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BIN LADEN o dell'araba fenice



BIN LADEN O DELL’ARABA FENICE

di Agostino Spataro*

Sommario: Bin Laden, l’ubiquatario- L’arma del petrolio al servizio della 
“umma” musulmana- Saddam e re Fadh pari sono- Qualcosa non quadra fra 
pratiche e teorie islamiste- La guerra al “terrorismo” rafforza i 
terroristi- Europa: dialogo e cooperazione col mondo arabo.


Bin Laden, l’ubiquatario
Osama Bin Laden è “Come l’araba fenice, che ci sia ognuno lo dice, dove sia 
nessuno lo sa…”
(Metastasio) Ormai, sembra che dovremo rassegnarci a convivere (chissà per 
quanto tempo) con l’immagine evanescente del capo di Al Qaeda che i 
mass-media hanno fabbricato, su input degli imbonitori del Pentagono: una 
“araba fenice” , molto speciale che muore e risorge dalle proprie ceneri, 
nei momenti opportuni.
E ogni resurezzione è annunciata da terrificanti attentati suicidi che 
mietono vittime a centinaia, a migliaia, come avvenne a New York, l’11 
settembre.
Dopo la recente “guerra” contro l’Iraq, che gli angloamericani si sono 
illusi d’aver vinto con l’abbattimento della statua gigante di Saddam 
Hussein, e nel bel mezzo dell’impasse politica ed organizzativa del 
dopoguerra, l’emiro del terrore sembra essere risuscitato dalle ceneri 
della guerra in Afghanistan, per annunciare nuove sciagure e quindi 
legittimare altre guerre, prossime venture.
Stracaricato di colpe tremende, seppure in precarie condizioni di salute, 
lo si vorrebbe dotato del dono dell’ubiquità: dovunque esplode una bomba 
“islamista” c’è la mano insanguinata di Bin Laden.
Nei giorni scorsi, è stata intravista dietro gli  attentati suicidi fra le 
lussuose ville di Riyadh, capitale del regno saudita, e di quelli avvenuti 
nelle periferie di Grozni, la martoriata capitale della Cecenia.
L’arma del petrolio al servizio della “Umma” musulmana
In attesa che qualcuno si decida ad interrompere questo spietato “romanzo a 
puntate”, vediamo di abbozzare un ragionamento politico per tentare di 
capire gli obiettivi principali della strategia di Bin Laden (o di chi ne 
fa le veci) e della sua multinazionale islamista “Al Qaeda”.
La guerra, nella sua ottusità, ha rafforzare nell’opinione pubblica 
mondiale il fondato sospetto che Bush l’abbia scatenata per il controllo 
strategico dell’area del Golfo e delle immense risorse petrolifere irachene.
Così come- dall’altro lato- Putin si ostina a mantenere lo stato 
d’occupazione russa della Cecenia per il predominio sulle risorse 
petrolifere insistenti nelle regioni dell’Asia centrale.
Da notare che queste regioni costituiscono i due principali poli nei quali 
si concentrano le maggiori riserve energetiche del pianeta e che entrambi 
insistono in paesi di tradizione islamica o della futura “umma” (comunità) 
musulmana propugnata da  Bin Laden e, in genere, dalle organizzazioni 
islamiste radicali.
Ovvero nei territori dell’Islam che nel sottosuolo detengono immense 
ricchezze mentre in superficie mostrano la più grande ingiustizia, fatta di 
miseria, disoccupazione, analfabetismo e arretratezza cronica, ecc. Il 
petrolio “islamico”, che per alcuni decenni ancora farà girare l’economia 
mondiale, è l’unica risorsa strategica di cui dispone il mondo arabo, fino 
ad oggi malamente gestita dai gruppi dominanti, soprattutto nelle 
petromonarchie, in termini di scandalosa ingiustizia sociale e di 
subalternità agli interessi delle grandi corporazioni economiche 
nord-americane e occidentali.
Nell’era della globalizzazione dell’economia, i gruppi islamisti vorrebbero 
appropriarsi del petrolio e trasformarlo in un’arma formidabile non tanto 
per distruggere l’Occidente (obiettivo quantomeno  improbabile, poiché 
nessun venditore si sognerebbe di distruggere il suo miglior cliente), 
quanto per condizionarlo nel meccanismo basilare del suo sviluppo e 
garantire allo Stato islamico che verrà un ruolo decente nei nuovi assetti 
del potere che si andranno a determinare nel quadro del “nuovo ordine 
internazionale”.
Saddam e re Fadh pari sono
E non c’è dubbio che il primo, grosso ostacolo al dispiegamento della 
strategia islamista è rappresentato dagli attuali regimi al potere corrotti 
e succubi alla politica neo-coloniale dell’Occidente che gli islamisti 
vogliono abbattere senza eccezione alcuna.
Per gli integristi non c’è grande differenza fra il laico Saddam Hussein e 
la dinastia fondamentalista (“wahabbita”) dell’Arabia saudita. Se, dunque, 
Bush, facendosi malissimo i conti, s’incarica di togliere di mezzo Saddam 
fa una cosa gradita agli islamisti e perciò ponti d’oro… alle armate 
angloamericane in Iraq.
In Arabia, dove il potere petrolifero è saldamente nelle mani dei  Saud, i 
più fedeli alleati degli Usa, ci pensano i martiri di Al Qaeda a scuotere 
il regime a colpi d’attentati suicidi, in attesa della sollevazione 
generale che, com’è successo nell’Iran dello Scià,  travolgerà la dinastia 
più ricca e potente del Medio Oriente, alla testa di un Paese che- per la 
prima volta- accusa un fortissimo deficit di bilancio e un crescente 
disagio sociale.
Bush, che proviene da una dinastia di petrolieri texani, è molto sensibile 
all’argomento petrolio e mostra di avere bene avvertito la pericolosità del 
disegno politico del capo di Al Qaeda e perciò ha deciso d’ingaggiare con 
lui (almeno a parole) una guerra mortale.
In questa guerra anomala contro “il terrorismo”, combattuta fra ex alleati 
e per interessi inconfessabili, alcuni governi europei, fra i quali quello 
italiano, fanno a gara per potervi intervenire, anche con mansioni 
subalterne, per andarsi a sedere al tavolo dei vincitori e spartirsi i 
dividendi prodotti dallo sforzo bellico.
Anche questo è un segno dei tempi (bui) che stiamo vivendo: ieri ci si 
attivava per partecipare ai dividendi della pace, oggi ci si accapiglia per 
accaparrarsi qualche modesto e sanguinolento dividendo della guerra.
Qualcosa non quadra fra pratiche e teorie islamiste
L’altro elemento della politica dei gruppi islamisti, da considerare con 
inquietudine, è rappresentato dal ricorso, ormai sistematico, agli 
attentati stragisti come metodo privilegiato di lotta contro i nemici 
interni (Arabia Saudita, Algeria, Egitto, Yemen, Libano, ecc) ed esterni 
(Usa, Israele, Kenia, ecc.).
Tradizionalmente, i vari gruppi hanno ricorso al terrorismo, anche suicida, 
soprattutto in azioni di tipo resistenziale (come nei Territori palestinesi 
e nel Libano del sud occupati dagli israeliani), secessioniste (Kashmir, 
Filippine, ecc) o per il rovesciamento dei poteri cosidetti “empi” (Egitto, 
Algeria, Siria); quasi mai l’attacco terroristico è stato portato fuori dei 
territori dell’Islam.
In tutto ciò c’è qualcosa che non quadra rispetto alle più accreditate 
teorie integriste.
Come se si fosse entrati nella seconda fase del “Jihad” (guerra santa), 
nella guerra per l’instaurazione della Umma mondiale alla cui direzione 
Sayyid Qutb, massimo teorico dell’islamismo contemporaneo, candida “un 
nucleo scelto di credenti plasmato nella fede in un sol uomo”.
E ancora presto per confermarlo. Tuttavia, Bin Laden, nei suoi minacciosi 
proclami, ha teso  ad accreditarsi, agli occhi delle masse dei credenti, 
come il più autentico interprete del pensiero di Qutb, atteggiandosi a 
leader indiscusso, quasi predestinato, della rivoluzione islamista mondiale.
La guerra “al terrorismo” rafforza i terroristi
In questa guerra atroce, oltre a copiosi mezzi finanziari e a complicità 
politiche e logistiche, il terrorismo islamista dispone di un’arma davvero 
impareggiabile: le coorti dei martiri della fede che alimentano questo 
assurdo rito sacrificale, imprevedibile quanto micidiale, contro il quale è 
difficile approntare rimedi e strategie efficaci.
Questi neo-martiri, infatti, si caratterizzano per un autismo 
impenetrabile, per una volontà fredda e determinata che solo il fanatismo 
estremo può sorreggere.
Contro questa nuova piaga può risultare controproducente la risposta 
militare (la guerra senza quartiere al terrorismo proclamata dal giovane 
Bush) e/o lo scontro di civiltà, come in Occidente taluni sconsiderati 
propongono di scatenare. Nell’un caso e nell’altro non si andrebbe a 
incidere sulle cause determinanti questo complesso e devastante fenomeno.
Se il problema- come sembra- è lo sviluppo socio-economico e democratico 
del mondo arabo che- anche tramite il petrolio- vorrebbe affrancarsi dalla 
duplice dipendenza derivante dalle politiche delle grandi multinazionali 
del petrolio e dalle dittature nazionali, allora le forze democratiche 
europee, ma anche quelle Usa, dovrebbero avviare un dialogo con tutte le 
componenti progressiste e pacifiste, laiche e religiose, che costituiscono 
la stragrande maggioranza del mondo arabo, per meglio individuare e 
rimuovere le cause generatrici dell’attuale malessere arabo e per costruire 
insieme una prospettiva di co-sviluppo e di sicurezza reciprocamente garantita.
Europa: dialogo e cooperazione col mondo arabo
In primo luogo, e subito, bisognerà rimuovere il più grave ostacolo che si 
frappone fra Occidente e Medio Oriente: la questione palestinese. Un 
accordo di pace, equo e duraturo, fra israeliani e palestinesi, che 
assicuri a questi ultimi la creazione di uno Stato sovrano e a tutti i 
paesi della regione confini sicuri, avrebbe contro il terrorismo un effetto 
pari a migliaia di missili, poiché farebbe venir meno il suo principale 
elemento di agitazione fra le masse arabe.
Per contribuire a questo sforzo, bisogna far chiaramente capire al signor 
Bush che l’Europa non è disposta a seguirlo nel suo azzardoso 
unilateralismo imperiale e notificare al falco Sharon e soci un no deciso 
alla sua politica repressiva ed espansionistica in Palestina.
L’Europa e altri importanti Paesi occidentali dovranno fare queste cose, 
oggi, se non vogliono essere costretti, domani, a trattare con Bin Laden o 
con suoi consimili i nuovi termini del rapporto di scambio fra Occidente e 
Oriente.
  14 maggio 2003

*Agostino Spataro
è direttore di “Infomedi-Informazioni online dal Mediterraneo”
e autore del libro “Il fondamentalismo islamico- Dalle origini a Bin Laden”
presentazione di Yasser Arafat, Editori Riuniti, Roma

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