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2/8/03 - DIARIO DAL SALVADOR



IL SEMAFORO DI SAN SALVADOR

La prima cosa che si nota sbarcando all'areoporto di San Salvador e' il 
caldo. L'umidita' e' altissima, l'aria densa e immobile, ti senti le foglie 
larghe delle piante tropicali addosso,te le immagini cosparse interamente 
di minuscole goccioline  che ti imperlano il viso e la fronte. Il buio alle 
sette di sera  da un'aria di caldo riposo, anche se qui e'inverno. Caldo 
ovviamente.

L'areoporto e' vuoto, aspetta solo il nostro arrivo, gli impiegati della 
polizia aereportuale ci attendono numerosi e solerti per registrare i 
nostri passaporti e visti di ingresso, molto piu' numerosi e molto piu' 
solerti che nell'ultimo infernale scalo, quello di MIAMI negli Stati Uniti.

Mi stupisco, come mai sono molti di piu' qui, mentre per accedere negli Usa 
abbiamo sopportato un'interminabile ed estenuante coda di un'ora? Il timore 
di aver compilato giusto il modulo di ingresso, i tuoi documenti nelle loro 
mani, per l'ultima volta, l'ennesima dopo tre scali, chiedi il permesso di 
entrare in un altro paese. Le tue decisioni nelle loro mani, la tua vita 
nei loro burocratici protocolli, sara' tutto a posto? Uno scarto 
impercettibile: si', no. E poi le divise, le tute nere dei militari, i 
berretti, gli anfibi sottili e rotondi allacciati stretti stretti fino al 
polpaccio, a formare una curva sinuosa tra il piede, la caviglia e il 
polpaccio. Un'idea di agilita', di forza. Incutono un certo timore. In 
fondo non sono molto diverse dalle divise del nostro paese, ma quella forma 
precisa mi sembra un marchio sudamericano,  forse ripescato nella memoria 
di qualche filmato di scontri violenti, nei tanti episodi che hanno 
insanguinato il Salvador, come tutto il sudamerica.

Quegli anfibi stretti mi sembrano l'immagine della dittatura che aleggia in 
Salvador, fragilissima democrazia appena uscita da decenni di guerra 
civile, di repressione, di indicibili violenze, di martiri. E ora 
schiacciata da una violenza economica altrettanto potente, da una divisione 
spaventosa tra chi ha tutto e chi non ha niente, tra chi ha tutto il potere 
e lo ha sempre avuto e i tanti sfruttati  di questo paese. Nei campi 
divorati dalle multinazionali, o nelle 'maquile', le industrie di 
assemblaggio zona franca da qualsiasi diritto sindacale, anche quello alla 
vita. Chi ha  e chi non ha. Chi sfrutta e chi crepa, si', no. Arriviamo con 
i nostri bagagli stanchi all'ultimo controllo. Un detector? Un carrello 
mobile con raggi X? Niente di tutto questo. Consegnando il modulo 
dell'ingresso in Salvador al militare vieni gentilmente invitato a premere 
il bottone di un semaforo giallo, e come in una lotteria, ad attenderne la 
risposta, il verdetto. Verde, passi. Rosso, ti fermi. E salti un giro. 
Cioe' ti aprono la valigia.

Fifty-fifty, o la va o la spacca, tertium non datur direbbero i latini, non 
c'e' una terza possibilita'. Il caso piu' puro, L'arbitrio piu' perfetto, 
l'alea piu' incerta e al tempo stesso emozionante. La degna conclusione 
fatale  di una giornata passata a superare check-in, esibire carte di 
imbarco, mostrare documenti su documenti per sentirsi in diritto di 
passare. Controlli casuali, apertura di bagaglio a pesca della sfortuna, 
percorsi lunghi e imcomprensibili, code, file, metodi bruschi e 
intimidatori, facce scure a scrutare il tuo profilo e quello sul tuo 
passaporto.

Specie a Miami, lembo della "terra della liberta'", dove ti perquisicono 
scalzo anche le scarpe davanti a gente ai tavolini  che ingoia Fast-food. 
Le persone in coda, le merci e i soldi "liberi", ovviamente sempre nella 
stessa direzione. I volti paradossalmente voluti e contradditori della 
cosiddetta globalizzazione, o colonizzazione. Vado incontro timoroso al 
militare, gli porgo il mio modulo di ingresso, davanti a lui leggermente 
divertito premo il bottone del semaforo verde-rosso. E' il mio turno. Passi 
o ti fermi e apri la valigia sotto gli occhi inquisitori del militare. Ti 
lascio passare o ti blocco (almeno per un po'). Si', no. Un attimo di 
brivido e trepidazione, poi appare la luce verde del faretto piu' basso, 
come ad un normale incrocio di macchine. E' stato si'. Almeno per questa volta.

[Nota: Carlo Silva e' un educatore Scout milanese che si trova in Salvador 
per un viaggio di solidarieta' con la popolazione locale. Le pagine 
successive del suo diario, redatte in questi giorni con carta e penna, 
verranno pubblicate nei prossimi giorni su peacelink.it]