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Missione Oggi - ottobre 2003 - Argentina
SCELTE DI RESISTENZA
ARGENTINA: LA RESISTENZA
DEI PIQUETEROS
INTERVISTA A TOTI FLORES
Diventati famosi per il corte de rutas (il blocco delle strade), i movimenti
di disoccupati sono oggi una realtà organizzata fortissima e variegata in
Argentina. Ne abbiamo parlato con Toti Flores, uno dei leader più
autorevoli.
Siamo solo dei catalizzatori della combattività della gente, ma non abbiamo
l'abitudine di contarci, né di protestare continuamente, come fanno altre
correnti. Liberi da vincoli politici, gettiamo le idee e raccogliamo le
risposte.
Oggi l'Argentina è piena di esperienze di autogestione. Abbiamo visto il
modello menemista e neoliberale andare in fumo. Così ci stiamo organizzando,
stiamo acquistando fiducia nella nostra iniziativa.
Toti Flores è il leader dell'Mtd (Movimiento Trabajadores Desempleados),
uno dei gruppi di piqueteros (disoccupati) più originali del panorama
argentino. Rimasto senza lavoro negli anni 90, Toti dà vita al movimento nel
95', quando il paese raggiunge il 18% di disoccupazione e il fenomeno
diventa una piaga permanente. L'Mtd ha sede nella Matanza, comune del cono
urbano di Buenos Aires, ex dormitorio operaio di un milione e 800mila
abitanti (di cui 3-400mila sono disoccupati).
Diventati famosi per il corte de rutas (il blocco delle strade), i movimenti
di disoccupati sono oggi una realtà organizzata fortissima e variegata.
Moltissime le sigle e i gruppi. Dei dieci principali, alcuni (il Polo Obrero
e la Corrente Clasista y Combativa) hanno raggiunto molta visibilità e un
notevole potere di contrattazione con il governo. Ma qualcuno è ricaduto nei
meccanismi clientelari di sempre.
Nel quadro dei movimenti di piqueteros, voi siete un gruppo a sé. In cosa vi
differenziate?
Innazitutto, rifiutiamo i piani assistenziali, cioè i soldi che il governo
dà ai disoccupati (150 pesos per famiglia al mese, l'equivalente di 50 euro,
ndr). Su questi piani si struttura l'organizzazione di molti gruppi di
piqueteros.
In che senso?
Il governo concede questi piani ad alcuni gruppi di disoccupati, perché li
distribuiscano. I planes diventano così il parametro su cui ogni gruppo si
conta e valuta la propria forza o influenza. A mio parere, l'organizzazione
dei piqueteros non può passare per i planes: più che andare incontro alle
necessità della gente, sono un perfetto sistema di dominazione.
In Argentina, nei quartieri poveri, è tipica la figura del puntero. È un
uomo di partito che gira per il territorio ripartendo l'assistenza dello
Stato. In cambio, fa pressione perché si partecipi ad una mobilitazione o si
dia il voto a questo o quel partito (per anni - e ancora oggi - ha
spadroneggiato il Pj, il Peronismo, nelle sue varie accezioni). Se è vero
che alcuni piani assistenziali sono in mano ai piqueteros, la maggior parte
restano ancora al Pj. Le correnti di disoccupati che accettano i piani, di
fatto si conformano ad un sistema perverso e mafioso, da sempre usato dai
partiti. I planes non generano coscienza. Incentivano la cultura della
sopravvivenza e fanno perdere quella del lavoro.
Un esempio: con 150 pesos per famiglia, non si vive, si sopravvive. La
gente, per portare qualcosa a casa, baratta, trova lavori saltuari e cerca
di unire al piano altri aiuti: la borsa de comida (i buoni per la spesa) e
l'assistenza medica, per ottenere la quale passa tutto il giorno a fare code
interminabili dal medico. Questo "arrangiarsi per la sopravvivenza",
improduttivo e faticoso, viene chiamato lavoro. In una recente inchiesta tra
i giovani della Matanza (dei quali il 50% risultano disoccupati) molti
dicevano di lavorare. Poi si scopriva che vivevano di piani assistenziali.
Si arriva cioè all'assurdo di scambiare i piani assistenziali per lavoro:
chi non l'ha mai avuto, non sa neanche cos'è.
Ma non solo: è da questa zona castigata della Matanza, che Menem ha sempre
raccolto il maggior numero di voti (anche nelle ultime presidenziali). Come?
Ripartendo con i suoi punteros la pubblica assistenza.
Detto questo, non possiamo condannare le famiglie che accettano aiuti
statali. Ci sono situazioni difficili e c'è fame. Ma non tolleriamo che
questo si veda come un successo.
Quanti siete?
Abbiamo un nocciolo duro di cinquanta persone, militanti, che lavorano nella
cooperativa nata un anno e mezzo fa. Poi, secondo le mobilitazioni,
raggiungiamo il centinaio o migliaio di persone. Siamo solo dei
catalizzatori della combattività della gente, ma non abbiamo l'abitudine di
contarci, né di protestare continuamente, come fanno altre correnti. Liberi
da vincoli politici, gettiamo le idee e raccogliamo le risposte.
Avete un coordinamento nazionale?
No, perché questo comprometterebbe la costruzione del movimento dalla base.
Nei gruppi di piqueteros più importanti, che si appoggiano a qualche partito
(il Polo Obrero, ad esempio), politica e decisioni non vengono discusse in
quartiere: le prende la direzione nazionale del Partito Obrero. Noi invece
diamo molta importanza al territorio, all'orizzontalità, ai processi che
costruiscono dal basso. Questo, ad esempio, è anche il senso della
cooperativa che abbiamo creato due anni fa, il "Centro para la educacion y
formacion de cultura comunitaria". Attorno ad essa ruota il cuore dell'Mtd.
Com'è nata?
Per anni ci incontravamo solo nelle manifestazioni e nei cortes de ruta (i
blocchi stradali). Ad un certo punto, sentimmo il bisogno di più continuità
e di organizzarci in forma costruttiva. Così pensammo di dar vita ad un
progetto comune: una scuola elementare. Avremmo creato una scuola diversa,
simile all'esperienza dei sem terra, in Brasile, che non riproducesse il
sistema educativo di sempre. L'idea era un po' folle e fuori luogo, in un
ambiente dove l'istruzione non è certo al primo posto nella scala dei
bisogni. Lo stesso, entrammo in un edificio abbandonato e cominciammo. Per
finanziarci, ci costituimmo in cooperativa e cominciammo a mettere in piedi
alcune attività produttive: una panetteria, un laboratorio di serigrafia,
uno di stampa, una casa editrice, due laboratori di sartoria e di pittura.
Ora siamo in 50 a vivere un po' della cooperativa, un po' del lavoro
occasionale.
Per noi si tratta di un'esperienza straordinaria. Dimostra che
l'autogestione è possibile e che si può fare a meno di un datore di lavoro.
Se noi lavoratori creiamo la ricchezza, possiamo anche amministrarla. È un
processo molto simile a quello delle fabbriche recuperate, le imprese
abbandonate dai proprietari alla fine degli anni 90 e fatte funzionare da
operai e impiegati (sono circa 200 in tutto il paese). Oggi l'Argentina è
piena di esperienze di autogestione. Abbiamo visto il modello menemista e
neoliberale andare in fumo. Così ci stiamo organizzando, stiamo acquistando
fiducia nella nostra iniziativa. Si tratta di esperienze marginali, è vero.
Ma sono tante e mai viste prima.
L'Mtd punta proprio su questa riorganizzazione dal basso: del lavoro, della
politica, dei servizi. La nostra cooperativa, ad esempio, è un polo
d'attrazione per il quartiere. Vengono da noi a imparare come si fa il pane
e inevitabilmente, poi, diventa spazio per la costruzione dell'Mtd.
Per i vari movimenti (non solo piqueteros) oggi, è un momento di profonda
riflessione. Non si sta più discutendo dell'immediato, ma di questioni
strategiche.
L'esperienza dell'Mtd è stata riportata da un libro da lei curato che si
intitola "dalla colpa all'autogestione". Cosa significa?
Una delle cose perverse di questo sistema è che alla disoccupazione non si
dà carattere sociale. Appare come un problema individuale. Menem diceva che
chi faceva il corte di ruta, non aveva voglia di lavorare. Questo generava
in noi un grande senso di colpa. Uscivi di casa per cercare lavoro e ti
dicevano che eri salito per bighellonare. Il senso di colpa è uno dei motivi
fondamentali, per cui i disoccupati non si organizzano. Ancora oggi.
Prenderne coscienza è il primo passo per reagire. E magari passare
all'autogestione: dell'economia, della politica, del potere.
Qual è il vostro rapporto con il "potere", visto che rifiutate qualsiasi
aiuto economico e appoggio politico da parte dello Stato?
Il potere non ha nulla di male: dipende da come lo costruisci. Per cosa e
per chi. È solo uno strumento. Come tale, è buono o cattivo a seconda di chi
lo tiene.
Quello che non vogliamo (il motivo per cui rifiutiamo i planes) è riprodurre
i soliti meccanismi mafiosi di potere. Bisogna uscire da questa cultura, i
movimenti di disoccupati in primo luogo. Non chiediamo l'assalto ad un
potere già costituito, vogliamo costruirlo. Con il tempo.
Mi vengono in mente i giorni del dicembre 2001, quando sembravamo al punto
di mandare a casa i vecchi politici e il potere tradizionale era in grosse
difficoltà.
Stavamo tornando al quartiere, di notte, e fummo accolti da uno spettacolo
dantesco. Davanti ad ogni casa c'erano enormi falò e uomini armati ovunque.
Perché? Punteros e polizia avevano diffuso la fobia del saccheggio e tutti
si proteggevano, gli uni contro gli altri. Provammo paura: in quel momento,
chiunque avrebbe potuto spararci, scambiandoci per saccheggiatori e sarebbe
stato giustificato. Il presidente stava cadendo, ma nelle periferie il
potere era in mano a quelli di sempre.
Dov'è dunque il potere? E se si fosse creato un vuoto a livello di governo,
chi l'avrebbe preso? In quel momento non c'era organizzazione capace di
sostenerlo. Il potere va costruito, ma deve essere reale, legato al
territorio, al consenso, alla partecipazione. Dobbiamo cambiare le cose alla
radice.
A cura di PAOLA ERBA