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Informazione e movimenti: due anni di lotta nonviolenta



Informazione e movimenti: due anni di lotta nonviolenta

di Carlo Gubitosa - Associazione PeaceLink
<c.gubitosa@peacelink.it>

[Questo articolo e' apparso sul numero 28/2003 del settimanale "Carta", che 
ne ha concesso la diffusione via internet]

Il 20 luglio 2001, attorno alle dieci di sera, Bruno Vespa annunciava dagli 
schermi di "Porta a porta" il nome del ragazzo ucciso dalla violenza del 
G8, e in quel preciso istante i genitori di Carlo Giuliani non sapevano 
ancora nulla di quello che era accaduto al loro figlio. A partire da questo 
significativo e sconosciuto episodio di violenza televisiva, dove i diritti 
di un anchorman hanno prevaricato quelli di una famiglia, qualcosa è 
cambiato nel panorama mediatico del nostro paese. Già dal giorno successivo 
i filmati girati dai cameraman indipendenti del network "Indymedia" 
mostravano al mondo gli istanti dell'ingresso nella scuola Pertini/Diaz 
delle forze dell'ordine, la rete iniziava ad inondarsi di racconti e 
testimonianze dirette delle giornate di Genova, e per la prima volta nella 
storia l'opinione pubblica mondiale ha percepito la distanza tra 
l'informazione commerciale confezionata nelle comode "redazioni di lusso" e 
il circuito dei media alternativi fatto di riviste "piccole" ma efficaci, 
radio non omologate e siti web che vivono di contenuti e lavoro volontario, 
anziche galleggiare sul mercato pubblicitario come fanno i "megaportali" 
dei grandi gruppi editoriali.

Da Genova in poi l'informazione libera è stata il motore invisibile che ha 
dato respiro ad azioni e proteste molto diverse tra loro, diventando lo 
strumento di lotta nonviolenta più efficace di tutta la storia dei 
movimenti sociali.

Le proteste contro l'aggressione all'Afghanistan esplose sulla strada tra 
Perugia e Assisi, la "festa globale" di Porto Alegre, che ha costretto 
anche i media commerciali a parlare di alternative alla globalizzazione 
oscurando il Forum Economico Mondiale, le testimonianze dirette dalla 
Palestina che rompevano il muro di silenzio sulle violazioni dei diritti 
umani, la mobilitazione diffusa contro la deregulation nel commercio delle 
armi e lo stravolgimento della legge 185, la "scuola di politica" del Forum 
Sociale Europeo, le lotte per i diritti dei migranti, la colossale 
manifestazione antiguerra del 15 febbraio 2001: tutto questo non avrebbe 
avuto la stessa forza e lo stesso impatto in assenza di un sistema 
distribuito e capillare di circolazione delle informazioni "dal basso". E 
il bello è che siamo ancora ai primi esperimenti.

Senza questo "cocktail" fatto di nuove tecnologie e impegno civile, 
volontariato dell'informazione e cooperative editoriali, web radio e tv di 
quartiere, la nascita della "seconda superpotenza", l'opinione pubblica 
mondiale, non sarebbe stata possibile. Tuttavia c'è ancora della strada da 
fare: nei prossimi anni il concetto di "rete" applicato all'azione sociale 
verrà portato alle sue estreme conseguenze, e già oggi nelle iniziative 
organizzate dai più giovani si respira una cultura nuova, dove non è più 
concepibile chiudersi su se stessi, sui propri linguaggi e sui propri 
contenuti, ma si sente il bisogno di volare alto, affermando nei rapporti 
tra persone, tra associazioni e tra movimenti le stesse regole sociali che 
governano su internet i "rapporti" tecnici tra computer: tutti sono uguali, 
non esiste un centro di comando, ognuno è funzionale a qualcosa, nessuno è 
indispensabile. Questo nuovo modo di fare informazione e politica, basato 
sulla partecipazione e sull'orizzontalità, ricorda molto da vicino quella 
"omnicrazia" teorizzata da Aldo Capitini, il "potere di tutti" che è 
l'unica alternativa al dominio di pochi, alla divisione tra controllori e 
controllati e a tutte le forme di violenza alle quali ormai siamo 
assuefatti, al punto di non indignarci più quando un giornalista pagato con 
i soldi del canone acquista un potere che va al di là del rispetto della 
vita (e della morte) altrui.

Gli ultimi due anni di "vita mediatica" del nostro paese sono stati segnati 
da alcuni progetti che hanno affrontato il problema dell'informazione in 
modo "rivoluzionario" nel senso etimologico del termine, cioè con una 
totale inversione di rotta rispetto all'informazione dominante. Non si 
tratta di cambiare solamente i contenuti, ma di cercare anche forme nuove 
dei media, come hanno fatto i promotori del circuito Telestreet, che alle 
televisioni nazionali, costose e centralizzate hanno contrapposto una rete 
distribuita di emittenti locali, economiche (bastano 1000 euro per 
trasmettere) e totalmente affidate alle comunità locali per quanto riguarda 
la costruzione dei palinsesti. Rispetto allo scenario prospettato dai 
partiti tradizionali (creiamo consenso, conquistiamo il governo, cambiamo 
il sistema radiotelevisivo), la "scorciatoia" proposta dal network 
Telestreet è quella di creare spontaneamente una rete di piccole emittenti 
e gruppi locali che imponga un nuovo modo di fare televisione, con una 
azione di disobbedienza civile collettiva simile a quella con cui nei primi 
anni '70 si è conquistato il diritto all'obiezione di coscienza al servizio 
militare. La zona grigia in cui le Tv di quartiere stanno muovendo i loro 
primi passi è quella che si trova in bilico tra i nomi di Oscar Mammì e 
Maurizio Gasparri (padrini di battesimo di due leggi illiberali) e 
quell'articolo 21 della costituzione che garantisce a tutti la facoltà di 
esprimere pensieri "con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di 
diffusione".

Se l'alternativa al duopolio Raiset è affidata allo sviluppo delle Tv di 
quartiere e ai progetti di trasmissioni satellitari indipendenti come 
NoWarTv e GlobalTv, l'alternativa alla propaganda di guerra che inquina la 
carta stampata è stata costruita con il "Mediawatch" 
[http://www.peacelink.it/mediawatch], l'osservatorio popolare sulle "bufale 
in divisa" ospitato sul sito dell'associazione PeaceLink, uno "spazio 
condiviso" dove nei giorni dell'aggressione all'Iraq le principali realtà 
italiane di informazione indipendente (tra cui lo stesso settimanale Carta) 
si sono focalizze su un unico obiettivo: smascherare le menzogne degli 
apparati militari e dei loro seguaci. Con più di trecento segnalazioni in 
due mesi, questa bacheca elettronica si è trasformata in una vera e propria 
enciclopedia della propaganda.

L'idea è quella di tradurre nel mondo dell'informazione i principi astratti 
di "cittadinanza attiva", "sovranità popolare" e "uguaglianza dei 
cittadini", trasformandoli in azioni concrete e progetti visibili. Impresa 
tutt'altro che banale, soprattutto in Italia, dove il panorama mediatico è 
fortemente caratterizzato da teleutenti passivi, che sono "cittadini del 
video" senza possibilità di intervento, da una sovranità limitata che 
permette di governare il proprio telecomando, ma non i contenuti dei 
palinsesti decisi dai vertici Rai e Mediaset, e infine da una fortissima 
disuguaglianza tra i "normali" cittadini e quella ristretta elite 
finanziaria e politica che esercita il suo controllo sui due poli 
televisivi e i tre grandi gruppi editoriali che producono il 90% della 
carta stampata del paese (Rizzoli/Corriere della Sera [Rcs], Gruppo 
Caracciolo, Mondadori/Fininvest).

Come si è arrivati alla costruzione di un "monitoraggio" collettivo della 
propaganda di guerra? Questa iniziativa non nasce dall'idea di un momento, 
ma è il frutto maturo di un percorso di crescita della cultura nonviolenta, 
che negli ultimi dieci anni ha colmato il divario tecnologico con gli 
apparati militari, almeno per quanto riguarda la produzione di informazioni 
in rete. Oggi qualunque sito indipendente di area pacifista ha un numero di 
accessi e di documenti che è di gran lunga superiore a quello delle pagine 
web istituzionali delle quattro forze armate (Esercito, Marina, Aviazione, 
Carabinieri).

L'analisi dei media e l'azione nonviolenta delle "formiche 
dell'informazione" sono destinate ad avere un peso sempre maggiore nella 
vita sociale del Paese, almeno fino a quando non si sarà trovata una 
risposta a molti interrogativi ancora insoluti: perché in Italia siamo 
costretti ad avere nel settore dell'informazione la concentrazione di 
aziende più alta di tutto il continente? Perché l'Ansa ha meno di dieci 
persone che devono raccontare quello che avviene in tutta l'Africa? Perché 
i nostri giornali e le nostre televisioni devono essere sempre più 
dipendenti dalle agenzie internazionali? Come mai in Italia ci sono alcune 
persone che grazie ai soldi del canone Rai riescono a costruire delle vere 
e proprie "nicchie di potere mediatico"? Perché si spendono milioni di euro 
per Sanremo ma l'Italia, che ha fatto una guerra in Jugoslavia, ha chiuso 
la sede Rai dei balcani? Come mai le tariffe postali per gli abbonamenti 
stanno strangolando le piccole riviste e contemporaneamente i finanziamenti 
pubblici per l'editoria vengono erogati solamente ai grandi organi di stampa?

L'utilizzo efficace della telematica come strumento per contrastare la 
propaganda militare ha dimostrato che nella società dell'informazione la 
guerra non ha più una vita propria, non può più nascere da sola, ma ha 
bisogno di essere legittimata e sostenuta da ragioni umanitarie, ha bisogno 
di trovare un motivo accettabile e morale per la propria esistenza, ha 
bisogno di un consenso che solo i media possono conquistare e mantenere. 
Per questo motivo, oggi più che mai, i giornali e la televisione sono 
chiamati a rispondere del loro operato, e la lista delle cose di cui 
rendere conto si allunga giorno dopo giorno grazie al contributo di tutti 
coloro che praticano forme di cittadinanza attiva nel settore 
dell'informazione.

Carlo Gubitosa