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La nonviolenza e' in cammino. 707



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 707 del 18 ottobre 2003

Sommario di questo numero:
1. "Un ponte per": cessi l'illegittima occupazione militare dell'Iraq
2. Il topolino
3. Lorenzo Guadagnucci: sulla proposta di Lidia Menapace
4. Michele Nardelli: percorsi di economia locale nei Balcani
5. Predrag Matvejevic: il cantiere Europa dalle nuove frontiere dell'est
6. Zvi Schuldiner: l'altra pace
7. Sveva Haertter: alcune organizzazioni di sostegno ai refuseniks
israeliani
8. Letture: Beatrice Bauer, Gabriella Bagnato, Mariarosa Ventura, Puoi anche
dire "no!". L'assertivita' al femminile
9. Letture: Cristina Demaria, Teorie di genere. Femminismo, critica
postcoloniale e semiotica
10. Letture: Sandra Endrizzi, Pesci piccoli. Donne e cooperazione in
Bangladesh
11. La "Carta" del Movimento Nonviolento
12. Per saperne di piu'

1. APPELLI. "UN PONTE PER": CESSI L'ILLEGITTIMA OCCUPAZIONE MILITARE
DELL'IRAQ
[Dall'organizzazione umanitaria "Un ponte per" (per contatti:
posta@unponteper.it) riceviamo e diffondiamo]
La risoluzione statunitense approvata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu
non puo' aver dato alcuna patente di legittimita' all'occupazione militare
dell'Iraq a cui partecipa, con 3.000 uomini, anche l'Italia.
La guerra e la conseguente occupazione sono una palese violazione del
diritto internazionale che non puo' essere sanata da nessuna risoluzione.
In Iraq la popolazione non saluta le truppe occupanti come liberatrici, il
disordine dilaga e la guerra e' sfociata in una sanguinosa guerriglia: non
servira' la coperta della risoluzione Onu a cambiare questo stato di cose.
"Chi legittima l'occupazione, ha dichiarato Fabio Alberti - presidente
dell'associazione "Un ponte per" - che e' sempre piu' osteggiata dalla
societa' civile mondiale, legittima la violenza, i lutti, le vendette, che
da mesi insanguinano l'Iraq".
E' necessario che il Parlamento italiano ritiri il contingente militare e
che i soldi stanziati per il mantenimento delle truppe (250 milioni di euro
solo per i primi sei mesi) vengano usati per un intervento umanitario
direttamente rivolto alla popolazione irachena.

2. EDITORIALE. IL TOPOLINO
Devo fare due  sgradevoli premesse.
La prima: diversi anni fa ero un pubblico amministratore di un ente locale,
e mi adoperai perche' esso deliberasse il riconoscimento del diritto di voto
a tutti i residenti in quanto tali. Ho studiato tecnicamente l'argomento
sotto il profilo giuridico e amministrativo, ho le cognizioni e l'autorita'
per poter dire che il riconoscimento dell'elettorato attivo e passivo nelle
elezioni amministrative a tutti i residenti (quindi anche a tutti gli
immigrati da altri paesi) e' cosa fattibile non solo senza alcun bisogno di
modifiche costituzionali, ma si puo' anche persuasivamente sostenere che
neppure occorre una legge ordinaria ma che sia sufficiente il riferimento al
combinato disposto di norme gia' vigenti e quindi un mero provvedimento
amministrativo: basta volerlo e subito si potrebbe riconoscere il diritto di
voto per le elezioni amministrative per tutti i residenti - cittadini
italiani o no - con la stessa modalita' e gli stessi tempi con cui un
cittadino italiano viene iscritto nelle liste elettorali del Comune di nuova
residenza quando si trasferisce a risiedere da un luogo all'altro.
Poiche' e' un argomento che mi sta a cuore (e' dagli anni settanta che ci
rifletto, e tra l'altro qualche anno fa ho anche curato un notiziario dal
titolo "Un uomo, un voto" a questo tema dedicato), tra le mie carte da
qualche parte devo avere un faldone che contiene anche vecchie lettere
scambiate con l'indimenticabile Dino Frisullo, ed anche - mi duole dirlo -
un piccolo carteggio personale che ebbi con l'allora ministro Livia Turco,
che continuo a chiedermi come abbia potuto sottoscrivere una legge che ha
negato il diritto di voto agli immigrati regolarmente residenti nel nostro
paese (nella bozza di quella che poi divenne l'infausta "Turco-Napolitano"
era invece previsto) ed ha addirittura riaperto i campi di concentramento in
Italia (e mi astengo qui dal commentare una barbarie cosi' enorme: sono di
quelli che ritengono che tali strutture siano palesemente incostituzionali,
e la normativa in materia sciaguratamente criminale e criminogena).
E qui sono gia' alla seconda premessa: la barbara legge Bossi-Fini ha avuto
la strada spianata dalla gia' barbara legge Turco-Napolitano; cosi' come il
trionfo elettorale del blocco sociale neofascista-razzista-filomafioso e'
stato preparato anche dai progressivi cedimenti al razzismo dei precedenti
governi.
E trovo scandaloso che oggi vengano proposti come esempi di democratici e di
persone amiche degli immigrati personaggi che dai primi anni novanta hanno
promosso e approvato leggi sempre piu' scelleratamente razziste e disumane
in questo ambito, e hanno sottoscritto trattati europei non meno trucemente
assassini. Leggi e trattati assassini, e' la parola.
*
Oggi che la montagna di chiacchiere di un ceto politico dedito alle baruffe
chozzotte per coprire col chiasso il saccheggio e i crimini che compie, che
la montagna di chiacchiere, dico, partorisce il topolino di un disegno di
legge che configura una striminzita concessione di sua maesta' a condizioni
a dir poco ridicole e grottesche e umilianti, mi permetto di dire: aveva
ragione la nostra Federica Montseny.
Che fare?
Dai parlamentari democratici (dire "di sinistra", in certi casi, sarebbe
fare dello humour nero) vorrei potermi aspettare un'iniziativa affinche' per
il riconoscimento a tutti i residenti dell'elettorato attivo e passivo nelle
elezioni amminsitrative si approvi una legge che non ponga capestri e
regressioni ma che lo sancisca senza tante storie e cavilli come semplice
atto dovuto, di civilta' e di ragionevolezza. Poi si veda quale mediazione i
rapporti di forza parlamentari consentiranno di raggiungere e si cerchi
comunque di ottenere una legge che sposti sia pure di poco in avanti la
situazione ignobile attuale.
Ma e' dagli enti locali che vorrei aspettarmi un impegno piu' energico e
piu' nitido: che deliberino ovunque - ripeto: in forza del combinato
disposto di norme gia' vigenti nel corpus legislativo del nostro paese - il
riconoscimento del diritto di voto per le elezioni amministrative a tutti i
residenti, e per questa via si esca dal tanto sospirar che nulla rileva, si
adempia a un dovere, si contrasti dal basso l'ingiustizia e la barbarie, si
promuova il riconoscimento dei diritti umani anche nel nostro paese,
dappoiche' ve ne e' grande bisogno.
I movimenti, l'associazionismo, non cessino di sostenere i diritti delle
persone immigrate; sappiano premere con forza e chiarezza adesso che un
varco sembra aprirsi affinche' subito il diritto di voto sia riconosciuto:
quando negli enti locali anche gli immigrati avranno voce (e potere
elettorale e rappresentanza diretta) sara' piu' difficile ai razzisti
continuare nelle loro infamie, ne guadagnera' la democrazia, tutte e tutti
ne trarremo beneficio grande.

3. RIFLESSIONE. LORENZO GUADAGNUCCI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE
[Ringraziamo Lorenzo Guadagnucci (per contatti: guadagnucci@libero.it) per
questo intervento. Lorenzo Guadagnucci, giornalsta economico, studioso dei
problemi della globalizzazione e dei nuovi movimenti sociali, e' stato tra
le vittime dell'aggressione squadristica alla scuola Diaz nel 2001 a Genova.
Si e' impegnato non solo a testimoniare e documentare quell'orrore, ma anche
a favorire l'elaborazione del lutto da parte di tutte le vittime e a
costruire le condizioni perche' simili orrori mai piu' accadano. Opere di
Lorenzo Guadagnucci: Noi della Diaz, Berti, Piacenza 2002]
Quante volte abbiamo detto che la guerra deve diventare un tabu' culturale?
E che questo passaggio epocale deve avvenire presto, prestissimo?
La globalizzazione liberista sta vivendo una fase delicata: con l'economia
che non riesce piu' a garantire le granitiche certezze di un tempo (il
collasso argentino, il crac Enron, la pluriennale stagnazione giapponese e
il declino del sistema produttivo euro-nordamericano sono evidenti segnali
di crisi), l'apparato militare sta tornando ad assumere un ruolo guida, con
tutto cio' che ne consegue in termini di politica di potenza,
neo-imperialismo e rottura dei legami multilaterali da parte del paese
guida, gli Stati Uniti d'America.
Lo stesso fallimento del vertice di Cancun della Wto, che di per se' mette
un granello di sabbia in un meccanismo che ha finora stritolato i paesi del
Sud del mondo, rischia di spingere gli Usa a un'ulteriore accelerazione
della loro scelta "unilateralista".
Per tutte queste ragioni, e visto il contesto di guerra permanente che si va
delineando in una fetta sempre piu' larga del pianeta, e' urgente porre un
freno a questa deriva e immaginare proposte alternative al nuovo,
militarizzato ordine mondiale.
In questa chiave la proposta di Lidia Menapace per un'Europa votata alla
neutralita', al ripudio della guerra, propensa alla scelta della
nonviolenza, assume la fisionomia di un'alternativa sia politica che
culturale, perche' affronta le emergenze del presente e si rifa' a una
tradizione di pensiero e di azione che puo' trovare nuovi spazi di crescita
nella societa' europea.
Detto questo, e per non ripetere valutazioni gia' fatte da altri, vorrei
aggiungere una specifica riflessione attorno a uno degli "effetti
collaterali" dovuti alla deriva militarista guidata dagli Usa e assecondata
da un'Europa finora incapace di proporre un modello alternativo di relazioni
internazionali.
Mi riferisco all'ondata di autoritarismo e alle politiche liberticide che
stanno mettendo a repentaglio diritti e liberta' che credevamo radicati
nelle nostre democrazie. Il punto di svolta, probabilmente, va individuato
nell'11 settembre 2001 e nella conseguente, pervasiva campagna cosiddetta
antiterroristica, che ha comportato diffuse e marcate limitazioni delle
liberta' civili. Gia' prima di quella data, tuttavia, la tendenza
autoritaria si era ampiamente manifestata, ad esempio nelle legislazioni
anti-immigrazione con una  tendenziale introduzione di un doppio livello di
cittadinanza (un'aberrazione per la tradizione giuridica europea) o nelle
clamorose repressioni di massa durante manifestazioni e cortei: a Genova nel
luglio 2001 abbiamo avuto quella piu' vasta e plateale ma non l'unica. Gli
esempi da fare sarebbero moltissimi e riferiti a vari paesi del vecchio
continente, ma limitiamoci all'Italia, rinviando al libro di Roberto Festa,
Il mondo da Shenikin Street. Reportage sulle liberta' civili, Eleuthera,
Milano 2002, per una panoramica che spazia da Israele agli Stati Uniti
all'Olanda.
Dunque partiamo da Genova, autentico doppio test nella prospettiva della
costruzione di una democrazia autoritaria. Doppio, perche' alla "prova
generale" di repressione poliziesca di massa (gia' sperimentata su scala
minore nel marzo 2001 a Napoli), si e' aggiunta una gestione del "dopo G8"
da brividi: nessuna presa di distanza delle forze dell'ordine e del governo
nemmeno dagli episodi piu' clamorosi, come le torture alla caserma di
Bolzaneto e le falsificazioni che hanno accompagnato la mattanza alla Diaz;
promozione, anziche' rimozione, degli altissimi dirigenti indagati per Diaz
e Bolzaneto (in tutto 73 fra agenti e funzionari, inclusi alcuni medici
penitenziari); preparazione di uno scontro giudiziario nel processo Diaz,
con politici-avvocati come Biondi e La Russa impegnati nella difesa di
agenti e funzionari. Dopo Genova abbiamo avuto in rapida successione la
rivolta (assecondata dai leader della destra di governo) degli agenti della
questura di Napoli (aprile 2002), che si incatenarono per protestare contro
gli arresti domiciliari inflitti a otto loro colleghi indagati per i
maltrattamenti nella caserma Raniero denunciati da decine di persone fermate
durante la protesta contro il Global Forum; la clamorosa inchiesta della
procura di Cosenza (novembre 2002) contro un gruppo di militanti della Rete
meridionale del Sud Ribelle, accusati di gravissimi reati d'opinione
(inclusa la sovversione violenta dell'ordinamento economico dello stato e la
compartecipazione psichica ai danneggiamenti compiuti a Genova dal Black
Bloc); la sconcertante ordinanza d'archiviazione (maggio 2003)
dell'inchiesta sull'uccisione di Carlo Giuliani, che accetta l'improbabile
teoria del proiettile deviato da un calcinaccio e afferma che il carabiniere
Placanica non solo agi' per legittima difesa ma facendo un "uso legittimo
delle armi", configurando cosi' un pericoloso precedente, oltre a mandare un
esplicito messaggio lassista alle forze dell'ordine; la recente,
preoccupante contestazione di reati associativi al gruppo Action di Roma,
attivo nel campo del diritto alla casa, con gli attivisti perquisiti e
accusati nientemeno che di associazione a delinquere finalizzata al
danneggiamento della proprieta' immobiliare. Sono solo esempi, ai quali
potremmo aggiungere molto altro, come l'allarmante situazione dei centri di
permanenza temporanea (quando faremo una seria ricognizione, un vero
"reportage sulle liberta' civili" viste dall'interno dei Cpt?), la circolare
del prefetto De Gennaro sui controlli di polizia all'esterno delle scuole
(con annessa perquisizione domiciliare per alcuni allievi di un liceo
romano) e la stessa reclamizzatissima iniziativa del vice premier Fini che
propone si' di concedere agli immigrati il diritto di voto, ma intanto pone
requisiti di censo e di rapporti con la giustizia (l'assenza non tanto di
condanne per gravi reati quanto la semplice pendenza di procedimenti penali)
che sono altrettanti attentati alla nostra civilta' giuridica.
E a qualcuno e' forse sfuggita la recente legge contro la violenza negli
stadi? Probabilmente si', perche' il provvedimento e' stato accolto come un
intervento necessario per arginare un fenomeno preoccupante. Eppure quel
provvedimento contiene una norma allarmante: l'arresto in flagranza
differita. In sostanza la polizia e' autorizzata a compiere arresti, senza
provvedimento della magistratura, anche 36 ore dopo i fatti, sulla base di
"prove" fotografiche o d'altro genere. E' una palese forzatura dell'articolo
13 della Costituzione, che limita esclusivamente al caso della flagranza la
possibilita' di compiere arresti senza un "atto motivato della
magistratura": e' un evidente spostamento dell'ago della bilancia dal piatto
del garantismo a quello della repressione. Anche qui si crea un precedente
pericolosissimo, perche' in nome della lotta alla violenza negli stadi si
pongono le premesse per ulteriori concessioni alla logica dell'autoritarismo
e delle limitazioni dei diritti civili. Non a caso gia' nel dibattito
parlamentare, e piu' di recente dopo gli scontri di piazza a Roma del 4
ottobre, si e' parlato di estendere il principio della "flagranza differita"
alle manifestazioni politiche e sindacali.
Tutto cio' - dalla tolleranza verso la violenza "istituzionale" agli
aberranti concetti di "compartecipazione psichica" e "flagranza differita" -
non nasce certamente dal caso, ma da una deriva prosperata attorno al
concetto di sicurezza, utilizzato a destra e a sinistra come una bandiera
acchiappa-voti. Anche senza citare il terribile Patriot Act statunitense,
che ha cancellato una tradizione secolare di tutela normativa dei diritti
dell'individuo, ci troviamo alle prese con una rinascita dell'autoritarismo
che sta lentamente trasformando la nostra democrazia, con l'apparente
consenso dell'opinione pubblica e l'attivo contributo di una classe politica
che mostra piu' attenzione per gli umori popolari, compresi quelli dettati
dalla paura e dal pregiudizio, che per i principi e le regole della
democrazia.
In questo contesto partecipare alla costruzione di nuove istituzioni
continentali proponendo valori come la nonviolenza, la partecipazione
democratica, il ripudio della guerra, e' un'operazione politica di largo
respiro, che puo' trovare consenso, spinta e mobilitazione in quel "popolo
della pace" che si e' opposto nei mesi e negli anni scorsi alla fuorviante
ricerca di una presunta sicurezza comune al riparo degli apparati militari e
di avventure belliche potenzialmente senza fine.

4. RIFLESSIONE. MICHELE NARDELLI: PERCORSI DI ECONOMIA LOCALE NEI BALCANI
[Dal sito dell'Osservatorio sui Balcani (www.osservatoriobalcani.org)
riprendiamo l'introduzione di Michele Nardelli al seminario svoltosi a
Padova il 3 maggio 2002 sul tema "Percorsi di economia locale nei Balcani.
L'impatto degli aiuti, la valorizzazione delle risorse locali"; relazione
che ci pare costituisca - come molti altri scritti dell'autore - un utile
contributo alla riflessione in corso sulla proposta di Lidia Menapace "per
un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e
nonviolenta; Michele Nardelli, che ci inviera' nei prossimi giorni un suo
specifico intervento sul tema, da molti anni e' impegnato per la pace e i
diritti e la costruzione di un'alternativa solidale; e' tra gli animatori
dell'esperienza di "Solidarieta'" a Trento e dell'"Osservatorio sui
Balcani"]
L'incontro di oggi e' organizzato assieme dal Consorzio Pluriverso e
dall'Osservatorio sui Balcani come momento di confronto e stimolo a piu'
voci tra operatori della cooperazione e della solidarieta' internazionale
con il sud est Europa. Non vuole pertanto portare tesi gia' pre-costituite,
ma aprire un confronto e provare a ricavare alcune sintesi operative sui
modelli e i percorsi di sostegno all'autosviluppo nei Balcani. Perche' di
aiuti e di investimenti esterni sono pieni i paesi di quell'area, ma troppo
scarsi sono i reali processi di sviluppo locale e di democratizzazione dal
basso innescati, segno dell'invasivita' e della scarsa sostenibilita' ma
anche dell'insufficiente elaborazione progettuale tanto del mondo
governativo quanto - ed e' doloroso affermarlo - di quello non governativo
impegnato sul campo.
Questo incontro si svolge nell'ambito del World Social Agenda, l'evento che
dentro Civitas segue la riflessione apertasi a Porto Alegre sui movimenti
territoriali che si cimentano nel tentativo di abitare in maniera
intelligente la globalizzazione. Ed e' importante collegare le idee e gli
strumenti di sviluppo locale e di autogoverno emersi in quella sede - come i
bilanci partecipativi - con le riflessioni sull'azione nei Balcani come
anche nei nostri stessi territori.
Nella consapevolezza che la tradizionale divisione geopolitica - sud e nord,
est e ovest - tende ad essere progressivamente superata dai processi di
mondializzazione in atto, se non nelle condizioni di vita delle persone
almeno nel senso che il carattere a-geografico dei movimenti
economico-finanziari opera a tutto campo. Esso cioe' ingloba nella
modernita' le centrali virtuali del potere finanziario come i luoghi
deregolati dove si materializzano i grandi affari.
*
1. Il quadro di riferimento: i Balcani come luogo della post-modernita'
I Balcani sono spesso, ancora oggi, associati ad immagini di guerra. Di una
guerra che affonda le proprie radici nel passato e dunque avvertita come
qualcosa di arcaico, anziche' come forma contemporanea e moderna di
accumulazione e di riorganizzazione dei poteri, nel cui quadro si esplicano
processi avanzati di globalizzazione. Si pensa che la criminalita' economica
sia qualcosa di residuale, che le mafie siano un fatto di costume e non
invece le forme specifiche assunte in quell'area (ma a guardar bene in tutte
le aree deregolate del pianeta) dall'economia finanziarizzata. O, ancora,
che il miracolo economico del nord est italiano non abbia nulla a che vedere
con la specifica deregolazione nell'est europeo, o che le 7.203 aziende
venete presenti in Romania siano semplicemente una forma diffusa di
cooperazione economica.
Tutto cio' invece rappresenta la forma iper-moderna di un sistema economico
dove, alle conseguenze decennali ereditate dal vecchio modello di sviluppo
burocratico-statalista elefantiaco, autoritario ed insostenibile, si e'
aggiunto lo svuotamento e la paralisi fiscale delle istituzioni statali e
locali. In piu' questo sistema subisce oggi la pervasivita' di una
ricostruzione economica e sociale fortemente condizionata dagli aiuti, che
rischiano di creare situazioni di dipendenza strutturale anziche' favorire
un percorso endogeno, partecipato e sostenibile di rinascita economica e
sociale. La disintegrazione politico-istituzionale avvenuta negli anni '90
ha squarciato il velo di un sistema politico ed economico di tipo mafioso,
che ha lasciato mano libera alle forme piu' perverse della criminalita'
economico-finanziaria.
Questa ha potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza
della derogazione estrema, cosi' come nel traffico díarmi, nel riciclaggio,
nel traffiking, nel mercato della droga o dei rifiuti.
Gli indicatori tradizionali quali il Pil o il reddito pro capite - ce lo
diciamo gia' da tempo - non riescono a descrivere la situazione reale di
paesi dove l'economia informale, illegale e criminale sfuggono ad ogni
parametro descrittivo tradizionale. Qui - come in altre aree a torto
ritenute marginali nel pianeta - lo sviluppo e il mercato si manifestano
proprio con i tratti della guerra, dei traffici criminali, della
ricostruzione post-bellica distorta e della stessa cooperazione. E' il
binomio arretratezza-modernita' che va profondamente ripensato, anche alla
luce della descrizione di quei santuari dell'economia finanziarizzata di cui
molto si parla oggi. E dunque ecco perche' i Balcani rappresentano un
paradigma della modernita'.
*
2. Gli attori: la cooperazione nei Balcani tra logica emergenziale e
sperimentazioni innovative
I dieci anni passati hanno visto una fortissima mobilitazione di persone e
di risorse della societa' civile italiana nei confronti del sud est Europa.
Mancano chiaramente dati completi, ma non pensiamo di sbagliare se contiamo
in decine di migliaia i volontari che hanno abitato i conflitti balcanici
direttamente sul campo, e in centinaia le iniziative, i gemellaggi, i
progetti avviati da comitati, associazioni, ong, enti locali, sindacati,
parrocchie e istituzioni diverse. I flussi in denaro di questo ampio insieme
di interventi possono essere stimati sull'ordine delle centinaia di miliardi
di vecchie lire, ma se si valorizzassero tutte le prestazioni volontarie
raggiungerebbero probabilmente anche le migliaia.
E pero'... Riflettere su questa straordinaria esperienza di solidarieta' non
puo' impedirci di vederne i limiti e le pecche anche gravi. La pratica di
un'azione di emergenza vista come prolungamento "civile" delle operazioni
militari, di un intervento solidale ma improvvisato e privo talvolta delle
minime basi di conoscenza del contesto e delle culture locali, di una
cooperazione calata dall'alto e incapace di proporsi in forme sostenibili,
hanno spesso stravolto e corrotto lo straordinario potenziale attivatosi in
risposta alle tragedie balcaniche.
Tutto cio' non e' stato privo di conseguenze, come abbiamo cercato di
mostrare anche nella giornata di studio tenutasi nel novembre scorso a
Trento. In particolare, per quanto riguarda i temi affrontati qui oggi, la
distorsione principale e' quella legata alle prospettive future degli
interventi di cooperazione: invasivo e insostenibile suonano forse come
condanne troppo forti per l'insieme dell'intervento umanitario nei Balcani,
eppure sono critiche che dobbiamo fare e anche saperci fare.
Quante volte si e' operato senza un'adeguata conoscenza dei contesti locali
e delle reali dinamiche del conflitto? Quante volte abbiamo riprodotto
schemi di cooperazione buone (?) per tutte le stagioni e i continenti?
Quante volte i partner locali sono stati ridotti a semplici comparse
acquiescenti, disposte a tutto pur di intercettare finanziamenti
dall'estero? E quante invece sono state le soggettivita' reali aiutate a
formarsi e a crescere, che siano durate oltre il tempo di finanziamento dei
progetti? Economicamente, quante iniziative avviate hanno poi trovato una
propria auto-sostenibilita' all'interno delle comunita'? Qual e' l'idea di
sviluppo e di societa' che accompagna i progetti di cooperazione nei
Balcani? Ha qualche differenza con i modelli della privatizzazione selvaggia
e dello smantellamento dello stato sociale, accompagnati dall'aiuto
caritatevole "per chi non ce la fa"?
Questi sono interrogativi forti, che dovrebbero aiutarci a rileggere in
controluce gli interventi fin qui praticati. Dovremmo cominciare ad esempio
a pensare che ogni societa' ha in se' le risorse, umane e materiali,
ambientali e culturali, dalle quali ripartire per disegnare il proprio
futuro. E a questo punto, chiederci anche a che servono gli aiuti
internazionali, se non innescano progettualita' e auto-promozione dal basso.
Nel tempo della miseria della politica e' difficile pensare che il mondo
della cooperazione possa fare eccezione, tant'e' che la progettualita' non
e' piu' il punto di partenza ma viene sostituita dalla rincorsa ai
finanziamenti, ai programmi affidati dalle agenzie internazionali o dai
governi nazionali. E le stesse organizzazioni non governative rischiano di
cambiare la loro natura, trasformandosi progressivamente in strumenti
operativi della cooperazione governativa o intergovernativa. Se in generale
non sono in grado di esprimere progettualita' nelle nostre comunita', qui in
Italia, perche' mai dovrebbero essere in grado di farlo altrove?
*
3. Le linee guida per un'altra cooperazione possibile
Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilita' di superare il
vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del
vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il
vuoto tracciando un possibile itinerario di ricostruzione incardinato a
nostro giudizio su due concetti di fondo: l'opzione per uno sviluppo locale
autocentrato quale criterio di rinascita economica, l'autogoverno delle
comunita' come strada per ricostruire coesione ed identita' sociale.
Solo a partire da questi due concetti e' possibile pensare un intervento
esterno che crei relazioni fra comunita', realizzando il senso vero e il
carattere dirompente e profondamente innovativo della cooperazione
decentrata rispetto a quella tradizionale. Non puo' essere infatti la
classica cooperazione allo sviluppo fatta con altri mezzi, ma un modo
alternativo di fare cooperazione capace di esprimere la piu' ampia fantasia
sociale. Una fantasia che viene dall'incontro fra la ricchezza dei popoli,
le loro culture e tradizioni, i loro territori intesi come insieme storico,
culturale e politico oltreche' ambientale. Dunque l'aiuto, la solidarieta',
il dono devono essere intesi in primo luogo come sostegno alla
valorizzazione delle risorse locali - di quelle umane in primo luogo - e
alla ricostruzione delle capacita' andate perdute dentro la degenerazione
violenta dei conflitti.
Il futuro economico del sud est Europa non puo' essere garantito ne' dalle
chimere degli investimenti occidentali di rapina, ne' tantomeno dal
perdurare dell'assistenzialismo umanitario. Occorre immaginare invece un
percorso economico inedito, fortemente intrecciato ai saperi e alle
intelligenze - che non mancano, data l'alta scolarita' diffusa e per molti
l'esperienza formativa all'estero - unite alle tradizioni culturali e alle
nuove sensibilita' ambientali. Bisogna costruire un disegno di sviluppo
integrato del territorio, sul quale far convergere le risorse locali e gli
aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della
qualita', ad alta intensita' umana e creativa, e dall'altro sul settore
primario, dove convivano e si integrino progetti partecipati in agricoltura,
zootecnia, indotto dei servizi, dell'artigianato e dell'industria di
trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo.
Gia' oggi vediamo come porsi nell'ottica della mera produzione intensiva e a
basso costo sia perdente per i Balcani, che subiscono la concorrenza di
altre aree ancora piu' deregolate e addirittura si trovano ad importare
prodotti agricoli dall'estero a danno dei contadini della Slavonia o della
Vojvodina. L'approccio dello sviluppo locale di qualita' ha invece come
caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie
forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere
come punto di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti,
infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra
le societa' umane e la natura; di restare aperto al cambiamento
istituzionale.
Il secondo concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani e'
l'autogoverno delle comunita': la crisi fiscale di cui abbiamo parlato
impone di ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica
amministrazione, fra cittadini e comunita', fra cittadini e territorio. C'e'
bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un legame con
le istituzioni pubbliche fondato sulla partecipazione e su un diffuso
sistema di autonomie locali anziche' su rapporti gerarchici e di delega. In
altre parole, un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni
individuali e collettivi in un'ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto
dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e
sociale di un territorio. A tal fine e' necessario avviare percorsi di
riforma, prima di tutto culturali ma anche istituzionali, che possano
prefigurare nella relazione orizzontale fra regioni e municipalita' una
comune appartenenza europea, anche al di sopra delle frontiere "etnicamente
pure".
*
4. Conclusione: alcune ipotesi di strumenti per percorsi concreti di
autosviluppo locale
Se tutto quanto detto sopra e' valido, appare chiaro come si debba porre
grande attenzione alla questione dello sviluppo locale nell'affrontare
programmi di solidarieta' e di cooperazione con il sud est Europa. Il
modello economico-sociale precedente e le macerie delle guerre, infatti,
hanno colpito gravemente proprio il tessuto della socialita' di base.
Qualsiasi intervento realizzato dall'esterno, dunque, dovrebbe porsi il
problema prioritario di innescare processi di responsabilizzazione
individuale e collettiva, di associazionismo diffuso, di mutualita'
reciproca, di presa in carico dei propri diritti e doveri in nome del bene
comune.
In altre parole, entrando nella concretezza dell'agire, queste riflessioni
chiedono di pensare a quali modelli - concretamente - siamo in grado di
"spenderci", quali processi i nostri strumenti professionali possono
innescare e quali, di questi, sono realmente sostenibili. Non solo rispetto
a parametri endogeni di tipo sociale, economico e ambientale, comunque
fondamentali e linee guida del nostro agire, ma anche rispetto alle
variabili esogene proprie di un modello di sviluppo che un territorio, una
comunita' locale, e' in grado di perseguire. E quindi consapevolmente quali
vincoli, culturali, sociali, politici ed economici ci troviamo di fronte,
quale ne e' la consapevolezza, quale il sistema di opportunita' e le
volonta' in campo. Questa contestuale attenzione alle variabili intra e
intercomunita' chiede una capacita' progettuale ulteriore, orientata e
finalizzata ad agire non sui tempi brevi-medi o tempi "finanziari" tipici
dei progetti di cooperazione.
Occorre invece la capacita' di costruire processi di collaborazione
realmente compromissori, dove la "compromissione" risiede nella costruzione
partecipata tra tutti gli attori della comunita' di strategie e modelli di
azione, nel trovarne una sostenibilita' innanzitutto culturale e politica e,
solo a partire da questa, un equilibrio di risorse, siano esse finanziarie o
professionali. Purtroppo tanta cooperazione attribuisce, o e' costretta ad
attribuire, un ordine contrario alle priorita' quindi tanti buoni strumenti
di lavoro vedono il loro effetto vanificarsi quando si esauriscono le
risorse professionali o finanziarie.
Il seminario odierno proprio su questo vuole soffermarsi: quali strumenti e
quali progettualita' nel concreto possono risultare utili a questo scopo?
Proviamo ad indicarne alcuni, ma solo per macro- aree e a mo' di stimolo per
porre alcune riflessioni.
Sviluppo di un sistema economico locale:
- sostegno al ruolo degli enti locali nella loro funzione di programmazione
di azioni di sviluppo economico (ad esempio disegno degli insediamenti
produttivi, meccanismi di fiscalita' locale, infrastrutturazione del
territorio);
- sostegno e promozione di azioni di concertazione territoriale;
- capacita' di selezione dei settori produttivi su cui promuovere la nascita
di piccole o medie imprese, favorendo processi di sostegno all'economia
locale tradizionale, ovvero valorizzazione della qualita' e dell'unicita'
delle produzioni realizzate nel rispetto delle culture locali;
- riduzione dei processi di contoterzismo o delocalizzazione spinta,
evitando lo sfruttamento delle risorse locali, siano esse umane o
ambientali;
- promozione del microcredito e del sistema della finanza locale come
sostegno all'economia e insieme educazione alla responsabilita'.
Per dar corpo ad un intervento strutturato sul sistema economico locale sono
necessari azioni complementari di cooperazione decentrata, finalizzate al
rafforzamento della funzione delle municipalita' come servizio ai territori,
andando oltre il semplice e spesso riduttivo decentramento dei poteri, e
attenti alla formazione di amministratori e funzionari municipali. E a
seguito di azioni di questo tipo la cooperazione decentrata e' in grado di
attivare organizzazioni e soggetti del proprio territorio che possono
portare risorse e protagonismi aggiuntivi ai processi di sviluppo economico
locale. D'altro lato vi sono gli strumenti propri della cooperazione che,
attraverso la presenza permanente sul territorio, e' in grado di stimolare:
- l'individuazione e valorizzazione dei soggetti locali;
- il potenziamento del lavoro di rete sul territorio funzionale a patti fra
potenziali attori locali interessati al bene comunitario;
- la formazione di operatori del territorio;
- la diffusione di forme ampie di partecipazione che rafforzino il senso
comunitario, anche attraverso l'uso di bilanci partecipativi.
Analogamente se pensiamo allo sviluppo del sistema di welfare territoriale
lo dobbiamo fare ponendolo come conditio sine qua non di ogni processo
economico. Se non c'e' prima una progettazione e un'azione sui processi di
welfare territoriale, se non si pone attenzione a come sostenere azioni di
inclusione e tutela delle fasce vulnerabili, ogni attivita' di tipo
economico rischia di essere pretestuosa e portatrice di ulteriori malesseri
e costi sociali. E la definizione e costruzione di azioni di welfare deve
essere il terreno di incontro e confronto obbligatorio tra ong locali ed
enti locali, una scuola di corresponsabilita' e coprogettazione e non un
luogo di rivendicazione e scontro. Purtroppo nei Balcani quest'ultima
situazione e' spesso norma e regola, vanificando quella sostenibilita'
sociale e politica di cui si diceva precedentemente.
L'ultimo grande asse si lavoro, spesso sottovalutato, e' quello culturale.
Oggi la cultura e' piu' che mai il terreno su cui costruire la
sostenibilita' sociale e politica del nostro agire. La democrazia, sia essa
economica o sociale, non solo deve essere richiesta e praticata, ma va
alimentata attraverso processi di investimento permanente sulla formazione e
la ricerca di espressioni culturali e artistiche, a partire dalle scuole e
dal lavoro sulle nuove generazioni per giungere fino ad azioni di
elaborazione del conflitto e sostegno a processi di riconciliazione e di
dialogo interreligioso. Sulla cultura si possono creare anche processi di
reale interscambio tra comunita', tra reti di citta' e paesi perche' e' la
cultura che permette il riconoscimento e l'apprezzamento delle differenze e
la loro assunzione come valore fondante della civilta'.
*
Il lavoro che vorremmo fare assieme e' di confronto e messa in rete di
quanto sperimentato da ognuno in questi anni, per arrivare speriamo da qui
ad alcuni mesi all'elaborazione di un decalogo di indicazioni metodologiche
e ad un repertorio di buone pratiche utili per darsi una minima base comune
di lavoro. Se l'incontro di oggi sara' un primo passo, lo vedremo tutti
assieme.

5. RIFLESSIONE. PREDRAG MATVEJEVIC: IL CANTIERE EUROPA DALLE NUOVE FRONTIERE
DELL'EST
[Questo articolo di Predrag Matvejevic abbiamo ripreso dal mensile "Aprile"
n. 106 del giugno 2003 (sito: www.aprile.org), che ha dedicato un dossier al
tema "Cantiere Europa". Ringraziamo Aldo Garzia, che di "Aprile" e'
direttore ed animatore, per averci messo a disposizione i materiali della
sua rivista come contributo alla riflessione sulla proposta di Lidia
Menapace "per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata,
solidale e nonviolenta". Predrag Matvejevic, nato nel 1923 a Mostar, in
Bosnia-Erzegovina, ha insegnato all'Universita' di Zagabria ed alla Sorbona
di Parigi, attualmente insegna all'Universita' di Roma; studioso e
rappresentante del dissenso all'epoca dei regimi del socialismo reale, dopo
la caduta del muro si e' opposto anche alle "democrature" al potere in molti
paesi dell'Europa centrale ed orientale. Tra le opere di Predrag Matvejevic
cfr. Mediterraneo. Un nuovo breviario; Epistolario dell'Altra Europa; Mondo
"ex"; Il Mediterraneo e l'Europa; I signori della guerra; tutti in edizione
Garzanti]
Ultimamente ho attraversato la maggior parte dei nuovi paesi candidati
all'adesione all'Unione europea della prima o della seconda fase, e in
particolare gli ex paesi dell'Est. Sin da ora possiamo individuare alcuni
punti in comune nelle loro aspettative, nelle loro speranze o nei loro
timori. Man mano che il "gran giorno" si avvicina, abbiamo infine smesso di
volere la luna e un certo realismo ha sostituito le illusioni. Ci siamo
finalmente resi conto che i requisiti preliminari imposti da Bruxelles non
hanno nulla di troppo sentimentale e che nessuno e' disposto a chiudere un
occhio sull'obbligo di rispettare determinate condizioni.
A ogni modo, le reazioni decisamente antieuropee sono sempre piu' deboli o
limitate. Si fanno sentire solo in cio' che resta di una certa sinistra che
avrebbe ancora conti da saldare col passato, o negli ambienti nazionalisti o
ultraconservatori come, ad esempio, la "Lega delle famiglie polacche" o
qualche altra organizzazione o partito simile, generalmente minoritario.
D'altro canto, nella marea proeuropea, ogni giorno siamo piu' prudenti;
emergono anche alcune apprensioni tutto sommato auspicabili e positive. La
volonta' di uscirne a qualunque costo, di liberarsi del passato e del suo
fardello, si accompagna a quella di "entrarvi a qualunque costo" e di
diventare infine membri di un'Europa unita. Evidentemente, vi e' in tale
atteggiamento precipitazione, improvvisazione, mancanza di abitudine e molto
altro.
Il primo gruppo di candidati senza dubbio porra' meno problemi del secondo,
ma abbastanza perche' questi ultimi prolunghino la loro attesa molto piu'
del previsto. Le questioni reali dell'altro gruppo saranno definitivamente
poste soltanto in base alle esperienze, buone o soprattutto cattive, che
avremo maturato con i primi ammessi, cosa che non sara' sicuramente semplice
ne' tantomeno indolore.
*
Lunghe transizioni
Nessuno si aspettava che le transizioni sarebbero state cosi' lunghe, lente
ed estenuanti. Nell'euforia seguita alla caduta del muro di Berlino e al
crollo dell'Unione sovietica, tutto sembrava a portata di mano. Le
privatizzazioni sono state piu' o meno scandalose, anche nella Repubblica
ceca, in Ungheria o in Polonia, senza parlare della Russia, della Romania,
ecc. Malta o Cipro non conoscono questo tipo di problemi, ma coprono
comunque uno spazio meno importante. A ogni modo, le due isole costituiscono
altrettante ancore gettate nel Mediterraneo, e questo gesto potrebbe anche
assumere, in futuro, una valenza piu' che simbolica. L'Europa dimentica o
trascura "la culla dell'Europa", il Mediterraneo.
Ci e' voluto piu' tempo del previsto per riprendersi dai regimi del
cosiddetto "socialismo reale" - livello di produzione, scambi, sicurezza
sociale, pensioni, ecc. Gli ingenti aiuti erogati dalla Germania occidentale
alla sua sfortunata sorella dell'Est dimostrano perfettamente l'entita' dei
mezzi necessari per queste trasformazioni strutturali.
Il lavoro preparatorio, al momento dell'adesione dei paesi candidati, non
sara' stato concluso ovunque e possiamo aspettarci, nei prossimi anni,
difficolta' o impedimenti di vario genere.
La nuova Unione europea, quella che, entro dieci anni, avra' dieci membri di
piu', avra' l'obbligo di essere una guardiana severa delle nuove frontiere.
Ebbene, mi risulta difficile immaginarlo.
Coloro che gia' in passato hanno vissuto questo problema, che erano abituati
alle frontiere stagne o poco permeabili, frontiere che talvolta occorreva
attraversare con astuzia o con la forza, difficilmente possono esser visti
come nuovi guardiani all'entrata. Rispetto al passato, le frontiere dovranno
risultare piu' accoglienti e facilmente attraversabili. Non so se i
responsabili delle decisioni daranno prova di un'attenzione tale da porre
tali problemi e risolverli in maniera soddisfacente. In tutti i casi, sara'
costoso e sgradevole.
Spesso si stabilisce un nesso tra l'adesione all'Unione europea e la
presenza nella Nato, un nesso che non dovrebbe essere indispensabile ne',
soprattutto, scontato. Occorre veramente passare per il purgatorio di
un'alleanza militare che ha perso il suo vero avversario per meritare di
essere ammessi all'esame? Pare che cio' sia richiesto senza sapere
esattamente da chi. Ammiro le reazioni, purtroppo non abbastanza numerose,
che si sono manifestate negli ambienti piu' culturali che politici di alcuni
paesi candidati contro una siffatta esigenza. Cio' dipende probabilmente dal
fatto che l'Unione europea stessa non e' pensata in termini di cultura,
quanto piuttosto in termini di rapporti economici, statali, persino
strategici, il che significa, in ultima istanza, soggiacere alla volonta'
degli Stati Uniti piuttosto che sostenere realmente un progetto europeo a
tutti gli effetti. Vi possiamo intravedere un'ombra della "guerra fredda".
Nelle istituzioni europee che hanno predisposto l'adesione di dieci nuovi
paesi nell'Unione - e non possiamo trascurare i loro sforzi ne' alcune loro
competenze in materia - le questioni culturali sono state poste raramente,
come per acquietare la coscienza. D'altronde, noi viviamo in un'epoca in cui
l'intellighenzia europea, dopo gli errori che le sono imputati a torto o a
ragione, cerca di evitare impegni troppo diretti o espliciti, mentre quella
dell'Europa orientale non si e' ancora completamente ripresa da cio' che le
e' successo. Ne' l'una ne' l'altra paiono, al momento, aver voce in
capitolo, e non cercano troppo di averne.
*
Questioni culturali
Ho cercato, durante piu' di un viaggio nelle regioni dell'Europa orientale,
di raccogliere e classificare, sotto forma di alternative, i diversi modi in
cui l'Europa e' vista dall'altra Europa: sarebbe auspicabile che l'Europa
del futuro fosse meno eurocentrica di quella del passato, piu' aperta agli
altri dell'Europa colonialista, meno egoista dell'Europa delle nazioni, piu'
consapevole di se stessa e meno incline all'americanizzazione; sarebbe
utopico aspettarsi che essa divenga, in un lasso di tempo prevedibile, piu'
culturale che commerciale, meno comunitaria che cosmopolita, piu'
comprensiva che arrogante, meno orgogliosa che accogliente, piu' l'Europa
dei cittadini che si tendono la mano, meno "l'Europa delle patrie" che si
sono tanto combattute l'un l'altra e, in fin dei conti, piu' socialista dal
volto umano (secondo il senso che alcuni dissidenti dell'ex Europa dell'Est
davano in passato al termine) e meno capitalista senza volto. Aggiungo che
noi, pochi, che ancora pensiamo ad una qualche forma di socialismo tuttora
facciamo paura a molte persone, agli intellettuali nazionali come alle fasce
medie della popolazione.
*
Lo sguardo della Russia
La Russia non e' piu' - e cio' risulta evidente - quello che era fino a ieri
l'Unione sovietica, nonostante cerchi sempre di svolgere il ruolo di una
grande potenza e riesca, entro certi limiti, ad esserlo. Molte cose
dipendono dalla sua evoluzione interna. In base al suo passato, alla sua
forza, alle sue prove, possiamo immaginare diverse Russie del domani. Sara'
una vera democrazia o una semplice "democratura"? Tradizionale o moderna?
"Santa" o profana? Ortodossa o scismatica? Piu' bianca che "rossa" o
viceversa? Meno slavofila che occidentalista o viceversa? Tanto asiatica
quanto europea o il contrario dell'una e dell'altra? Una Russia che "la
ragione non e' in grado di comprendere appieno e nella quale possiamo
solamente credere" (come diceva magnificamente il poeta Tjutchev nel XIX
secolo), oppure quella "robusta e dal grosso fondoschiena" (tolstozadaja)
cantata da Alexander Blok durante la Rivoluzione? "Con Cristo" o "senza la
croce"? Semplicemente russa (russiskaja) o "di tutte le Russie"
(vserossiskaja)? Qualunque cosa diventi, dovra' fare i conti con tutto cio'
che l'ex Unione sovietica le ha lasciato e tutto cio' di cui l'ha privata,
forse per sempre.
Noi altri, nati all'Est e formati nell'altra Europa, dobbiamo dar voce a
questi ed altri interrogativi di fronte a tanti comportamenti conservatori.
*
Il puzzle dei Balcani
Un passato lontano e molti avvenimenti recenti hanno inferto ai Balcani
ferite che continuano a sanguinare: l'Albania di Enver Hoxha, la Romania di
Nicolae Ceaucescu, la Bulgaria di Todor Jivkov, una Jugoslavia ieri
nettamente piu' prospera degli altri paesi dell'Est, oggi devastata dalle
ultime guerre balcaniche. E il fenomeno va ben oltre, da un paese all'altro:
equivoci tra Serbia e Montenegro, conflitti tra kosovari albanesi e serbi,
separazione delle nazionalita' in Bosnia-Erzegovina, rapporti tesi tra
Grecia e Turchia, rapporti ambigui tra Bulgaria e Macedonia, questione
ungherese in Transilvania, rumena in Moldavia, greca e turca in Cipro,
macedone in Grecia, serba in Croazia, turca in Bulgaria, piu' di due milioni
di esiliati o "sfollati", mille maniere diverse di assumere e vivere
un'identita' post-comunista, di porre e di risolvere l'eterna questione
nazionale e quella delle minoranze, oppure di rivedere frontiere considerate
ingiuste e "mal tracciate".

6. RIFLESSIONE. ZVI SCHULDINER: L'ALTRA PACE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 ottobre 2003. Zvi Schuldiner e' un
prestigioso intellettuale che interviene spesso sul quotidiano italiano]
Sulle rive del mar Morto un gruppo di palestinesi e israeliani, con
l'appoggio europeo, e' arrivato a un accordo su una possibile pace
israelo-palestinese e ha dimostrato due cose, fondamentali per un cambio di
rotta nella situazione esplosiva che vive la regione: che in seno al popolo
palestinese c'e' un partner reale per la pace e che per arrivare a un
accordo l'intervento europeo puo' essere di un'importanza assoluta. Il mito
piu' devastante nato con l'ex primo ministro israeliano Barak, costantemente
fomentato dal governo di Sharon, e' l'aver fatto credere che non ci sia un
partner reale per la pace fra i palestinesi. Questo ha portato all'effetto
che Arafat e' visto come l'ostacolo e la ragione di tutti i problemi. Sharon
e i suoi ministri, facendosi scudo della protezione americana, sono riusciti
a convincere non pochi che il nodo del problema sia quello palestinese e non
l'occupazione israeliana, non la brutale repressione a cui sono sottoposti
tre milioni di palestinesi.
Yossi Beilin, uno degli architetti degli accordi di Oslo e in passato
strettamente legato al leader laburista Shimon Peres, ha investito grandi
sforzi negli ultimi due anni per cercare di riannodare i negoziati di pace.
La presunta inesistenza di un partner palestinese e' stata sempre usata dal
governo israeliano per dimostrare la necessita' di continuare nella sua
politica di forza paralizzando nel contempo una gran parte del movimento
pacifista israeliano e internazionale.
In campo palestinese gli interlocutori non sono dei semplici attivisti
politici: agli incontri hanno partecipato esponenti di al-Fatah e il
ministro dell'Anp Yasser Abed Rabbo. Le reazioni della stampa palestinese,
incluso il giornale pubblicato da uno degli uomini di Arafat, sono un chiaro
indizio di appoggio del leader palestinese allo schema di accordo elaborato
che sara' presentato fra qualche settimana a Ginevra.
Gli elementi dell'accordo sono meno importanti dell'accordo stesso, che e'
molto lontano da essere un accordo raggiunto fra forze uguali e di pari
rappresentativita'. L'accordo ha provocato un dibattito interno a Israele
che nella destra rasenta l'isteria. La destra parla di tradimento e minaccia
le piu' svariate misure contro i firmatari israeliani.
Tuttavia l'effetto principale e' gia' stato raggiunto. Ora sara' piu'
difficile per Israele nascondere che la radice dei problemi risiede in
realta' in due fattori: il primo, la politica criminale del governo
israeliano che mira a incendiare l'intera regione per evitare negoziati che
implichino concessioni territoriali da parte israeliana; il secondo, le
crescenti complicazioni di Bush in Iraq che lo spingono a una politica ogni
giorno piu' avventurista e quindi a non escludere l'appoggio a un possibile
attacco israeliano, o americano, alla Siria (un altro dei presunti focolai
terroristi che giustifica un nuovo capitolo della grande crociata Usa).
Contro coloro che non tremano di fronte a una guerra che minaccia tutta
l'area mediorientale, l'appoggio svizzero agli sforzi per arrivare a uno
schema di accordo dimostra non solo che un'intesa e' possibile ma che e'
urgente la necessita' di un ruolo attivo e centrale dell'Unione europea.
Davanti a un'escalation incontrollabile che non trova ostacoli seri da parte
di un'amministrazione americana irresponsabile, e' piu' che mai urgente che
l'Europa assuma una posizione che permetta di evitare una tragedia ancor
peggiore di quella vissuta in questi giorni dalle parti in conflitto nel
Medio oriente.

7. RIFERIMENTI. SVEVA HAERTTER: ALCUNE ORGANIZZAZIONI DI SOSTEGNO AI
REFUSENIKS ISRAELIANI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 ottobre 2003. Sveva Haertter,
fortemente impegnata per la pace, la giustizia e il dialogo, fa parte della
rete "Ebrei contro l'occupazione"]
Quello che segue e' un elenco di organizzazioni pacifiste israeliane che
direttamente organizzano o indirettamente si occupano dei refuseniks e del
loro movimento, con l'indicazione dei rispettivi siti Internet.
- Omez Le Sarev (Il coraggio di rifiutare): riservisti che rifiutano di
prestare il servizio militare nei territori occupati. Sito: www.seruv.org.il
- Tayasim (Piloti dell'aviazione miliatre israeliana): riservisti e non, che
rifiutano di prendere parte ad esecuzioni mirate. Sito: www.tayasim.org.il
- Shministim (giovani che rifiutano la leva): movimento nato da una lettera
di liceali al primo ministro nell'agosto 2001, di cui alcuni sono sotto
processo davanti alla corte marziale in due diversi procedimenti. Yoni Ben
Artzi chiede di essere riconosciuto come pacifista. Noam Bahat, Matan
Kaminer, Adam Maor, Haggai Matar e Shimri Tzameret chiedono invece il
diritto di rifiutare la leva in un esercito di occupazione per motivi di
coscienza. Sito: www.shministim.org
- New Profile: movimento per la civilizzazione della societa' israeliana di
impostazione femminista. Comprende sia uomini che donne e si oppone al
militarismo in tutte le sue forme. Organizza il rifiuto della leva sia dei
ragazzi che delle ragazze. Sito: www.newprofile.org
- Yesh Gvul (C'e' un limite): sostiene il diritto al rifiuto selettivo e
non. Organizza la solidarieta' al movimento dei refusniks sia con iniziative
pubbliche che con l'assistenza (anche economica) a tutti coloro che
rifiutano in parte o del tutto il servizio militare o di riserva. Sito:
www.yesh-gvul.org
Altri siti: www.refusersolidarity.net, refusniks.splinder.it/

8. LETTURE. BEATRICE BAUER, GABRIELLA BAGNATO, MARIAROSA VENTURA: PUOI ANCHE
DIRE "NO!". L'ASSERTIVITA' AL FEMMINILE
Beatrice Bauer, Gabriella Bagnato, Mariarosa Ventura, Puoi anche dire "no!".
L'assertivita' al femminile, Baldini & Castoldi, Milano 2002, pp. 320, euro
14,40. "Uno stimolo e una guida all'interpretazione e rivisitazione del
proprio modo di concepire e gestire le relazioni"; con contributi di
Francesca Baggio, Melanie A. Katzman, Maria Cristina Mombelli, Bettina
Gehrke.

9. LETTURE. CRISTINA DEMARIA: TEORIE DI GENERE. FEMMINISMO, CRITICA
POSTCOLONIALE E SEMIOTICA
Cristina Demaria, Teorie di genere. Femminismo, critica postcoloniale e
semiotica, Bompiani, Milano 2003, pp. 352, euro 15. Nella sempre utile e
pungente collana manualistica di qualita' degli "Strumenti" diretta da
Umberto Eco, una bella monografia sui percorsi di ricerca della teoria
femminista e postcoloniale angloamericana, in una prospettiva semiotica (e
con alcuni opportuni confronti con esperienze e riflessioni europee).

10. LETTURE. SANDRA ENDRIZZI: PESCI PICCOLI. DONNE E COOPERAZIONE IN
BANGLADESH
Sandra Endrizzi, Pesci piccoli. Donne e cooperazione in Bangladesh, Bollati
Boringhieri, Torino 2002, pp. 142 (piu' un inserto di 20 fotografie con
relative didascalie), euro 13. "Il racconto dell'incontro con un gruppo di
donne che lavorano la iuta in un villaggio del Bangladesh, di cio' che ho
visto del loro lavoro e di cio' che esse hanno creato in quasi trent'anni di
attivita'". Un libro che raccomandiamo.

11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

12. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 707 del 18 ottobre 2003