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Le lacrime del carabiniere alla stazione di Fornovo
Al tg di ieri (sabato), appena sveglio, all’ora di pranzo, vedo i resoconti
delle azioni fatte in mezza Italia per fermare i treni della morte. Noi non
c’eravamo, penso incazzato. Passa una mezz’ora e mi chiamano. “Stiamo
andando a Pisa, che fai?”, “Vengo”. Così come sono raggiungo l’appuntamento.
In viaggio per Pisa, a quanto pare. Ma c’è da intercettare il treno di
morte, passa da Fornovo e lì ci fermiamo, la decina che siamo, incontrando
altrettanti della zona. I carabinieri, pochi e in tenuta da tutti i giorni,
già bloccano la stazione, ma nel frattempo raddoppiamo di numero con gli
ultimi arrivi e ci dirigiamo sulla strada che costeggia i binari. Troviamo
un punto valicabile (dai meno abili con supporti) e scavalchiamo invadendo i
binari. C’è gente fra noi che non ha la minima esperienza e viene spaventata
dai quattro spaventapasseri in divisa, ma siamo lì, siamo tanti, abbiamo
ragione e ci facciamo valere. Un primo fuoco sui binari. Nel frattempo ci
raggiunge gente dalla zona e, primo particolare significativo, gente sul
ponte sopra di noi si ferma, solidarizza, o passa suonando i clacson. Man
mano che passano i minuti e si capisce che il treno, dopo innumerevoli
cambiamenti di percorso, passerà di qui, ci rinserriamo e facciamo partire i
primi cori e falò. Invitiamo i “simpatizzanti” ad aggregarsi e molti si
uniscono a noi; un esempio fra tutti, un barista ci vede, chiude il bar e ci
raggiunge carico di bocce di vino. Dopo di lui molti ragazzi e adulti della
zona si aggregano. Diventiamo un centinaio buono sulle rotaie, credo, per
tacere di chi resta fuori a guardare/partecipare a distanza. Questa è la
prima cosa bella: in un paese, che probabilmente non è stato neanche mai
nominato in tv, piccolo ma proprio piccolo, è tanta la gente che simpatizza
e partecipa, che afferma la propria umanità, davvero tanta. Sono molti
quelli che rompono il muro (tutto di carta e carte) dell’insubordinazione e
ci appoggiano. Molti restano fuori a “rifornirci” e diversi compiono il
salto, letteralmente, raggiungendoci sui binari e restando con noi in attesa
del treno.
Treno che arriva, carico di armi, di morte, di ingiustizia. Noi, più o meno
convinti e tutti più e meno, armati solo di umanità, dei nostri corpi, della
nostra voce, lo accogliamo a suon di cori e di determinazione. Molti hanno
paura, anzi tutti, credo, vedendo lo schieramento di sbirraglia; ma per il
momento ci facciamo forza a furia di canti. A furia di grida. A furia di
dignità. Il treno già si vede, fermo. Siamo qui per fermarlo. È fermo in
stazione, 50 metri più in giù. Fra il treno e noi un reparto (plotone, cos’
altro?) di carabinieri in tenuta antisommossa e un altro di poliziotti,
celerini. Sono più di noi, plausibilmente, e si dirigono veloci contro di
noi; iniziano a caricare. Io sono fra gli ultimi e posso vedere le forze
“dell’ordine” toccare i manifestanti più indecisi che si alzano subito (fra
loro un sindaco della zona) e manganellare e spostare a peso i più risoluti.
Vedo che le più coraggiose sono le ragazze, spesso. Una già spostata e
cacciata scappa dietro i celerini e si riunisce a noi (la conosco, l’ho già
vista, so che è della zona e la faccio sedere a fianco a me (non si
preoccupi la mia amata)). I simpaticoni, ovviamente, non hanno riguardo di
niente e nessuno: donne e vecchi (relativamente, compà, non s’offenda
nessuno se legge…) vengono strattonati e cacciati; di bambini, i più
interessati, ovviamente non ce n’è. Arrivano a noi utlimi piuttosto in
fretta, con manganellate ragionate e misurate, tutto sommato, senza troppe
esagerazioni. Quello che è giusto secondo i binari in cui siamo tutti,
quello che deve aspettarsi chiunque, umanamente ma non conta, si oppone a un
passaggio di merci, a un veicolo di distruzione quei diritti che umani non
sono e che noi privilegiati ancora abbiamo, anche solo a metà… La gente
presente probabilmente è già convinta, nella maggioranza, che il bastimento
carico carico di… morte passerà e molti non oppongono poi troppa resistenza.
Sembra l’avvicinarsi di un temporale, d’un tornado, d’un piccolo tifone, non
fossero esseri umani come noi, se si può dire che lo sono. Vedo già piovermi
addosso i primi manganelli, dapprima quasi incerti e poi sempre più decisi
di fronte al mio chiaro rifiuto, urlato e praticato, di allontanarmi. Non
sono troppo convinti, forse, ma picchiano. Sotto la gragnola di colpi sono
solo, da un lato e dall’altro i compagni non ci sono più, solo manganelli.
Non mi lascio sollevare però, sul momento è il minimo e il massimo che possa
fare, e vengo tirato via per i capelli e a calci, tanti calci. Tanti capelli
pure, che ancora adesso, passandoci, la mano, mi restano fra le dita. Mi
portano via in tanti, sempre per i capelli e per le gambe, sollevato di poco
da terra e facendomi sbattere sui binari di ferro, non so quanto per caso
quanto per miseria, a peso. Poi continuano a picchiarmi (sono sbirri,
poliziotti, celerini). Sono a terra, picchiato e sanguinante (ma non troppo,
il tutto, trattandosi di un cittadino europeo, mica irakeno, resta nei
limiti dell’umanamente sopportabile, eccome, tanto più che urlo più dello
strettamente indispensabile sotto i colpi e forse li impietosisco). Sembro
esanime, ormai inerte, suppongo, ho urlato tanto per il dolore e per
manifestarlo, forse hanno pure paura di quel paio di telecamere, si sa, dopo
Genova, e lì mi lasciano per un attimo. So che di là, da dove mi hanno
tolto, sta per passare un treno di morte, un treno carico di armi. E mi
alzo. Corro basso schivando gli sbirri verso gli ultimissimi compagni sui
binari e ne aggrappo uno che probabilmente conosco pure, ma nemmeno faccio
in tempo a vedere. Di nuovo su di me i colpi di manganelli e anfibi e scudi,
dapprima gli sbirri, credo, più incazzati per il fatto che non sono stato al
gioco e poi, questa volta, pure i carabinieri sarà lo spirito bipartisan
a mille. Non ho idea di cosa stia succedendo. Mi scaraventano via dai binari
di nuovo, di nuovo tirato per i capelli e a calci. Mi calpestano e
schiacciano con anfibi e scudi, battuto in ogni senso, ormai buono solo a
urlare sotto i colpi. So che non è niente rispetto a quello che farà il
carico che sta per passare, un carico che volevo fermare davvero, pur
sapendo che era impossibile, ed è questo quello che fa più male: il treno
sta passando. Impossibile fermarlo, forse, ma necessario. Mi sento (e mi
sentirò) di merda, schiacciato come sono in ogni senso. Arriva un grande
compagno dei miei e urla “è ferito! È ferito!”, arriva altra gente, i
carabinieri (son rimasti loro e gli uni e gli altri palesemente con l’
ordine, per mia grande fortuna, di tenere basso il livello del tutto) si
scostano e vengo attorniato dai compagni (ma il peggio, sia chiaro, me l’ha
fatto la polizia; ne ho prese tante che una ragazza che mi ha visto ha detto
che al mio posto sarebbe svenuta subito…). A quel punto mi alzo, sconfitto
al quadrato, lo so, ma meno dei carabinieri e dei poliziotti, umanamente, lo
so e lo sappiamo, loro compresi. Si schierano a difesa del binario da cui
passa il treno carico di morte e stanno lì, fermi, senza infierire
(potrebbero). Quando mi alzo, è questione di frazioni di secondo, mi rendo
conto che le persone attorno a me li stanno già da un po’ riempiendo di cori
e urla consapevoli, davvero giusti, davvero belli, cose che, si vede,
sentono perfino questi ragazzi di provincia non abbastanza drogati dai loro
superiori o con un pelo sullo stomaco non ancora impenetrabile. Beh, nella
sconfitta atroce, atroce davvero, non meno bruciante che scontata, questa è
la seconda cosa davvero bella: vedo i carabinieri piangere! Non “i
carabinieri”, a dire il vero, ma tre; anzi, di due vedo solo gli occhi
lucidi e rossi. Solo di uno vedo le lacrime. Ma la faccia è dolente, per
tutti, e chiaro il loro sentirsi delle merde quali sono. Non so con quale
forza gli urlo in faccia, ma forse me ne danno loro, per una volta, coi loro
volti. Il primo, quello proprio di fronte a me, un ragazzo, soprattutto in
due momenti: quando gli urlo che facendo quello che fa sta affermando che la
vita di una persona, compresa la sua, vale meno di qualche pezzo di carta,
denaro, documenti; meno di qualche goccia di petrolio, nel momento in cui
dico, “altro che Totò, manco uomini o caporali, manco caporali siete, uomini
o portafogli?”… (si sa, in certi momenti la retorica ci sta pure). L’altro
momento quando, fra i cori che invitano a disertare, urlo “mi avete appena
ammazzato di botte [poi, rivolto a lui], ma se passi di qui ti abbraccio!”.
L’ho visto piangere, lacrimare, ma non è passato. Nessuno di loro l’ha
fatto. Ma anche gli altri due di fronte a me li ho visti soffrire e ne ho
visto gli occhi arrossati e l’espressione triste davvero quando gli ho detto
che la notte, nonostante tutte le botte, sarei stato meglio di loro.
Nonostante sia stato davvero male, continuo a pensarlo. Sarò stupido, ma
credo che pure loro, per quel poco che m’hanno ascoltato, abbiano sentito lo
stesso. Non sono tanto illuso da sperare che cambino abbastanza, ma quella
scintilla d’umanità che ho visto brillare è stata tanto, per me. Dopotutto
sono cose di umanità minimale, che capirebbe anche un potente, se fosse uno
sgherro, e dovrebbero farci attenzione.
Poi, subito, in marcia per Pisa, tutt’altra musica: molti di più e poca
azione (al nostro arrivo, gli altri erano già stati caricati, uno forse
aveva la mano rotta) e parecchia copertura mediatica. Ma lì non so, ero già
a pezzi e facevo fatica a reggermi in piedi, altri potrebbero riferire
meglio. Fattostà che il treno è passato. Io lo volevo fermare davvero, non
solo fare un’azione simbolica (dipende, dopotutto anche il denaro è solo un
simbolo, eppure è l’unica sostanza del mondo umano non più tale; dipende
dall’intensità, dalla credenza etc.), quindi ho perso la battaglia. Ho perso
una battaglia fra potere e umanità, è un fatto, anche se forse, spero,
questa volta al potere sia costata di più. Cosa mi resta? Tanti lividi (uno
particolarmente simpatico sulla schiena, ci si può studiare l’impronta degli
anfibi sbirreschi dalla sua forma precisa, ad alveare), qualche ferita e
escoriazione, parecchi capelli in mano ogni volta che provo a toccarli e
qualche problema deambulatorio più un’emicrania pazzesca… Ma mi restano
anche i cittadini di Fornovo, solidali e convinti, tutti i compagni di tutta
Italia mobilitati, le lacrime dei carabinieri, i segnali di insubordinazione
diffusa. E restano questi treni e più in generale questa guerra. Mi resta da
fermarli, ci resta. Si tratta solo di rendergliela davvero sconveniente,
anche economicamente, visto che il denaro è l’unica lingua che conoscono.
Non da solo, piccolo peto macilento come sono, ma con tutti quelli che
decidono di essere uomini, non portafogli.
Efraim
Fonte: http://www.rekombinant.org mailing list