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Eugenio Melandri: Il 15 febbraio in marcia contro la guerra



12 febbraio 2003

Saremo tutti, lo spero proprio, per strada Sabato prossimo. Non solo per 
dire di no ad una guerra che ha come oggetto del contendere il petrolio e 
non la democrazia. Né soltanto perché crediamo che i rapporti politici 
vadano impostati su altri parametri che non siano quelli della forza bruta. 
Non sono i muscoli a fare la storia. Così come non sono le armi.

Anzi, armarsi è il segno della suprema debolezza. Là dove cessano gli 
argomenti, la capacità di persuasione, la dialettica e il conflitto 
politico, le armi rappresentano il segno di una sconfitta umana, anche se 
facessero vincere. La storia vera non è stata fatta da chi ha vinto con le 
armi, rubando umanità all’umanità. La storia vera, quella che ci ha fatto 
crescere e diventare donne e uomini, è stata fatta invece da coloro che – 
spesso nascosti o sconosciuti – hanno cercato di aggiungere umanità 
all’umanità. Anche rischiando qualcosa. Anche donando tutto. Noi oggi 
ricordiamo Francesco che va a mani nude da Saladino. Non ricordiamo i capi 
guerrieri che si sono succeduti a “liberare” (da chi? Perché?) il Santo 
Sepolcro.

A tutti questi e a tanti altri motivi che ci spingono ad unirci a 
quell’immenso popolo che in tutto il mondo domani metterà all’ordine del 
giorno la propria voglia di pace, forse noi di “Chiama l’Africa” potremmo 
unire la voglia di aggiungere ai nostri passi quelli dei tanti “inutili” 
che abitano il continente africano: quelli delle donne che devono 
percorrere chilometri e chilometri per raggiungere una sorgente d’acqua; 
dei bambini orfani a causa dei tanti conflitti dimenticati o a causa 
dell’Aids o della malaria. Vogliamo dire pace anche a nome di tutti quelli 
che questa parola non sanno cosa significhi perché da sempre vivono in 
guerra; di chi non ha il tempo o il modo di manifestare perché preso dalla 
necessità di sopravvivere.

E inevitabilmente alla parola pace si affiancherà, come sempre, la parola 
giustizia. “Giustizia e pace si baceranno”. Paolo VI, nell’enciclica 
“populorum progressio” lanciava un monito ai popoli dell’opulenza: 
“ostinandosi nella loro avarizia, provocheranno il giudizio di Dio e la 
collera dei poveri”. Giovanni Paolo II, poche settimane fa paventava il 
silenzio di un Dio disgustato dalle azioni di questa umanità. Un giudizio 
drammatico che non può non farci pensare e che ci rimanda, se non vogliamo 
chiudere gli occhi e non vedere, alla incombente collera dei poveri.

Noi vogliamo esserci anche a loro nome. Portando le nostre bandiere di 
pace, gridando forte le nostre convinzioni, chiedendo che si cambino le 
strutture oppressive di questo mondo ingiusto dove i conti tornano sempre e 
solo nelle tasche dei ricchi.

Ma permettetemi anche un’ultima osservazione che poi diventa invito. 
Liberiamoci insieme da ogni pregiudizio. Scendiamo per le strade con il 
cuore puro e con l’ingenuità degli uomini veri e semplici. Crediamoci 
davvero che la pace è possibile e che ogni passo che faremo sarà un piccolo 
seme di pace. Se, con “Chiama l’Africa”, ci siamo imbarcati nell’avventura 
di lavorare e di lottare perché i rapporti diseguali scompaiano, perché nel 
mondo non ci sia mai più una persona messa da parte o ritenuta inutile, 
perché al continente africano venga restituita la dignità che gli è stata 
rubata da secoli, per realizzare l’utopia della fine di ogni forma di 
dominio, perché a tutti siano riconosciuti i diritti fondamentali, allora 
non dobbiamo avere paura di nulla. Anche di credere e di sperare che questo 
mondo possa finalmente rinsavire e cominciare un cammino nuovo.
I cuori di pietra – noi ci crediamo – si trasformeranno in cuori di carne.

E riusciremo a capire, tutti noi, anche quelli che sembrano lontani, che a 
mani nude, senza armi, la nostra debolezza sarà la vera forza.

Buon cammino

Eugenio Melandri