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La nonviolenza e' in cammino. 564



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 564 del 12 aprile 2003

Sommario di questo numero:
1. Hannah Arendt: l'idea di umanita'
2. Nicoletta Landi: un appello della campagna "Pace da tutti i balconi"
3. Come opporsi alla guerra, in sette punti e una postilla (settembre 2001)
4. Kahn-Tineta Horn: mocassini di pace
5. Ileana Montini: il concreto, l'astratto, l'alienato
6. Ida Dominijanni intervista Mario Tronti
7. Emmanuel Levinas: l'obbligo
8. Enrico Peyretti: proposta di un seminario
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. MAESTRE. HANNAH ARENDT: L'IDEA DI UMANITA'
[Da Hannah Arendt, Ebraismo e modernita', Unicopli, Milano 1986,
Feltrinelli, Milano 1993, p. 75. E' un passo del saggio "Colpa organizzata e
responsabilita' universale" pubblicato nel gennaio 1945. Hannah Arendt e'
nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl,
Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio, dapprima
e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le massime pensatrici
politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle
questioni di attualita' da un punto di vista rigorosamente libertario e in
difesa dei diritti umani; mori' a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt:
tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso
ristampati, per cui qui di seguito non diamo l'anno di pubblicazione
dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione originale) ci sono Le
origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita', Milano; Vita
Activa (1958), Bompiani, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti,
Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli,
Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e'
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di
brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano,
1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969.
Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra
amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975,
Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio
Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001. Opere su Hannah Arendt:
fondamentale e' la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt,
Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella,
Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della
politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores
d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente
e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di),
Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro
sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann,
Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due
piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato
iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei
Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]
L'idea di umanita', una volta liberata da tutti i sentimentalismi, implica
questa gravissima conseguenza: che gli uomini, in una forma o nell'altra,
devono assumere la responsabilita' di tutti i crimini commessi dagli uomini
e che tutte le nazioni devono sopportare il peso del male commesso da tutte
le altre.

2. APPELLI. NICOLETTA LANDI: UN APPELLO DELLA CAMPAGNA "PACE DA TUTTI I
BALCONI"
[Ringraziamo di cuore Nicoletta Landi (per contatti: nlandi26@libero.it) per
averci inviato questo appello della campagna "Pace da tutti i balconi",
campagna di cui e' una delle ideatrici e promotrici. Le adesioni all'appello
possono essere inviate all'indirizzo di posta elettronica:
glt-nonviolenza@retelilliput.org. Puo' non convincerci l'approccio
entusiasta ed effettualmente dereistico di parte di questo appello (a nostro
avviso - i lettori lo sanno - il movimento per la pace ha subito una nuova
durissima sconfitta, e l'ha subita perche' ancora una volta ha avuto una
condotta ancora prevalentemente ambigua ed astratta, collusa e subalterna, e
talora ad un tempo delirantemente trionfalistica e turpemente cialtrona,
alla merce' di logiche e figuri autoritari, carrieristi e irresponsabili,
che si preoccupano molto di piu' di comparire in tivu' che di salvare vite
umane; e non ha saputo e voluto fare in modo netto e limpido, persuaso e
intransigente, ragionato e di cuore, la scelta che e' indispensabile fare
per opporsi alla guerra: la scelta della nonviolenza, della forza della
nonviolenza); ma ci persuade la richiesta di chiarezza che esso comunque
pone, e la nettezza di posizioni cui aspira. Nicoletta Landi e' sincera una
amica della nonviolenza, e la campagna "Pace da tutti i balconi" e' stata ed
e' anche - almeno noi l'abbiamo interpretata cosi', e ci sembra che anche
questo appello lo tematizzi con chiarezza - piu' che un fenomeno di costume
o un modo assai economico per sciacquarsi la coscienza (che sarebbe allora
infame narcosi a mascheramento di una effettuale complicita' con l'ordine
onnicida), un invito a cogliere l'esigenza, l'urgenza della scelta della
nonviolenza come impegno diretto e personale per fermare l'orrore e la
catastrofe]
Sette mesi fa nasceva "Pace da tutti i Balconi!", una campagna che e'
riuscita in  un'impresa che solo un gruppo di sognatori poteva credere
realizzabile: cambiare il  volto delle nostre citta' e dei nostri paesi,
cambiare il corso della storia.
In questo  momento, stimiamo ci siano tre milioni di bandiere della pace
sventolanti  sulle case, ma anche sulle chiese, sulle scuole, sui municipi,
che e' come dire che  almeno dieci milioni di persone si sono riconosciute
in questo simbolo.
Questa fortissima adesione ha certamente contribuito a rafforzare la
campagna tesa a  fermare la guerra in Iraq che ha avuto il suo apice nella
manifestazione di Roma del 15  febbraio scorso, quando sotto una marea di
vessilli arcobaleno hanno sfilato  circa tre  milioni di cittadini, nella
piu' imponente manifestazione pacifista di tutto il mondo, ed ha
contribuito a far si' che la mobilitazione per la pace continuasse anche a
guerra incorso, con centinaia di migliaia di persone che partecipano
quotidianamente  a  manifestazioni, veglie, fiaccolate, sit-in per la pace,
nei circa cinquanta-sessanta  eventi (considerando solo quelli piu'
rilevanti) che ogni giorno continuano a  costellare  l'Italia.
Quello che questi numeri dicono e' il risultato di una campagna che il mondo
intero guarda stupefatto. Le lettere che ci giungono da chi ha avuto
occasione di  visitare il  nostro paese ultimamente ne sono testimonianza.
Quello che le cifre non  possono  descrivere e' il popolo dell'arcobaleno,
nato e cresciuto in questi mesi. Un popolo che  non e' una massa indistinta,
ma una folla di volti, ciascuno unico ed irripetibile. Volti, persone che
hanno preso posizione sul tema della guerra, con un gesto semplice ma  non
per questo meno impegnativo o importante.
Questa mobilitazione non e' riuscita ad impedire la guerra, ma siamo
coscienti che mai  come in questo caso l'opinione pubblica abbia influito in
maniera determinante sugli eventi: il nostro governo, nonostante abbia
sostenuto politicamente la guerra e fornito  basi e supporto logistico, e'
stato impossibilitato a intervenire nel conflitto con una partecipazione
diretta di soldati e mezzi militari italiani.
Anche a livello europeo si e' innescata una reazione a catena che ha isolato
e messo in minoranza gli Stati che hanno appoggiato la guerra. La guerra
stessa,  nelle riflessioni degli interventisti e' stata vista come guerra
ingiusta ma dolorosamente necessaria! Cio' ha portato ad includere nei piani
di chi ha preparato l'attacco il dovere di limitare al massimo le perdite
fra i civili, per non perdere del tutto la faccia. Puo' sembrare poco, ma
tutto questo non era affatto scontato, ed e' stato possibile grazie ad ogni
singola famiglia, scuola, parrocchia, associazione, movimento, istituzione,
che ha esposto e mantenuto esposto il vessillo della pace per tutti questi
mesi.
Grazie a questo impegno, e' cresciuta la consapevolezza rispetto alla guerra
ed al problema della giustizia nei Paesi del sud del mondo. Sono state
smascherate le ipocrisie di chi voleva giustificare la guerra con la lotta
al terrorismo o con l'impegno per la liberta' e la democrazia. Molta gente
ha capito che questa guerra, come tutte le guerre, nasce per soddisfare gli
interessi di pochi, mentre crea morte e  sofferenze  indicibili per i popoli
che la subiscono. Il no a questa guerra e' diventato il no a tutte le
guerre, anche quelle piu' lontane e dimenticate. Il si' alla pace ha aperto
le porte all'impegno quotidiano per nuovi stili di vita piu' attenti alla
giustizia e all'impatto dei nostri comportamenti sull'ambiente e sulle
condizioni di vita in tutto il  pianeta.
Il frutto piu' bello della campagna "Pace da tutti i balconi" e' pero' aver
fatto capire una cosa fondamentale: che la pace si costruisce con il
contributo di tutti e di ciascuno, per quanto piccolo possa sembrare.
Insieme si puo' arrivare a risultati grandi, a piccoli passi e con
sacrificio si possono modificare situazioni che sembravano fuori portata.
Ora e' importante che questa inestimabile ricchezza umana non si disperda.
Il valore politico di questo movimento non puo' e non deve essere ingabbiato
all'interno di partiti e schieramenti elettorali. Il popolo dell'arcobaleno
e' e deve  restare trasversale, capace di spronare tutti i partiti a
compiere gesti di pace, incoraggiando tutti e ciascuno a testimoniare i
valori della pace all'interno dei programmi elettorali che vorranno proporre
al vaglio degli elettori. Ci auguriamo infatti che i partiti politici
facciano tutti la loro parte, dando sempre maggiore spazio alla fame e sete
di giustizia e pace che i cittadini, in maniera cosi' eterogenea, hanno
voluto testimoniare.
Sappiamo che forte potrebbe essere la tentazione da parte delle forze
politiche di appropriarsi della bandiera della pace per scopi elettorali.
Non e' cosi' che potranno rispondere ai cittadini. In Italia tutti hanno
percepito che la pace, lungi dall'essere una parola d'ordine di alcuni
partiti politici, era ed e' un valore che puo' essere condiviso da tutti,
credenti e non, di destra, centro o sinistra, di qualsiasi cultura e ceto
sociale.
Le risposte che ci attendiamo dai partiti politici sono altre: vogliamo
sapere cosa ne pensano della liberalizzazione del commercio internazionale
delle armi, approvata proprio durante la guerra e passata sotto silenzio;
vogliamo sapere qual e' la loro posizione sui progetti di difesa comune
europea, che prevedono la  creazione di altri eserciti ed un ulteriore
aumento delle spese militari; vogliamo sapere se si impegneranno affinche',
nella futura Costituzione  Europea, sia sancito il diritto alla pace, il
ripudio della guerra, la  neutralita' attiva dell'Unione; vogliamo sapere
come intendano implementare concretamente il dettato costituzionale che
all'art. 11 "ripudia la guerra  come strumento per la risoluzione dei
conflitti internazionali".
Ma non solo. Vogliamo anche capire perche' ci siamo fermati (dopo le
promesse) nel programma di riduzione del debito dei paesi del sud del mondo;
vogliamo capire quali sono (se ci sono) le proposte per garantire a tutti i
popoli l'accesso al  cibo, all'acqua, alle cure mediche e sanitarie;
vogliamo sapere come i partiti intendono accogliere chi arriva in Italia
fuggendo dalle guerre e dalla fame; vogliamo sapere cosa intendono fare di
fronte ad un modello economico socialmente ed ecologicamente insostenibile;
vogliamo capire che ruolo hanno in mente per il nostro paese rispetto alle
guerre piu' o meno dimenticate che continuano ad insanguinare il pianeta.
Tutto questo lo vogliamo vedere scritto nero su bianco nei programmi dei
partiti politici e soprattutto, fin da adesso, lo vogliamo vedere nel loro
agire quotidiano in Parlamento e in tutte le sedi Istituzionali.
Crediamo che gli Italiani abbiano diritto a queste risposte, per poter
decidere di conseguenza. Siamo certi che questa volta non si accontenteranno
di barattare queste risposte con qualche bandiera arcobaleno su manifesti e
volantini elettorali.

3. HERI DICEBAMUS. COME OPPORSI ALLA GUERRA, IN SETTE PUNTI E UNA POSTILLA
(SETTEBRE 2001)
[Questo testo e' del 18 settembre 2001, ed apparve a suo tempo su questo
notiziario. Giorni addietro una persona amica ce lo ha segnalato, e
nuovamente qui lo pubblichiamo]
1. Illimpidendo noi stessi.
Interrogandoci sulle nostre ambiguita', sulle nostre complicita', sui nostri
privilegi, sulle nostre menzogne, e depurandocene. Da Mohandas Gandhi a
Danilo Dolci tutte le grandi lotte nonviolente sono cominciate con il
raccoglimento interiore, l'esame e la purificazione di se'.
2. Col ripudio assoluto della violenza.
Che implica separarci nettamente, preliminarmente ed intransigentemente dai
violenti e dagli ambigui. Far comunella con loro, o illudersi di poter
percorrere insieme con loro un pezzo di strada, significa imboccare la
strada sbagliata, e diventare loro complici.
3. Preparandoci all'azione diretta nonviolenta.
Per contrastare la guerra praticamente, operativamente, e non solo
simbolicamente, non solo a chiacchiere. L'azione diretta nonviolenta contro
la guerra o e' concreta o non e'.
Questo richiede una preparazione rigorosa, training di formazione,
un'autentica persuasione alla nonviolenza, la profonda introiezione dei suoi
valori, lo studio sistematico delle sue tecniche.
Ed occorre essere intransigenti nello stabilire che ad una azione diretta
nonviolenta contro la guerra possono partecipare solo le persone che hanno
fatto la scelta della nonviolenza, e che ad essa intendono attenersi fino in
fondo; gli altri, i non persuasi, non possono partecipare poiche' sarebbero
di pericolo per se' e per gli altri, e farebbero fallire irrimediabilmente
l'azione nonviolenta anche solo con una parola sbagliata.
4. Preparando la disobbedienza civile di massa.
La quale disobbedienza civile e' una cosa seria che richiede serieta' di
comportamenti e piena responsabilita', consapevolezza e preparazione.
Essa e' quindi il contrario delle iniziative equivoche ed irresponsabili che
personaggi stolti e fin inquietanti hanno recentemente preteso di spacciare
sotto questa denominazione.
5. Preparando lo sciopero generale contro la guerra.
E giovera' ripeterlo pari pari: preparando lo sciopero generale contro la
guerra.
6. Ripudiando tutte le culture sacrificali.
Occorre affermare la dignita', l'unicita' e il valore assoluto di ogni vita,
la propria  e l'altrui.
Chi pensa che si possa sacrificare anche una sola vita umana, ha gia'
sancito in linea di principio la liceita' di ucciderci tutti, ed e' quindi
complice della logica degli assassini.
7. Affermando la nonviolenza in tutte le sue dimensioni, anche come
nonmenzogna e come noncollaborazione al male.
Mentire e' gia' disprezzare e denegare gli altri esseri umani in cio' che
degli esseri umani e' piu' proprio: la facolta' di capire, la ragione. La
nonviolenza e' sempre anche nonmenzogna.
Chiave di volta della nonviolenza e' la consapevolezza che occorre togliere
il consenso ai facitori di male. Occorre esplicitamente noncollaborare con
essi. La nonviolenza e' sempre negazione del consenso all'ingiustizia e alla
violenza.
*
Postilla. Lo scatenamento di una guerra globale come quella che gli
abominevoli attentati terroristici dell'11 settembre hanno innescato puo'
provocare la fine della civilta' umana. E' bene non dimenticarlo mai.
Opposizione alla guerra e salvezza dell'umanita' vengono quindi a
coincidere. Ma solo la nonviolenza puo' opporsi coerentemente e
concretamente alla guerra. E dunque solo la nonviolenza puo' salvare
l'umanita'.
Un movimento per la pace che non scelga la nonviolenza non e' un movimento
per la pace.

4. RIFLESSIONE. KAHN-TINETA HORN: MOCASSINI DI PACE
[Da Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) riceviamo e
diffondiamo la traduzione di questo testo di Kahn-Tineta Horn, madre e nonna
Mohawk]
Prima che gli uomini vadano in guerra, le donne devono confezionare i loro
mocassini.
La tradizione dei nostri antenati prevedeva che le donne confezionassero i
mocassini che gli uomini avrebbero calzato in guerra. Se le donne non
volevano la guerra, non facevano i mocassini.
I nostri antenati appartenevano alla Confederazione Haudenosaunee. Gli
europei li chiamavano irochesi. Noi sconfiggemmo una terribile eredita' di
guerra e violenza quando Deganawida, il costruttore di pace, ci diede la
grande legge della pace.
Il Senato degli Usa ha riconosciuto che la nostra legge e' servita da
modello per la Costituzione degli Stati Uniti d'America. Tale Costituzione,
poi, fu il modello per la Carta delle Nazioni Unite. Gli americani hanno
copiato le nostre leggi ed usanze, ma non le hanno capite.
I nostri antenati riconoscevano la sovranita' di tutte le donne e di tutti
gli uomini risolvendo i conflitti della comunita' con la discussione,
riunendo il consiglio del popolo. Stando alle nostre tradizioni, tre criteri
vanno tenuti presenti in tutte le decisioni:
1) pace: intendendo che essa deve essere mantenuta con tutti i mezzi;
2) giustizia: intendendo che la decisione deve essere eticamente corretta,
considerando i bisogni delle prossime sette generazioni;
3) potere: intendendo che il potere del popolo dev'essere mantenuto
includendo un'eguale sovranita' di tutti gli uomini e di tutte le donne.
I conflitti fra le nazioni venivano risolti allo stesso modo, mediante la
diplomazia ed il consenso. La guerra, o l'uso della violenza, era l'ultima
decisione possibile. E persino quando veniva presa, donne e bambini/e degli
avversari non venivano coinvolte.
Inoltre, i nostri antenati hanno sempre rispettato i differenti costumi di
altre nazioni, le loro leggi ed i loro modi di vivere, che li approvassero o
no. I nostri antenati lavoravano per arrivare ad un accordo su come vivere
fianco a fianco.
Percio' noi donne Mohawk siamo state fino ad ora in disparte, e non ci siamo
lasciate coinvolgere dal conflitto in corso. Ma vediamo ora che esso si e'
spinto troppo oltre. Vite innocenti e la madre Terra sono in grande
pericolo. Come donne e come curatrici di questo pianeta, abbiamo deciso di
parlare.
Secondo le leggi dei nostri antenati, il suolo del Nord America e' il sacro
paramento delle donne. Decisioni che comportassero una guerra dovevano
coinvolgere l'altra meta' del popolo, le donne, le portatrici della vita,
coloro che nutrono la Terra.
Stiamo fronteggiando una guerra non necessaria. Abbiamo il dovere di usare
il nostro potere per il bene. Abbiamo deciso di ricordare a tutta l'umanita'
questa importante verita': la guerra non puo' accadere senza il sostegno
delle donne. Chiediamo alle donne del mondo di farsi avanti e di assumere il
loro giusto ruolo di progenitrici, di creatrici di tutti gli uomini, di
tutta l'umanita', di curatrici della Terra e di tutto cio' che su di essa
vive.
Come donne, conosciamo la fatica e la sofferenza del mettere al mondo una
creatura. Quando i nostri bambini muoiono, la nostra perdita e' profonda.
Questa consapevolezza ci spinge ad agire per arrestare la distruzione della
vita. I bambini e le bambine non devono soffrire. Ne' i nostri e le nostre.
Ne' i bambini e le bambine di coloro con cui siamo in disaccordo.
Noi rispettiamo la sovranita' ed il sacro diritto di ciascun individuo di
vivere su questo pianeta. Chiediamo a voi, le donne del mondo, ed agli
uomini che sostengono le nostre ragioni, di farvi avanti e di fermare questa
follia.
La decisione di intraprendere una guerra comporta la morte di migliaia di
innocenti; uomini, donne e bambini. E' una decisione che e' stata presa
sostanzialmente dagli uomini, senza l'intervento del popolo della nazione,
senza l'intervento delle donne. La maggior parte degli uomini che hanno
preso la decisione hanno nonne, madri, mogli, fidanzate, amanti, sorelle,
zie, figlie, nipoti, eccetera.
Chiediamo a tutte queste donne di fare pressione sugli uomini, uomini come i
governanti e i belligeranti, e chiunque sia coinvolto nella corrente
minaccia di distruzione per il mondo.
Donne, portate gli uomini a contatto con i loro sensi.
Donne, ricordate il vostro potere. Ricordate la vostra responsabilita'.
Ogni persona ha un potere personale. Dobbiamo tutti insieme usarlo per il
bene.
Dobbiamo fermare la guerra. Dobbiamo mantenere la pace.
Dobbiamo chiedere indietro i mocassini.

5. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: IL CONCRETO, L'ASTRATTO, L'ALIENATO
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini@tin.it) per questo
intervento di cui riportiamo ampi stralci. Ileana Montini, prestigiosa
intellettuale femminista, gia' insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta.
Nata nel 1940 a Pola da genitori romagnoli, studi a Ravenna e
all'Universita' di Urbino, presso la prima scuola di giornalismo in Italia e
poi sociologia; giornalista per "L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La
Valle; di forte impegno politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e
fatto parte di, varie redazioni di periodici: della rivista di ricerca e
studio del Movimento Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace,
a Rosa Russo Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo
"Jacques Maritain" di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della
rivista "Jesus Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle
piccole sorelle" insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il
manifesto"; ha collaborato anche, tra l'altro, con la rivista
"Testimonianze" diretta da padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come
"Reti", "Lapis", e alla rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora
al "Paese delle donne". Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita'
di Base; e preso parte ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non
solo genericamente politico ma gramscianamente intellettuale e morale della
sinistra critica in Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta.
Famiglia, chiesa, scuola nella formazione delle identita' maschile e
femminile (Bertani, Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia
Maraini (Bertani, Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e
liberazione nella cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite
lombardo, e' uscito un libro che racconta un'esperienza per la prevenzione
dei drop-out di cui ha redatto il progetto e  curato la supervisione delle
operatrici: titolo: "... ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di
ogni cosa". Recentemente ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta
Crocella, Attraverso il silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che
racconta l'esperienza del Laboratorio psicopedagogico delle differenze di
Brescia, luogo di formazione psicopedagogica delle insegnanti e delle donne
che operano nelle relazioni d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un
progetto di Ileana Montini e con alcune donne alla fine degli anni ottanta,
preceduto dalla fondazione, insieme ad altre donne, della "Universita' delle
donne Simone de Beauvoir". Su Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica,
la sua riflessione, hanno scritto pagine intense e illuminanti, anche di
calda amicizia, Lidia Menapace e Rossana Rossanda]
A un salotto televisivo mercoledi' sera una scrittrice irachena di cui non
so riprodurre il nome, con molta calma e un po' di distacco, ha descritto le
conseguenze della "guerra lampo" degli angloamericani, facendo notare agli
spettatori che l'inquinamento del suolo, dell'acqua e dell'aria sara' un
notevole lascito. Ha chiesto di eliminare, prima di tutto, queste
conseguenze; ma tutti i signori presenti, con una sola eccezione, non hanno,
per cosi' dire, raccolto l'invito, continuando a insistere sull'esito veloce
del conflitto e, quindi, sull'aumentato favore ad esso dichiarato.
Forse le immagini di iracheni entusiasti e osannanti gli americani, che con
dovizia l'ineffabile conduttore televisivo ci elargiva, dovevano essere
un'implicita "giustificazione" del  regalo di inquinanti che tali resteranno
sul suolo di quel paese per gli anni prossimi venturi. Liberare dalla
dittatura e "portare la  democrazia" dopo aver in parte distrutto le
condizioni materiali per un'esistenza sana, sa di illogicita' pura e
semplice. Ma l'ecologia non e' ancora parte della sensibilita' umana su
questo pianeta, da destra a sinistra.
Mi piacerebbe che le manifestazioni future su questo argomento si
attrezzassero e ne facessero oggetto di riflessione. Sarebbe un modo per
evitare genericita' qualche volta ideologiche e astratte, o perlomeno
semplicistiche.
*
Per esempio, e' vero che una parte consistente del popolo dei manifestanti
e' stato affetto da semplicistico antimericanismo... nel senso di confondere
l'amministrazione Bush con i cittadini di un paese che, sia pure in modo
contraddittorio, e' pero' variegato, complesso e anche democratico.
Ma  allora perche' e' cosi' diffuso un epidermico sentimento antiamericano
che offre continuamente il fianco ad altrettante difese di ufficio da parte
delle varie destre?
Provo a fare un'ipotesi. Da una parte e dall'altra degli schieramenti c'e'
il collettivo, intenso e inconscio bisogno di avere un nemico su cui
proiettare le proprie parti inaccettabili, allo scopo un po' paranoico di
sentirsi gli unici puri e normali.
Non sarebbe bene diventare capaci di riflettere anche in questi termini?

6. DOCUMENTAZIONE. IDA DOMINIJANNI INTERVISTA MARIO TRONTI
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 aprile 2003. Ida Dominijanni e' una
prestigiosa giornalista e saggista femminista. Mario Tronti e' stato tra i
pensatori piu' influenti nella riflessione politica della sinistra italiana
negli anni sessanta e settanta, autore di Operai e capitale, figura di
rilievo dell'operaismo, propositore del concetto dell'"autonomia del
politico"]
Parlo con Mario Tronti mentre in televisione scorrono le immagini dei carri
americani che entrano a Bagdad e degli idoli del regime di Saddam che
vengono distrutti. Ancora poche ore prima, quando ci siamo dati
appuntamento, nessuno prevedeva che finisse cosi' in fretta. E' un film gia'
visto sul calare del Novecento: regimi che crollano come birilli sotto le
insegne vincitrici di una democrazia occidentale che nel frattempo si
sfigura a sua volta.
- Ida Dominijanni: Commentiamo in diretta: com'e' finita, in Iraq?
- Mario Tronti: E' finita secondo i moduli della storia piu' antica, quella
che ci ha insegnato Tucidide ai tempi del Peloponneso: con la vittoria del
piu' forte. Quando la sproporzione delle forze e' gigantesca, non c'e'
niente da fare: non e' piu' vero che puo' vincere il piu' debole se e' anche
il piu' abile - e stavolta oltretutto il piu' debole non era il piu' abile.
Non c'e' piu' Davide, c'e' solo Golia.
- I. D.: La vittoria militare americana e' schiacciante, ne' c'e' mai stato
dubbio che lo sarebbe stata. E' anche una vittoria politica schiacciante?
- M. T.: Se stiamo all'immagine si'. Torna l'immaginario politico ricorrente
dall'Ottantanove in poi: muri che crollano, statue che cascano, regimi che
si squagliano, capiregime che scompaiono, e la democrazia che trionfa. Se
scaviamo sotto i fotogrammi di questo film le cose pero' si fanno piu'
complicate. La classe dirigente che ha preso il potere negli Stati Uniti ha
indubitabilmente un Dna molto aggressivo, ma questa aggressivita' segnala a
mio avviso una posizione di relativa debolezza. Il dispiegamento di forza
militare e tecnologica, ad esempio, stavolta e' stato evidentemente troppo
sproporzionato rispetto all'obiettivo tutto sommato facile da abbattere.
Perche' questa continua sovraesposizione di forza davanti al mondo? Una
potenza realmente sicura di se' non ne avrebbe bisogno. La verita' e' che
mentre alimentano l'immagine di una potenza in continua ascesa economica,
politica e geostrategica, i neoconservatives percepiscono il declino
dell'egemonia statunitense, della civilization americana che ha portato ai
suoi esiti estremi la grande avventura della modernita' occidentale. E ne
deducono che la prima cosa da fare e' arrestare questo declino in qualche
modo, per poi ripartire. Hanno un incubo, l'avvento del secolo asiatico dopo
il secolo americano, una sorta di fatalita' che accusano l'Europa di
accettare con rassegnazione.
- I. D.: Del resto, il grido di Huntington sullo scontro di civilta' partiva
proprio da questa diagnosi.
- M. T.: Si', da pensatore realista qual e', Huntington aveva individuato il
punto, anche se ne traeva conclusioni sbagliate. Nella scelta strategica
della "guerra preventiva infinita", e gia' prima nei documenti degli anni
Novanta che la preparavano, tutto questo substrato di paure e' venuto a
galla: piu' che un eskaton ci vedo un katechon, piu' che l'idea di una
salvezza da raggiungere il tentativo di trattenere una catastrofe imminente,
mettendo dei valli ai confini del continente asiatico, dall'Afghanistan
all'Iraq alla Turchia - il che spiega perche' quegli "stati canaglia" e non
altri, perche' fanno problema le armi chimiche di Saddam e non l'atomica
della Corea del Nord. Questa strategia indica una debolezza americana. Una
potenza davvero egemone, di fronte a una crisi dell'Occidente che faceva
intravedere la contaminazione con altre civilta', avrebbe scelto la via del
confronto, dell'inclusione, dell'integrazione, non del contenimento.
- I. D.: In questa guerra c'e' stata una inedita commistione fra lessico
politico e lessico religioso. Ha a che fare con quello che stai dicendo?
- M. T.: Si', perche' l'esportazione della democrazia in Iraq ha assunto
l'aspetto di una sorta di evangelizzazione, tipica di una chiesa che deve
trattenere il demonio per salvare quelli che ne sono sedotti. Nella guerra
in Kosovo, che pure era sbagliata, queste toni messianici non c'erano e il
linguaggio era ancora quello dell'universalismo laico: c'era un'operazione
di polizia giustificata in nome dell'etica dei diritti. L'uso politico del
sacro che abbiamo visto stavolta a me pare, dopo la morte dei civili,
l'aspetto piu' indecente di tutta la faccenda. L'indice di una regressione
dal processo di secolarizzazione a "grandi narrazioni" molto piu' rozze di
quelle di tipo emancipatorio dichiarate morte dopo l'89.
- I. D.: Con due fondamentalismi, quello cristiano e quello islamico, che
ormai calcano la scena della politica.
- M. T.: Entrambi negando in radice le grandi origini delle due religioni.
Ma mentre il fondamentalismo islamico e' un fondamentalismo dal basso, che
corrisponde a una condizione endemica di subalternita', miseria e
esclusione, il fondamentalismo cristiano americano e' il portato di un'elite
politica precisa, che l'ha scientemente adottato. Alla fine, nella guerra in
Iraq e' precipitato lo scontro non fra due civilta' ma fra due barbarie:
stavolta la condanna della guerra coincide con la condanna dei suoi
protagonisti.
- I. D.: Pero' la retorica, politico-religiosa, resta quella dello scontro
di civilta'. Con l'ingresso del primo carrarmato a Baghdad si levano, in
Italia non meno che negli Stati Uniti, gli inni alla vittoria dell'Occidente
e del suo prodotto piu' esportato, la democrazia. Mentre a me pare che
l'immagine dell'Occidente esca assai compromessa dalla dottrina della guerra
preventiva e dalla sua prima applicazione in Iraq.
- M. T.: Non solo l'immagine dell'Occidente inteso come Kultur, ma anche il
futuro geopolitico dell'area che sta sulle due sponde dell'Atlantico. Il
problema adesso e' proprio questo: che fare dell'Occidente? Si apre un
capitolo politico nuovo, difficile da praticare. C'e' da decifrare la
frattura fra Stati Uniti e Europa provocata dalla guerra, che non si
ricomporra' facilmente: Schroeder, Chirac, Putin non possono subire
passivamente la vittoria americana - anzi, della parte peggiore
dell'amministrazione americana - e lo scacco che ne ricevono. Ora, a
differenza della sventura che ci vedono tutti, non solo a destra ma anche a
sinistra, io in questa frattura vedo un'occasione politica carica di
potenzialita'. Se la sinistra europea avesse una classe dirigente, cioe'
esattamente quello che le manca, ci saprebbe riconoscere un terreno di
grande politica, di politica-mondo. Perche' a questo punto l'Europa, con le
sue due porte aperte sull'est e sull'ovest, deve proporsi come ponte fra
Oriente e Occidente, e contribuire cosi' a delineare per l'Occidente un
destino non imperiale. E' questo l'unico modo per riaprire e rilanciare i
rapporti con gli Stati Uniti, indicando la strada di un'altra risposta, non
aggressiva ma di crescita e di trasformazione, al declino americano. Voglio
dire che e' vero che non c'e' Occidente senza gli Stati Uniti, ma e' anche
vero che gli Stati Uniti, se lasciati a se stessi, prendono la strada di un
isolamento aggressivo e distruttivo. Mentre se si reinseriscono in un
Occidente piu' vasto, a sua volta aperto a Oriente, possono ritrovare la
vitalita' di cui pure sono capaci.
- I. D.: D'accordo, ma quale Europa dovrebbe farsi promotrice di questo
progetto? L'Europa non e' la risposta al problema, e' una parte del
problema. Anche Blair vuol fare da ponte fra Europa e America, a modo suo.
- M. T.: Non l'Europa di Blair, evidentemente, ma quella franco-tedesca, che
gia' dialoga con la Cina e la Russia, e piu' in generale l'Europa che sta
all'opposizione della dottrina Bush. L'Europa che puo' parlare a quella
parte tutt'altro che insignificante della societa' americana che sta
anch'essa all'opposizione, ma che dopo l'11 settembre non e' riuscita a
trovare la via per ritornare in campo come grande soggetto politico
democratico. E pero' deve trovarla, se non vogliamo che Bush si consolidi:
oggi come oggi, ha la rielezione in tasca.
- I. D.: Un'Europa-ponte dev'essere anche un'Europa-potenza? Questione non
marginale, in tempi - ardui - di costruzione dell'Unione e di definizione
delle sue competenze, comprese quelle in materia di sicurezza e di politica
estera.
- M. T.: Inevitabilmente si', dev'essere anche un'Europa-potenza, cioe'
un'Europa in grado di fare da forza di contrasto all'unilateralismo
americano. Abbiamo passato quattordici anni a parlare dei disastri del
vecchio bipolarismo, ed eccoci ora immersi nei danni del nuovo unipolarismo.
Non abbiamo saputo fare i conti davvero con quello che comporta non tanto il
pensiero unico, quanto la potenza unica. La stessa figura dell'Impero
proposta da Negri e Hardt, che colloca il potere globale non negli Stati
Uniti ma in una struttura mondiale, in un certo senso ha contribuito a
mettere in ombra il fatto che negli Stati uniti si e' realizzata una potenza
di livello unico. E come si contrasta, una potenza cosi'? Lo so che qui
faccio la parte antipatica del solito sostenitore del modello della forza
nelle relazioni internazionali: ma io non credo che si contrasti con la
moltitudine, bensi' con un equilibrio di potenze. L'Europa-ponte deve
emergere come campo culturale aperto all'Oriente, come differenza culturale
dal cuore nero dell'America, ma deve avere anche la forza di una potenza di
contrasto dell'unilateralismo americano. La preparazione e la conduzione
della guerra all'Iraq dimostrano che gli Stati Uniti possono fare,
militarmente parlando, quello che vogliono, quando vogliono, come vogliono.
Questo strapotere non si ferma solo con le bandiere arcobaleno alle
finestre. Crudamente io dico: c'e' stata una sconfitta del pacifismo,
bisogna avere il coraggio di guardarla in faccia. L'immagine delle due
superpotenze, gli Usa e l'opinione pubblica, inventata dal "New York Times",
e' suggestiva e incoraggiante quando facciamo i cortei, ma e' falsa: ci puo'
essere un'opinione pubblica enorme ma impotente, a fronte di una potenza
solitaria priva di forze di contrasto.
- I. D.: Non sono d'accordo: dipende dal metro di misura. Certo, se l'unico
metro di misura e' quello della forza, hai ragione tu. Pero' a me pare che
l'immagine del "New York Times" cogliesse una verita': ci sono state davvero
due potenze in campo, quella militare americana e quella del movimento
globale no-war. Il problema e' che sono due potenze asimmetriche, piu' che
opposte, per natura e obiettivi. E che, come i fatti hanno dimostrato, la
prima puo' tranquillamente prescindere dalla seconda, anche se quest'ultima
fosse di proporzioni oceaniche. Questo mi pare un lascito serio della guerra
in Iraq: le nostre democrazie sono ormai strutturalmente segnate da questa
scissione fra sistema politico e opinione pubblica.
- M. T.: Su questo sono d'accordo, c'e' in campo il problema, urgente, del
rapporto guerra-democrazia. L'homo democraticus e' ostile alla guerra, per
ragioni etiche, essendo educato alle promesse della tolleranza, e per
ragioni edonistiche, essendo un soggetto apatico e consumista. Il Pentagono
non aveva previsto questo nuovo pacifismo democratico, e quando l'ha visto
non ne ha tenuto conto. E' vero, in questo c'e' una asimmetria che la dice
lunga sullo stato della democrazia reale. Il mio problema oggi infatti non
sono tanto i pericoli, su cui insisteva pochi giorni fa sul "Manifesto"
Alberto Asor Rosa, che la guerra comporta per le liberta' democratiche. E'
il fatto che i sistemi democratici hanno in corpo una sorta di totalitarismo
mascherato: se non possono piu' fare la guerra con la mobilitazione totale,
la fanno non tenendo conto della mobilitazione no-war. E la fanno perche'
l'opinione pubblica, che e' un prodotto squisitamente democratico, non ce la
fa a metterli realmente in difficolta'. Questo sul versante no-war. Sul
versante pro, nel frattempo, agiscono gli strumenti classici di
manipolazione. Lato totalitario e lato comunicativo insomma si tengono,
nelle democrazie contemporanee. Morale: anche da questa guerra viene fuori
la necessita' di una critica della democrazia. Delle contraddizioni e delle
aporie interne ai sistemi democratici. Un altro campo di iniziativa politica
immenso, se solo la sinistra la smettesse di accodarsi al coro monotonale
della religione democratica.
- I. D.: Venerdi' si apre a Siena un convegno su guerra e pace. Il tuo
intervento parte da un motto di Aron, "Pace impossibile, guerra
improbabile", che risale ai primi anni Sessanta. In che chiave lo rileggi
oggi?
- M. T.: Nella chiave dell'equilibrio delle forze, appunto. Il discorso di
Aron, che era un conservatore liberale, uno spectateur engage' come si
definiva, matura fra il '60 e il '61, quando la guerra fredda stava
diventando coesistenza pacifica. A sua volta, Aron rilegge le due formule di
Clausewitz - la guerra come annientamento e distruzione dell'avversario, la
politica come supremazia sulla guerra - e sostiene che cio' che decide fra
l'una e l'altra e' la condizione dell'equilibrio delle forze. Se c'e'
equilibrio delle forze, c'e' politica sopra la guerra; se non c'e', c'e'
guerra di distruzione e annientamento - come in Iraq. Aron vedeva
nell'equilibrio del terrore, cioe' nell'atomica, un fattore di deterrenza, e
aveva ragione: l'eventualita' della distruzione totale obbligava al primato
della politica sulla guerra, in una situazione in cui la pace era
impossibile per via della confrontation fra i due blocchi, la guerra
improbabile per via della paura della distruzione totale. Oggi, io credo,
dobbiamo ripensare questo discorso nella confrontation fra armi di
distruzione e terrorismo.
- I. D.: Che pero', di nuovo, sono due armi asimmetriche, mentre durante la
guerra fredda la deterrenza si basava sul possesso simmetrico dell'atomica.
E molto piu' asimmetrici dei due blocchi sono i due "nemici" che si
confrontano oggi.
- M. T.: Si', ma ambedue sono armi di distruzione, e l'asimmetria comporta
che non si puo' usare l'atomica contro il terrorismo, e nemmeno il
viceversa. Dunque, la supremazia della politica sulla guerra ritorna come
unica alternativa possibile contro la spirale guerra-terrorismo. E tanto
piu' in una cosi' forte asimmetria fra i contendenti, la politica deve
trovare nuove forme, nuovi linguaggi, nuove istituzioni, per entrare a
contatto con le societa' in cui il terrorismo prende piede. Ci sono
invenzioni istituzionali extraoccidentali di cui farsi carico, per la
sinistra europea, oltre la Costituzione dell'Unione. Non si puo' esportare
la democrazia come un prodotto impacchettato, gli americani l'hanno gia'
visto in Afghanistan e lo vedranno ancora meglio in Iraq.
- I. D.: Finiamo sull'Europa. Da Kagan in poi, circola in un certo
antieropeismo americano l'immagine di un'Europa che puo' prendersi il lusso
di acquietarsi sulla pace e la legge di Kant perche' dall'altra parte
dell'oceano ci sono gli Stati Uniti che fanno il lavoro sporco della guerra
riscoprendo il Leviatano di Hobbes. L'altroieri, Giuliano Amato ha
controproposto Locke a Kant. Anche questo repechage dalla galleria dei
classici fa molto post-modern. Tu quale busto scegli?
- M. T.: Mettiamola cosi': per superare questa frattura tanto vale ripartire
da Hegel. Che faceva sia il lavoro sporco dello Stato prussiano sia quello
pulito di dare una forma costituzionale allo Stato moderno.

7. MAESTRI. EMMANUEL LEVINAS: L'OBBLIGO
[Da Emmanuel Levinas, Di Dio che viene all'idea, Jaca Book, Milano 1986,
1997, p. 202. Emmanuel Levinas e' nato a Kaunas in Lituania il 30 dicembre
1905 ovvero il 12 gennaio 1906 (per la nota discrasia tra i calendari
giuliano e gregoriano). "La Bibbia ebraica fin dalla piu' giovane eta' in
Lituania, Puskin e Tolstoj, la rivoluzione russa del '17 vissuta a undici
anni in Ucraina. Dal 1923, l'Universita' di Strasburgo, in cui insegnavano
allora Charles Blondel, Halbwachs, Pradines, Carteron e, più tardi,
Gueroult. L'amicizia di Maurice Blanchot e, attraverso i maestri che erano
stati adolescenti al tempo dell'affaire Dreyfus, la visione, abbagliante per
un nuovo venuto, di un popolo che eguaglia l'umanita' e d'una nazione cui ci
si può legare nello spirito e nel cuore tanto fortemente che per le radici.
Soggiorno nel 1928-1929 a Friburgo e iniziazione alla fenomenologia gia'
cominciata un anno prima con Jean Hering. Alla Sorbona, Leon Brunschvicg.
L'avanguardia filosofica alle serate del sabato da Gabriel Marcel.
L'affinamento intellettuale - e anti-intellettualistico - di Jean Wahl e la
sua generosa amicizia ritrovata dopo una lunga prigionia in Germania; dal
1947 conferenze regolari al Collegio filosofico che Wahl aveva fondato e di
cui era animatore. Direzione della centenaria Scuola Normale Israelita
Orientale, luogo di formazione dei maestri di francese per le scuole dell'
Alleanza Israelita Universale del Bacino Mediterraneo. Comunita' di vita
quotidiana con il dottor Henri Nerson, frequentazione di M. Chouchani,
maestro prestigioso - e impietoso - di esegesi e di Talmud. Conferenze
annuali, dal 1957, sui testi talmudici, ai Colloqui degli intellettuali
ebrei di Francia. Tesi di dottorato in lettere nel 1961. Docenza
all'Universita' di Poitiers, poi dal 1967 all'Universita' di
Parigi-Nanterre, e dal 1973 alla Sorbona. Questa disparato inventario e' una
biografia. Essa e' dominata dal presentimento e dal ricordo dell'orrore
nazista (...)" (Levinas, Signature, in Difficile liberte'). E' scomparso a
Parigi il 25 dicembre 1995. Tra i massimi filosofi contemporanei, la sua
riflessione etica particolarmente sul tema dell'altro e' di decisiva
importanza. Opere di Emmanuel Levinas: segnaliamo in particolare En
decouvrant l'existence avec Husserl et Heidegger (tr. it. Cortina);
Totalite' et infini (tr. it. Jaca Book); Difficile liberte' (tr. it.
parziale, La Scuola); Quatre lectures talmudiques (tr. it. Il Melangolo);
Humanisme de l'autre homme; Autrement qu'etre ou au-dela' de l'essence (tr.
it. Jaca Book); Noms propres (tr. it. Marietti); De Dieu qui vient a' l'idee
(tr. it. Jaca Book); Ethique et infini (tr. it. Citta' Nuova); Transcendance
et intelligibilite' (tr. it. Marietti); Entre-nous (tr. it. Jaca Book). Per
una rapida introduzione e' adatta la conversazione con Philippe Nemo
stampata col titolo Ethique et infini. Opere su Emmanuel Levinas: Per la
bibliografia: Roger Burggraeve, Emmanuel Levinas. Une bibliographie premiere
et secondaire (1929-1985), Peeters, Leuven 1986. Monografie: S. Petrosino,
La verita' nomade, Jaca Book, Milano 1980; G. Mura, Emmanuel Levinas,
ermeneutica e separazione, Città Nuova, Roma 1982; E. Baccarini, Levinas.
Soggettivita' e infinito, Studium, Roma 1985; S. Malka, Leggere Levinas,
Queriniana, Brescia 1986; Battista Borsato, L'alterita' come etica, EDB,
Bologna 1995; Giovanni Ferretti, La filosofia di Levinas, Rosenberg &
Sellier, Torino 1996; Gianluca De Gennaro, Emmanuel Levinas profeta della
modernita', Edizioni Lavoro, Roma 2001. Tra i saggi, ovviamente non si puo'
non fare riferimento ai vari di Maurice Blanchot e di Jacques Derrida (di
quest'ultimo cfr. il grande saggio su Levinas, Violence et metaphysique, in
L'ecriture et la difference, Editions du Seuil, Parigi 1967). In francese
cfr. anche Marie-Anne Lescourret, Emmanuel Levinas, Flammarion; François
Poirie', Emmanuel Levinas, Babel]
L'obbligo di non lasciare l'altro uomo solo in faccia alla morte.

8. INIZIATIVE. ENRICO PEYRETTI: PROPOSTA DI UN SEMINARIO
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti@tiscalinet.it) per
averci inviato questa lettera indirizzata a vari amici, scritta il 16 ed
aggiornata il 26 marzo 2003. Enrico Peyretti e' uno dei maestri piu' nitidi
della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a
cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei
giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella,
Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999]
Questa guerra ormai e' scoppiata. Mentre lottiamo ancora per svergognarla,
dobbiamo guardare al dopo. Oggi sono in gioco l'assetto del mondo, le regole
di convivenza tra i popoli, la liberta' o l'uso imperiale del cristianesimo.
Questo aspetto della grave congiuntura impegna soprattutto i cristiani, ma
gli amici di altre religioni o non credenti possono accompagnare la loro
ricerca.
La regola sovrana della guerra, imposta dall'attuale amministrazione Usa,
impegna tutti a pensare a fondo il senso del diritto, le possibilita' della
politica e le alternative profonde da far maturare.
Credo tuttavia che non ci debba dominare il pessimismo, perche' non mancano
segni che sui tempi lunghi, attraverso tragedie, stia crescendo nella
coscienza dei popoli il ripudio del sistema della violenza.
L'obiettivo dell'amministrazione Bush, dichiarato a tutte lettere nei
documenti ufficiali (che posso inviare in formato elettronico), e' l'impero
mondiale (escluso da Kant nel suo progetto filosofico di lega dei popoli per
la pace permanente; deprecato da Panikkar nella sua concezione della pace
come pluralismo; respinto anche dalle maggiori democrazie come contrario
alla convivenza libera e dignitosa dei popoli; denunciato dalla cultura
della pace come violenza strutturale, o pace d'imperio, anche nel caso
improbabilissimo che blocchi altre azioni belliche o terroristiche).
Dei vari motivi di questa guerra e di questa politica, mi sono convinto che
il motivo piu' profondo e determinante e' un fondamentalismo pseudocristiano
e apocalittico, un messianismo "benefico", che si sente autorizzato ad
imporre con ogni mezzo il Bene dove vede il Male.
Bush appartiene ad un filone, sempre presente nella storia Usa, di questo
genere. La quale storia, ovviamente, comprende altre e ben diverse
ispirazioni, come la popolazione, la cultura, le chiese statunitensi
dimostrano anche in questi giorni.
La vicenda personale di Bush lo ha condotto ad una tale convinzione
particolarmente accesa e sicura di se'. L'ambiente che lo ha eletto gli
suggerisce oppure utilizza a fini propri quel fondamentalismo.
L'impegno di tante chiese e del papa contro questa guerra va letto anche
come difesa molto preoccupata del cristianesimo da quel fondamentalismo,
assai pericoloso per il mondo e per la fede: non scontro di civilta', ma
complicita' di incivilta' contrapposte; non scontro di religioni, ma mimesi
di fanatismi uguali e contrari.
Specialmente chi di noi ha a cuore, oltre la sopravvivenza decente del
mondo, anche la genuinita' delle religioni, e del cristianesimo in
particolare, deve concentrare l'attenzione su questo motivo profondo della
politica bellica rappresentata da Bush.
*
Indico alcuni articoli (recano tra parentesi la dicitura "mail" quelli che
posso inviare su richiesta via e-mail):
- Jose' Ignacio Gonzalez Faus, Talibanes y Talibushes, "Agenda
latinoamericana" (mail);
- Raniero La Valle (posso ricuperare o avere da lui vari scritti, anche
mail, o appunti);
- Paolo Naso (autore di God bless America, Editori Riuniti), Il futuro delle
religioni, in "il foglio" n. 297, ottobre 2002 (mail);
- Anna Guaita, Quando Bush divenne il crociato di Dio, in "Il messaggero",
17 febbraio 2003 (mail);
- James Harding, Un uomo di fede, apparso sul "Financial Times", riportato
da "Internazionale", n. 477, 28 febbraio 2003;
- Alexander Stille, Un crociato alla Casa Bianca, in "La repubblica", 6
marzo 2003 (largamente copiato da Harding, che non cita);
- Norman Mailer, L'America [ma vuol dire gli Usa] a caccia di demoni, in "La
repubblica", 7 marzo 2003;
- Barbara Spinelli, Bush e il destino manifesto, in "La stampa", 9 marzo
2003 (si capisce che ha letto Gonzalez Faus, che non cita);
- Gianni Riotta, Le tre armi dell'uomo di Washington: Dio Texas e famiglia
contro il rais, in "Corriere della sera", 16 marzo 2003;
- Guido Moltedo, Il Principe delle tenebre ammonisce: Non bisogna fermarsi a
Baghdad, in "Europa", 23 marzo 2003 (Bill Kristol, guru della destra
iperconservatrice influente su Bush, ha dato conferenze dal titolo "La
religione cuore della cultura di guerra dell'America");
- Giancarlo Zizola, La 'civil religion' di Bush (in "Il sole 24 ore")
(mail);
- Gianni Vattimo, Sulla religione di Bush, in "l'Unita'", 14 o 15 marzo
(mail);
- Giancarlo Zizola, Il Cristo di Bush e quello del Papa, in "Rocca", n. 7,
primo aprile 2003, pp. 48-50 (www.rocca.cittadella.org).
Molti di voi conosceranno altri scritti sul tema.
*
Come momento di riflessione comune su tutto cio', avanzo una proposta:
Seminario di una giornata, sabato 3 maggio, imperniata su tre temi
combinati: L'Impero del Bene Violento - La politica di pace - La forza
nonviolenta.
Raniero La Valle propone di intendere il tema come "evangelo contro
apocalisse". Sono d'accordo, purche' lo vediamo congiunto al ripensamento
della politica come scelta dei mezzi nonviolenti, piu' forti e costruttivi
di ogni violenza. La mia proposta consiste proprio nel vedere insieme i tre
aspetti.
Il seminario dovrebbe tenersi a Torino promosso dal Centro Studi Sereno
Regis (luogo dei movimenti nonviolenti classici), ma anche da altri centri e
associazioni culturali, cristiane, interreligiose.
Non si tratta di un incontro troppo divulgato, ma di un seminario di studio
e scambio, con partecipanti preparati e sensibili sul problema.
Si partecipa a proprie spese, necessariamente. Se l'aula di riunione avra'
un costo, si chiedera' di condividerlo, specialmente a chi non ha spese di
viaggio. Non saranno forniti dossier di documenti, se non quelli inviabili
in anticipo per via telematica, su richiesta.
Si potra', come conclusione, pubblicare un breve testo comune, oppure
uscirne comunque con le idee arricchite per le nostre riflessioni,
interventi e prese di posizione.
L'idea mi e' venuta scrivendo a Roberto Mancini, filosofo dell'Universita'
di Macerata, ben conosciuto anche a Torino, che nei suoi studi dimostra di
avere riflettuto su tutti e tre gli aspetti indicati, con profondita' di
analisi e di prospettive. Altri contributi vanno pensati.
Tra le risposte e adesioni finora arrivatemi: Ermis Segatti, Claudio
Torrero, Paolo Naso, Marinella Verga, Roberto Mancini, Caterina Fiora,
Gianni Vattimo, Raniero La Valle, Giancarlo Zizola, Edward Sabarino (Acli),
Nanni Salio (Centro Studi Sereno Regis), Teresella Parvopassu, qualcuno
della Comunita' di Bose, e della redazione de "il foglio".
La sede dell'incontro sara' il Centro teologico, corso Stati Uniti 11 a
Torino (a pochissimi minuti da Porta Nuova) gentilmente concessa.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 564 del 12 aprile 2003