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La nonviolenza e' in cammino. 563
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 563
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac@tin.it>
- Date: Sat, 12 Apr 2003 11:22:42 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 563 dell'11 aprile 2003
Sommario di questo numero:
1. Comitato "Fermiamo la guerra": il 12 aprile a Roma
2. Giuliana Sgrena: Baghdad in trappola
3. Giuliana Sgrena: sull'orlo della catastrofe
4. Giuliana Sgrena: cannonate sulla stampa
5. Giuliana Sgrena: tank e saccheggi, la citta' si arrende
6. Giuliana Sgrena: pace infernale a Baghdad
7. Mohandas Gandhi: la scienza della guerra
8. SimoneWeil, la verita'
9. Riletture: Edith Wharton, Scrivere narrativa
10. Riletture: Virginia Woolf, Ritratti di scrittori
11. La "Carta" del Movimento Nonviolento
12. Per saperne di piu'
1. APPELLI. COMITATO "FERMIAMO LA GUERRA": IL 12 APRILE A ROMA
[Riportiamo l'appello che conferma la manifestazione nazionale pacifista che
si terra' il 12 aprile a Roma, un appuntamento comunque utile ed importante.
Dispiace invece in questo pur apprezzabile appello la completa mancanza di
una riflessione sulla nonviolenza, di un richiamo alla nonviolenza: finche'
il movimento per la pace non fara' in modo esplicito e consapevole la scelta
della nonviolenza la sua azione continuera' ad essere offuscata, subalterna
e permeata di ambiguita'; ed in definitiva, e tragicamente, pressoche' del
tutto inefficace]
No alla guerra infinita e globale.
Non ci arrendiamo alla guerra.
La guerra rimane un orrore inaccettabile, e questa guerra e' ingiusta e
illegale. Nulla la giustifica. L'occupazione di Baghdad e la spartizione
delle spoglie e delle risorse dell'Iraq non possono essere chiamate pace.
Rimane drammatica la situazione umanitaria, la condizione di donne, uomini e
bambini ridotti allo stremo dalla guerra.
La pace e' l'unica condizione per lo sviluppo della democrazia, dei diritti,
della giustizia sociale.
Un regime abietto e' caduto. I pacifisti lo condannano fin dai tempi in cui
Saddam, alleato di chi oggi lo abbatte, sterminava i kurdi, massacrava gli
oppositori.
Continueremo ad impegnarci per un Iraq libero, indipendente e democratico.
Abbiamo titolo per ribadire che questa guerra allarga la spirale della
tensione e produce gravi pericoli. Continueremo a batterci contro la guerra
preventiva, la distruzione del diritto internazionale e delle sue
istituzioni, contro un'idea di ordine mondiale basato solo sulla legge del
piu' forte.
Vogliono trascinarci nell'epoca della guerra infinita. Noi vogliamo
fermarla. Continueremo a chiedere il cessate il fuoco in Iraq e a lottare
contro il pericolo annunciato d'allargamento del conflitto in Medioriente.
Continueremo a batterci per il ripristino della legalita' internazionale
violata dall'invasione e per il diritto all'autodeterminazione del popolo
iracheno. Non ci arrendiamo alla logica di guerra che pervade la societa',
alle tante guerre dimenticate che fanno milioni di morti, di profughi e
rifugiati in tutto il mondo. Non ci rassegniamo a un mondo che spende
risorse immense per le armi e nega risorse essenziali alla vita e alla
dignita' della maggior parte della popolazione mondiale.
In questi mesi e giorni, in tutto il mondo, un grande movimento per la pace
si e' opposto alla guerra. Ha continuato a mobilitarsi anche quando le armi
hanno preso il sopravvento sulla politica e la diplomazia. Questo movimento
di milioni di donne e uomini continua la sua lotta per un altro mondo
possibile.
Per difendere la carta dell'Onu e la Dichiarazione dei diritti umani.
Per chiedere all'Europa di assumere come suo principio il ripudio della
guerra.
Per la pace e la giustizia in Medioriente e il diritto
all'autodeterminazione del popolo palestinese: due stati per due popoli.
Per il rispetto dell'art. 11 della Costituzione italiana, violato dal
governo.
Per un'economia di giustizia, contro la guerra economia e sociale della
globalizzazione neoliberista.
Per una politica di disarmo globale, per un mondo dove non ci sia piu'
guerra.
Per queste ragioni confermiamo l'impegno per la manifestazione nazionale del
12 aprile a Roma, per il cessate il fuoco della guerra infinita.
2. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: BAGHDAD IN TRAPPOLA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 aprile 2003. Giuliana Sgrena, inviata a
Baghdad, e' una illustre giornalista e saggista, esperta conoscitrice delle
questioni globali, del rapporto nord/sud, della situazione dei paesi arabi
ed islamici, della realta' mediorientale. E' da sempre impegnata per i
diritti umani, per i diritti dei popoli, per i diritti delle donne, per la
pace. Presentiamo qui i suoi articoli degli ultimi giorni]
La sagoma di un carro armato Abrahms completamente carbonizzato ci appare
mentre scendiamo da un cavalcavia verso la strada che porta a Hilla e
Kerbala. Ci troviamo nel quartiere di al-Dora, alla periferia meridionale di
Baghdad, poco lontano in linea d'aria dall'aeroporto. Sullo sfondo le nuvole
di fumo nero che si alzano dalle trincee di petrolio incendiate, sul terreno
tutti i segni di una feroce battaglia. Un vero teatro di guerra: l'asfalto
della strada a due corsie e' completamente dissestato dai cingolati, crateri
provocati dalle bombe, l'Abrahms deve essere stato colpito da una bomba
anticarro e nel tentativo di fare marcia indietro ha lasciato profondi
solchi sul selciato. Ma evidentemente era troppo tardi. I militari iracheni
ammassati sul carro armato per festeggiare il successo agitano i loro
fucili - sono gli eroi del giorno - inneggiando al rais con il solito
slogan: "con l'anima e con il sangue ci sacrificheremo per te Saddam".
Dicono di aver distrutto altri sei carri armati Usa, ma oltre a quello che
si trova ancora in mezzo alla strada, in lontananza ne vediamo solo un
altro, gli altri sostengono di averli gia' portati via, finita la battaglia,
sabato mattina.
Ma anche gli iracheni devono aver subito pesanti perdite: sul terreno tutto
intorno carri armati bombardati, un cannoncino abbandonato, le carcasse di
mezzi da trasporto di vario genere, anche un autobus che sosta sulla corsia
opposta e' stato colpito. Alcuni degli edifici che si trovano la' intorno
sono stati colpiti durante la battaglia. Dietro un gruppo di palme si vede
una costruzione affollata di militari, non sembra che appartengano alla
Guardia repubblicana. Su un altro edificio si vede una postazione della
contraerea. Molti militari sparsi ai lati della strada. Nessuna traccia dei
caduti in battaglia, ne' iracheni ne' americani. Gli americani del carro
armato sono rimasti carbonizzati come il loro mezzo, dicono gli iracheni.
Sappiamo che molti iracheni sono rimasti uccisi e che centinaia sono
ricoverati negli ospedali di Yarmuk e di al-Kindy.
Mentre ci troviamo sul teatro della battaglia ormai finita non si sentono i
cannoni che tirano sulla zona dell'aeroporto, ma ancora per poco. Nel cielo
improvvisamente appare un cacciabombardiere che si sta dirigendo proprio in
quella zona. La battaglia per l'aeroporto e' tutt'altro che finita. Lo
conferma anche il ministro dell'informazione Mohammed Said al-Sahaf, che
parla di 50 marine americani uccisi e di 16 carri armati presi o
danneggiati. Gli scontri sono ripresi, ce ne accorgiamo quando cerchiamo di
avvicinarci: alcuni chilometri prima, ad al-Qadissiya, un posto di blocco ci
impedisce di proseguire.
Anche su questa strada ci sono i segni lasciati sul selciato dal passaggio
dei carri armati e anche del loro dietrofront. Sabato ci avevano detto che
gli Abrahms americani erano arrivati fin qui. C'e' ancora un negozietto
aperto, vende bibite e dolciumi. Dafr, il proprietario, ci conferma: "ieri
mattina (sabato, ndr) i carri armati americani sono arrivati qui davanti.
Erano le sei del mattino, la battaglia, pesante, e' durata fino alle nove,
poi i carri armati sono tornati indietro, noi eravamo rintanati dentro casa
mentre fuori si combatteva". Ora il fronte si e' di nuovo allontanato, ma
all'aeroporto si continua a sparare e a bombardare. I boati fanno tremare le
pareti del bugigattolo. Ci sono molti militari in questa zona, nelle case?,
chiediamo. "No, adesso no". Questo e' l'unico negozio ancora aperto su
questa strada, perche' non chiude? "Perche' la gente viene a comprare anche
se c'e' la guerra", risponde Dafr. Sembra che tutto stia per crollarci
addosso mentre ci allontaniamo in gran fretta. Come continuano ad
allontanarsi in fretta gli abitanti della zona che, raccolte poche cose,
fuggono su camion e su qualsiasi mezzo a disposizione.
Lungo la strada che ci riporta in citta', sotto gli alberi sono appostati
mezzi militari, le "tecniche" con le mitragliatrici e i cannoncini. Nelle
piazze invece i militari si nascondono dietro barriere fatte di sacchetti di
sabbia. La loro presenza, quella evidente almeno, non e' massiccia. Forse
molti militari mancano ancora all'appello, se in un comunicato letto ieri
alla televisione irachena e attribuito a Saddam Hussein si invitano gli
iracheni che non possono raggiungere le loro unita' di combattimento ad
aggregarsi ad altre unita'. Quel che piu' sorprende e' la mobilita' degli
iracheni - militari, miliziani si vedono soprattutto - che si concentrano e
si spostano continuamente. Si passa sopra un ponte e si vedono numerosi
soldati e/o miliziani appostati sotto con le loro armi, si ripassa poco dopo
e sono spariti, per poi ricomparire. E questo puo' costituire una sorpresa
per le truppe anglo-americane. I continui spostamenti possono prefigurare
una tattica piu' simile a una guerriglia che a una guerra convenzionale.
Guerriglia e "martiri", ovvero kamikaze, sarebbe stata la sorpresa per gli
americani, annunciata nei giorni scorsi da Mohammed Said al-Sahaf.
E la popolazione che fara'? "Dobbiamo resistere, ma non per un uomo solo,
non e' come nel 1991, ora stanno invadendo il nostro paese, dobbiamo
batterci per l'Iraq e per gli iracheni", sostiene un conoscente iracheno. E
questa consapevolezza e' molto diffusa.
Se la mattina era stata relativamente calma, verso mezzogiorno si e'
nuovamente scatenato un delirio di fuoco: cannoneggiamenti, caccia che
volavano a bassa quota, bombe e contraerea, la cui potenza di fuoco sembra
comunque diminuita rispetto ai giorni scorsi. Arrivano notizie di
combattimenti a una ventina di chilometri a sud della citta' con forze
statunitensi paracadutate, confermate anche dal ministro dell'informazione.
Secondo le notizie di fonte americana sarebbero diversi i commando
paracadutati all'interno della capitale, ma da qui non se ne vede l'ombra.
Comunque la situazione sta precipitando, la popolazione ha paura, per la
strada ormai poco frequentata anche dalle macchine si vedono pick-up e
vetture stracariche di masserizie, sono i baghdadini che cercano di fuggire,
ma l'ordine e' di non lasciare Baghdad e difficilmente potranno uscire dalla
capitale. Nei giorni scorsi chilometri di code si erano formate sia sulla
strada che porta verso l'Iran che su quella diretta in Siria. Ieri sera e'
circolata la voce di una imposizione del coprifuoco dalle sei di sera alle
sei del mattino, e cosi' c'e' stato un fuggi fuggi generale. L'annuncio di
una imposizione del divieto di circolare in citta', nelle ore indicate, e'
stato dato dalla televisione, ma c'e' chi sostiene che il divieto riguarda
solo l'uscita e l'entrata in Baghdad. La notizia ha comunque subito
aumentato il panico e non vediamo macchine in circolazione dopo che sulla
citta' e' calato un buio pesto.
Se stare a Baghdad e' sempre meno sicuro, la partenza e' altrettanto
rischiosa. Ieri il convoglio di macchine dei diplomatici russi, ambasciatore
compreso, che sabato aveva lasciato la capitale irachena diretto a Damasco,
e' stato attaccato da sconosciuti con armi automatiche, per due volte, prima
a otto e poi a quindici chilometri da Baghdad. Alcuni diplomatici sono
rimasti feriti. Americani e iracheni respingono la responsabilita', ma
secondo un testimone diretto, un reporter russo, il convoglio sarebbe finito
sotto il tiro incrociato di entrambi. Non e' il primo caso di attacchi su
questa strada. Gli ultimi giornalisti e pacifisti arrivati da Amman - ma per
un centinaio di chilometri da Baghdad la strada e' la stessa anche per chi
e' diretto in Siria - parlano di scontri lungo il percorso e anche di aver
dovuto fare diverse deviazioni per poter arrivare. Un operatore della
televisione spagnola ci ha raccontato che quattro giorni fa a una trentina
di chilometri da Baghdad c'era un blocco fatto dagli americani con i carri
armati. All'intimazione di alt un camion non si era fermato subito ed e'
stato bersagliato di colpi di arma da fuoco. Ieri un furgoncino di scudi
umani diretto ad Amman ha dovuto tornare indietro: non si passava per gli
scontri in corso, ci riprovera' oggi. Le notizie che arrivano dal sud e dal
nord del paese non sono certo piu' confortanti, qui ci si aspetta il peggio
di ora in ora. Intanto passano i giorni, l'agonia di questa citta' continua.
E per ora non si vede la fine.
3. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: SULL'ORLO DELLA CATASTROFE
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 aprile 2003]
I bombardamenti ci hanno abituati a non dormire la notte e domenica sera i
caccia che volavano bassi su di noi avevano anticipato l'allarme, ma quello
che e' scoppiato ieri mattina al termine di una notte tormentata anche da
una tempesta di sabbia, poco prima delle 6, quando era ancora buio, e' stato
un vero inferno.
I colpi di cannone, le bombe, il fuoco e il fumo che vedevamo sull'altra
riva del Tigri, proprio dove il fiume fa un'insenatura, lasciavano intendere
che la battaglia per la conquista di Baghdad era cominciata.
Si sparava anche da questa parte del fiume e i colpi rimbombavano persino
sulle nostre pareti. Dai piani alti si potevano vedere le sagome dei carri
armati, due piu' un blindato. Erano gli operatori con le telecamere a
scoprire che erano americani, che avanzavano sull'altra sponda del Tigri.
Inseguivano gli iracheni, da qui se ne sono visti qualche decina, alcuni si
arrendevano e, nonostante questo, secondo quanto mostrato da alcune riprese,
due sono stati freddati. Un'altra inquadratura invece mostrava un iracheno
fatto prigioniero. Altri sono scappati, alcuni buttandosi nel Tigri, mentre
gli americani sparavano loro addosso, nell'acqua. Per coprirsi la fuga, gli
iracheni - alcuni erano anche senza armi - hanno dato fuoco a un deposito di
petrolio che ha immediatamente offuscato tutto lo scenario con una cortina
di fumo che si e' mischiata a una sorta di nebbia che era scesa sul Tigri (o
forse era l'inquinamento degli aerei?), rendendo l'aria ancora piu'
irrespirabile.
Ieri, all'odore di petrolio si e' aggiunto quello della polvere da sparo,
effetto dei bombardamenti. Nel pomeriggio un cielo grigio, coperto da dense
nubi, non permetteva nemmeno di vedere i caccia che sentivamo sfrecciare
sopra di noi, numerosi.
Primo obiettivo degli americani: l'occupazione di uno dei palazzi di Saddam,
Al Sarjut, quello che si trova sulla riva del Tigri di fronte al nostro
albergo, e che ha su una delle porte di entrata una cupola d'oro. Ma il
palazzo era, naturalmente, vuoto.
Un abitante del quartiere Al Dora, nella zona meridionale della citta', ci
ha raccontato di aver visto l'arrivo dei carri armati sulla strada di
Kerbala: erano coperti nella loro avanzata da F-16, F-18 e Apache che hanno
ingaggiato una feroce battaglia per sbaragliare le forze irachene cosi' da
permettere ai tank di procedere verso il ponte Al Jadria, passare vicino
all'universita' di Baghdad e arrivare fino nel quartiere che ospita i
ministeri, ora parzialmente occupato dalle truppe americane. Anche se da
questa riva del fiume non si riesce a capire l'entita' delle forze americane
presenti, si vedono solo due carri armati che stazionano davanti al palazzo
di Saddam. Il ministero dell'informazione che, secondo la tv del Qatar Al
Jazeera, sarebbe stato occupato dagli americani, invece e' ancora sotto il
controllo iracheno. Almeno ieri mattina lo era. Per dimostrarlo, dopo che il
ministro dell'informazione Mohammed Said Al Sahaf si era scagliato contro
l'emittente del Golfo accusandola di essere al servizio degli americani,
siamo stati portati sul posto dai funzionari del press center. Il ministero,
cosi' come la stazione degli autobus e dei taxi ad Al Alwia che portano fuor
i citta', che pure ieri mattina veniva data da alcuni media internazionali -
al seguito delle truppe alleate - nelle mani degli americani, invece non lo
sono. Per verificarlo abbiamo dovuto attraversare il ponte Rashid e
avvicinarci all'omonimo hotel, senza pero' riuscire a raggiungerlo;
tutt'intorno abbiamo trovato i segni di una pesante battaglia. Che sarebbe
ripresa nel pomeriggio, quando i militari hanno abbandonato le postazioni
riconquistate la mattina.
A fine mattinata comunque giravano per la citta' strombazzando macchine
della polizia con la bandiera irachena e il ritratto di Saddam. Arrivati
davanti all'hotel Palestine, approfittando della presenza di centinaia di
giornalisti, hanno cominciato a sparare in aria decine di proiettili per
festeggiare la loro "vittoria", dicevano di aver danneggiato 14 carri armati
americani e di aver combattuto senza nessuna protezione, mentre inneggiavano
al rais: "Bush ascoltaci, noi amiamo Saddam", prima di concludere con un
"Allah Akbar", Dio e' grande.
La presenza americana - noi pero' gli americani non li abbiamo ancora visti
in faccia, abbiamo solo osservato le loro sagome su scala ridottissima al di
la' del fiume - e' ancora limitata e riguarda la riva destra del fiume.
Dalla stessa parte in cui si trova anche il quartiere presidenziale Al
Mansour dove ieri pomeriggio, sulla via principale, piena di negozi ora
chiusi, e' stato lanciato un missile contro un edificio. Quattro le case
completamente distrutte, compreso il ristorante Assadaha, spesso frequentato
anche dai giornalisti. Il missile ha lasciato un cratere enorme, profondo
dieci metri. Le vittime rimaste sepolte sotto il cumulo di macerie sono
almeno nove, diversi i feriti. E non si puo' certo parlare di un errore.
Non si tratta delle prime vittime civili provocate dall'invasione americana
di Baghdad, di alcune abbiamo gia' parlato cosi' come di altre abitazioni
distrutte proprio nello stesso quartiere Al Mansour, particolarmente
bersagliato.
Altre vittime sono delle ultime ore, alcune sono ricoverate nell'ospedale Al
Kindy. Militari e civili, il numero dei feriti e' impressionante anche se e'
difficile avere delle cifre, nemmeno la Croce rossa riesce a tenere il
conto. Ma le condizioni in cui versa l'ospedale sono "terribili", secondo la
descrizione di alcuni rappresentanti del Comitato internazionale della Croce
rossa che vi hanno avuto accesso. Medici e infermieri lavorano
ininterrottamente da 24 ore e sono esausti. Manca peraltro materiale
chirurgico e anestetici. Gli ospedali rischiano il collasso. La mancanza di
elettricita' e, di conseguenza, di acqua rende la situazione drammatica:
finora si e' supplito con l'utilizzo dei generatori, molti dei quali sono
stati forniti proprio dalla Croce rossa. Mentre "Un ponte per Baghdad" ne ha
forniti agli ospedali di Bassora. Ma se l'affluenza dovesse continuare a
questi ritmi, ed e' probabile che con la battaglia per l'occupazione di
Baghdad sia destinata ad aumentare, e notevolmente, la catastrofe e'
assicurata.
Gli americani hanno messo piede a Baghdad anche se non e' ancora chiaro se
intendono rimanerci e avanzare oppure fermarsi e poi riprendere l'avanzata.
Comunque la popolazione e' spaventata. Ieri mattina la citta' sembrava
tramortita: ancora piu' spettrale del solito, strade vuote, l'unica presenza
era quella dei militari, dei miliziani del partito Baath e qualche giovane
in borghese con kalashnikov. Per la strada autoambulanze, macchine della
polizia e autobotti dei pompieri, gli autobus e le vetture sono sempre piu'
rare e anche i taxi. Negozi tutti chiusi, non siamo riusciti nemmeno a
trovare del pane, il forno era aperto ma il pane era andato a ruba. Anche le
farmacie sono chiuse e comunque vendevano ormai solo Valium e altri
tranquillanti, persino per i bambini. Ai distributori di benzina si formano
le code per gli ultimi rifornimenti. La gente ha paura e scappa, con ogni
mezzo, anche a piedi, con poche cose, spesso solo con un fagotto in testa. E
chi non scappa si rifugia nelle moschee. Particolarmente affollata la piu'
grande moschea sciita di Baghdad, quella di Al Khadimiya. "Allah Akbar",
gridano tutti, fedeli e combattenti, che hanno optato per il Jihad, la
guerra santa.
4. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: CANNONATE SULLA STAMPA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 aprile 2003]
Sono quasi le cinque del mattino quando i cannoneggiamenti ricominciano e,
annunciati da un fragore infernale, anche gli A-10 entrano in azione per
lanciare i loro missili aria-terra che si dice siano in grado di sparare
fuori 1.000 proiettili al minuto.
E' l'alba, sopra Baghdad. Tareq Ayoub e' un giordano di 34 anni, e' qui
soltanto da tre giorni e non se la sente di lasciare il tetto del palazzo
dove ha i suoi uffici la televisione per cui lavora, al Jazeera, nemmeno se
il fuoco diviene piu' intenso. La tv del Qatar si trova proprio sulla riva
del Tigri, dalla parte dove sono arrivati gli americani. Una posizione
decisiva per fare la cronaca dell'invasione. Ayoub filma tutto, e non si
muove. E non si muovera' piu', perche' non appena le cannonate cessano il
suo collega lo trova morto, cosi', da solo, sul tetto.
La giornata peggiore per la stampa internazionale comincia nel sangue.
Testimoniare quel che succede e' sempre piu' difficile e pericoloso.
All'hotel Palestine, dove sono riuniti quasi tutti i giornalisti del mondo
rimasti nella capitale irachena per documentare questa guerra, l'eco della
morte del collega giordano non si e' ancora spenta. E' piu' o meno
mezzogiorno, quando i fatti precipitano.
A qualche centinaio di metri, un tank M-1 sposta lentamente il suo cannone e
lo punta sull'albergo. Piu' tardi, il filmato di un collega francese
dimostra che il carro armato non ha dato alcun segno di nervosismo: il
cannone si solleva con calma, resta immobile per un paio di minuti quasi
prendesse la mira e poi spara.
Eravamo tutti la', abbiamo sentito un boato fortissimo e abbiamo pensato che
fosse caduto un missile vicino all'albergo. Invece, nelle stanze d'angolo al
quattordicesimo e al quindicesimo piano, due reporter erano stati maciullati
dal colpo. Racconta Ferdinando Pellegrino, del giornale radio Rai, tra i
primi ad accorrere alle grida: "Jose' Couso, di Telecinco, era a terra con
un osso di fuori e una gamba quasi staccata dal corpo". Couso e' in una
pozza di sangue, e arriva gia' morto all'ospedale: aveva 37 anni e lascia la
moglie e due figli. Un secondo collega, della ufficio Reuters al piano di
sopra, Taras Trotsyuk, ucraino, 35 anni, e' ferito in modo gravissimo e non
ce la fa. Era un veterano, tra gli inviati di guerra: aveva lavorato in
Cecenia, in Afghanistan e nei Balcani. Altri feriti, una fotografa libanese,
altri due giornalisti dell'agenzia britannica. Sconcerto e rabbia tra tutti
i presenti: a fine giornata, si organizza una fiaccolata.
Nel pomeriggio, il comando americano ammette che il carro armato ha sparato:
"Per difendersi dai cecchini sul tetto dell'albergo e comunque avevamo
avvertito i reporter che era pericoloso rimanere a Baghdad". Ma qui nessuno
ha visti i cecchini e la versione non viene accreditata. Dice il
corrispondente di Sky News, David Chater: "Non si e' trattato di un
incidente... non ho sentito un solo colpo provenire da nessuna zona qui
intorno... Devono averci visto, ci hanno visto, noi li abbiamo visti, non
c'e' stato assolutamente nessun errore, sapevano che eravamo li'".
Non pensavamo di essere un obiettivo degli americani, anche se sicuramente
l'informazione che viene da questa parte del fiume e' scomoda per Bush. Il
Pentagono ha fatto di tutto per imporre il ritiro dei giornalisti presenti a
Baghdad, e non solo quelli americani. E quello di ieri e' stato un ulteriore
avvertimento, rinforzato dal monito che "la capitale e' una zona di guerra a
rischio" dove non si puo' assicurare nulla.
Questa e' l'altra faccia della guerra, l'effetto delle bombe che cadono su
una citta' di cinque milioni di abitanti, allo stremo, tenuta in ostaggio,
senza che la comunita' internazionale si preoccupi nemmeno di chiedere
l'apertura di un corridoio umanitario.
Gli americani cominciano a manifestare nervosismo, cominciano a temere di
non essere accolti come i liberatori dalla popolazione irachena:
incontreranno i soldati, la Guardia repubblicana, i feddayn di Saddam, i
miliziani del partito Baath, i civili che si oppongono all'occupazione.
Probabilmente anche cecchini. La guerra e' sempre sporca e questa lo e' piu'
che mai. Gli americani dovrebbero saperlo.
Non che da questa parte del fiume fili tutto liscio, lo abbiamo provato ieri
mattina, quando volevamo andare all'ospedale al-Kindy per testimoniare delle
vittime civili, oltre che militari, della guerra. Ci avevano parlato di
scene tremende, di molti morti e ancor piu' feriti. Ma all'ospedale non ci
siamo arrivati. Abbiamo preso la Saadoun street, un tempo tra le vie piu'
affollate di Baghdad ed ora sempre piu' deserta, alla fine della strada,
dove si svolta sulla piazza Tahrir (della liberazione) avevamo notato un
movimento di militari e volontari, volevamo riprendere la scena con una
piccola telecamera. Che abbiamo subito nascosto quando ci siamo resi conto
che la situazione era molto tesa. Troppo tardi. In un baleno ci siamo
ritrovati circondati da dieci-quindici feddayn che ci puntavano addosso
bazooka e kalashnikov: "Dammi la telecamera o ti ammazzo". Inutile negare
troppo a lungo, avevano l'aria di voler mantenere la promessa. Il loro
numero aumentava, non c'era via di scampo. Dopo avermi preso la telecamera
mi hanno tirato fuori dalla macchina e sbattuta su un'auto della polizia
arrivata in quel momento, malamente incastrata tra i kalashnikov, dopo che
il poliziotto mi aveva puntato la sua rivoltella. La situazione era
veramente preoccupante, anche perche' i feddayn, tutti ragazzi giovani e, a
giudicare dall'accento, non iracheni ma egiziani e siriani, erano
particolarmente assatanati. Dalla piazza al Tahrir, alle loro spalle, parte
infatti il ponte Jumuriya su cui stavano avanzando i carri armati americani.
Ce la siamo cavata solo perche' un poliziotto, di grado piu' elevato,
intervenuto per vedere cosa succedeva, alla fine ha capito che non si
trattava di spie ma di giornalisti e ci ha tratti in salvo. Con le spie o
presunte tali, come sempre del resto in caso di guerra, non si va tanto per
il sottile.
La situazione sta degenerando di ora in ora. I rischi sono sempre maggiori.
I cannoni continuano a tuonare, i caccia volano bassi, sempre piu' visibili.
Si sentono i boati delle bombe. Quando arriveranno da questa parte del
fiume? Si teme un massacro. Quest'agonia e' insopportabile.
Intanto, i carri armati Abrahms avanzano, anche se lentamente. La battaglia
per l'occupazione di Baghdad non subisce battute d'arresto, come aveva
lasciato intendere il Pentagono, evidentemente le truppe anglo-americane non
hanno la possibilita' di scegliere di entrare e uscire con grande facilita'
dalla citta', come avevano annunciato. Quindi cercano di mantenere le
posizioni conquistate, a tutti i costi. La mattina, i carri armati hanno
puntato verso il ponte Jumuriya, ma si sono fermati la', non si sa se
perche' incontrano resistenza da questa parte del fiume o perche' aspettano
i rinforzi che devono arrivare da sud-est.
5. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: TANK E SACCHEGGI, LA CITTA' SI ARRENDE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 aprile 2003]
La statua del rais ha un cappio intorno al collo. Il blindato americano la
trascina, il metallo ondeggia, si torce, infine si spezza e piomba sul
selciato della piazza Firdaus (paradiso). Al suo posto, sulla colonna di
cemento, sventola una bandiera irachena. Il grande ritratto di Saddam sulla
facciata dell'hotel Palestine viene dato alle fiamme, rischiando di
incendiare anche l'esposizione di tappeti che si trova li' sotto. Gli
spettatori della capitolazione sono in gran parte giornalisti. Baghdad non
ha festeggiato l'arrivo dei carri armati americani. Questo non vuol dire che
non abbia provato sollievo per la fine del regime oppressivo. Ma mai la fine
di una dittatura e' stata cosi' triste. Qualcuno ha anche salutato e
applaudito l'avanzata degli Abrams verso il centro della citta', a Saddam
city c'e' stato chi ha urlato viva Bush, ma erano gli stessi giovani che
stavano assaltando e saccheggiando edifici pubblici e depositi di cibo.
Qualche donna piange, silenziosamente. La citta' appare per ora
indifferente, la maggior parte della popolazione e' rimasta in casa, come
nei giorni scorsi quando piovevano le bombe. Questa gente, dopo due guerre e
dodici anni di embargo, e' stremata, non ne voleva sapere di un'altra
guerra, potrebbe persino tirare un respiro di sollievo per la fine dei
bombardamenti se non fosse cosi' orgogliosa da non poter permettere che un
paese come l'Iraq diventi una colonia.
Ovunque ci giriamo troviamo carri armati, qualcuno con la bandiera
americana, uno invece sul cannone porta la scritta "I love Bush". Quando i
marines hanno fatto irruzione nel nostro albergo sbattendo le porte, e con
poco tatto, sono stati accolti dall'ultima resistenza di quel che resta
degli scudi umani: "Yankee go home". Ma l'impressione e' che qui ci
resteranno, e per molto. Dopo aver controllato le stanze fino al quinto
piano i marine se ne sono andati, ma tanto stazionano fuori sulla strada. La
sera i mezzi militari si sono ridislocati sulla piazza e una colonna e'
entrata dentro il recinto fin sulla porta del Palestine. Forse e' un altro
avvertimento alla stampa internazionale che si trova a Baghdad senza
l'avallo Usa. Ma c'e' gia' chi si e' adattato: il venditore di bibite
piazzato sul marciapiede di fronte all'albergo ieri sera chiedeva il prezzo
della Pepsi in dollari.
L'avanzata americana nella parte orientale della citta' e' stata veloce, non
ha incontrato resistenza. Evidentemente le migliaia - non si hanno cifre di
fonte irachena, ma sicuramente centinaia di cadaveri sono stati visti negli
ospedali - di soldati morti per impedire l'occupazione della parte
occidentale della citta' deve avere sfiancato l'esercito. Ieri mattina per
strada non si vedevano piu' soldati iracheni, restava qualche miliziano del
partito, e gruppi di feddayn vestiti di nero - provenienti per lo piu' da
paesi arabi - che hanno preso di mira altri giornalisti, ma nessuno in grado
di contrastare il potente esercito americano. Gruppi di arabi si sono visti
in giro, dicono di essere lavoratori rimasti senza impiego, ma non vogliono
dare il loro nome, sono senza soldi e non sanno dove andare. In Siria,
dicono, ma sono stati bloccati dagli americani. Ieri sera bivaccavano sul
marciapiede del Palestine.
Non ci aspettavamo che i marines potessero avanzare senza colpo ferire,
anche se gia' da martedi' la scarsa presenza di militari in citta' non
lasciava prefigurare una grande battaglia. Potrebbe essere stata una scelta,
forse e' stata data una possibilita' di fuga. E dov'e' finito Saddam, che
tre giorni fa sarebbe sfuggito al missile che ha distrutto quattro case nel
quartiere al Mansour? Comunque tutti i ministri, dirigenti e funzionari ieri
avevano abbandonato ministeri, edifici governativi e uffici della polizia,
anche quelli che si trovano da questa parte del fiume e che non erano stati
bombardati. Abbiamo visto le ultime partenze di pick up dal ministero
dell'educazione.
Almeno cosi' e' stato evitato un bagno di sangue. Anche le bombe e i cannoni
avevano taciuto per tutta la notte, fino al mattino alle sei, permettendoci
finalmente di dormire. E la ripresa dei bombardamenti non era stata
massiccia durante la giornata. Qualche botto piu' forte in serata, mentre
scriviamo. Solo qualche colpo di coda? Comunque la posizione americana
potrebbe non essere del tutto consolidata, la sensazione e' che la guerra
non sia finita nemmeno per Baghdad mentre continua nel resto del paese.
Poca gente per le strade, poche macchine, quelle che circolano espongono un
pezzo di stoffa bianca in segno di resa o perlomeno di non ostilita', gli
americani sono sospettosi, temono i kamikaze, meglio non rischiare. Anche
quando, poco prima dell'irruzione nel nostro albergo, avevamo raggiunto i
marine sulla strada proveniente da al-Kut (questa era la colonna arrivata
martedi' da sud-est, mentre un'altra e' arrivata da Kerbala, sud-ovest) la
nostra maggiore preoccupazione era quella di farci riconoscere. Non che
l'essere stampa occidentale a Baghdad sia di per se una garanzia per gli
americani che martedi' hanno colpito l'hotel Palestine uccidendo due
giornalisti. Sulla Qanat street, una fila di carri armati Abrams, anfibi e
altri mezzi, a perdita d'occhio. I marine, tanti, che non controllavano la
situazione dall'alto dei loro mezzi, erano accucciati per terra sotto le
palme. Un gruppo controllava la strada e gli arrivi. Alcuni con il viso
rigato di nero. Tutti giovani, tra i 21 e i 23 anni, per molti la prima
esperienza di guerra. Perche' siete venuti qui? Adam sembrava avere la
risposta pronta, imparata a memoria: "Sono venuto per i miei due figli,
perche' Saddam costituisce una minaccia per il mondo, con le sue armi
chimiche...". Pero' voi di armi chimiche non ne avete trovate, facciamo
notare. "Questo non e' il mio lavoro, io sono venuto per combattere, per
uccidere Saddam e tutti i suoi soldati", afferma senza esitare. Jose', di
origine spagnola, invece dice di essersi meravigliato di non aver incontrato
resistenza, solo un po' alla periferia della citta', pensavano fosse molto
peggio. Prima di andarcene, gli facciamo notare che l'altro giorno gli
americani hanno ammazzato due giornalisti all'hotel Palestine. "Noi non ne
sappiamo niente", taglia corto il soldato Jose. Sembra che non sappia
nemmeno di cosa parliamo, cos'e' il Palestine, chi ha ammazzato chi.
La mattina eravamo andati a cercare i marines, ma non li avevamo trovati. Ci
eravamo invece trovati in mezzo a ingorghi provocati dai saccheggi in corso.
Giovani, alcuni armati con pistola o kalashnikov, davano l'assalto a
ministeri ed edifici pubblici. Prima avevamo visto l'irruzione nel Comitato
olimpico presieduto dal figlio di Saddam, Uday. Uno degli edifici aveva
subito anche un bombardamento. Buttate giu' le cancellate per poter entrare
negli edifici, subito dopo i giovani uscivano con quel che avevano trovato:
sedie, termosifoni, ventilatori, condizionatori, tavoli, schedari, scaffali,
di tutto. Ammassavano la refurtiva su furgoncini e via strombazzando. C'era
molta eccitazione, chi alzava le dita a V e urlava, con il rischio che
partisse qualche colpo dalle loro armi. Poi il ministero dell'irrigazione,
stesse scene, esagitate. Il timore del nostro autista era che si volessero
rifare anche su di noi occidentali. Poi via verso Saddam city, l'esplosivo
quartiere povero sciita della periferia est della capitale, dove si diceva
nei giorni scorsi che ci sarebbe stata una rivolta contro i miliziani del
partito Baath, ma non avevamo avuto conferme. Il quartiere e' noto per la
forte opposizione al regime di Saddam, qui ci sono ben pochi ritratti da
abbattere. Dopo aver superato la piazza della Mustansiriya, con
l'universita' ad un lato e al centro della piazza la statua di Saddam a
cavallo, la presenza del regime iracheno era completamente sparita. Tutti
gli edifici governativi, della polizia e depositi alimentari venivano
saccheggiati. C'era chi scappava con uno scatolone, chi con un materasso,
chi trascinava via un divano. Sembrava piu' una vendetta che una necessita'.
Anche se in questo quartiere la poverta' non e' certo un pretesto.
Allontanandoci, vedevamo spingere le macchine in mezzo alla strada. Come mai
tante auto in in panne? Forse saranno senza benzina, avevamo pensato, ma no,
anche le macchine venivano rubate, preso d'assalto soprattutto il parcheggio
della polizia. Alcune venivano rimorchiate con una corda, altre con un fil
di ferro, altre ancora persino con un filo spinato. Come diceva un iracheno
scherzando: e' la storia di Ali Baba e dei quaranta ladroni.
6. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: PACE INFERNALE A BAGHDAD
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 aprile 2003]
Baghdad e' divisa in due. Tutti i ponti che collegano la riva occidentale,
molto piu' distrutta dalla guerra, a quella orientale della citta' ieri
pomeriggio sono stati chiusi. Non passa piu' nessuno, inutile anche il
nostro tentativo di convincere i marines a lasciare proseguire alcuni uomini
che sostavano sul ponte Jumuriya e volevano raggiungere la loro casa che sta
oltre il fiume. I marines sono diffidenti: temono che tutte le macchine
siano autobombe e che chi si presenta un po' imbottito, magari con un
giubbotto antiproiettile, sia un kamikaze. I carri e i controlli e la
chiusura ermetica dei ponti tuttavia non sono riusciti ad impedire che ieri
sera un kamikaze si facesse saltare davanti ad un carro armato uccidendo tre
marines proprio sulla riva occidentale del Tigri. E dal pomeriggio e' stata
presa di mira dai cannoni che sparavano - e sparano mentre scriviamo - poco
lontano dal nostro albergo e hanno provocato numerosi incendi che stanno
rischiarando la notte buia. Oltre il ponte sono rimaste solo un paio di
famiglie e l'avevamo verificato la mattina quando era ancora aperto ai
giornalisti: le strade che attraversano il quartiere devastato dai
bombardamenti e dai combattimenti erano completamente deserte, avevamo
trovato solo cadaveri abbandonati e una donna che si aggirava incredula con
un bambino per mano, poi ancora un vecchio con kefiah che agitava uno
straccio bianco per non farsi colpire dai marines che presidiano la zona con
numerosi carri armati. Tutti gli abitanti del quartiere se ne sono andati
prima dell'arrivo degli americani e della battaglia campale. Anche Ahmed
aveva portato la sua famiglia ad Hilla, prima di andare a combattere con
l'esercito di Saddam. Ma poi, racconta, i comandanti si sono ritirati e loro
sono stati abbandonati. Ora vorrebbe andare a vedere se la sua casa e'
ancora in piedi, se e' stata saccheggiata, prendere qualche vestito e
raggiungere la famiglia. Ma gli americani non ci stanno. "Ne avevamo
lasciati passare alcuni e poi hanno cominciato a spararci addosso, sono
stati lontani da casa finora, possono rimanerci ancora un po'", risponde uno
di loro inflessibile.
Dal ponte Jumuriya, osservando le nubi di fumo che si innalzano - su
entrambe le rive del fiume: a ovest e a nord-est - si possono individuare i
punti dove gli scontri sono ancora in corso, come ci confermano i marines
che operano il blocco. Il fumo improvvisamente investe anche l'hotel
Mansour, poco lontano dal ponte a pochi metri da quello che era il ministero
dell'informazione. La battaglia piu' importante ieri pero' si e' combattuta
nel quartiere Cairo, sulla strada che porta ad al-Adhamiya, dove si trova
anche la moschea al-Nidha che abbiamo visto crivellata di colpi perche' gli
americani pensavano che vi si fosse nascosto Saddam Hussein. Mentre una
colonna di carri armati si stava dirigendo verso al-Adhamiya si e' scontrata
con un gruppo di feddayn e di miliziani del partito Baath che si erano
nascosti dentro un piccolo palmeto. La battaglia e' iniziata la mattina alle
cinque ed e' durata tre ore. Quando noi siamo arrivati, in tarda mattinata,
le case stavano ancora bruciando, cosi' come alcuni camion, altri mezzi
ormai carbonizzati erano completamente accartocciati. Un cratere enorme
provocato evidentemente da una bomba su un lato della strada, mentre la
carreggiata era disseminata dai resti della battaglia, dava il segno della
pesantezza dello scontro. I cannoni hanno colpito anche due case, in una e'
morta l'intera famiglia, i genitori e due bambini. Il bilancio della
battaglia: 20 iracheni e un marine uccisi. "Bush e' come Saddam, fa uccidere
i nostri bambini. E per che cosa? Per il petrolio?", dice Mohammed, un uomo
sulla cinquantina, sconsolato, che passava di la'. Mentre chiedevamo
informazioni sull'accaduto, intorno a noi si e' formato un capannello: "Gli
americani sono alleati dei sionisti che ci combattono perche' siamo
musulmani", dice Ali.
Gli americani hanno preso possesso di quasi tutta la citta', ma la
popolazione - quella che e' rimasta a Baghdad - continua a rimanere in casa
e tutti i negozi sono chiusi, proprio come durante i bombardamenti. Tra
quelli costretti ad uscire si nota un'ostilita' non dichiarata: prima era
l'oppressione di Saddam ad impedire agli iracheni di parlare, ora e' lo
strapotere di Bush. I marines che si sono installati anche dentro l'hotel
Palestine non fanno certo risparmio di arroganza: ieri uno di loro per
comprare una pepsi voleva farsi cambiare dal barista i dollari a 4.000
dinari, mentre il cambio corrente era di 2.500 (contro i 3.000 di qualche
giorno fa) e di fronte alla resistenza del cameriere lo ha minacciato di
chiamare il suo comandante per fargli chiudere il bar. Comunque il cameriere
e' stato inflessibile. E per non parlare della pattuglia che mercoledi'
sera, secondo quanto riferito dalla tv del Qatar al Jazeera, ha sparato su
un'autoambulanza provocando due morti e tre feriti. Anche la difficolta' di
reperire il cibo si e' accentuata con i controlli americani: ieri mattina in
albergo non c'era la colazione perche' le truppe avevano bloccato il
furgoncino che portava il pane.
Il paradosso e' che noi giornalisti gia' presenti a Baghdad, non quelli
militarizzati arrivati con le truppe con tanto di divisa, per farci
riconoscere usiamo il sudato accredito ottenuto dagli iracheni che negli
ultimi tempi invece non ci controllavano nemmeno piu'. Una presenza cosi'
massiccia di carri armati davanti all'albergo, la totale assenza di
iracheni, tranne quelli che si prestano a qualche sceneggiata in esclusiva
per i giornalisti, come prendere a calci la testa della statua di Saddam
fatta crollare mercoledi' sera, ci fanno sentire come delle comparse sul set
di un film di scadente qualita'. E dal finale sicuramente poco lieto.
Haider, regista frustrato perche' doveva iniziare a girare un film proprio
quando e' scoppiata la guerra e per fare qualche soldo si e' riciclato come
barista, scuote la testa: "Sono felice perche' e' finito un regime che non
sopportavo, ma sono triste per il modo in cui e' finito". E' la sensazione
che avvertiamo in molte delle persone che incontriamo. Sono ben pochi ad
illudersi che sia una liberazione, la maggioranza e' cosciente che si tratta
di una occupazione.
Ad inneggiare a Saddam sono invece i saccheggiatori che non vengono certo
fermati dagli americani. Anzi. Di fronte ai carri armati, si fermano con la
loro refurtiva, salutano con un "viva Bush" che funge da salvacondotto e si
allontanano tranquillamente. I marines si creano cosi' l'alibi di essere
bene accolti e i saccheggiatori un alibi per il furto. Ieri e' stata ancora
una giornata di completa anarchia e di saccheggi ovunque: magazzini da dove
venivano portati via computer, pezzi di ricambio, mobili. Spesso trascinati
e perdendo i pezzi per strada. Incredibile, tanto da far pensare ad una
regia dietro questi saccheggi oltre che a provocare la protesta della Croce
rossa internazionale, l'assalto agli ospedali, in particolare al-Kindy,
quello piu' importante nella zona orientale della citta', dove sono state
ricoverate anche molte vittime civili dei bombardamenti. E poi il saccheggio
nell'ambasciata tedesca e nel centro culturale francese, proprio le
rappresentanze dei due paesi contrari alla guerra.
Ma spettacolare e' stato soprattutto l'arrembaggio allo shopping center che
rifornisce al-Shaab, il quartiere gia' colpito da un bombardamento americano
che aveva fatto una quindicina di vittime. Dal quarto piano del magazzino la
merce - tappeti, stoffe, tendaggi, biancheria, pugnali eccetera - veniva
scaraventata giu' nella sala centrale e poi arraffata dagli avventori che
caricavano all'inverosimile le loro macchine, oltre a carretti trascinati da
asini, che creavano un ingorgo del traffico. Non di solo saccheggio si
tratta, le ville sul Tigri dei dignitari del regime sono state completamente
distrutte: vasi in ceramica, specchi, suppellettili, scalinate di marmo,
lampadari di cristalli, mentre venivano portati via tappeti, mobili,
poltrone, divani, cuscini, spesso abbandonati per strada in mezzo alla
polvere. C'era persino chi arrivava in autobus a sfogare la propria razione
di vendetta. Abbiamo visto smontare prima le tre residenze delle ville di
Saddam, poi la casa di Watman, il fratellastro del rais, quella del
vicepresidente Taha Maruf, e poi molte altre sulla riva del Tigri, nel punto
in cui e' attraversato dal ponte Double Roof (si tratta di due ponti, uno
sopra l'altro, coperti). I carri armati proteggevano solo la residenza del
vicepremier Tareq Aziz e il vicino palazzo di Saddam. Uno dei tanti. Nel
giardino di quello piu' imponente, il Salam, chiaro esempio di culto della
personalita' con le quattro teste del rais che sovrastano le colonne piu'
alte del palazzo visibili in lontananza, invece i marines si sono proprio
acquartierati. Dopo una furente battaglia a giudicare dalla montagna di
proiettili, pezzi di armi, cadaveri, puzza di morti, che incontriamo sul
viale che porta al palazzo. Quando siamo passati una ruspa stava portando
via uno dei cadaveri, dall'abbigliamento non sembravano nemmeno soldati ma
solo guardiani o inservienti dell'immenso palazzo che e' stato abbandonato
completamente vuoto: sono rimasti solo i pregiati lampadari che, in mancanza
di elettricita', non possono piu' nemmeno illuminare i sontuosi pavimenti in
marmo e legno intarsiato. Ieri e' iniziata la sepoltura dei "martiri" caduti
nella battaglia di al-Dora, il quartiere meridionale della citta'. Sono
rimasti invece abbandonati alle intemperie quelli che abbiamo visto intorno
all'hotel Rashid. Non solo combattenti, ma anche autisti di macchine che
erano evidentemente finiti sotto i bombardamenti: alcuni sono rimasti
carbonizzati, altri diventeranno presto putrefatti. E probabilmente
finiranno nel novero degli scomparsi.
7. MAESTRI. MOHANDAS GANDHI: LA SCIENZA DELLA GUERRA
[Da Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino
1973, 1996, p. 266. Mohandas Gandhi e' il fondatore della nonviolenza. Nato
a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra, avvocato, nel 1893 in
Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro la discriminazione
degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della nonviolenza. Nel 1915
torno' in India e divenne uno dei leader del Partito del Congresso che si
batteva per la liberazione dal colonialismo britannico. Guido' grandi lotte
politiche e sociali affinando sempre piu' la teoria-prassi nonviolenta e
sviluppando precise proposte di organizzazione economica e sociale in
direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il 30 gennaio del 1948.
Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di quest'uomo che una volta di
piu' occorre ricordare che non va mitizzato, e che quindi non vanno
occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti discutibili - che pure
vi sono - della sua figura, della sua riflessione, della sua opera. Opere di
Gandhi: essendo Gandhi un organizzatore, un giornalista, un politico, un
avvocato, un uomo d'azione, oltre che una natura profondamente religiosa, i
suoi scritti devono sempre essere contestualizzati per non fraintenderli;
Gandhi considerava la sua riflessione in continuo sviluppo, e alla sua
autobiografia diede significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti
con la verita'. In italiano l'antologia migliore e' Teoria e pratica della
nonviolenza, Einaudi; si vedano anche: La forza della verita', vol. I,
Sonda; Villaggio e autonomia, Lef; l'autobiografia tradotta col titolo La
mia vita per la liberta', Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton
Compton; Civilta' occidentale e rinascita dell'India, Movimento Nonviolento;
La cura della natura, Lef. Altri volumi sono stati pubblicati da Comunita':
la nota e discutibile raccolta di frammenti Antiche come le montagne; da
Sellerio: Tempio di verita'; da Newton Compton: e tra essi segnaliamo
particolarmente Il mio credo, il mio pensiero, e La voce della verita'.
Altri volumi ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da altri editori. I
materiali della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L.
Magnes sono stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei
farsi massacrare?, in "Micromega" n. 2 del 1991. Opere su Gandhi: tra le
biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; il recente
accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino; il recentissimo libro
di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori. Tra gli studi cfr. Johan Galtung,
Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente
detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il
Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il
Mulino; Gandhi e l'India, Giunti. Cfr. inoltre: Dennis Dalton, Gandhi, il
Mahatma. Il potere della nonviolenza, Ecig. Una importante testimonianza e'
quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia
cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti
nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna. Altri libri particolarmente
utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L.
Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti
Pischel, Louis Fischer. Un'agile introduzione e' quella di Ernesto Balducci,
Gandhi, Edizioni cultura della pace. Una interessante sintesi e' quella di
Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem]
La scienza della guerra porta alla dittatura.
8. MAESTRE: SIMONE WEIL: LA VERITA'
[Da Simone Weil, Quaderni, volume terzo, Adelphi, Milano 1988, p. 356.
Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa,
militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria,
operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti,
lavoratrice agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a
lavorare per la Resistenza. Minata da una vita di generosita', abnegazione,
sofferenze, muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna
come quella che precede non rende pero' conto della vita interiore della
Weil (ed in particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora:
radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del
1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli
o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta' come
vita, Simone Weil ci commuove, ci da' nutrimento". Opere di Simone Weil:
tutti i volumi di Simone Weil in realta' consistono di raccolte di scritti
pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici
(e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti
le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu' importanti in edizione
italiana segnaliamo: L'ombra e la grazia (Comunita', poi Rusconi), La
condizione operaia (Comunita', poi Mondadori), La prima radice (Comunita',
SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni
precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta' e
dell'oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi),
Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali
i quattro volumi dei Quaderni, nell'edizione Adelphi curata da Giancarlo
Gaeta. Opere su Simone Weil: fondamentale e' la grande biografia di Simone
Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr.
AA. VV., Simone Weil, la passione della verita', Morcelliana, Brescia 1985;
Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone
Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie
Muller, Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, EDB, Bologna
1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994]
L'innocente che soffre sa la verita' sul suo carnefice.
9. RILETTURE. EDITH WHARTON: SCRIVERE NARRATIVA
Edith Wharton, Scrivere narrativa, Pratiche, Parma 1996, pp. 98, lire
18.000. La riflessione sulla narrativa della grande scrittrice americana.
10. RILETTURE. VIRGINIA WOOLF: RITRATTI DI SCRITTORI
Virginia Woolf, Ritratti di scrittori, Pratiche, Parma 1995, pp. 332, lire
35.000. A cura e con introduzione di Mirella Billi, una raccolta di acuti
profili critici di Virginia Woolf (su Defoe, Sterne, Austen, le sorelle
Bronte, George Eliot, Meredith, James, Hardy, Conrad, Bennett, Galsworthy,
Forster, Lawrence, Dorothy Richardson, Mansfield).
11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
12. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 563 dell'11 aprile 2003