presidente del Gue-Ngl al parlamento europeo
Francis Wurtz, ho incontrato Yossi Beilin nella sua casa di Tel Aviv. Era
stanco e teso, stava tornando da uno degli incontri che si tenevano a
Gerusalemme: "Una giornata dura, finita con una sospensione della
discussione, difficile trovare accordi quando con mappe alla mano si
definiscono gli insediamenti che dovevano essere evacuati e quelli che con
uno scambio di territorio ai palestinesi potevano restare ad Israele".
Eppure si diceva fiducioso: "Nel giro di due settimane arriveremo
all'accordo".
Il giorno dopo a Ramallah quando abbiamo incontrato Yasser Abed Rabbo,
l'ottimismo era un po' smorzato, ma la determinazione a trovare una
soluzione era molto forte. Era stato contento di sapere che Beilin non aveva
lasciato Gerusalemme pensando ad una rottura.
Adesso l'accordo c'e'.
Beilin e Rabbo non solo sono riusciti a firmarlo ma il peso vero di questo
accordo e' che ne sono coinvolti pezzi di sinistra israeliana e di forze
palestinesi rilevanti; da Mitzna, leader laburista ed ex-generale, a Avraham
Burg, presidente del parlamento israeliano anche durante il primo governo
Sharon, a diversi ex-ufficiali, parlamentari non solo del Labour. Da parte
palestinese - a parte un altro ex-ministro come Nabil Khassis - l'adesione
del parlamentare Kaddura Fares, della generazione dei giovani dirigenti
della prima Intifadah e molto vicino a Marwan Barghouti, il leader
incarcerato in Israele, rende l'accordo credibile e con sostegno popolare.
La reazione della destra israeliana e' stata a dir poco scomposta.
Atteggiamento di denigrazione, alcuni ministri chiamano traditori i
firmatari; altri deridono dicendo che quella sinistra che e' morta nel paese
cerca di ridarsi un volto ma che il potere di negoziare e' nelle mani del
governo; Sharon ha poi proclamato che questo "e' il grande storico errore
commesso dopo Oslo"; e Olmert, ex sindaco di Gerusalemme ed oggi nel
governo, ha dichiarato "che la prima persona che ha fatto concessioni su
Gerusalemme e che non potra' mai essere perdonato per questo e' stato
Barak". Dal canto suo Barak non ha trovato di meglio che attaccare
l'iniziativa e Yossi Beilin.
Una reazione e una pubblicita' all'accordo che ha preso di sopresa gli
autori, compreso Yossi Beilin che non sperava in tanta considerazione, e che
ha reagito subito alle accuse denunciando Sharon e la sua responsabilita'
nella situazione in cui si trovano palestinesi e israeliani. Da parte
palestinese vi e' l'appoggio informale di Arafat, che e' sempre stato
informato delle trattative e ripete che "qualsiasi sforzo fatto per la pace
dei coraggiosi ha il suo appoggio". Bisognera' vedere la reazione dei
palestinesi della diaspora.
L'accordo ristabilisce il diritto internazionale, citando le risoluzioni
Onu, compresa la 194 che parla del diritto dei profughi - anche se, e questa
sara' la cosa piu' ostica, non si parla del ritorno dei profughi in
Israele -; si definiscono le linee del 1967 senza muri, uno stato
palestinese con confini e frontiere, demilitarizzato, Gerusalemme capitale
per due Stati, gli insediamenti di Gaza tutti evacuati con un ampliamento
del territorio palestinese in cambio delle colonie di Ma'ale Adumin
nell'area di Gerusalemme. Evacuazione anche per gli insediamenti nella
Gisgiordania, compreso Ariel.
Il documento e' di 54 pagine, con annessi e tante mappe. Non e' ancora
pubblico anche se ampi stralci sono gia' stati diffusi. Adesso bisogna fare
in modo che i ricatti e le minacce non pesino sia sugli israeliani che sui
palestinesi e si arrivi alla firma a Ginevra. Soprattutto occorre che il
Quartetto o perlomeno gli europei lo sostengano. Gli Usa hanno gia' fatto
sapere che questa non e' l'idea del presidente Bush, e a Gaza non si sa
ancora per quale causa sia scoppiata una bomba sotto un'auto americana.
Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo verranno al Parlamento europeo nella seduta
di novembre per presentare l'iniziativa. A Firenze, nella riunione del
gruppo del Gue-Ngl, Naomi Chazan del Merez e Jamal Zaquot del Fida -
entrambi della Coalizione per la pace - hanno chiesto il sostegno di tutti i
democratici. Certo la soluzione migliore sarebbe quella che la comunita'
internazionale ripristinasse diritti e giustizia e dignita', che imponesse
ad Israele la fine dell'occupazione militare dei Territori. Ma qui almeno si
tenta una strada per la pace. E io la sostengo.
4. TESTIMONIANZE. JOHN PILGER: AFGHANISTAN ANNO ZERO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 ottobre 2003. Nato a Sydney, John
Pilger, da molti anni uno dei principali inviati in zone di guerra dei piu'
importanti giornali internazionali ("Guardian", "Independent", "New York
Times", "The Nation"), e' stato reporter giornalistico e regista di
documentari testimone di conflitti in tutto il mondo, dal Vietnam alla
Birmania, dalla Cambogia al Medio Oriente. Il sito di John Pilger e':
http://pilger.carlton.com]
Alla conferenza del partito laburista dopo l'attacco dell'11 settembre, Tony
Blair fece il memorabile annuncio: "Al popolo afgano facciamo una promessa:
noi non ce ne andremo... se ci sara' un cambiamento del regime dei taleban,
lavoreremo insieme a voi per garantire che il nuovo governo abbia la piu'
ampia base di appoggio possibile, unisca tutti i gruppi etnici e offra una
qualche via di uscita dalla poverta' della vostra misera esistenza". Le sue
parole riecheggiavano quelle di Bush che alcuni giorni prima aveva detto:
"Il popolo afgano oppresso imparera' a conoscere la generosita' dell'America
e dei suoi alleati. Mentre bombarderemo obiettivi militari, lanceremo anche
cibo, medicinali e altro per gli uomini, le donne e i bambini
dell'Afghanistan che stanno soffrendo e morendo di fame. Gli Stati Uniti
sono amici del popolo afgano". Quasi ogni parola detta era falsa. Le loro
dichiarazioni di impegno erano crudeli illusioni che servivano a spianare la
strada per la conquista sia dell'Afghanistan che dell'Iraq. Mentre si
chiarisce la natura illegale dall'occupazione angloamericana dell'Iraq, il
disastro dimenticato dell'Afganistan, la prima "vittoria" della "guerra al
terrorismo", e' forse un tributo al potere ancor piu' scioccante.
*
Era la mia prima visita in Afghanistan. In una vita spesa in giro per i
luoghi del mondo in tumulto non avevo mai visto niente di simile. Kabul e'
uno scorcio di Dresda nel '45, contornata da macerie anziche' da strade,
dove la gente vive in edifici crollati, come vittime di un terremoto in
attesa dei soccorsi. Niente luce ne' riscaldamento: solo apocalittici fuochi
che bruciano tutta la notte. Quasi non c'e' muro in piedi che non mostri le
ferite di tutte le possibili armi da fuoco. Automobili giacciono rovesciate
sulle rotatorie. I pali elettrici che dovevano servire per una moderna
flotta di tram sono accartocciati come fogli di carta; gli autobus,
accavallati uno sull'altro, ricordano le piramidi di macchine erette dai
Khmer rossi per celebrare l'anno zero.
C'e' una sensazione da anno zero in Afghanistan.
I miei passi risuonano in quello che fu un tempo il grandioso Dilkusha
palace, costruito nel 1910 su progetto di un architetto inglese, celebrato
per gli scaloni circolari, le colonne corinzie e gli affreschi su pietra.
Ora e' una carcassa tenebrosa da cui emergono come fantasmi bambini esili
come giunchi, offrendo cartoline ingiallite dell'albergo com'era trent'anni
fa, un pretenzioso edificio in fondo a un viale che avrebbe potuto essere
una replica del Mall londinese, addobbato di bandiere ed alberi. Sotto la
curva dello scalone c'erano il sangue e i brandelli di carne di due persone
saltate in aria per una bomba il giorno prima. Chi erano? Chi aveva messo la
bomba? In un paese in balia dei signori della guerra, molti dei quali
conniventi con il terrorismo, la domanda e' surreale.
Poco lontano, uomini con tute blu avanzano rigidi in fila indiana: sono
sminatori.
Qui le mine sono comuni come i rifiuti e si calcola che uccidano o mutilino
una persona ogni ora, tutti i giorni. Di fronte a quello che era il cinema
principale di Kabul e che ora e' uno scheletro art deco, c'e' una rotonda
piena di traffico con manifesti che avvertono che li' intorno sono sparse
bombe "gialle e provenienti dagli Usa". I bambini ci giocano qui,
rincorrendosi fra le ombre: un adolescente li guarda, ha un troncone di
gamba e gli manca meta' viso. Nelle campagne la gente confonde ancora i
contenitori delle bombe a grappolo con i pacchi gialli di generi di conforto
lanciati dagli aerei statunitensi quasi due anni fa durante la guerra, dopo
che Bush aveva vietato ai convogli di aiuti internazionali di entrare dal
Pakistan.
*
Piu' di 10 miliardi di dollari sono stati spesi in Afghanistan dal 7 ottobre
2001, in massima parte dagli Stati Uniti e l'80% e' servito a pagare il
bombardamento del paese e a foraggiare i signori della guerra, ex-mujahedin
auto-ribattezzatisi "Alleanza del nord". Gli americani hanno dato a ciascun
signore della guerra decine di migliaia di dollari in contanti e camion
carichi di armi. "Rifornivamo tutti i comandanti che potevamo", ha
dichiarato un agente della Cia al "Wall Street Journal" durante la guerra.
In altre parole, li pagavano perche' smettessero di combattersi fra loro e
combattessero invece i taleban. Erano quegli stessi signori della guerra
che, in lotta per il controllo di Kabul dopo il ritiro dei sovietici nel
1989, hanno ridotto la citta' in polvere uccidendo 50.000 civili.
Grazie agli Stati Uniti, il controllo effettivo del paese e' stato
consegnato a molti degli stessi mafiosi e ai loro eserciti privati che
comandano con il terrore, l'estorsione e il monopolio del commercio
dell'oppio da cui proviene il 90% dell'eroina in vendita per le strade
inglesi. Il governo post-talebano e' meramente di facciata: non ha soldi e
il suo mandato arriva a malapena alle porte di Kabul, nonostante le pretese
di democrazia quali le elezioni programmate per l'anno prossimo. Omar
Zakhilwal, funzionario del ministero degli affari rurali, mi ha detto che al
governo arriva meno del 20% degli aiuti all'Afghanistan - "non abbiamo
neppure abbastanza denaro per gli stipendi, figuriamoci per la
ricostruzione", ha detto. Il presidente Harmid Karzai e' un impiegato di
Washington che non si muove se non accompagnato dalla sua posse di guardie
del corpo delle forze speciali Usa.
In una serie di rapporti eccezionali, l'ultimo pubblicato in luglio, Human
Rights Watch ha documentato le atrocita' "compiute da banditi e signori
della guerra portati al potere dagli Stati Uniti e gli altri membri della
coalizione dopo la caduta dei talebani nel 2001", sostenendo che costoro
tengono "fondamentalmente il paese in ostaggio". Il rapporto denuncia
l'esistenza di eserciti e truppe di polizia agli ordini dei signori della
guerra che rapiscono impunemente abitanti dei villaggi tenendoli in prigioni
non ufficiali in attesa del riscatto; denuncia inoltre lo stupro diffuso di
donne ragazze e ragazzi, estorsioni rapine e omicidi arbitrari come pratiche
di routine. Le scuole femminili vengono bruciate. "Dato che un obiettivo dei
soldati sono le donne e le ragazze", continua il rapporto, "molte non escono
piu' di casa e non possono andare ne' a scuola ne' a lavorare". A Herat, una
citta' nell'ovest del paese, ad esempio, le donne che guidano vengono
arrestate, non possono viaggiare con uomini che non siano loro parenti,
neppure su un taxi se l'autista non e' un loro parente. Se sono arrestate
vengono sottoposte ad un "test di castita'" con spreco di servizi medici
preziosi ai quali, sostiene Haman Rights Watch, "le donne e le ragazze non
hanno quasi accesso, specialmente a Herat dove meno dell'1% delle donne
partorisce con assistenza professionale". Secondo l'Unicef il tasso di
mortalita' delle madri durante il parto e' il piu' alto del mondo. Herat e'
in mano al signore della guerra Ismail Khan, pubblicamente approvato dal
segretario alla difesa Usa Rumsfeld "come persona accattivante...
riflessiva, misurata e sicura di se'".
*
"L'ultima volta che ci siamo visti in questo luogo", ha detto Bush nel suo
discorso sullo stato dell'unione dell'anno scorso, "le madri e le figlie
dell'Afghanistan erano prigioniere nelle loro case, impedite di andare al
lavoro o a scuola. Oggi le donne sono libere e fanno parte del nuovo governo
del paese. E noi diamo il benvenuto al nuovo ministro agli affari femminili
la dottoressa Sima Samar". Si alzo' una donna minuta, di mezza eta', con una
sciarpa sul capo, e ricevette un'ovazione molto coreografica. Samar, un
medico che nel periodo dei talebani si rifiuto' di negare assistenza alle
donne, e' un vero simbolo di resistenza e l'appropriazione untuosa che ne ha
fatto Bush ha avuto vita breve: in dicembre del 2001 Samar partecipo' a Bonn
alla "conferenza di pace" sponsorizzata dagli Stati Uniti dove Karzai fu
installato come presidente e tre dei piu' brutali signori della guerra come
vicepresidenti.
Non era ancora svanito l'eco dell'applauso che Samar fu infamata con la
falsa accusa di blasfemia e costretta a ritirarsi. I signori della guerra
che differiscono dai talebani solo per diversa appartenenza tribale e
ortodossia religiosa, non potevano ammettere il benche' minimo gesto di
emancipazione femminile.
Oggi Samar vive nel timore costante per la propria vita, ha due terribili
guardie del corpo con armi automatiche, una davanti la porta dell'ufficio e
l'altra al cancello esterno e si sposta su un van con i vetri oscurati. "Non
ho mai avuto una vita sicura negli ultimi 23 anni", mi ha detto, "ma non ho
dovuto mai nascondermi o girare con scorta armata come sono obbligata a fare
ora... Certo, e' stata abolita la legge scritta che vietava alle donne di
andare a scuola e al lavoro e imponeva loro le regole del vestirsi, ma la
realta' e' che neppure sotto i taleban c'era la stessa oppressione nei
confronti delle donne che c'e' ora nelle aree rurali".
Forse l'apartheid nei confronti delle donne e' stata abolita legalmente ma
per il 90% di loro queste "riforme" non sono altro che tecnicismi. Il burqa
e' diffuso ancora ovunque. Come dice Samar, la condizione delle donne nelle
campagne e' spesso piu' disperata ora di prima perche' gli ultra-puritani
talebani avevano la mano molto pesante con gli stupri, gli omicidi e il
banditismo. A differenza di oggi, si poteva viaggiare sicuri in gran parte
del paese.
*
In una fabbrica di scarpe bombardata nella parte ovest di Kabul ho visto la
popolazione di due villaggi ammassata e esposta sui pavimenti dei vari
piani, senza luce e con un unico rubinetto sgocciolante. Bambini piccoli
accovacciati attorno a fuochi accesi in terra vicino a parapetti mezzo
sbriciolati. Il giorno del mio arrivo un bambino e' caduto ferendosi
gravemente. Pane bagnato nel te' e' il loro pasto. Hanno nei loro occhi
chiari da civetta lo sguardo terrorizzato del rifugiato. Sono fuggiti la',
mi dicono, perche' i signori della guerra li derubano costantemente e
rapiscono le loro mogli figlie e figli che violentano e restituiscono poi
dietro pagamento del riscatto.
*
"Sotto i talebani era come vivere in una tomba ma eravamo sicuri", mi ha
detto una militante, Marina, "alcuni dicono che erano persino meglio loro, a
dimostrazione di quanto sia disperata la situazione oggi. Le leggi possono
anche essere cambiate ma le donne non osano uscire di casa senza burqa, che
indossiamo anche per proteggerci".
Marina e' una dirigente dell'Associazione rivoluzionaria delle donne afgane
(Rawa), un'organizzazione eroica che ha tentato per anni di sensibilizzare
il resto del mondo sulle sofferenze delle afgane. Le donne di Rawa
viaggiavano segretamente per tutto il paese con macchine da presa nascoste
sotto il burqa. Hanno filmato l'esecuzione di un talebano e altri abusi e
fatto arrivare clandestinamente il video in occidente.
"L'abbiamo portato a vari media", dice Marina, "Reuters, Abc Australia, per
esempio, e tutti ci dicevano, certo, e' bello ma non possiamo mostrarlo
perche' troppo scioccante per il pubblico occidentale". Alla fine
l'esecuzione e' stata trasmessa all'interno di un documentario da Channel 4.
Questo avveniva prima dell'11 settembre 2001, quando Bush e i media Usa
hanno scoperto la questione delle donne in Afghanistan.
Marina afferma che non c'e' differenza con l'attuale silenzio dell'occidente
sulla natura atroce del presente regime dei signori della guerra sostenuti
dall'occidente. Ci siamo incontrati in modo clandestino e lei aveva il viso
coperto per non rivelare la sua identita': Marina e' un nome fittizio. "Due
ragazze che erano andate a scuola senza burqa sono state uccise e i loro
corpi abbandonati davanti a casa loro", ha continuato. "Il mese scorso 35
donne si sono gettate in un fiume con i loro bambini e sono morte per
sfuggire a una battuta di stupri di capimilizie. Questo e' l'Afghanistan,
oggi; i taleban e i signori della guerra dell'Alleanza del nord sono due
facce della stessa medaglia. Per gli Stati Uniti si ripropone la storia di
Frankenstein: crea un mostro e il mostro ti si rivoltera' contro: se non
avessero costruito e sostenuto i signori della guerra, Osama bin Laden e
tutte le forze fondamentaliste in Afghanistan durante l'invasione sovietica,
questi non avrebbero attaccato il padrone l'11 settembre 2001".
5. INIZIATIVE. RETE LILLIPUT: UNA CAMPAGNA PER CAMBIARE LA FINANZIARIA
[Dagli amici della Rete Lilliput (per contatti:
ufficiostampa@retelilliput.org) riceviamo e diffondiamo]
Rete Lilliput con le associazioni aderenti alla campagna "Sbilanciamoci"
promuove la petizione on-line per chiedere al Parlamento di cambiare
finanziaria.
E' solo uno dei tasselli della campagna che, nelle prossime settimane, fara'
sentire la voce della societa' civile su una serie di provvedimenti ingiusti
e senza futuro. Abbiamo anche realizzato cinque cartoline illustrate per
sostenere la diffusione della petizione: riprendono alcuni dei temi
principali della campagna e possono essere inviate ad amici e conoscenti,
cosi' come ai parlamentari della vostra circoscrizione. Potete richiederle
scrivendo a: info@sbilanciamoci.org e presto saranno scaricabili anche dal
sito.
Per leggere la petizione e per firmarla:
www.sbilanciamoci.org/petizione2003/
*
"Sbilanciamoci" ha presentato la sua contro-finanziaria per il 2004
La campagna ha realizzato - come da quattro anni a questa parte - la sua
contro-finanziaria 2004. La settimana scorsa presso la Sala Rossa del Senato
e' stata presentata la proposta di manovra di"Sbilanciamoci". La nostra
contro-finanziaria - circa 4 miliardi di euro in meno rispetto ai 16,3
previsti da quella del governo - mira ad aumentare la qualita' della vita di
tutti. Perche' la spesa pubblica torni ad essere strumento di sviluppo e
benessere per tutti, aumentando i diritti, favorendo la pace, tutelando
l'ambiente.
Per scaricare il rapporto "Cambiamo finanziaria. Le proposte di
'Sbilanciamoci' per il 2004" e' sufficiente collegarsi al sito
www.sbilanciamoci.org
L'opuscolo sara' invece pronto a fine ottobre, per richiederlo mandate una
e-mail all'indirizzo info@sbilanciamoci.org
Aderiscono alla campagna "Sbilanciamoci": Altreconomia, Antigone, Arci, Arci
servizio civile, Associazione ambiente e lavoro, Associazione finanza etica,
Associazione obiettori nonviolenti, Associazione per la pace, Campagna per
la riforma della Banca mondiale, Carta, Cipsi, Cittadinanzattiva, Cnca,
Cocis, Ics, Coop. Roba dell'Altro Mondo, Ctm-Altromercato, Donne in nero,
Emergency, Legambiente, Lila, Lunaria, Mani tese, Medici senza frontiere,
Microfinanza, Pax Christi, Uisp, Unione degli studenti, Unione degli
universitari, Wwf.
"Sbilanciamoci" ha sede presso Lunaria, via Salaria 89, 00198 Roma, tel.
068841880, fax: 068841859, sito: www.sbilanciamoci.org
6. RILETTURE. CLARA LEVI COEN: MARTIN BUBER
Clara Levi Coen, Martin Buber, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di
Fiesole (Fi) 1991, pp. 160, lire 18.000. Una bella, finissima e simpatetica
monografia che e' anche un atto di amicizia; con tre scritti di Martin Buber
del 1951 qui per la prima volta tradotti in Italiano.
7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 711 del 22 ottobre 2003