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rossonotizienet n. 29 - aprile 2003
- Subject: rossonotizienet n. 29 - aprile 2003
- From: "associazione culturale punto rosso" <puntorosso@puntorosso.it>
- Date: Thu, 10 Apr 2003 16:28:31 +0200
ROSSONotizieNet
numero 29 - aprile 2003
periodico elettronico dell'Associazione Culturale Punto Rosso
In ricordo di Tiziana Saporito
Nei giorni scorsi è scomparsa Tiziana dopo una lunga malattia. La morte
l'ha portata via giovane e nel pieno della sua attività politica. La
vogliamo ricordare come compagna e amica attenta, partecipe, gioviale,
intelligente. Un abbraccio alla sua famiglia e alle compagne e ai compagni
che l'hanno seguita fino all'ultimo.
Le compagne e i compagni di Punto Rosso
FERMIAMO LA GUERRA - FERMIAMO IL MASSACRO
Fermiamo la mano degli apprendisti stregoni che, pur di mantenere il
dominio sulle risorse strategiche, di occupare regioni del mondo cruciali,
di perpetuare un ordine mondiale iniquo, non recedono di un passo dallo
scatenare l'inferno. Basta con lo scempio dei corpi, dell'ambiente, della
democrazia, della cultura, della vita. Basta morti, basta dolori, basta
distruzioni. Basta con la banda di avventurieri che pretende di governare
il mondo.
L'Associazione Culturale Punto Rosso e il Forum Mondiale delle Alternative
daranno come sempre il loro contributo, assieme al movimento, alle forze
politiche, agli uomini e alle donne di buona volontà, di contrinformazione,
di controcultura e di mobilitazione per affermare la giustizia e la pace.
Consultate il sito
http://www.fermiamolaguerra.it
e per Milano
http://www.fermiamolaguerra.it/milano
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Sommario
Iniziative
Milano: presentazione del libro di Carla Ravaioli, Un mondo diverso è
necessario (16 aprile 2003)
Milano: Assemblea Nazionale dell'Associazione Culturale Punto Rosso - Fma
(17 maggio 2003)
Lup - Libera Università Popolare - i prossimi corsi
- Il Capitale di Marx
- Il Sistema della Comunicazione
- Immigrazione e globalizzazione
Magenta (MI): dibattito pubblico: L'impero del caos (28 aprile 2003)
Massa: incontro con Rosalina Tuyuc (22 aprile 2003)
Garbagnate (MI): La nuova America Latina (14 aprile 2003)
Fermo: Il cielo sopra Bagdad (10 aprile 2003)
Materiali:
- Samir Amin, L'ambizione criminale e fuor di misura degli Stati Uniti:
controllare militarmente il pianeta
- Mario Agostinelli, L'antibandiera della pace
- Novità Edizioni Punto Rosso: uscite imminenti
IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI CARLA RAVAIOLI, UN MONDO
DIVERSO E' NECESSARIO (EDITORI RIUNITI 2003)
PER UN MONDO SENZA PIU' GUERRA
DISCUSSIONE SULLE PROSPETTIVE DELLA PACE E SULLA NECESSITÀ DI UNO SVILUPPO
ALTERNATIVO
MILANO MERCOLEDÌ 16 APRILE - ORE 21
CASA DELLA CULTURA - VIA BORGOGNA 3
partecipano
CARLA RAVAIOLI (autrice del libro)
GIORGIO LUNGHINI (Università di Pavia)
MARCO REVELLI (Università di Torino)
KARL SCHIBEL (Alleanza per il clima, Francoforte)
FERRUCCIO CAPELLI (direttore Casa della Cultura)
coordina
MARIO AGOSTINELLI (Ass. Cult. Punto Rosso-Forum Mondiale delle Alternative)
organizzano
Associazione Culturale Punto Rosso - Forum Mondiale delle Alternative e
Casa della Cultura
Informazioni
Tel. 02-874324 e 02-76005383
puntorosso@puntorosso.it e segreteria@casadellacultura.it
ASSEMBLEA NAZIONALE DELL'ASSOCIAZIONE CULTURALE PUNTO ROSSO - FORUM
MONDIALE DELLE ALTERNATIVE
MILANO, SABATO 17 MAGGIO 2003, dalle ORE 10.30 ALLE 19.30 presso la SALA
AEM in via della Signora 10 (MM1 - MM3 Duomo).
Questa assemblea vuole essere, in primo luogo, una occasione di analisi e
confronto sulla situazione politico-culturale attuale. Con particolare
riferimento alle condizioni e alle prospettive del movimento dei movimenti
di cui facciamo parte, nello sforzo di immaginazione e di proposizione per
i lineamenti fondamentali di una politica e di una cultura comune di
alternativa. Anche in riferimento alle sorti di una possibile rifondazione
della sinistra italiana.
In secondo luogo si cercherà di tessere una rete culturale e sociale in
grado di produrre queste ricerche e di vivificarle nelle articolazioni
nazionali e internazionali di movimento.
In proposito verrà messo in rete un breve un documento introduttivo, che
farà da contributo comune e iniziale alla discussione.
Oltre alla relazione introduttiva, all'assemblea daranno un contributo con
relazioni specifiche François Houtart, segretario generale del Forum
Mondiale delle Alternative e Mimmo Porcaro, studioso della politica.
Siete tutti invitati........
LUP- LIBERA UNIVERSITA' POPOLARE
prossimi corsi
Dipartimento di storia della filosofia e del pensiero umano "Ernst Bloch"
Il pensiero occidentale attraverso le sue grandi opere.
A seguito del grande interesse suscitato dai corsi svolti nei due anni
passati sulla
storia del pensiero occidentale, riprendiamo questo percorso a partire
dalle grandi opere di questo pensiero, come momenti paradigmatici della
storia della filosofia.
Undicesimo Corso
IL CAPITALE DI MARX
Durata: 3 lezioni. Luogo: Punto Rosso, Via Morigi 8, Milano. Quota di
iscrizione: 10 Euro
Martedì 1 Aprile 2003, ore 18.30-20-30
Introduzione alla filosofia di Marx
Relatore: Giorgio Giovannetti
Martedì 8 Aprile 2003, ore 18.30-20-30
Il Capitale (I)
Relatore: Giorgio Riolo - Roberto Mapelli
Martedì 15 Aprile 2003, ore 18.30-20-30
Il Capitale (II)
Relatore: Giorgio Riolo - Roberto Mapelli
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Dipartimento di critica dell'economia politica e della società "Rosa Luxemburg"
IL SISTEMA DELLA COMUNICAZIONE.
PARTE I: LA STORIA, LA STRUTTURA, LE PROSPETTIVE NELL'ERA DELLA GUERRA GLOBALE.
Durata: 4 incontri. Luogo : Punto Rosso, via Morigi 8, Milano. Quota di
partecipazione: 15 euro
Primo incontro. Mercoledì 26 Marzo, ore 18.30
Il sistema dei media: storia e problemi.
Relatore: Giovanni Cesareo (Politecnico di Milano)
Secondo incontro. Mercoledì 2 Aprile, ore 18.30.
Il sistema dei media: l'economia della comunicazione, i giganti
dell'informazione, i rapporti con la politica.
Relatore: Francesco Siliato (Politecnico di Milano)
Terzo incontro. Mercoledì 9 Aprile, ore 18.30
Le nuove tecnologie: sviluppi e previsioni.
Relatore: Roberto Rosso (gruppo comunicazione del Social Forum).
Quarto incontro, mercoledì 16 Aprile, ore 18.30
Il sistema dei media e il sistema di guerra: le relazioni, la comune
struttura di potere, le contraddizioni.
Relatore: Giovanni Cesareo (Politecnico di Milano).
IL SISTEMA DELLA COMUNICAZIONE. PARTE II: LA REALTA', L'IDEOLOGIA, LE
ALTERNATIVE.
Durata: 3 incontri. Luogo: Punto Rosso, via Morigi 8, Milano. Quota di
partecipazione: 10 euro
Primo incontro. Mercoledì 7 Maggio, ore 18.30.
Gli effetti della comunicazione mediatica: strategie, presunzioni,
ideologia, realtà.
Relatore: Francesco Siliato (Politecnico di Milano).
Secondo incontro. Mercoledì 14 Maggio, ore 18.30
Il lavoro nel sistema informativo: la forma di apparato, l'impresa,
l'organizzazione, le alternative.
Relatore: Giovanni Cesareo (Politecnico di Milano)
Terzo incontro. Mercoledì 21 Maggio, ore 18.30.
I media alternativi e di movimento.
Relatori: Roberto Savio (Ips, consiglio internazionale FSM), Claudio
Jampaglia (responsabile comunicazione Attac Italia).
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Dipartimento di Studi Internazionali "Patrice Lumumba"
IMMIGRAZIONE E GLOBALIZZAZIONE
I MIGRANTI E IL CONFLITTO SOCIALE NELL'ERA DEL NEOLIBERISMO
Le migrazioni d'individui non sono un fenomeno sociale dei nostri giorni.
Sono piuttosto una pratica storicamente sedimentata nel processo evolutivo
della società umana. Il movimento di popolazioni da un luogo ad un altro è
fenomeno riscontrabile in tutte le epoche storiche. La storia dell'uomo è
una storia di umanità in movimento. La stessa storia dell'Europa moderna
può essere scandita dai tempi delle migrazioni interne, dagli spostamenti
di lavoratori da un paese all'altro, dal continuo esodo dei profughi delle
guerre che hanno insanguinato il nostro continente negli ultimi cinque
secoli.
Le immigrazioni contemporanee si iscrivono in questo continuum storico ma
differiscono dal passato per le concause che oggi le generano. Gli attuali
processi migratori vanno contestualizzati all'interno dell'attuale
situazione socio-economica mondiale nella quale questi stessi si dipanano.
Si tratta di una riflessione che non può non essere posta in termini
sistemici all'interno di quel macro-fenomeno sociale definito
globalizzazione.
Tale è il sistema nel quale si inseriscono gli odierni processi migratori,
non solo per il sottosviluppo generato in alcune zone del mondo dai
processi di globalizzazione dei mercati, ma anche perché le migrazioni - e
soprattutto le politiche di controllo delle stesse, attuate dalle
"democrazie occidentali" - sono funzionali ai processi di precarizzazione e
di indebolimento della forza lavoro anche nei paesi a sviluppo avanzato.
Gli incontri formativi che proponiamo cercheranno di analizzare i punti
critici delle attuali politiche migratorie, partendo da una visione
differente che prenderà in considerazione non tanto i risultati pratici che
queste politiche si propongono, quanto i riflessi sul controllo del lavoro
migrante che le stesse provocano. Si cercherà inoltre di mettere in luce la
reale possibilità di una diversa politica migratoria.
Durata: 4 incontri. Luogo: Punto Rosso, via Morigi 8, Milano. Quota di
partecipazione: 20 Euro
1) Venerdì 9 Maggio 2003, 18.30-20.30, relatore Andrea De Bonis
Processi migratori e politiche di controllo
I movimenti di popolazione negli ultimi due secoli: la creazione della
figura giuridica dello straniero - le migrazioni del dopoguerra - il
controllo del lavoro migrante nella Germania - migrazioni e segregazionismo
in U.S.A.
2) Giovedì 15 Maggio 2003, 18.30-20.30, relatori Marco Ferrero e Anna Andrian
La costruzione della fortezza Europa
Diritto diseguale e controllo del lavoro migrante - il modello tedesco del
lavoratore-ospite (Gastarbeiter) - il modello assimilazionista francese -
il modello inglese: tra imperialismo e riconoscimento - le nuove migrazioni
nell'Europa del Sud - le politiche europee di immigrazione e asilo.
3) Venerdì 23 Maggio 2003, 18.30-20.30, relatrici Flavia Favero e Roberta
Rossolini
I processi migratori e l'ibridazione culturale
Multicultura, intercultura, transcultura? - diversità/affinità tra
esperienze geoculturali differenti - razza, etnia, cultura: i rischi di
vecchie e nuove etichette - alla scoperta dell'ibridazione culturale.
4) Venerdì 30 Maggio 2003, 18.30-20.30, relatori Andrea De Bonis e Eleonora
Garosi, con la partecipazione del Professor Salvatore Palidda -
L'immigrazione in Italia: precarietà e criminalizzazione
La criminalizzazione dei migranti - Soft-apartheid e differenza giuridica
del migrante - Sans-papiers ed economia informale - la cittadinanza come
diritto esclusivo - il controllo del lavoro migrante in Italia - proposte
per una possibile nuova politica migratoria.
L A L U P
LIBERA UNIVERSITA' POPOLARE
La sede LUP di Magenta in collaborazione con la LUP - Legnano
o r g a n i z z a
Una serata di riflessione e di approfondimento su
L'IMPERO DEL CAOS
Resistenze e alternativa alla guerra e ai terrorismi
Lunedì 28 Aprile 2003 - alle ore 21
Sala Convegni IDEAL - Viale Piemonte, 10 - Magenta
Introduzione: Prof. Filomena Battipaglia - LUP Magenta
Relazioni:
Giorgio Riolo - Ass. Culturale Punto Rosso - Milano
Don Alberto Vitali - Pax Christi - Milano
Coordina
Piero Spadaro - LUP - Magenta
Segue dibattito.
La LUP - Libera università popolare, inaugura con questa serata l'inizio di
una serie di attività di dibattito, studio, approfondimento, su temi di
natura politica, economica, culturale.
Per maggiori informazioni Piero Spadaro 02.97299861
"Le donne sostengono la meta' del cielo"
Antico proverbio cinese
LE DONNE NELLA RESISTENZA DEI POPOLI INDIGENI
MARTEDI 22 APRILE 2003 - ORE 21.00
SALA DELLA RESISTENZA - PALAZZO DUCALE
PIAZZA ARANCI - MASSA
INCONTRO CON
ROSALINA TUYUC
E' una delle testimoni e simboli di lotta contro la violenza e di
resistenza del popolo indigeno del Guatemala.
E' la fondatrice ed attuale direttrice del Coordinamento nazionale delle
vedove del Guatemala (Conavigua).
E' stata una delle prime deputate maya nel Congresso della Repubblica
PARTECIPA: ALDO ZANCHETTA - Tavola della Pace della Provincia di Lucca
ORGANIZZA
ASSOCIAZIONE CULTURALE PUNTO ROSSO
CON IL PATROCINIO COMMISSIONE PARI OPPORTUNITA' PROVINCIA DI MASSA CARRARA
info: cell. 347-1085533
____________________________________________________________
INFORMAZIONI SU ROSALINA TUYUC
Rosalina Tuyuc Velasquez è una donna maya Kakchiquel proveniente da San
Juan Comalapa, nel Dipartimento di Chimaltenango, un paesino nell'altipiano
guatemalteco, duramente colpito dalla guerra.
Nel suo paese svolgeva la professione di infermiera, ma già all'età di 18
anni era Presidentessa della Gioventù Operaia Cattolica Femminile di San
Juan Comalapa. A vent'anni era presidentessa dell'Azione Cattolica del
paese. La sua famiglia era impegnata nell'ambito sociale e religioso,
quando la guerra sconvolse l'altipiano. Tutti i dirigenti popolari vennero
sistematicamente eliminati e le organizzazioni sociali sciolte. Rosalina
aveva 26 anni quando suo padre fu sequestrato nel luglio 1982. Tre anni
dopo (maggio 1985) anche suo marito scomparve, così all'età di 29 anni
rimane vedova e con due figli.
Nel 1988 fondò, assieme ad altre donne vedove, il Coordinamento Nazionale
delle Vedove del Guatemala (CONAVIGUA), di cui fu eletta Presidentessa.
Quando ancora i massacri e il genocidio si scatenavano contro il suo popolo
ebbe il coraggio di lottare contro la repressione e la militarizzazione.
Assunse anche numerosi ruoli di responsabilità che la rendono una delle
dirigenti più note e rispettate della società civile guatemalteca:
Presidentessa della Commissione delle Vittime della Violenza nel Dialogo
Nazionale; membro del Consiglio Direttivo dell'Unità di Azione Sindacale e
Popolare; membro del Tavolo di Coordinamento dell'Incontro
Intercontinentale "500 Anni di Resistenza Indigena, Nera e Popolare";
Fondatrice e coordinatrice dell'Istanza di Unità e Consenso Maya;
fondatrice e membro del Coordinamento Nazionale di Organizzazioni del
Popolo Maya del Guatemala (COPMAGUA).
Nel dicembre 1994, a 38 anni, viene eletta deputata nel Congresso della
Repubblica per il Fronte Democratico Nuova Guatemala, che raggruppa le
organizzazioni sociali e popolari guatemalteche: durante l'esperienza di
deputata si distingue per il suo impegno a favore dei settori esclusi e
assume l'incarico di VicePresidente del Congresso, di Capo gruppo
parlamentare del FDNG e di Presidentessa della Commissione per la Donna, i
Minori e la Famiglia del Congresso.
Dopo cinque anni di esperienza come deputata, nel 1999 è tornata a lottare
a fianco delle donne vedove ed è stata eletta nuovamente Presidentessa di
CONAVIGUA.
Adesso lavora anche insieme all'equipe della Premio Nobel per la Pace
Rigoberta Menchú Tum nella lotta contro l'impunità, presentando denuncie
per il genocidio commesso nei confronti dei popoli indigeni guatemaltechi.
Lunedì 14 Aprile 2003 ore 21.00
"La nuova America Latina"
Dopo il fallimento delle politiche del FMI in Argentina e le devastazioni
del neoliberismo: il continente sudamericano degli zapatisti e dei Sem
Terra, dei piqueteros e dei cacerolazos dove la speranza prende la strada
del Brasile di Lula e del Venezuela di Chavez
relatori: Giorgio Riolo (Ass.cult.Punto Rosso) e Josè Luis Tagliaferro
(Forum Mondiale delle Alternative)
Presso il circolo "Che Guevara" di via Monviso 124, Garbagnate Milanese
SCEGLIPACE
COORDINAMENTO TERRITORIALE DEL FERMANO
GIOVEDI' 10 APRILE ore 21.15
FERMO SALA MULTIMEDIALE
( v.Mazzini 3, di fronte al Municipio)
INCONTRO - DIBATTITO
IL CIELO SOPRA BAGHDAD
SIGNIFICATI E CONSEGUENZE DELLA GUERRA "PREVENTIVA"
Interviene il Prof. Alberto TAROZZI
(Docente di Sociologia dello sviluppo Univ. Bologna)
All'interno dell'iniziativa verrà illustrata e lanciata anche a livello
locale la campagna di boicottaggio della Esso, fornitore di carburanti e
oli all'esercito americano.
SCEGLIPACE aderisce alla Manifestazione nazionale a Roma del 12 aprile per
un CESSATE ILFUOCO immediato
Materiali
Samir AMIN
L'ambizione criminale e fuor di misura degli Stati Uniti: controllare
militarmente il pianeta
1. Negli anni 80, quando già si annunciava il crollo del sistema sovietico,
si profila un'opzione egemonica che conquista l'insieme della classe
dirigente degli Stati Uniti, sia democratica che repubblicana. Trascinati
dalla vertigine della loro potenza armata, ormai priva di concorrenti
capaci di tenerne a freno i fantasmi, gli Stati Uniti scelgono di affermare
il loro dominio applicando in primo luogo una strategia strettamente
militare di "controllo del pianeta.". Una prima serie di interventi -
Golfo, Jugoslavia, Asia centrale, Palestina, Iraq - inaugura negli anni 90
l'attuazione di quel piano di guerre "made in Usa", che non avranno fine,
pianificate e decise unilateralmente da Washington.
La strategia politica che accompagna il progetto ne prepara i pretesti, che
si tratti del terrorismo, della lotta contro il narcotraffico o dell'accusa
di produrre armi di distruzione di massa. Solo ed evidentemente pretesti,
se si conoscono le complicità che hanno permesso alla Cia di fabbricare un
avversario "terrorista" su misura (i talebani, Bin Laden - non è mai stata
fatta piena luce sull'11 settembre) o di sviluppare il Piano Colombia
diretto di fatto contro il Brasile. Quanto alle accuse di eventuale
produzione di armi pericolose, lanciate contro l'Iraq, la Corea del nord o
qualsiasi altro Stato, fanno una misera figura di fronte all'uso effettivo
di queste armi da parte degli Stati Uniti (le bombe di Hiroscima e
Nagasaki, l'impiego di armi chimiche nel Vietnam, la minaccia di utilizzare
armi nucleari nelle guerre future…) Si tratta di mezzi che sono di fatto
pura propaganda, nel senso che Goebbels dava al termine, efficaci forse per
convincere l'opinione pubblica sprovveduta degli Stati Uniti, ma sempre
meno credibili altrove.
La "guerra preventiva", formulata ormai come un "diritto" che Washington si
arroga, abolisce di fatto ogni traccia di diritto internazionale. La Carta
delle Nazioni Unite vieta il ricorso alla guerra, eccetto i casi di
legittima difesa; e subordina un proprio eventuale intervento militare a
condizioni rigorose, dovendo limitarsi a una risposta misurata e
provvisoria. Tutti i giuristi sanno che le guerre iniziate dopo il 1990
sono perfettamente illegittime e che dunque in via di principio coloro che
se ne sono assunti la responsabilità sono dei criminali di guerra. Gli
Stati Uniti - con la complicità di altri - stanno trattando l'Onu
esattamente come nel passato gli Stati fascisti trattarono la Società delle
Nazioni.
2. L'abolizione del diritto dei popoli, già consumata, sostituisce al
principio della loro uguaglianza quello della distinzione fra un
"Herrenvolk" (il popolo degli Stati Uniti e in secondo luogo quello di
Israele) che ha il diritto di conquistare lo "spazio vitale" che giudica
necessario e gli altri, la cui esistenza è tollerabile solo se non
costituisce una "minaccia" per i progetti di coloro che sono chiamati a
essere i "padroni del mondo".
Quali sono dunque gli "interessi nazionali" che la classe dirigente degli
Stati Uniti si riserva il diritto di invocare quando le pare?
Per dire la verità tale classe si riconosce in un unico obiettivo - il
denaro. Lo Stato americano si è messo apertamente al servizio prioritario
della soddisfazione delle esigenze del segmento dominante del capitale,
rappresentato dalle transnazionali degli Stati Uniti.
Agli occhi dell'establishment di Washington, siamo diventati tutti quanti
dei pellirosse, cioè dei popoli che hanno diritto di esistere solo nella
misura in cui non disturbano l'espansione del capitale transnazionale degli
Stati Uniti. Ogni resistenza sarà ridotta con ogni mezzo, fino allo
sterminio se necessario, ci promettono. Quindici milioni di dollari di
profitti supplementari per le transnazionali americane contro trecento
milioni di vittime: nessuna esitazione. Lo Stato "canaglia" per eccellenza,
per riprendere il linguaggio dei presidenti Bush padre, Clinton e Bush
figlio, è proprio quello degli Stati Uniti.
Tale progetto è certamente imperialista nel senso più brutale del termine,
ma non è "imperiale" nel senso che Negri attribuisce a questo termine,
giacché non si tratta di gestire l'insieme delle società del pianeta per
integrarle in un piano capitalista coerente, ma soltanto di rapinare le
loro risorse. La riduzione del pensiero sociale agli assiomi di base
dell'economia volgare, l'attenzione unilaterale focalizzata sulla
massimizzazione della redditività finanziaria a breve termine del capitale
dominante, rafforzata dalla presenza a tutela di esso dei mezzi militari
che si conoscono, sono responsabili di questa deriva barbara che il
capitalismo porta con sé, quando abbandona ogni sistema di valori umani per
sostituirvi le esigenze esclusive della soggezione alle pretese leggi del
mercato. Il capitalismo nordamericano con la sua storia si prestava a
questa riduzione meglio di quello delle società europee. Di fatto lo Stato
americano e la sua concezione politica sono stati modellati per servire
l'economia e niente altro, abolendo il rapporto contraddittorio e
dialettico fra economia e politica. Il genocidio degli Indiani, la
schiavitù dei Neri, la successione di ondate migratorie che ha sostituito
il confronto fra i gruppi che condividevano pretese identità comunitarie
(manipolate dalla classe dirigente) alla maturazione di una coscienza di
classe, hanno prodotto una gestione politica della società guidata da un
partito unico del capitale, i cui due segmenti condividono le stesse
concezioni strategiche globali, pur con retoriche diverse dirette ad ognuna
delle "constituencies" della metà della società che crede al sistema quel
tanto che basta per darsi la pena di andare a votare. Privata della
tradizione con cui i partiti operai socialdemocratici e comunisti hanno
segnato la formazione della cultura politica europea moderna, la società
americana non dispone di strumenti ideologici che le permetterebbero di
resistere alla dittatura senza contrappesi del capitale. Al contrario, il
capitale modella unilateralmente il modo di pensare della società in tutte
le sue dimensioni, e in particolare riproduce rafforzandolo il suo razzismo
fondamentale che le permette di assumersi come "Herrenfolk". "Play boy
Clinton, cow-boy Bush, same policy": questo slogan ascoltato in India
accentua giustamente la natura del partito unico che gestisce la pretesa
democrazia americana.
Il progetto americano non è perciò un progetto egemonico banale che
condividerebbe con altri che si sono succeduti nella storia moderna e
antica le virtù di una concezione generale dei problemi che permetta di dar
loro risposte coerenti e stabilizzanti, ancorché fondate sullo sfruttamento
economico e la disuguaglianza politica. Esso è infinitamente più brutale
con la sua concezione unilaterale estremamente semplicistica e da questo
punto di vista è più prossimo al progetto nazista, pure fondato sul
principio esclusivo dello "Herrenvolk". Tale progetto statunitense non ha
nulla a che vedere con ciò che dicono gli universitari liberali americani,
che qualificano tale egemonia come "benign", cioè indolore.
Se riuscirà a svilupparsi ancora per un po' di tempo, tale progetto potrà
generare solo un caos sempre maggiore, con una gestione sempre più brutale
di colpo su colpo, senza alcuna concezione strategica a lungo termine. Al
limite, Washington non cercherà più di rafforzare delle vere alleanze, il
che implica sempre delle concessioni. Sono più utili i governi fantocci
come quello di Karzai in Afghanistan finché il delirio di potenza militare
permette di credere all'invincibilità degli Stati Uniti. Hitler non la
pensava diversamente.
3. L'analisi dei rapporti fra questo progetto criminale e le realtà del
capitalismo dominante costituito dall'insieme dei paesi della triade (Stati
Uniti, Europa, Giappone) permette di misurarne i punti di forza e di
debolezza.
Secondo l'opinione generale più diffusa, veicolata dai media che non
invitano a riflettere, la potenza militare degli Stati Uniti sarebbe solo
la punta dell'iceberg che prolunga una superiorità del paese in tutti i
settori, in particolare quello economico, nonché quello politico e
culturale. Sarebbe quindi inevitabile inchinarsi alla sua egemonia, come
esso pretende.
L'analisi della realtà economica inficia peraltro questa opinione. Il
sistema produttivo degli Stati Uniti è ben lontano dall'essere "il più
efficiente del mondo". Al contrario, quasi nessuno dei suoi segmenti
sarebbe in grado di competere vittoriosamente con i suoi concorrenti su un
mercato veramente aperto come lo immaginano gli economisti liberali. Ne è
testimonianza il deficit commerciale degli Stati Uniti, che si aggrava di
anno in anno, e che è passato da 100 miliardi di dollari nel 1989 a 450
miliardi nel 2000. Per di più tale deficit riguarda praticamente tutti i
segmenti del sistema produttivo. Anche l'eccedente di cui beneficiavano gli
Stati Uniti nel settore dei beni di alta tecnologia, che era di 35 miliardi
nel 1990, ha ormai lasciato il posto a un deficit. La concorrenza fra
Ariane e i missili della Nasa, fra Airbus e Boeing, testimonia la
vulnerabilità del vantaggio americano. Di fronte all'Europa e al Giappone
per le produzioni di alta tecnologia, alla Cina, la Corea e altri paesi
industrializzati dell'Asia e dell'America Latina per i prodotti
manifatturieri più banali, all'Europa e all'America Latina per
l'agricoltura, gli Stati Uniti probabilmente non la vincerebbero senza
ricorrere a mezzi extra-economici che violano i principi del liberismo
imposti ai concorrenti.
Di fatto gli Stati Uniti beneficiano di vantaggi comparativi stabili solo
nel settore degli armamenti, precisamente perché questo sfugge ampiamente
alle regole del mercato e gode del sostegno statale. Tale vantaggio ha
indubbiamente qualche ricaduta per il settore civile (Internet ne
costituisce l'esempio più noto) ma è anche all'origine di serie distorsioni
che costituiscono un handicap per molti settori produttivi. L'economia
americana vive da parassita a danno dei suoi partner nel sistema mondiale.
"Gli Stati Uniti dipendono per il 10% dei loro consumi industriali da beni
la cui importazione non è coperta da esportazioni di prodotti nazionali"
(E. Todd, Après l'Empire, p. 80)
La crescita del periodo clintoniano, vantata come prodotto del "liberismo"
cui l'Europa aveva disgraziatamente anche troppo resistito, è di fatto
ampiamente fittizia e in ogni caso non generalizzabile, perché si basa su
trasferimenti di capitali che implicano la stagnazione dei partner. Per
tutti i segmenti del sistema produttivo reale, la crescita degli Stati
Uniti non è stata migliore di quella europea. Il "miracolo americano" si è
alimentato esclusivamente della crescita delle spese prodotte
dall'aggravarsi delle disuguaglianze sociali (servizi finanziari e
personali: legioni di avvocati e guardie private ecc.). In questo senso, il
liberismo di Clinton ha di fatto preparato le condizioni che hanno permesso
la ripresa reazionaria e la vittoria successiva di Bush figlio. Inoltre,
come sostiene Todd (p. 84) "gonfiato in maniera fraudolenta, il Pil
americano comincia a somigliare, per l'affidabilità statistica, a quello
dell'Unione Sovietica".
Il mondo produce, gli Stati Uniti (con un risparmio nazionale praticamente
nullo) consumano. Il "vantaggio" degli Stati Uniti è quello di un predatore
il cui deficit è coperto dall'apporto degli altri, consensuale o forzato. I
mezzi usati da Washington per compensare le sue deficienze sono di natura
diversa: violazioni unilaterali e ripetute dei principi del liberismo,
esportazione di armi (60% del mercato mondiale) largamente imposte ad
alleati subalternizzati (che per di più - come i paesi del Golfo - non le
useranno mai), ricerca di superprofitti petroliferi (che suppongono la
regolamentazione dei produttori, motivo reale delle guerre in Asia centrale
e in Iraq). Ma di fatto il deficit americano è coperto essenzialmente dagli
apporti di capitale proveniente dall'Europa e dal Giappone, dal Sud (paesi
petroliferi ricchi e classi compradoras di tutti i paesi del terzo mondo,
compresi i più poveri), ai quali va aggiunto il prelievo a titolo di
servizio del debito imposto alla quasi totalità dei paesi della periferia
del sistema mondiale.
La ragioni del persistere del flusso di capitali che alimenta il
parassitismo dell'economia e della società americana e permette alla
superpotenza di vivere giorno per giorno sono certamente complesse. Ma non
sono affatto le pretese "leggi del mercato", aventi caratteristiche di
razionalità e inevitabilità.
La solidarietà dei segmenti dominanti del capitale transnazionale di tutti
i partner della triade è reale, e si esprime nella loro adesione al
neoliberismo globalizzato. In questa prospettiva gli Stati Uniti sono visti
come i difensori (militari, se necessario) di questi "interessi comuni". Ma
resta il fatto che Washington non intende condividere equamente i profitti
della sua leadership. Gli Stati Uniti si sforzano invece di trasformare gli
alleati in vassalli, e in questo senso sono pronti ad accordare agli
alleati subalterni della triade solo concessioni di poco conto. Questo
conflitto di interessi del capitale dominante è destinato ad acutizzarsi al
punto di portare a una rottura nell'alleanza atlantica? Non è impossibile,
ma è poco probabile.
Il conflitto più promettente si apre su un altro terreno. Quello delle
culture politiche. In Europa resta sempre possibile un'alternativa di
sinistra. Essa imporrebbe contemporaneamente una rottura con il
neoliberismo (e l'abbandono della vana speranza di sottomettere gli Stati
Uniti alle sue esigenze, permettendo al capitale europeo di sferrare
battaglia sul terreno non minato della concorrenza economica) e con
l'allineamento sulle strategie politiche degli Stati Uniti. Il surplus di
capitali che l'Europa si rassegna a "piazzare" negli Stati Uniti potrebbe
allora venir investito per un rilancio economico e sociale, impossibile
senza quello. Ma se l'Europa scegliesse di dare priorità al proprio slancio
economico e sociale, minerebbe la salute artificiale dell'economia degli
Stati Uniti e la classe dirigente americana dovrebbe affrontare i propri
problemi sociali. Questo è il senso che io presto alla mia conclusione
"l'Europa o sarà di sinistra o non sarà".
Per arrivarci bisogna abbandonare l'illusione che tutti giochino lealmente
la carta del liberismo e che in questo caso tutto andrebbe meglio. Gli
Stati Uniti non possono rinunciare alla loro opzione in favore di una
pratica asimmetrica del liberismo perché essa è il solo mezzo per
compensare le loro deficienze. La "prosperità" americana ha per prezzo la
stagnazione degli altri.
Perché dunque prosegue il flusso di capitali a beneficio degli Stati Uniti,
malgrado questi fatti evidenti? Indubbiamente per molti il motivo è
semplicemente che gli Stati Uniti sono "lo Stato dei ricchi", il rifugio
più sicuro. E' questo il caso per le borghesie compradoras del terzo mondo.
Ma per gli europei? Il virus liberistico - e la convinzione ingenua che gli
Stati Uniti finiranno per accettare "il gioco del mercato" - opera qui con
potenza sicura presso grandi opinioni pubbliche. In questo spirito, il
principio della "libera circolazione dei capitali" è stato reso sacro dal
Fmi. Di fatto, serve agli Stati Uniti per coprire il proprio deficit
pompando i surplus finanziari generati altrove con le politiche
neoliberiste, cui essi peraltro si sottopongono in maniera molto selettiva.
Tuttavia per il grande capitale dominante i vantaggi del sistema superano
gli inconvenienti: i tributi che bisogna pagare a Washington per
assicurarne la permanenza.
Ci sono paesi qualificati come "paesi poveri indebitati" che sono costretti
a pagare. Ma c'è anche un "paese potente indebitato" di cui bisogna sapere
che non rimborserà mai i suoi debiti. Questo autentico tributo imposto dal
ricatto politico degli Stati Uniti ne risulta pertanto molto fragile.
4. La scelta militarista dell'establishment degli Stati Uniti si situa in
questa prospettiva. Non è altro che l'ammissione da parte degli Stati Uniti
di non avere altri mezzi a disposizione per imporre la loro egemonia
economica.
Le cause che stanno all'origine dell'indebolimento del sistema produttivo
statunitense sono complesse. Non sono certo congiunturali, e quindi
correggibili con l'adozione - per esempio - di un tasso di cambio corretto,
o con la costruzione di un rapporto più favorevole fra salari e
produttività. Le cause sono strutturali. La mediocrità del sistema
educativo generale e della formazione - prodotto di un pregiudizio tenace
che favorisce sistematicamente il privato rispetto al servizio pubblico - è
una delle ragioni principali della crisi profonda attraversata dalla
società degli Stati Uniti.
Ci si dovrebbe stupire quindi che gli europei, invece di trarre le
conclusioni imposte dalla constatazione dell'insufficienza economica degli
Stati Uniti, si attivino al contrario a imitarli. Anche qui il virus
liberistico non spiega tutto, anche se svolge una funzione utile per il
sistema, paralizzando la sinistra. La privatizzazione a oltranza, lo
smantellamento dei servizi pubblici non potranno che ridurre i vantaggi
comparativi di cui beneficia ancora la "vecchia Europa" (come la chiama
Bush). Ma quali che siano i danni che provocheranno a lungo termine, tali
misure offrono al capitale dominante - che vive sul breve termine -
l'occasione di ulteriori profitti.
La scelta militarista degli Stati Uniti minaccia tutti i popoli. Deriva
dalla stessa logica applicata a suo tempo da Adolf Hitler: usare la
violenza militare per modificare i rapporti economici e sociali a favore
dello "Herrenfolk" del momento. Tale scelta, imponendosi in primo piano,
determina tutte le congiunture politiche, giacché rende estremamente
fragile ogni progresso che i popoli potrebbero ottenere con le loro lotte
sociali e democratiche. Mettere in scacco il progetto militarista degli
Stati Uniti diventa allora il compito principale, la responsabilità
primaria per tutti.
L'aggressione militare non si fermerà ai paesi che ne sono oggi le vittime
dirette. Il controllo militare del pianeta punta direttamente alla Russia,
alla Cina, all'India e all'Iran, assoggettando questi paesi al ricatto
permanente di interventi militari condotti a partire dalle basi militari
permanenti che gli Stati Uniti installano in Medio Oriente e in Asia
centrale, mentre l'Europa viene subalternizzata mediante il controllo
esclusivo che Washington esercita sulle risorse petrolifere più importanti
del pianeta. Nello stesso modo il Piano Colombia costituisce una minaccia
permanente di intervento diretta principalmente contro il Brasile.
L'establishment di Washington non cela le sue intenzioni: ha orrore dei
"paesi grandi" che un giorno o l'altro potrebbero resistergli, ed è deciso
ad impedire con ogni mezzo - inclusi quelli militari - che quelli arrivino
a svilupparsi abbastanza da sfidarlo.
La lotta per mettere in scacco il progetto degli Stati Uniti è certamente
multiforme. Assume aspetti diplomatici (difendere il diritto
internazionale), militari (si impone il riarmo di tutti i paesi del mondo
per fronteggiare le aggressioni di Washington - senza dimenticare che gli
Stati Uniti hanno utilizzato le armi nucleari quando ne avevano il
monopolio e vi hanno rinunciato solo quando non lo avevano più) e politici
(in particolare per quanto riguarda la costruzione dell'Europa e la
ricostruzione di un fronte di paesi non allineati).
Il successo di questa lotta dipenderà dalla capacità di liberarsi delle
illusioni liberistiche. Non ci sarà mai un'economia globalizzata
autenticamente liberistica. Eppure si tenta e si continuerà a tentare con
ogni mezzo di farlo credere. I discorsi della Banca mondiale operano come
una specie di Ministero della propaganda di Washington, parlano di
"democrazia" e di "buona governance" o di "riduzione della povertà", e non
hanno altra funzione che il rumore mediatico, come quello organizzato
intorno a Joseph Stiglitz, che ha detto qualche verità elementare,
affermandola con arrogante autorità, senza peraltro trarne la minima
conclusione che rimetta in discussione i tenaci pregiudizi dell'economia
volgare. La ricostruzione di un fronte del Sud, capace di dare alla
solidarietà dei popoli d'Asia, d'Africa e della Tricontinentale una
capacità di agire sul piano mondiale, passa anch'essa per la liberazione
dalle illusioni di un sistema liberistico mondializzato "non asimmetrico",
che permetterebbe alle nazioni del terzo mondo di superare i loro
"ritardi". Non è ridicolo vedere alcuni paesi del Sud che reclamano
"l'attuazione dei principi del liberismo, ma senza discriminazioni",
meritandosi gli applausi della Banca mondiale? Da quando la Banca mondiale
difende il terzo mondo contro gli Stati Uniti?
La lotta contro l'imperialismo e la scelta militare degli Stati Uniti è
compito di tutti i popoli, delle sue vittime principali in Asia, Africa e
America Latina, dei popoli europei e giapponesi condannati alla
subordinazione, ma anche del popolo statunitense. Rendiamo omaggio qui al
coraggio di tutti coloro che "nel cuore della bestia" rifiutano di
abbassare la testa, come i loro predecessori hanno rifiutato di arrendersi
al maccartismo degli anni cinquanta. Come coloro che hanno osato resistere
a Hitler, essi hanno conquistato tutti i titoli di nobiltà che la storia
può accordare. La classe dirigente degli Stati Uniti sarà capace di
abbandonare il progetto criminale cui si è alleata? Una domanda cui non è
facile rispondere. Poco o niente nella formazione storica della società
degli Stati Uniti lo favorisce. Il partito unico del capitale, di cui
nessuno negli Usa contesta il potere, non ha rinunciato all'avventura
militare. In questo senso la responsabilità di tale classe nel suo insieme
non ne è certo attenuata. Il potere di Bush junior non è quello di una
"cricca" - i petrolieri e l'industria bellica. Come in tutta la storia
moderna degli Usa il potere dominante non è mai stato altro che quello in
particolare di una coalizione di interessi di segmenti del capitale (mal
definiti come "lobbies"). Ma questa coalizione può governare solo se gli
altri segmenti lo accettano. In mancanza di tale consenso può succedere
tutto in questo paese così poco rispettoso del diritto. Evidentemente,
qualche insuccesso sul piano politico, diplomatico e forse anche militare
potrebbe incoraggiare le minoranze che entro l'establishment degli Stati
Uniti accetterebbero di rinunciare alle avventure militari in cui il loro
paese è impegnato. Sperare di più mi sembra ingenuo, come lo erano a suo
tempo le speranze che Hitler finisse per moderarsi.
Se avessero reagito nel 1935 o nel 1937, gli europei sarebbero riusciti a
fermare il delirio hitleriano. Reagendo soltanto nel settembre del 1939, si
sono inflitti le decine di milioni di vittime della seconda guerra
mondiale. Facciamo in modo che di fronte ai neo-nazisti di Washington la
risposta sia più tempestiva.
Mario Agostinelli
L'ANTIBANDIERA DELLA PACE
1. La semina è più forte della tempesta
Sospendere l'angosciosa attesa di eventi tremendi e l'impegno ostinato per
fermarli, e concedersi una riflessione che abbia l'ambizione di definire,
sistematizzare le novità che emergono in un movimento per la pace
maggioritario in tutti i paesi (tranne, per ora, negli Usa dove tuttavia
combatte da tempo una sua fondamentale battaglia di presenza e di
opinione), che ha superato quel tratto profetico ed elitario che lo
confinava in un ruolo testimoniale non appena la partita passava al livello
statuale o intergovernativo, è un azzardo che si può prendere soltanto per
definire sin d'ora, nei giorni dell'ultimatum a Saddam Hussein e sulla
soglia di una guerra, ciò che resisterà oltre il fragore dei bombardamenti
e della propaganda che occuperà gli spazi pubblici. Un modo di guardare
nella guerra, contro e oltre la guerra con un senso esattamente opposto a
quello - ormai dominante nei media - che si prepara compiaciuto o attonito
allo spettacolo della guerra e ne affida l'esito soltanto alla punta della
spada.
Ho maturato da tempo la convinzione che il 'movimento dei movimenti' sia in
grado di darsi un'autonarrazione degli eventi in corso e delle prospettive
entro cui spendere la propria mobilitazione: questa raggiunta autonomia lo
porta, da una parte, a mettere in relazione il ricorso preventivo alla
guerra con il fondamentalismo del mercato e quindi a tagliarne ogni radice
di legittimazione, e, dall'altra, a tracciare un contesto unificante un
continuum che fa da filo conduttore tanto all'azione locale per la pace,
non meramente propagandistica e territorialmente riconoscibile, quanto
all'iniziativa incessante, che impatta con le agende dei governi, delle
istituzioni, delle diplomazie. Questa pressione locale-globale ha impedito
che la politica e l'etica stessero su un piano distinto dal sociale, in una
sorta di sfera separata, fornendo un terreno di efficacia diretta
all'intervento delle chiese e un punto di tenuta all'autonomia di alcuni
Stati nazionali rispetto agli Stati Uniti. Il ritardo e l'isolamento con
cui Bush ha sferrato l'attacco è in gran parte l'effetto di questa
formidabile iniziativa. Grazie alla pratica, alla maturità e alle
intuizioni del movimento ha preso forma e cittadinanza stabile, a livello
di massa, una nozione di pace come diritto sociale, primario, che è
rafforzato dal diritto individuale di matrice liberale di rifiutare la
guerra. Movimenti e persone 'non si perdono di vista'. Questi pacifisti non
sono anime belle o sognatori; non si rimpiccioliscono in granelli di sabbia
nell'ingranaggio del sistema: fanno cultura, senso comune, sono un seme che
ha già dato frutti.
Si sta sedimentando un tale distacco dall'ideologia della guerra preventiva
e permanente e dalla convinzione aberrante che l'identità dell'Occidente
sia di volta in volta formulata specularmente all'identità di un
imprecisabile nemico, da far credere che l'avvio dell'invasione dell'Iraq,
in sé, non chiuda affatto la partita, ma che l'isolamento dei signori della
guerra crescerà indipendentemente dal 'successo' militare ed economico
della loro avventura.
Sono i caratteri di questa 'durata' (nel lessico delle emozioni si potrebbe
chiamare 'ottimismo') che provo di seguito ad analizzare nel movimento
della pace, costitutivo del cosiddetto 'movimento dei movimenti' di Porto
Alegre, sottolineandone gli aspetti permanenti, creativi, inclusivi, che
rimarranno vivi e operanti nonostante le distruzioni e le morti che
conteremo in Iraq e presenteranno i conti ai governanti che si sono mossi
in solitudine ignorando valori diffusi e infrangendo patti costituzionali
irrinunciabili per un governo e uno sviluppo unitari del pianeta.
L'asse locale-globale è quello che il movimento pratica con crescente
successo e uniformità. Una metodologia di dislocazione anche organizzativa
delle proprie forze, che ha fatto le sue prove prima sui temi ambientali e
dello sviluppo e che ha tratto in seguito impulsi da contenuti sempre più
vasti, con le esperienze dei Forum regionali (Belem, Firenze, Dakkar,
Buenos Aires), che hanno preceduto Porto Alegre 2003. La modalità a rete
con cui viene costruita l'azione diffusa e coordinata per campagne e temi,
non cancella identità e diversità, ma le fa confluire come nodi
interdipendenti dentro una pratica unitaria in continua circolazione dalla
periferia al centro. Per questa via si realizza un'efficacia nell'orientare
sul piano generale sia l'opposizione alle pratiche liberiste che le
proposte alternative, mentre non si perde la presa e la lotta nei territori
dove il problema delle risorse, della giustizia sociale, dei diritti, si
presenta in modo articolato, ma pur sempre riconducibile alle scelte
obbligate nel confronto con la globalizzazione. Secondo lo schema
locale-globale, strutturato da forme di comunicazione e di relazione
sociale a rete, il movimento adegua in velocità la propria azione alla
simultaneità dei contesti spazio-temporali imposti dall'economia liberista
e alla rapidità delle decisioni assunte dalle istituzioni autoritarie che
hanno fatto dell'esclusione di ogni forma di partecipazione la condizione
dogmatica della loro efficacia.
Le caratteristiche formali-esistenziali che si riflettono
sull'organizzazione del movimento provengono da fattori più complessi di
quanto si possa approfondire in queste note: si può tuttavia affermare che
l'irrompere della tematica pace-guerra ha potenziato, anche se in
circostanze straordinariamente drammatiche, il ricorso a schemi innovativi,
fino a dar vita alla più grande manifestazione planetaria della storia -
quella del 15 Febbraio - che ha raggiunto la sua straordinaria dimensione
nonostante la debolezza delle sedi formali di decisione, la poca visibilità
dei leader, il ricorso pressoché esclusivo all'autofinanziamento, la
diffidenza e l'avaro impegno della comunicazione tradizionale.
Locale-globale come canale sempre aperto, come flusso circolare: una
prospettiva oggi decisiva nella lotta senza se e senza ma contro la guerra.
Ed è la coscienza di fare parte di una società aperta che stimola ed
riutilizza i processi in seguito considerati, che rafforza l'autonomia e il
sentimento non minoritario di questo movimento e che metterà al fine in
crisi Bush e i suoi alleati.
La cultura neoliberista, invece, sembra incapace di tenere aperto lo stesso
flusso in entrambe le direzioni: essa ormai comunica solo dall'alto, dal
centro, e quando deve calarsi nel territorio, lo tiene separato dal resto
del mondo secondo un approccio localista, xenofobo - che isola
geograficamente e culturalmente i suoi abitanti - oppure lo trasforma in un
'non luogo' dove si incontrano i 'capitribù' senza popolo, come nelle
Azzorre o a Davos o nelle Montagne Rocciose o sulla nave ormeggiata nel
porto di Genova. Le piazze sono perdenti per i leader della globalizzazione
e un luogo di crescita per i loro oppositori. Nonostante l'enormità dei
mezzi a disposizione, lo stesso difetto di 'egemonia comunicativa' si
riflette nell'uso dei media, che non riesce ad andare oltre l'esclusione o
la manipolazione: i 'no global' si invitano al più negli studi di Porta a
Porta o si contano (al ribasso) a spanne nelle manifestazioni che sono però
presentate di sfuggita e sempre oscurate dai faccioni degli 'esperti' di
Berlusconi, di Bossi, di Fini, che ne fanno un commento esorcizzante.
L'appropriazione del territorio da parte di un movimento antagonista,
radicale, unitario è un fatto politicamente rilevantissimo, tanto più se lo
si considera dopo i fasti della Lega e del localismo xenofobo fattosi
partito in tutta Europa.
Credo che la modalità locale-globale di presentarsi come soggetto sociale
unitario dischiuda importanti prospettive anche alla rappresentanza
politica. Pur non essendo in discussione l'autonomia reciproca delle sfere
sociale e politica, non c'è dubbio che il superamento della delega una
tantum prevista in modo ancora più riduttivo dal sistema elettorale
maggioritario e l'opportunità di creare, a partire dal territorio,
strumenti di democrazia diretta, dove si esercita il diritto di proposta e
non solo di ratifica, siano presupposti indispensabili per rimettere in
comunicazione politica, istituzioni, movimenti sociali.
Tutto ciò è già venuto alla luce nella grande mobilitazione per la pace, i
cui tratti, ancorché oscurati dallo scatenamento dell'attacco all'Iraq,
rimarranno a lungo presenti nella ricostruzione di un legame sociale che la
fase attuale ha spinto ben oltre i confini dell'affinità tra i soggetti
politici tradizionali. Per fare due esempi degli sconvolgimenti in corso,
si pensi all'unità dei lavoratori europei nello sciopero generale
proclamato il 14 marzo a fronte della divisione dei governi nazionali; o
alla crisi non si sa quanto e quando rimediabile del G8 - L'Arca del patto
economico-politico liberista fondato sulla 'non negoziabilità'
dell'american way of life' e sul sequestro del futuro del pianeta nei
caveaux delle banche metropolitane.
Questo percorso locale-gobale non solo ha già alle spalle le sue stazioni
che hanno prodotto effetti ancora da decifrare fino in fondo, ma parla già
con i suoi simboli universalmente eloquenti.
2. L''antibandiera' della pace.
Da sempre la bandiera rappresenta un simbolo territoriale: la si espone, la
si innalza, talvolta si pianta, per riconoscere uno spazio di terra in cui
si identificano valori comuni, patti sociali, assetti di potere, in nome
del quale ci si arma e si esercita l'uso della forza. Il 'viaggio' di una
bandiera corrisponde all'estensione del suo spazio originario di
riferimento: perciò ai drappi colorati indicanti territori e nazioni si
sono spesso associati i concetti di conquista o di battaglia militare.
I grandi moti di solidarietà dell'Ottocento e del Novecento avevano esposto
altre bandiere, legate a un programma sociale e politico e polemicamente
slegate dalle identità territoriali: in certo senso, la loro simbologia
richiamava più la croce e un'appartenenza per elezione, non per nascita. Il
movimento in Italia ha attuato al riguardo un rivoluzionamento
spettacolare: ha scelto di radicare nelle differenze territoriali la forza
evocativa di un simbolo unitario, l'ha spogliato di appartenenze politiche
in senso tradizionale, l'ha imposto ai balconi, agli uffici, nei quartieri,
nei Comuni e nelle chiese proprio in chiave comunitario-territoriale.
L'intuizione è stata quella che, esponendo il drappo arcobaleno, si
contrassegnava il proprio territorio con un simbolo antagonistico rispetto
a quelli di identità escludenti, espressivo di unificazioni anziché di
distinzioni, di abbattimento dei confini fisici per ricongiungere le case,
le vie, il luogo di lavoro al destino comune di pace delle altre case, vie,
luoghi di lavoro illegittimamente arruolati sotto le bandiere nazionali
sventolate in guerra.
E' stato elaborato un mezzo di comunicazione potentissimo: è come se si
svolgessero assemblee permanenti di caseggiato o di quartiere dove si
comunica che per nascita, al di là delle decisioni di un governo, si è
membri ormai di un mondo unito, interdipendente, la cui sicurezza non è
fornita dalle armi. Se questi drappi arcobaleno, esplosi nel nostro paese,
si diffondessero in tutto il mondo - anche nei paesi di Bush, Blair, Aznar,
- saremmo paradossalmente all''ultima bandiera', quella in cui ci si può
riconoscere anche quando i governi nazionali disconoscono la Carta dell'Onu
e le Costituzioni, quella che sola dà legittimità a tutte le altre. Occorre
riflettere su come il processo delle bandiere si sia diffuso e sia andato
in profondo fino ad un livello di coscienza difficilmente reversibile.
Alcuni Comuni, addirittura i centri di ricerca dell'Unione europea, alcune
stazioni ferroviarie hanno preteso un riconoscimento pubblico della loro
'dichiarazione di appartenenza' con risvolti giuridici tutt'altro che
irrilevanti. Perfino Camp Darby, per la sua vocazione di guerra, è stata
resa straniera in Toscana dal lancio della bandiera della pace oltre il
recinto. I 'flag conservatives' americani, citati da Norman Mailer, sono
invasati dall'idea che lo Stato con l'esercito più potente possa fare
qualunque cosa, travolgendo gli ostacoli con la tecnologia e la pura
potenza. Ma non si erano imbattuti in queste disarmate e resistentissime
'antiflags'…
3. I luoghi di lavoro
I diritti sociali e la loro 'universalizzazione' sono diventati, ormai da
oltre un anno, patrimonio del movimento di Porto Alegre. E' un merito in
gran parte degli italiani che vi si sono impegnati e del risalto
internazionale della battaglia condotta in particolare dalla Cgil.
C'è continuità tra modelli sociali e scelte planetarie e i lavoratori lo
stanno sperimentando. Questa, al fine, è la loro esperienza sui luoghi di
lavoro dove hanno compagna quotidiana e spietata la competizione globale.
La lotta contro la precarizzazione e per l'estensione dei diritti oltre i
ridotti sempre più assediati delle antiche sudate conquiste ha chiarito
che, se andasse a compimento l'attacco all'Iraq in una prospettiva di
dominio mondiale delle armi, la crescente ingiustizia dell'ordine mondiale
sarebbe inevitabilmente aggravata. Da tempo ormai c'è coscienza che la pace
è il fondamento che rende possibili i diritti e che una guerra permanente
li ridurrebbe e li subordinerebbe per un tempo indefinito all'obiettivo
principale della sconfitta del nemico: li eliminerebbe cioè come priorità
dalla dialettica sociale e dalla pratica politica. Se l'umanità investe il
meglio delle sue risorse intellettuali, scientifiche, economiche nella
distruzione di vite e di risorse in campo 'avverso', allora l'universalità
dei diritti è impensabile e impraticabile, e così l'unità del mondo, la
solidarietà di tutto il mondo del lavoro.
In effetti, di fronte alla sequenza della catena produttiva che si è fatta
globale e che connette direttamente postazioni di lavoro in paesi diversi,
risulta visibile la rottura che la guerra produce tra lavoratori impegnati
per il riconoscimento di diritti comuni, che derivano dall'essere al
lavoro, e che sono invece collocati come "nemici" su fronti opposti dalle
posizioni dei rispettivi governi. In questo quadro modificato rispetto al
passato proprio dalle caratteristiche strutturali della globalizzazione in
atto, assume un senso nuovo lo stesso sciopero generale contro la guerra,
che, esteso a livello sovranazionale, ricompone il fronte del lavoro nella
sfera di un interesse sociale comune, che non ha bisogno di essere mediato
necessariamente dalla politica.
Siamo sulla strada della elaborazione di una percezione nuova dei
lavoratori a livello planetario: una maturazione faticosa, ma importante,
che rimargina sul piano internazionale la rottura tra i movimenti operai
arruolati sotto opposte bandiere nazionali alla soglia della Prima Guerra
mondiale, divisi lungo i confini e le ideologie dei blocchi contrapposti
lungo tutta la guerra fredda e che, purtroppo non era ancora giunta al
compimento durante la vicenda della guerra del Kosovo.
La rivalutazione della propria autonomia come produttori e del valore
sociale del lavoro si è fatta strada nel dibattito di questi mesi. La
soggettività dei lavoratori ha preso corpo di nuovo come 'classe', anche se
con modalità diverse dal passato. Anche per questa ragione e della dinamica
dei processi in corso sarebbe bene che la sinistra intera e la Cgil si
spendessero per il sì al referendum sull'Articolo 18, muovendosi a
considerazioni che stabiliscono una gerarchia indiscutibile fra la persona
e le compatibilità macro- e microeconomiche.
Ma anche nel mondo del lavoro ci troviamo di fronte alla riscoperta di una
dimensione locale, oltre che di quella più generale. Qui in Italia, ma non
solo, si è ricominciato a valutare la funzione sociale nello specifico
della propria prestazione, andando anche oltre la questione dello scambio
salariale attraverso cui è stata pattuita. Si è così ricominciato a
discutere la finalizzazione del lavoro per uno sviluppo alternativo e
pacifico, a cominciare dalla riconversione di settori e dalla crisi di
fabbriche. L'accordo sul futuro dell'Alfa Romeo, firmato il mese scorso dai
sindacati metalmeccanici milanesi, merita molta attenzione in quanto cerca
di andare realisticamente oltre l'auto e il petrolio come priorità del modo
di vita che stiamo subendo.
Più in particolare, in queste ultime settimane è ricomparso a livello
diffuso quel diritto all'obiezione di coscienza - che i più coraggiosi
avevano professato con grandi drammi personali nelle fabbriche d'armi in
tempo di pace - e che non è stato mai ammesso nei recinti della produzione,
per essere riservato solo ai casi che riguardano la sfera etica (i medici
contrari all'aborto, ad esempio).
Lo sciopero dei portuali di Livorno, il rifiuto dei macchinisti dei treni
che trasportavano armi, la riapparizione degli 'scienziati contro la
guerra', il documento dei 100 sindacalisti Usa, sono tutti segnali che si
va diffondendo la consapevolezza che la posta in palio è cruciale e che la
centralità dei diritti del lavoro è pensabile, è esigibile, solo nel pieno
contesto di una Costituzione che ripudia la guerra. La continuità tra le
azioni di lotta del mondo del lavoro e le iniziative di disobbedienza
civile della società mostrano la trama di una legalità più ricca e più
attiva: quella che nella scelta dei metodi non violenti fonda il diritto di
sciopero e il diritto di impedire infrazioni del patto costituzionale, e
unisce la Repubblica «fondata sul lavoro» alla Repubblica che «ripudia la
guerra» in uno 'spirito repubblicano' che ha imposto rispetto e moderazione
a quegli stessi apparati repressivi che avevano dato a Genova prova di una
vocazione violenta ed eversiva.
4. L'ambiente in cui vivremo
Il carico di distruzione ambientale delle guerre moderne è stato
considerato appieno solo nel caso delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. In
seguito, l'effetto delle nuove armi è stato volutamente circoscritto solo
alla loro precisione, all'uso specifico o specialistico cui erano
destinate, al terrore che il loro possesso avrebbe potuto procurare al
nemico. Eppure le guerre del Kosovo e nell'Afghanistan hanno comportato
effetti ambientali di lunghissimo periodo, di cui si parla raramente,
proporzionali all'intensità energetica concentrata nelle azioni di
bombardamento attuate con proiettili a uranio impoverito, se non
addirittura con piccole bombe nucleari tattiche. Se, come non è stato
escluso, in Iraq, verranno usati ordigni nucleari, i territori saranno resi
inagibili alla vita per un lungo periodo, assai superiore a quello che si
prende in considerazione dal punto di vista politico e militare, cosicché
ad esempio in Iraq l'equilibrio ambientale non sarà certo recuperato nel
tempo in cui si pretenderebbe di ottenere l'eliminazione di Saddam e del
suo regime. Per una semplice considerazione legata all'entropia dei
processi energetici connessi con le armi moderne, gli effetti mortali e
distruttivi ricadranno proprio su quei soggetti che si dice di voler
liberare: quindi, incredibilmente ed a dispetto della loro conclamata
intangibilità, i diritti delle future generazioni sono travolti dai
progetti odierni di potenza militare e predati dagli interessi che oggi
stringono il loro controllo sulle risorse di quel territorio e se ne
impadroniscono in nome della libertà. Il bilancio territoriale delle guerre
dal 1991 in poi si continua a calcolare senza considerare questa sfasatura
temporale e questo livello di estensione spaziale ed i potenti preferiscono
(come hanno fatto i grandi bancarottieri delle corporations) confonderli e
farli svanire nelle pretese di ridisegno della geopolitica a livello
mondiale e nelle previsioni di abbattimento dei prezzi delle risorse per
cui tali guerre sono combattute. Al contrario, c'è una crescente
sensibilità delle popolazioni attaccate a mettere a valore l'ambiente di
cui vengono deprivate ed a non considerare come risarcimento accettabile
una artificiale oltre che ipocrita ricostruzione, al punto di voler
rimanere ostinatamente a vivere negli stessi territori violati dalle armi.
Sul territorio è la biosfera il metro di giudizio, non la geopolitica.
Spacciare la 'missione' della 'democratizzazione' dell'Iraq per una
restituzione del paese al popolo che ne è il legittimo sovrano è il
trasparente velo propagandistico di un progetto di interdizione di un
eventuale processo di autonomia sociale, politica e, direi, ambientale, che
- in Iraq come in tutto il Medio Oriente - potrebbe dar vita ad una realtà
alternativa tanto alla dittatura che a un'élite fantoccia o compradora.
Nel cuore dell'impero, allo scoccare dell'ora delle armi, purtroppo, né
locale e globale e nemmeno il mondo del lavoro hanno ancora prodotto quella
fusione e quella autonomia che si sono espanse in tutto il mondo fino a
lambire le soglie del potere degli Stati. Ed il fondamentalismo moralistico
di cui si ammanta la retorica di Bush è anche volto a impedire la
formazione a livello territoriale o nei sindacati di quella autonomia
sociale che può essere il laboratorio di una visione alternativa e di una
pratica vincente per la pace.
Eppure, proprio nel momento più difficile, si guardi con attenzione a
quello che nel vecchio lessico dei conflitti chiamavamo il 'fronte
interno': qualcosa è in movimento anche negli Stati Uniti, oltre che, da
tempo, nella stessa Inghilterra. Ci sono più segnali che anche là un nuovo
immaginario, nuove pratiche nuovi linguaggi comunichino in spazi non più
separati, eliminando gli steccati e i confini di una divisione permanente
del mondo segnata dalle armi.
Un'ultima considerazione: la speranza di evitare la guerra di Bush contro
l'Iraq stava anche nel ritenere senza futuro la dottrina della guerra
preventiva e permanente in un mondo interconnesso dove la sicurezza di
ciascuno dipende da quella di tutti gli altri. L'irragionevolezza, fino
alla natura criminale delle decisioni che avrebbe dovuto adottare il
Governo degli USA, facevano sperare che le ragioni del movimento della pace
mettessero a nudo la contraddizione spaventosa di lanciare guerre per la
libertà solo nei territori ricchi di petrolio. La guerra non è stata
evitata; ma chi la conduce deve chiarire come l'ampliamento delle
opportunità commerciali e del proprio dominio militare siano compatibili
con l'idea ormai prevalente che la terra funzioni come un organismo vivente
entro i cui confini vivere individualmente e nelle rispettive comunità è
possibile solo se si promuove il benessere generale della più ampia
biosfera in cui prosperiamo. Il movimento è cresciuto e sta individuando
anche un nuovo modo di informare che è in grado di narrare gli eventi della
guerra, così come le tappe del confronto aspro che si è aperto tra diverse
visioni del mondo, con occhi propri, immagini dirette, tecniche di
comunicazione interattive che depotenziano l'unidirezionalità autoritaria
delle televisioni militarizzate. In questo contesto agire localmente e
pensare globalmente corrisponde al nuovo concetto di sicurezza che va oltre
il sistema fondato sul carbone e sul petrolio su cui si sono sviluppati il
modello industriale e lo stato nazionale che Bush porta alle estreme
conseguenze non firmando il protocollo di Kyoto, combattendo la Corte
Penale Internazionale, Affossando l'ONU.
Per di più, il movimento per la pace ha forse ormai già individuato il
percorso futuro per mettere fuori gioco la guerra, non solo sulla base di
diritti affermati e formalmente riconosciuti, ma anche con comportamenti
individuali e collettivi e pratiche che, mentre producono nell'immediato
sul territorio più solidarietà e più giustizia sociale, impongono al
conflitto per il cambiamento a dimensione globale una sua autentica
dimensione democratica.
Novità Edizioni Punto Rosso: Uscite Imminenti
Atilio Boron
Impero & Imperialismo
Quaderni di Alternatives Sud
Il potere delle transnazionali.
Il punto di vista del Sud
François Houtart
La tirannia del mercato e le alternative
F. Houtart, S. Amin (a cura di)
La globalizzazione delle resistenze.
Lo stato delle lotte 2003
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