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La nonviolenza e' in cammino. 570



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 570 del 18 aprile 2003

Sommario di questo numero:
1. Rosa Luxemburg: la vita si spegne
2. Hannah Arendt: una societa' di consumatori
3. Luisa Muraro: per forza o per amore?
4. Tonio Dell'Olio: pasqua 2003
5. Michael S. Foley: l'America renitente alla guerra
6. Barbara Deming: il mio amore e' acqua
7. Augusto Cavadi: la preghiera e l'incontro
8. Gianfranco Bettin presenta "E' oriente" di Paolo Rumiz
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. MAESTRE. ROSA LUXEMBURG: LA VITA SI SPEGNE
[Da Rosa Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi, Torino 1975, 1976, p. 601. E'
un frammento dello scritto, pubblicato postumo sul finire del 1921, su La
rivoluzione russa. Un esame critico. Rosa Luxemburg, 1871-1919, e' una delle
piu' limpide figure del movimento dei lavoratori e dell'impegno contro la
guerra e contro l'autoritarismo. Assassinata, il suo cadavere fu gettato in
un canale e ripescato solo mesi dopo; ci sono due epitaffi per lei scritti
da Bertolt Brecht, che suonano cosi': Epitaffio (1919): "Ora e' sparita
anche la Rosa rossa, / non si sa dov'e' sepolta. / Siccome ai poveri ha
detto la verita' / i ricchi l'hanno spedita nell'aldila'."; Epitaffio per
Rosa Luxemburg (1948): "Qui giace sepolta / Rosa Luxemburg / Un'ebrea
polacca / Che combatte' in difesa dei lavoratori tedeschi, / Uccisa / Dagli
oppressori tedeschi. Oppressi, / Seppellite la vostra discordia". Opere di
Rosa Luxemburg: segnaliamo almeno due fondamentali raccolte di scritti in
italiano: Scritti scelti, Einaudi; Scritti politici, Editori Riuniti (con
una ampia, fondamentale introduzione di Lelio Basso). Opere su Rosa
Luxemburg: Lelio Basso (a cura di), Per conoscere Rosa Luxemburg, Mondadori;
Paul Froelich, Rosa Luxemburg, Rizzoli; P. J. Nettl, Rosa Luxemburg, Il
Saggiatore; Daniel Guerin, Rosa Luxemburg e la spontaneita' rivoluzionaria,
Mursia; AA. VV., Rosa Luxemburg e lo sviluppo del pensiero marxista,
Mazzotta]
Senza elezioni generali, liberta' di stampa e di riunione illimitata, libera
lotta d'opinione in ogni pubblica istituzione, la vita si spegne, diventa
apparente e in essa l'unico elemento attivo rimane la burocrazia.

2. MAESTRE. HANNAH ARENDT: UNA SOCIETA' DI CONSUMATORI
[DA Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p. 272.
Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva
di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe
all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le
massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l
'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Tra passato e
futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita' del male. Eichmann a
Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963),
Comunita', Milano; postumo e incompiuto e' apparso La vita della mente
(1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento
politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i
carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica,
Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza
di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una
recente raccolta di scritti vari e' Archivio Arendt. 1. 1930-1948,
Feltrinelli, Milano 2001. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la
biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri,
Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt,
Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah
Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah
Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della
polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt,
Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su
Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah
Arendt, Giuntina, Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due piacevoli
monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono:
Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999;
Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]
Una societa' di consumatori non sapra' mai prendersi cura di un mondo e
delle cose pertinenti in esclusiva allo spazio delle apparenze terrene,
perche' la sua posizione fondamentale verso tutti gli oggetti - il consumo -
significa la rovina di tutto cio' che tocca.

3. RIFLESSIONE. LUISA MURARO: PER FORZA O PER AMORE?
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 aprile 2003. Luisa Muraro insegna
all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di
"Diotima". Dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo una sua
scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e
cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una
regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica
di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera
accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella
scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia
dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba
Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista
dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al
femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della
differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva:
La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981,
ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La
Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti,
Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla
nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria
delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via
Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima
(1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero
della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della
maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel
1997"]
Lo spettacolo della forza e' letteralmente impressionante e qualche volta
spaventoso: si imprime a tutti i livelli, fino ai nervi e ai muscoli. La
legge del piu' forte, quando la vediamo all'opera, ci entra nella mente e
sbaraglia i ragionamenti. C'e' poco da fare. Ma, forse, c'e' da dire almeno
una cosa e cioe' che questo vale piu' per gli uomini che per le donne. Lo
dico sapendo di andare vicina ad uno stereotipo sessista che personalmente
detesto. Lo dico lo stesso, per uno scopo molto preciso e cioe' che si
cominci a fare un qualche uso pensante delle nostre differenze. Nel tremendo
frangente storico in cui ci troviamo, tutte e tutti siamo impressionati
dallo spettacolo della forza che schiaccia gli inermi, e moralmente
abbattuti dal trionfo della legge del piu' forte. Ma questo non vuol dire
che tutti facciamo il passo ulteriore (e a mio giudizio, catastrofico) di
prendere la legge del piu' forte come criterio politico definitivo, al quale
si potrebbe opporre unicamente l'utopia di un mondo pacificato, in cui il
lupo e l'agnello bevono alla stessa fonte. No. Ci sono alcuni e, fra le
donne, molte, che conoscono l'esistenza di un altro passaggio.
Un esempio del contrasto di posizione fra donne e uomini, lo da' lo scambio
tra Ida Dominijanni e Mario Tronti, Che fare dell'Occidente ("Il manifesto"
di venerdi' 11 aprile). C'e' un punto in cui lo scambio si arresta e "lei"
dice: "Non sono d'accordo". Non e' d'accordo che lo strapotere Usa possa e
debba essere fermato solo con l'uso di un potere uguale e contrario, non e'
d'accordo che tutto il resto che abbiamo visto in queste settimane
(manifestazioni, bandiere, mobilitazione mondiale) sia da considerare
impotente e gia' sconfitto. Ecco, se in quel punto d'arresto anche "lui" si
fosse fermato e avesse ascoltato l'altra, avrebbe visto davanti a se' una
persona che non era tutta invasa dalla legge del piu' forte, e lo scambio
fra i due poteva ripartire di nuovo, in un orizzonte piu' grande, non piu'
interamente occupato dalla logica dei rapporti di forza. Tu, gli chiede alla
fine lei, dovendo appellarti a una figura filosofica della filosofia
occidentale, chi sceglieresti? Risposta: per superare questa frattura - tra
lavoro sporco della guerra, leggi Usa, e il lusso della pace, leggi Europa,
tra guerra e politica - tanto vale ripartire da Hegel.
Era un gioco, per chiudere l'intervista; nondimeno la scelta mi sembra
significativa. Tanto per stare al gioco, io avrei scelto Montaigne. La
risposta di Tronti fa venire in mente, per contrasto, il titolo di un
bellissimo testo di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. A me fa venire in mente
un'altra cosa ancora, poco nota, che Hegel, cercando una figura per
significare la potenza della dialettica nella storia umana, penso' in un
primo momento alla relazione amorosa e poi preferi' la figura della lotta
tra servo e padrone.
Questa notizia, velatamente, ci parla dei limiti politici della filosofia
hegeliana, oggi. Oggi, infatti, tra le forze in campo c'e' anche quella
dell'amore. Non lo dico misticamente, ma a partire dal grido, indimenticato,
della ragazza americana dopo l'11 settembre: "Perche' ci odiano tanto?". Gli
Usa hanno vinto la seconda guerra mondiale ma non stanno vincendo questa, se
non altro per questa ragione, che non suscitano l'amore di cui, dopo quel
grido, tutto il mondo sa che hanno bisogno. Lo dico perche' viviamo in una
societa' e in una cultura segnate sempre piu' apertamente dalla presenza
femminile e l'amore e', notoriamente, una cosa importante per la grande
maggioranza delle donne. Forse anche degli uomini, anzi ne sono sicura, ma
le donne lo sanno. La sorella che, secondo la dialettica di Hegel, restava
indietro rispetto allo sviluppo etico, per diventare moglie e madre chiusa
nel mondo privato degli affetti, oggi entra ed esce di casa abbattendo
confini che marcavano opposizioni altamente significative per "lui". Ne
parlano anche le tanto citate, ma forse poco capite, bandiere della pace.
Lo strapotere degli Usa non si ferma con le bandiere iridate, dicono.
D'accordo. Non si ferma neanche con l'amore, aggiungiamo pure, con gli occhi
pieni dell'immagine di Rachel Corrie davanti al bulldozer che la schiaccera'
insieme alla casa che lei ha tentato invano di difendere. Naturalmente che
no, se facciamo il confronto sul terreno dei rapporti di forza. Ossia, se
noi stessi restiamo su questo terreno e ragioniamo in questo orizzonte,
facendo di quello che la' s'impone la nostra legge mentale. Il punto e'
proprio questo, strapparsi a quel terreno, allargare l'orizzonte, non farsi
trovare la'.
Lo spieghero' con un'idea di Cristina Campo, citando le sue esatte parole,
perche', come sa chi l'ha letta, lei pesava le parole con bilancia
d'orefice. Parla delle fiabe (che vuol dire che parla anche del Vangelo) e
dice: "La caparbia, ininterrotta lezione delle fiabe e' la vittoria sulla
legge di necessita' e assolutamente niente altro, perche' niente altro c'e'
da imparare su questa terra" (Parco dei cervi). Gli eroi delle fiabe,
spiega, sono chiamati ad affrontare prove che superano solo quando, uscendo
dal sistema dei rapporti di forza, cercano la salvezza in un altro ordine di
rapporti.
Finche' valgono i rapporti di forza, non c'e' gigante al quale non possa
opporsi un piu' tremendo gigante e non c'e' fine al gioco pendolare delle
contrapposizioni. E cita il pastorello coraggioso sfidato al tiro a segno da
un tremendo gigante: se avesse tirato una pietra, non ce l'avrebbe fatta
perche' il bersaglio era troppo distante; vince perche' fino al bersaglio
invia un uccello in volo.
L'idea di Cristina Campo e' un'idea immediatamente politica. Per saperlo, la
si applichi al movimento no-global. Insegna la liberta' di un agire politico
che si schioda dal confronto speculare con l'avversario dentro al sistema
del potere. Non c'e' solo la liberta' di optare fra alternative gia' date.
C'e' altro, un altro mondo e' possibile e comincia a nascere nello sguardo
non affascinato dallo spettacolo che offre la forza.
Ma la Campo parla di trascendenza e i suoi simboli hanno un significato
religioso. Sorge inevitabile l'obiezione laica, di chi non crede in Dio o,
anche credendoci, non vuole mescolare le cose divine con le faccende umane.
Non e' un'obiezione da poco in questo frangente che vede la religione
portare acqua al mulino della guerra, aggravando i conflitti oltre ogni
misura umanamente praticabile. La cultura laica ci insegna a tenere Dio e la
religione separati dalla scienza, dalla politica, dal diritto. Lo ha
ribadito su questo giornale Valentino Parlato in garbata polemica con un
noto opinionista che voleva spiegare (a noi europei) il senso normale e
civile della giornata di meditazione e preghiera proclamata da Bush durante
la guerra. Mi hanno insegnato a tenere separate certe cose, ha scritto
facendo un elenco e nell'elenco c'era anche la separazione tra vita privata
e vita pubblica. Sembrava quasi che dicesse: una volta... sembrava che
sapesse che ormai l'equilibrio inventato dai filosofi moderni non regge
piu'. Infatti. I nodi vengono al pettine. La modernita' laica occidentale
era una complicata costruzione della classe intellettuale al potere. Doveva
tenere a bada la bigotteria e il fanatismo, ha fallito e sarebbe ridicolo
mettersi a difenderla come una religione.
Fra le molte cose lette in questi mesi di intensificate letture, ricordo il
lungo articolo di un analista inglese che diceva, acuto e sprezzante: Bush
non ha ne' l'intelligenza ne' la cultura minime richieste per parlare di
politica con argomenti razionali, e percio' si aggrappa al linguaggio
religioso. Azzeccato, ma che cosa prova questo se non il fallimento della
cultura laica? Fallimento tacitamente registrato, in sostanza, anche dai
molti fra noi che, senza essere ne' credenti ne' cattolici, hanno esultato
per la passione politica con cui il papa cattolico e' sceso in campo contro
la guerra. Non e' stato solo per un calcolo, del tipo: se puo' servire, ben
venga anche il papa. No, la sua foga virile intrisa d'angoscia e dolore, ci
ha comunicato un sentimento di commozione e ci ha dato coraggio.
Percio' propongo che torniamo sulla questione della trascendenza e dei
simboli religiosi. Viviamo in un passaggio difficile e lo affrontiamo senza
disporre della nostra eredita' religiosa, vale a dire del meglio della
civilta' europea premoderna. Le premesse della separazione tra politica e
religione risalgono al Medioevo, come noto. Ma il Medioevo non ne faceva una
forma del pensiero definitiva, e non spezzava il continuum che e' ogni
civilta', a causa della lingua che la pervade tutta, e che siamo noi stessi,
per la stessa ragione, la lingua. Percio', nel Medioevo poteva capitare che
un vescovo, Ambrogio, armato della sua autorita' spirituale, non consentisse
all'imperatore di entrare in chiesa e lo rimandasse pubblicamente indietro,
a fare penitenza per aver ordinato la distruzione di una citta' che non si
sottometteva al suo potere.
Noi oggi dobbiamo congedarci dalla modernita' e ci tocca farlo senza poter
prendere ne' fiato ne' rincorsa. Tant'e' che ci chiamiamo, tristemente,
postmoderni. Non abbiamo niente da opporre alle tendenze dell'integralismo.
Lasciamo la religione all'uso e abuso di fanatici e bigotti.
Qualcuno che mi legge si sara' accorto che ho fatto mia l'idea di un prete
che fu anche un politico, ma in una maniera molto diversa da don Sturzo.
Parlo di don Giuseppe De Luca che in politica fu, essenzialmente, un
mediatore. L'idea di far parlare tra loro cultura laica e tradizione
religiosa, in effetti, viene da lui e io non potrei aggiungervi nulla. Ma
c'e' una cosa che si puo' dire in piu', perche' da allora qualcosa e'
cambiato, la stessa che ho ricordato all'inizio, una presenza libera di
donne e di pensiero femminile. Viviamo in una societa' in cui una donna puo'
fermare il lui di turno e dirgli "Non sono d'accordo".
La differenza femminile libera - alla condizione che "lui" si fermi e
ascolti, chiaro - e' la possibilita' che io vedo che abbiamo di schiodarci
dalla legge di necessita' in politica, ossia dal paralizzante confronto tra
forze contrapposte. Possibilita' che si distribuisce su due versanti, uno
rivolto al presente e uno al passato.
Al presente, sta diventando riconoscibile una politica delle relazioni
praticata di preferenza dalle donne, che si esercita fuori dal terreno del
potere e del dominio, e che sa che il mondo non e' tutto consegnato a questa
logica. C'e' altro ed e' possibile vederlo all'opera se lo sguardo non si
lascia catturare dallo spettacolo della forza. Questo "altro" non e' un di
piu', e' l'essenza della politica, oso dire, in quanto non do nome di
politica al fatto che noi dobbiamo sottostare alla legge del piu' forte, ma,
al contrario, che riusciamo a vincerla.
Al passato, l'ermeneutica della differenza ci insegna a recuperare
l'eredita' religiosa fuori dalla traiettoria di una storia maschile che e'
terminata con la inevitabile separazione delle cose divine dalle faccende
umane, pena guerre e intolleranza. Sono ormai parecchi anni che studio la
cosiddetta mistica femminile, che forma un ricchissmo filone di ricerca
libera di Dio, ininterrotto dal Medioevo ai nostri giorni. E ho imparato una
liberta' religiosa che non avevo, quella di un dire dio che apre l'orizzonte
chiuso dalla nostra presunta autosufficienza, e che in politica si traduce,
senza troppi passaggi, nel sapere che la liberta' e' l'ingrediente piu'
prezioso dell'amore, e l'amore quello della liberta'.

4. RIFLESSIONE. TONIO DELL'OLIO: PASQUA 2003
[Riceviamo e diffondiamo queso intervento di Tonio Dell'Olio (per contatti:
tonio@paxchristi.it), infaticabile animatore di Pax Christi e di tante
iniziative nonviolente, prosecutore dell'opera di Tonino Bello]
Pasqua 2003.
Hanno inchiodato alla croce l'abbraccio del Cristo. Credendo di fissarlo per
sempre a quel legno, volevano impedirgli di stringere a se' ogni donna e
ogni uomo che vive sulla terra.
Ne hanno fatto l'icona piu' alta dell'amore e della pace. Talmente alta da
divenire simbolo solidale delle vittime che non potranno piu' abbracciare i
sogni e gli affetti, il domani e gli ideali.
Quell'abbraccio crocifisso e' una mera "collocazione provvisoria" - ci
ricorda don Tonino Bello di cui ricordiamo i dieci anni dalla morte proprio
il giorno di Pasqua - perche' l'aurora del giorno nuovo reca in se' la lieta
novella dei risorti.
Abbracci finalmente liberati dalla morsa della morte, canto nuovo nelle gole
e negli occhi, speranza e liberazione.
L'augurio di Pasqua, cara sorella e caro fratello, e' che si diradi questo
lugubre odore di morte che la guerra ha lasciato anche sulla nostra pelle.
Ci sia tempo per respirare la primavera che prorompe nei colori dei prati e
dei balconi, nei mille arcobaleni che segnano il futuro.
Ci sia spazio per regalare ancora abbracci e riconoscere la poverta' dentro
di noi, negli occhi delle vittime della violenza che sono anche gli autori
della stessa.
Come in quello stupendo affresco di Masaccio, chiediamo al Padre di
sostenere ancora l'abbraccio del Figlio, ma anche il nostro. Siano in alto
le nostre mani ma mai nel segno della resa, sempre in quello della supplica
e dell'abbraccio.
Che sia Pasqua, abbraccio della vita.
Shalom.

5. RIFLESSIONE. MICHAEL S. FOLEY: L'AMERICA RENITENTE ALLA GUERRA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 aprile 2003. Cosi' il giornale
presenta l'autore: "Michael Foley e' Assistant Professor di storia presso la
City University del New York's College di Staten Island. E' autore di
Confronting the War Machine: Draft Resistance During the Vietnam War
(University of North Carolina Press, 2003), ricerca sul movimento pacifista
Usa negli anni '60-'70. Sta lavorando alla raccolta delle lettere inviate al
dottor Spock dove la gente comune parlava del Vietnam, e a un saggio sulla
renitenza a quella guerra a Puerto Rico"]
Nel corso degli ultimi anni - mentre l'amministrazione Bush marciava
risoluta verso il conflitto contro l'Iraq - negli Stati Uniti cresceva il
movimento contro la guerra preventiva.
Un movimento al quale i media americani hanno riservato una scarsa
attenzione e che e' stato completamente ignorato dall'amministrazione.
Prestare attenzione alle proteste contro la guerra, ha detto il presidente
Bush dopo la marcia del 15 febbraio scorso a New York, e' come decidere una
politica "in base a un gruppo di discussione". Solo a guerra gia' iniziata -
e con l'intensificarsi delle proteste - al movimento e' stata dedicata una
piu' ampia copertura giornalistica: non benevola, pero', considerate le
accuse di tradimento e di mancato "sostegno alle truppe". Quanto
all'amministrazione, ha continuato a snobbarlo: i padroni di questa guerra
hanno imparato molto dagli errori dei loro predecessori e certamente Bush,
Cheney, Rumsfeld hanno imparato molto anche dalla massima che Hermann
Goering pronuncio' al processo di Norimberga: "Naturalmente, la gente comune
non vuole la guerra... ma dopo tutto sono i capi di stato a determinare la
politica, ed e' sempre semplice trascinare la gente, si tratti di una
democrazia, o di una dittatura fascista, o di un parlamento, o di una
dittatura comunista. La gente puo' sempre essere portata a fare cio' che
vogliono i leader. Questo e' facile. Tutto cio' che bisogna fare e' dire
loro che qualcuno li sta attaccando, e accusare i pacifisti di mancanza di
patriottismo e di voler esporre il paese al pericolo. Funziona nello stesso
modo in tutti i paesi".
L'amministrazione Bush riesce a "trascinare la gente" in parte grazie ai
grandi media - che non svolgono una funzione critica - ma anche perche' gli
americani hanno una scarsa memoria storica. E' facile dipingere il dissenso
come aberrante quando la maggior parte degli americani crede che il solo
precedente storico del movimento contro la guerra in Iraq sia stato quello
tanto spesso demonizzato nella cultura popolare: il movimento contro la
guerra in Vietnam.
Se gli americani conoscessero meglio la loro storia, saprebbero che tutte le
guerre americane hanno prodotto movimenti di protesta. Durante la
Rivoluzione americana, almeno un terzo (se non la meta') della popolazione
era contraria all'indipendenza. Il dissenso contro la guerra del 1812
divento' cosi' acceso che gli stati del New England presero seriamente in
considerazione la secessione dall'Unione. Negli anni '40 dell'Ottocento,
quando gli Stati Uniti attaccarono il Messico, nacque un importante
movimento contro la guerra - scaturito principalmente da quello contro la
schiavitu' - del quale fecero parte figure del calibro di Henry David
Thoreau, John Quincy Adams e un membro del Congresso dell'Illinois che si
chiamava Abraham Lincoln.
E ancora: nel corso della guerra civile americana, specialmente nel nord, le
proteste contro la leva militare obbligatoria divennero violentissime; il
conflitto del 1898 contro la Spagna - e la repressione del movimento di
indipendenza delle Filippine che ne segui' - scatenarono la protesta di
tutte le classi della societa' americana. Allo stesso modo, nel 1917,
l'ingresso dell'America nella prima guerra mondiale determino' un importante
movimento trasversale contro il conflitto costituito da gruppi di
professionisti della middle class e attivisti della working class che si
battevano per i diritti dei lavoratori e che erano contrari alla leva
obbligatoria. Il dissenso crebbe a tal punto che il governo mise in atto un
ampio sistema di spionaggio e varo' leggi sulla sedizione che - in tempo di
guerra - privavano la gente comune del diritto di parola. Nella seconda
guerra mondiale, sebbene l'attacco a sorpresa su Pearl Harbor, insieme alla
minaccia del fascismo, avesse creato un ampio consenso intorno alla politica
di Roosvelt, comunque le proteste ci furono: in particolare contro
l'internamento dei nippo-americani e i bombardamenti di Dresda e di altre
citta' tedesche...
Nonostante tutti questi precedenti storici, sembra che l'attuale movimento
contro la guerra possa essere giudicato solo confrontandolo con quello
contro il conflitto in Vietnam. Si tratta di un raffronto poco corretto:
quella in Vietnam e' stata la guerra piu' lunga della storia americana e -
persino nel momento della sua massima escalation - pochi americani sarebbero
stati in grado di dire com'era cominciato l'intervento statunitense. E'
anche la sola guerra che gli Usa abbiano perso.
E tuttavia ancora oggi i no-war hanno molto da imparare dal movimento che si
oppose alla guerra del Vietnam.
In primo luogo, durante quella guerra, fu la stessa Casa Bianca a
determinare le condizioni della protesta: nel 1967, un numero crescente di
soldati americani - arruolati soprattutto tra i poveri, tra la working-class
e le minoranze - tornarono a casa nelle bare. E cosi' ad allarmarsi furono
anche i sostenitori della guerra.
I reporter di guerra fecero entrare nelle case americane parole e immagini
che contribuirono ad accrescere il senso di crisi: quelle, per esempio, dei
civili vietnamiti sotto attacco, spesso scambiati per il nemico dai soldati
americani - essi stessi spesso all'oscuro dell'obiettivo piu' ampio della
loro missione. La follia di dover "distruggere un villaggio per salvarlo"
non sfuggiva a larghi settori dell'opinione pubblica americana.
Ma finora nella guerra americana all'Iraq, queste condizioni sono state
largamente assenti. La leva non e' piu' obbligatoria e l'esercito e' formato
interamente da volontari che il Pentagono riesce a dipingere come un corpo
militare professionale, motivato e patriottico. Inoltre - secondo il modello
gia' sperimentato nella prima guerra del Golfo che spostava i combattimenti
soprattutto nei cieli dell'Iraq, e con la grande stampa americana ben
stretta al guinzaglio - nelle case dei telespettatori ben poche sono state
le immagini delle vittime civili causate dagli eccessi dell'aviazione
americana.
In queste condizioni opporsi alla guerra diventa piu' difficile ma ancor
piu' essenziale, e sarebbe bene ricordare gli anni perduti del 1964-1967.
Dopo l'"incidente" del Tonchino nell'agosto 1964, l'amministrazione Johnson
condusse una guerra contro l'Asia sud-orientale per tre anni, senza
preoccuparsi granche' dell'opinione pubblica o dei movimenti di protesta.
Solo quando, nell'autunno del 1967, ebbe inizio la resistenza alla leva
obbligatoria - con migliaia di cartoline di precetto rispedite al mittente -
Johnson comincio' a prestare attenzione al movimento contro la guerra. E
ordino' a Lewis Hershey, direttore dell'ufficio reclute, di convocare i
renitenti al servizio di leva affidando al ministro della giustizia, Ramsey
Clark, il compito di avviare un'azione penale nei loro confronti. Ma,
soprattutto, fece rientrare negli Usa il generale William Westmoreland
perche' avviasse una campagna di propaganda durante la quale il comandante
americano assicuro' ripetutamente il paese: c'era "una luce alla fine del
tunnel". Due mesi dopo, quando i nord-vietnamiti e i vietcong lanciarono
l'offensiva del Tet, la credibilita' di Johnson ne usci' a pezzi e il
movimento contro la guerra pote' incassare il suo primo successo.
Il punto e' che ci vollero tre anni perche' l'opposizione - che intanto
cresceva e assumeva varie forme - ottenesse dei risultati. Per tre anni, gli
americani scrissero lettere di protesta ai membri del Congresso, ai senatori
e al presidente. Tennero sit-in e dimostrazioni come quelle che si svolsero
a New York, San Francisco e Washington. Anche se tutto cio' fu molto
importante per far crescere un consenso di base per porre fine alla guerra,
ancor piu' determinante fu il fatto che in quei tre anni morirono migliaia
di americani e centinaia di migliaia di vietnamiti.
Nell'attuale guerra all'Iraq, il movimento contro la guerra non ha a
disposizione tre anni. In questa guerra cio' che conta e' porre subito la
questione. Le lettere, le petizioni, le dimostrazioni e le marce a cui
abbiamo assistito finora - non importa quanto riuscite - sono state di nuovo
ignorate. E' necessario intensificare il lavoro. Immediatamente.
Innanzitutto, e' particolarmente importante informare la popolazione
americana. Per contrastare l'informazione acritica dei grandi media sulla
guerra, il movimento deve restare "sul messaggio": deve fare del popolo
iracheno l'equivalente odierno delle donne e dei bambini vietnamiti bruciati
col napalm; deve trasmettere il messaggio che la guerra e' illegale,
immorale, e che certamente causera' altri devastanti attacchi terroristici
sul suolo statunitense.
Ma una campagna di informazione non basta. Dobbiamo concepire un piano di
disobbedienza civile contro la guerra a livello nazionale - un equivalente
dei sit-in per i diritti civili degli anni Sessanta o del rifiuto di
prestare il servizio militare all'epoca del Vietnam. Se c'e' qualche
speranza di spostare l'opinione pubblica, chi si oppone alla guerra deve
essere disposto ad andare in carcere, deve essere disposto, secondo il
memorabile appello di Mario Savio, a gettare il proprio corpo su tutti gli
ingranaggi e le leve della macchina bellica. Quando, settimane fa, e'
cominciato il bombardamento su Baghdad finalmente negli Usa si sono
verificati atti di disobbedienza civile, specialmente a San Francisco,
Chicago e New York. A San Francisco, piu' di mille persone sono state
arrestate durante la prima settimana di guerra, e svariate centinaia sono
state arrestate a Chicago e New York.
Ad oggi, questa disobbedienza civile ha preso di mira il governo, i media e
quanti fanno affari con la guerra. Tali obiettivi non sono facilmente
recepiti dal pubblico piu' ampio che il movimento spera di rendere piu'
consapevole. Per farlo, deve continuare le marce, le dimostrazioni e la diso
bbedienza civile, ma in forme e pratiche che le rendano comprensibili e
condivisibili dall'opinione pubblica. E questo deve accadere in tutto il
paese. Nei campus, dove ci sono istituti di ricerca per la difesa nazionale;
ovunque ci siano imprese che hanno contratti con il Pentagono; in ogni
grande citta' dove ci siano edifici federali e uffici di reclutamento delle
forze armate; nella capitale dove ci sono la Casa Bianca, il Dipartimento di
Stato e il Pentagono: ovunque dobbiamo essere disposti a rischiare
l'arresto.
La chiave di qualunque successo sara' la disciplina. Perche' sappiamo dalla
storia, e le ultime settimane ce lo confermano, che questo movimento
incontrera' l'ostilita' dei funzionari pubblici, della stampa, e di molti
nostri concittadini. Verremo liquidati come pacifisti svitati e trattati
alla stregua di traditori. Ma e' possibile portare i media dalla nostra
parte, ad esempio non "concedendo" loro immagini stereotipate come quelle
dei black block. Se il movimento seguira' l'esempio di quello per i diritti
civili, se continuera' a praticare la nonviolenza senza tentennamenti,
allora riuscira' - riusciremo - a farci sentire.
Chi e' nauseato da questa guerra ora sa come deve essersi sentito Norman
Morrison nel 1965 quando, di fronte al preponderante consenso alla guerra in
Vietnam di Lyndon Johnson, si dette fuoco davanti all'ufficio del ministro
della difesa McNamara al Pentagono. Senza dubbio fu spinto dalla
frustrazione per la mancanza di un movimento organizzato. Non poteva
aspettare due o tre anni. Neanche noi.

6. POESIA E VERITA'. BARBARA DEMING: IL MIO AMORE E' ACQUA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
averci messo a disposizione questa sua traduzione di una lirica di Barbara
Deming. Su Barbara Deming riportiamo la seguente cronologia della stessa
curatrice: "1917: Barbara Deming nasce a New York. Anni '40: lavora per la
Library of Congress. Scrive recensioni cinematografiche e racconti. Anni
'50: scrive poesie. Comincia lo studio di Gandhi. 1960: visita Cuba e
incontra Fidel Castro. Si unisce al Cna (Comitato per l'Azione Nonviolenta)
e partecipa a dimostrazioni. 1961: partecipa alla marcia per la pace S.
Francisco-Mosca; tiene conferenze in Europa per conto della International
Peace Brigade; si unisce al digiuno per l'abolizione della Cia. 1962: primo
arresto a New York durante una manifestazione contro i test nucleari. Chiede
pubblicamente il disarmo unilaterale. Partecipa alla marcia della pace del
sud (Nashville-Washington) contro il razzismo. 1963: arrestata durante una
protesta antirazzista e durante una marcia per la pace e la liberta'. 1964:
arrestata durante la marcia per la pace e la liberta' Quebec-Guantanamo
viene detenuta ad Albany, Georgia. Scrive "Prison Notes" (Appunti dalla
prigione). 1965-1967: viaggia nel Vietnam del nord e del sud per protestare
contro la guerra. Di nuovo imprigionata per aver partecipato ad un'azione di
protesta davanti al Pentagono. Scrive "We Are All Part of One Another"
(Siamo tutti parte di ogni altro). 1968-1970: numerose azioni dirette
nonviolente con vari gruppi. 1971-1972: e'' sempre piu' coinvolta nel
movimento delle donne. Scrive "On Anger" (Sulla rabbia). 1973: si dichiara
pubblicamente lesbica. 1974: discussione con l'attivista Bradford Lyttle
sull'omosessualita' che diventera' il testo "The Purpose of Sexuality" (Lo
scopo della sessualita'). 1975-1977: tiene conferenze sulla connessione fra
femminismo e nonviolenza. Scrive "Remembering Who We Are" (Ricordando chi
siamo). Anni '80: vive in comunita' femminili. 1983: arrestata per l'ultima
volta durante il "Campo delle donne di Seneca Falls per un futuro di pace e
giustizia", una protesta femminista contro l'arrivo dei missili Cruise in
loco. Sostiene pubblicamente le donne di Greenham Common. 1984: muore di
cancro alle ovaie in Florida"]

Il mio amore e' acqua,
io nuoto fra le sue braccia,
sforzandomi di raggiungere quale nuova terra?
Visioni di essa mi afferrano la mente,
mentre spinta e sostenuta
io cambio, e cambio.
La vita com'era e' affondata.
La vita che nuoto geme: "Comincia".
Ed io nasco: il sorriso luminoso di lei
mi spinge fuori dalla mia pelle.
Dietro a lei, il mare.

7. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: LA PREGHIERA E L'INCONTRO
[Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti: acavadi@lycos.com) per averci
messo a disposizione questo articolo gia' apparso nell'edizione palermitana
del quotidiano "La repubblica" del 16 aprile 2003. Augusto Cavadi e' docente
di filosofia, storia ed educazione civica, impegnato nel movimento antimafia
e nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate
riviste che si occupano di problematiche educative e che partecipano
dell'impegno contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per meditare.
Itinerari alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con
occhi nuovi. Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus, Palermo
1989; Fare teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza
confini, Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella sua
lingua. Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991; Pregare con
il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove frontiere
dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi
dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e subito,
Dehoniane, Bologna 1993, seconda ed.; Il vangelo e la lupara. Materiali su
chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia.
Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere
profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane,
Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e
post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi
fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd-
rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina,
Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della
politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie
del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001. Vari suoi contributi sono
apparsi sulle migliori riviste antimafia di Palermo. Indirizzi utili:
segnaliamo il sito: http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con
bibliografia completa)]
La notizia  - lanciata da un articolo di Bolzoni sull'edizione nazionale del
nostro quotidiano ["La repubblica"] e rimbalzata su altri fogli - e' facile
da  sintetizzare. A Caltanissetta l'associazione culturale "Musicarte"
organizza una rassegna internazionale di canti ("Il canto dell'anima"),
invita artisti da varie zone del Mediterraneo, chiede ed ottiene dal parroco
del duomo l'ospitalita' per il concerto. Ma, dopo alcuni mesi, a ridosso
della manifestazione, un fax del vescovo al suo parroco blocca tutto: "La
Cattedrale non e' disponibile per un concerto in cui risuoneranno anche
canti islamici dal Maghreb". Come mai, in un momento di cosi' elevata
tensione interetnica ed interconfessionale in cui ogni minimo segnale di
pacificazione sarebbe benedetto da Dio e dagli uomini di buona volonta',
questo improvviso divieto per un'iniziativa chiaramente improntata allo
spirito della riconciliazione e della fratellenza? Don Gaetano Canalella,
segretario particolare di sua eccellenza monsignor Garsia, spiega il
pensiero del suo superiore: "Il nostro vescovo ha insistito molto sulla
reciprocita' che non c'e'". Tradotto in soldoni: visto che loro non ci
farebbero cantare nelle loro moschee, non si vede perche' noi dovremmo farli
cantare nello nostre chiese.
Forse a qualche lettore si sara' affacciata alla memoria l'obiezione
suggerita, secondo il vangelo, dalle parole stesse di Gesu' di Nazareth: "Se
fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? E se
salutate solo coloro che salutano voi, che fate di speciale? Non fanno cosi'
anche i pagani? Voi, invece, dovrete fare del bene a coloro che vi fanno del
male. Proprio come il Padre comune che e' nei cieli: che dona la pioggia ai
giusti e agli ingiusti". Ammesso che gli islamici - o, almeno, molti gruppi
islamici - siano poco tolleranti nei confronti dei cristiani, questi ultimi
devono rispondere secondo la legge del taglione ("Occhio per occhio, dente
per dente") o secondo la novita' evangelica ("Se uno ti chiede il mantello,
tu dagli anche la tunica")?
Forse anche nella curia nissena qualche perplessita' sara' germogliata,
qualche ripensamento si sara' delineato. Infatti il direttore regionale
della commissione pastorale sui migranti, ha emanato un duro comunicato che
smentisce tutto, tranne il punto essenziale della questione: "il fatto che
il vescovo ha detto no nella sua cattedrale a questa manifestazione". (Che
non l'abbia detto con un fax, ma con una telefonata o con un sms o con una
e-mail o con un piccione viaggiatore non ci pare che muti il dato cruciale:
il "diniego" di ospitare un concerto nel quale anche dei "musulmani" erano
stati invitati a "cantare e suonare dietro l'altare").  Ma il solerte
presbitero, non potendo smentire i fatti, si preoccupa di offrirne
l'interpretazione autentica: "Va evitato quanto puo' portare il popolo
credente ad una mentalita' falsamente irenica ed ecumenica, strettamente
imparentata con l'indifferentismo religioso". In parole povere: non possiamo
confondere nella testa dei fedeli, di solito neppure tanto ferrati in
teologia, islamismo e cristianesimo.
In altri tempi l'avvertenza sarebbe stata sufficiente. Ma viviamo in tempi
strani. Molto strani. Viviamo in una fase storica in cui un papa,
essenzialmente conservatore e preoccupato dell'ortodossia, o perche'
ispirato dallo Spirito Santo (come credono alcuni) o perche' allenato alla
solida riflessione analitica (come propendono a ritenere quelli che ne
ricordano i trascorsi di docente di filosofia morale) sta concludendo la sua
missione apostolica nel nome di una grande causa: abbattere le barriere fra
i tre monoteismi mediterranei (ebraismo, cristianesimo e islamismo) e,
possibilmente, fra le altre confessioni religiose dell'umanita' per fare
fronte comune davanti all'avanzata dell'ateismo e del menefreghismo nelle
questioni spirituali. Da qui l'iniziativa di convocare, per piu' di una
volta, ad Assisi  esponenti di tutte le religioni del pianeta per pregare
insieme implorando dall'Altissimo la pace, la giustizia e la salvaguardia
del creato.
Decisioni profetiche come queste non hanno mancato di suscitare
preoccupazioni in campi del tutto opposti. Qualche laico, anzi laicista, ha
espresso il timore che - se veramente trovano un'intesa -  le "chiese"
ringalluzziscano al punto da accentuare trionfalismi e fondamentalismi,
dilagando anche in ambito civile e socio-politico. Di segno opposto la
preoccupazione degli ambienti integralisti, anche cattolici. Di recente, ad
esempio, sul quotidiano dei vescovi italiani "Avvenire" e' stato per ben due
volte pubblicizzato un libro (che, come si legge nell'annunzio, "si avvale
dell'introduzione di mons. Antonio Livi, teologo dell'Opus Dei e docente
ordinario alla Universita' Lateranense") in cui l'autore attacca con
violenza incredibile tutti gli sforzi del Concilio Vaticano II, di papa
Giovanni Paolo II e persino dello stesso cardinale Ratzinger di incoraggiare
gli "incontri fra le tre religioni monoteiste" (per saperne di piu' cfr.
l'agenzia di stampa cattolica "Adista", n. 23, del 22 marzo 2003).
Come si intuisce, il caso di Caltanissetta e' solo la spia di tensioni molto
piu' radicate e molto piu' diffuse che agitano il vasto mondo cattolico.
Forse, piu' che di un mondo, si tratta ormai - per fortuna - di un
arcipelago. Dove c'e' posto per chi ritiene, come l'estensore del comunicato
stampa in difesa del presule nisseno, che i musulmani sono benvenuti solo se
entrano "per partecipare a un rito cattolico, come potrebbe essere un
matrimonio o un funerale, che li interessa personalmente"; o "per visitare
la chiesa o per farvi una loro personale preghiera". E anche per chi, come
il parroco della cattedrale qualche mese fa, li aveva ritenuti benvenuti
anche nel caso che volessero esprimere a voce alta, con dei canti, una
preghiera non meramente individuale, comunitaria.
A testimonianza degli autentici sentimenti del suo anziano preposto, il
direttore della commissione pastorale sui migranti scrive: "Nessuna
obiezione da parte del vescovo e della diocesi se i musulmani si
costruiscono anche a Caltanissetta la loro moschea". La dichiarazione onora
la cultura siciliana nel momento in cui la differenzia dagli sproloqui (e
dai gesti inconsulti) di alcuni amministratori leghisti che non sono
arrivati neppure a questo livello di civilta'. Ma perche' non fare un passo
avanti e donare alla comunita' islamica una delle tante chiese ormai chiuse
ed inutilizzate per il culto? Sarebbe un gesto per restituire qualcosa delle
moschee siciliane di cui la cristianita' si e' appropriata dai Normanni in
poi. Ma anche, e soprattutto, un modo per costruire davvero quella
"convivialita' delle differenze" che l'intolleranza di varie matrici
ideologiche sta rendendo sempre piu' ardua nel Mediterraneo e, in
prospettiva, sulla faccia della nostra povera terra.

8. LIBRI. GIANFRANCO BETTIN PRESENTA "E' ORIENTE" DI PAOLO RUMIZ
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 aprile 2003. Gianfranco Bettin,
prosindaco di Venezia, e' sociologo, impegnato per l'ambiente, contro la
guerra, contro i poteri criminali, nella solidarieta' con i popoli oppressi
e le persone in condizioni di difficolta'. Paolo Rumiz, giornalista, inviato
ed editorialista del quotidiano "La Repubblica", a lungo inviato speciale
del quotidiano triestino "Il Piccolo", dal 1986 segue gli eventi dell'area
balcanico-danubiana; tra le opere di Paolo Rumiz: Maschere per un massacro;
La linea dei mirtilli; La secessione leggera; tutti presso gli Editori
Riuniti]
Scrive Paolo Rumiz che, in realta', l'Oriente comincia "subito dopo Mestre".
Solo che ormai non lo sappiamo piu', ci siamo disabituati a riconoscerlo.
"In Europa l'Oriente non c'e' piu', l'hanno bombardato a Sarajevo, espulso
dal nostro immaginario, poi l'hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo
astronomico: 'Est'. Ma l'Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi,
l'Est e' un reticolato che esclude", scrive in questo libro di viaggi, di
appunti presi in corsa e di meditazioni, libro avvincente e affascinante,
che raccoglie materiali in parte inediti e in parte gia' usciti come
reportage su "Diario", "Il Piccolo" di Trieste e "la Repubblica" tra il 1998
e il 2001: E' Oriente, Feltrinelli, p. 199, euro 13.
Sono anni cruciali, quelli dei viaggi di Rumiz: il duro, confuso dopoguerra
dei Balcani, il lento ridisegnarsi "oltre cortina" dell'ex "socialismo
reale" e il vorace affermarsi ovunque, nel "mondo ex", della logica
neoliberista - le nuove gerarchie e le nuove miserie, le liberta' sregolate
e le speranze svuotate. Rumiz cerca, partendo dal suo Nordest (e dall'ancora
piu' sua Trieste), tracce dell'Oriente che l'Europa ha rimosso, oltre che
bombardato. Quell'Oriente che oggi viene di nuovo bombardato a Baghdad, in
uno dei luoghi che nel nostro immaginario piu' lo identificano, perfino
miticamente, da ben piu' che da mille e una notte: da quando, in pratica,
l'umanita' ha cominciato a sognarsi e a pensarsi come civilta', comunita'
strutturata in regole, leggi, scritture, arti, architetture, citta'. E
mentre a Baghdad il saccheggio dei beni del presente e dei reperti piu'
preziosi della Mesopotamia avviene sotto gli occhi ottusi di chi ha appena
finito di bombardarla, l'invito di Rumiz a guardare intorno a noi, a
ripensare quella che anche dentro di noi e' stata ed e' la presenza
dell'Oriente e' tanto piu' opportuno. Perche' la sua scomparsa coincide con
una perdita di consapevolezza, un cedimento senza freni alle regole che
hanno sconvolto e svenduto quello che avevamo chiamato Est.
"Nordest. A mio padre che passava di qui in bicicletta, indicava ancora una
fantastica direzione", scrive Rumiz. "Ora e' il marchio doc di un luogo che
non porta da nessuna parte, si specchia in se medesimo. Lo stigma di uno
spaesamento senza ritorno, di una follia sedentaria, un incredibile
autosfruttamento... E' dalla caduta del comunismo che il Nordest ha smesso
di produrre miti e proporre un Altrove. Non offre piu' alla nazione il suo
ruolo di porta d'Oriente. Anzi. Forse non c'e' posto dove l'Oriente faccia
piu' paura. A Nordest temono l'albanese, non il nigeriano; l'iracheno, non
il senegalese. Vivono la sindrome di un mondo padano ricco che ridiventa
'barbaro', spazio brado, territorio comanche. Est, appunto. Sigla fredda
come il marchio indelebile delle periferie sovietiche. Stravolta anch'essa
da un totalitarismo, quello del mercato".
Libro di intense e spesso folgoranti impressioni, e di riflessioni
raffinate, cucite da una scrittura che e' oggi tra le migliori che si
possano trovare rilegate in volume o svolazzanti in un giornale, E' Oriente,
portandoci in giro per l'"Europa adriatico-danubiana", parla di noi, dello
spreco di civilta', di ambiente, di risorse primarie (l'acqua e l'aria, ma
anche la cultura) che caratterizza il nostro tempo, e i nostri luoghi, sotto
il segno del mercato.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 570 del 18 aprile 2003