[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]

Venezuela: un Paese sull’orlo della crisi di nervi



Venezuela: un Paese sull’orlo della crisi di nervi

DI Paola Vallatta

Il collasso sembra avvicinarsi: il Venezuela, messo in ginocchio dallo 
sciopero generale che ha paralizzato il paese per due mesi tra dicembre e 
febbraio, sta peggio di come ci si potesse aspettare. L’11 marzo il Banco 
Provincial, filiale venezuelana della spagnola Bbva (Banco Bilba Vizcaya 
Argentaria), ha fatto tremare i mercati con le sue previsioni: il Pil 
venezuelano subirà, secondo i suoi analisti, una contrazione record, pari 
al -42%, nel primo trimestre 2003. Anche se una flebile speranza sembra 
venire, paradossalmente, dagli Stati Uniti: l’ambasciatore americano a 
Caracas, Charles Shapiro, all’inizio di marzo aveva infatti sottolineato 
l’importante ruolo giocato dal Venezuela, uno dei principali fornitori di 
petrolio degli Usa insieme all’Arabia Saudita e al Messico, in caso di 
guerra contro l’Iraq. Un “conflitto generale nel Golfo implicherà problemi 
di approvvigionamento di petrolio e il Venezuela gioca un ruolo in tutto 
questo, dunque, certo, il Venezuela è importante” aveva dichiarato dopo 
essersi intrattenuto con il vice-presidente venezuelano José Vicente 
Rangel. Importante, forse, ma lacerato: il Paese è diviso tra chi odia il 
presidente Hugo Chavez e lo considera il responsabile di tutti i mali, e 
chi vede in lui e nella sua rivoluzione bolivariana l’unica possibilità per 
uscire dalla miseria.
La frattura viene da lontano e lo squarcio sembra difficile da ricucire. 
“Chavista al 100%” si legge, per esempio, sul finestrino posteriore di 
un’auto in coda in uno strombazzante corteo che, tra bandiere del Venezuela 
e cappellini da basket, festeggia la presenza in città, cioè a Maracay, del 
presidente Chavez, di solito di stanza a Caracas. “Propaganda”, liquida un 
antichavista, di origine italiana, che lavora nell’industria petrolifera, 
“Chavez se ne deve andare. Ma vedrete, vedrete, a settembre lo manderemo 
via. Per forza. Così non si può più lavorare”.  A settembre, per la verità, 
il fuoco covava ancora sotto la cenere e la situazione stagnava, ma appena 
tre mesi dopo, precisamente il 2 dicembre 2002, l’opposizione antichavista, 
un insieme composito di formazioni che comprende la confederazione degli 
industriali Fedecamaras, i sindacalisti della Confederación de trabajadores 
de Venezuela (Ctv) e la Coordinación Democrática (Cd), che a sua volta 
raggruppa una ventina di partiti di destra e di sinistra e diverse 
organizzazioni civili, indiceva lo sciopero generale (il quarto dal 
dicembre 2001). Per due mesi, mentre si raccoglievano centinaia di migliaia 
di firme per chiedere le dimissioni di Chavez, tra scontri e manifestazioni 
di piazza, durante le quali ci furono morti e feriti da entrambe le parti, 
gli oppositori riuscirono a bloccare l’industria petrolifera (molti 
dirigenti e funzionari della holding pubblica Petroleos de Venezuela, 
Pdvsa, si erano alleati ai manifestanti), che da sola rappresenta quasi il 
30% del Pil venezuelano e, attraverso le tasse, oltre la metà delle entrate 
statali. Lo sciopero, durato 64 giorni, ha messo a dura prova l’economia 
del paese, ma non ha ottenuto le dimissioni del capo dello Stato. Oggi 
Chavez è sempre il presidente del Venezuela e il 13 marzo ha annunciato che 
si va verso il superamento della crisi dell’industria petrolifera. La 
produzione, crollata nel periodo dicembre-febbraio fino al livello minimo 
di 150 mila barili al giorno, è infatti tornata alla normalità: 2,9 milioni 
di barili al giorno. La Pdvsa ha raggiunto nuovamente il suo normale 
livello di produzione a dispetto del licenziamento dei quasi 16 mila 
dipendenti (su 38 mila) che avevano appoggiato lo sciopero contro la 
decisione del Tribunale supremo di giustizia del 19 gennaio che ordinava la 
ripresa delle attività. Intanto, tra i capi dell’opposizione, Carlos 
Fernandez, presidente della Federcamas, è in attesa di processo per 
“ribellione civile e incitazione alla delinquenza”, mentre il presidente 
della Ctv, Carlos Ortega, ricercato dalle autorità con le stesse 
motivazioni per l’azione nel corso dello sciopero generale, ha appena 
ottenuto l’asilo diplomatico all’ambasciata del Costa Rica.
Facciamo allora un passo indietro. Chavez, che finì in prigione fino al 
1994 per un tentato golpe nel ‘92, fu regolarmente eletto alla presidenza 
del Venezuela nel 1998 e confermato il 31 luglio 2001 con oltre il 59% dei 
voti. Tra un mandato e l’altro, precisamente nel dicembre 2000, il 
presidente ha promulgato un cambiamento della Costituzione, poi ratificato 
con un referendum, che ha abolito il Senato, esteso il mandato 
presidenziale da cinque a sei anni e permesso la rielezione di un 
presidente in carica. La nuova costituzione ha anche cambiato il nome 
ufficiale del Paese in Repubblica bolivariana del Venezuela in onore 
dell'eroe dell'indipendenza sudamericana Simon Bolivar. A meno di sei mesi 
dalla confermazione, Chavez si è trovato ad affrontare il primo sciopero 
generale (dicembre 2001) che aveva l’appoggio del sindacato, delle banche e 
dei media. Poi l’11 aprile 2002, dopo la proclamazione di un altro sciopero 
generale da parte della Ctv (300 mila persone in piazza e dieci morti), 
sono seguiti scontri a Caracas e il primo, chiaro, tentativo di golpe. 
Pedro Cardona, presidente degli industriali, viene allora proclamato capo 
del governo, ma per essere destituito meno di 48 ore dopo, quando Chavez 
torna a occupare il proprio posto al palazzo presidenziale di Miraflores, 
acclamato da migliaia di persone. Eppure guai a dire che il popolo è con 
Chavez. I giornali giurano che il suo consenso è crollato al 30%, mentre 
c’è chi fa sottili distinguo tra popolo e popolo, tra le “orde chaviste” o 
i “lumpen”, la plebaglia, come vengono spesso apostrofati i bolivariani in 
Tv o sulla stampa da una parte, e il popolo democratico dell’opposizione 
antichavista dall’altra. Manca poco che l’opposizione democratica si metta 
a citare Mario Vargas Llosa: “Il popolo ama i dittatori”. Forse perché 
Chavez è stato eletto regolarmente e, soprattutto, perché è difficile 
poterlo accusare di soffocare il dissenso: tutti i media venezuelani 
sostengono, quando non istigano, l’opposizione. E qui sta il punto. Di 
recente, è vero, è stata aperta una “procedura d’inchiesta amministrativa” 
nei confronti delle principali televisioni private venezuelane, cioè RCTV, 
Globovision, Televen et Venevision, attraverso la quale si potrebbe 
arrivare a una sospensione delle licenze. Ma, per citare un 
documentatissimo articolo apparso nell’agosto scorso su “Le Monde 
diplomatique”: “mai nella storia dell’America latina, la partecipazione dei 
mezzi di informazione a un colpo di Stato era stata così diretta. Dal 
momento che dispongono del 95% delle frequenze radio e Tv ed esercitano un 
quasi-monopolio sulla stampa scritta, questi ‘media dell’odio’ hanno 
giocato, in Venezuela, un ruolo maggiore nella preparazione e 
nell’esecuzione del tentativo di rovesciamento del presidente legittimo 
Hugo Chavez, l’11 aprile 2002”.