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Un pellegrinaggio di pace e di solidarietà a Betlemme
MASSIMO TOSCHI
Diario di un pellegrinaggio significativo. È sempre più necessario
creare una rete di pace con le popolazioni della riva sud del
Mediterraneo.
Dialogo di amicizia, di condivisione, di solidarietà con le chiese
segnate dalle guerre e in situazioni di conflitto.
Se sapremo andare verso le popolazioni che vivono in situazioni di
conflitto e di violenza, le vittime ci educheranno alla pace.
È la vita quotidiana di ciascuno che è chiamata a essere una vita con i
poveri e per la pace.
L’autorità delle vittime è la misura storica dell’autorità di Dio sulla
chiesa e sulla storia. Dio ci chiederà conto se le avremo o no ascoltate.
I poveri cercano la pace e la vita; la pace è la domanda per eccellenza
dei poveri, che vogliono vivere in dignità.
Partiamo da Firenze, nel pomeriggio del 30 dicembre. Siamo 132, ci
guida il card. Piovanelli; ci sono anche mons. Cetoloni, Ugo De Siervo,
giudice della Corte costituzionale e diversi amministratori, a partire
da Angelo Rossi, sindaco di Pratovecchio.
31 dicembre. Arriviamo a Tel Aviv alle ore 5,15. Iniziano controlli
caotici e lunghi alla dogana dell’aeroporto. Si riesce a partire
intorno alle 8. Si punta direttamente a Gerusalemme. Arriviamo intorno
alle 9. Si scende alla Porta Nova. Enrico Cecchetti, vice presidente
del Consiglio regionale, che sarà come il mio angelo custode, spingendo
sempre la mia carrozzina, si attarda per tornare a riprendere il
berretto, perché fa molto freddo. Perdiamo il contatto con il gruppo.
Puntiamo verso la basilica del Sepolcro; sono con noi la moglie di
Enrico e due altri pellegrini.
Sono contento di cominciare questo pellegrinaggio di pace e di
solidarietà dal Sepolcro, nel luogo dove sono concentrate la morte e la
resurrezione del Signore. C’è il dramma, la tragedia di questa terra,
ma c’è anche il mio dolore e il dolore e il patire di ciascuno. Sento
in modo fortissimo la presenza di Piera. È la prima volta che vengo al
Sepolcro dopo la sua morte. Due ore in silenzio e in preghiera, in un
continuo oscillare tra la mia storia e la grande storia. Alle 11 arriva
tutto il gruppo.
Alle 14,30 dobbiamo essere di nuovo a Porta Nova per prendere il
pullman e finalmente arrivare a Betlemme. Mons. Cetoloni ci invita a
essere puntuali, perché dobbiamo arrivare entro le 15,30 per
partecipare alla marcia della pace, promossa dal patriarca latino mons.
Shabbah e dai capi cristiani e religiosi di Gerusalemme.
Si arriva al punto di inizio del corteo. C’è molta confusione. Il card.
Piovanelli viene portato dal patriarca latino, si salutano. È anche
intervistato da qualche televisione. C’è pochissima gente, come
capiremo meglio il giorno dopo. Sorprendentemente mancano i francescani
della basilica della Natività.
UNA MARCIA DELLA PACE SENZA PARTECIPAZIONE
Non siamo più di 200, di cui 132 della Toscana, C’è un’importante
presenza di soldati israeliani. La marcia ha inizio, ma la sua
direzione non è verso la basilica, ma verso il check point. Nella prima
fila c’è il patriarca con le altre autorità religiose, il sindaco di
Betlemme e il governatore della città, che saluto. Siamo assai pressati
dai giornalisti e dalle televisioni. Non c’è nessuno alle finestre e
anche lungo la strada. È davvero un corteo sparuto. Sorprende che
dietro il patriarca non ci siano i cattolici di Betlemme. Certamente
non ci sono i francescani di Betlemme. Si potrebbe pensare per paura.
In realtà ci accorgeremo che le cose non stanno così.
All’improvviso si inserisce nel corteo un gruppo di ragazzi tra i
sedici e i vent’anni. Appartengono a un’organizzazione politica dal
nome indicibile, probabilmente vicina a Fatha. Urlano slogan politici.
Arrivati ad un incrocio c’è un dialogo fitto con i soldati israeliani,
che si ritirano ulteriormente di circa duecento metri. Si arriva in
cima ad una salita e di nuovo siamo a contatto con i soldati
israeliani. Questa volta ci si ferma e si comincia a pregare e a
cantare per una decina di minuti. I soldati israeliani sono
vicinissimi, a non più di mezzo metro. Alcuni sono piazzati sui tetti,
con il mitra puntato su di noi. Sono giovani ragazzi tra i venti e i
trent’anni, ben equipaggiati, esposti in una situazione di grandissima
delicatezza, appena un po’ più anziani dei ragazzi palestinesi. Dopo
una decina di minuti la manifestazione si scioglie e torniamo indietro.
A Casa Nova ci accoglie p. Ibrahime. Grandissimi abbracci e saluti.
Appena il tempo di ricevere la camera ed è subito l’ora del “Te Deum di
ringraziamento” tipico della liturgia dell’ultimo giorno dell’anno.
La preghiera è assai curata. C’è da ringraziare anche dell’assedio? Il
padre guardiano del convento fa l’elenco degli attentati terroristici
compiuti dai palestinesi e poco dice dell’occupazione israeliana. C’è
da considerare che siamo in una città che ha pagato un prezzo altissimo
a questo tipo di occupazione. Sull’assedio alla basilica dice che sono
state dette tante parole, per cui è inutile aggiungerne altre.
Ibrahime, che in chiesa è seduto accanto a me, scuote la testa. Mi dirà
poi che il padre guardiano durante l’assedio non si è comportato male e
non gli ha mai impedito di agire. Ma certo sorprende una liturgia di
bilancio dell’anno, che non assuma l’evento per eccellenza che ha
segnato la vita della basilica.
A tavola racconto a Ibrahime della marcia e domando dell’assenza sua e
dei francescani. Dice che aveva chiesto al patriarca di anticiparla di
un giorno e poi alle 16,30 aveva la Messa e non poteva spostarla. In
realtà dietro a questo ci sono motivazioni più consistenti. Il
patriarca ha promosso la marcia su richiesta di Fatha e questo è un
errore, perché la prossima volta farà la richiesta Hamas e il patriarca
non potrà dire di no.
Mentre siamo a tavola telefono a Prodi, che volentieri saluta il card.
Piovanelli e p. Ibrahime, a cui chiede di essere costantemente
informato sulla situazione delle persone a Betlemme. Arriva la notizia
del coprifuoco, che inizia alle ventuno.
IL MURO DELLA PAURA È IMPONENTE
La questione del coprifuoco colpisce tutti, perché ci rimanda alla
guerra in atto. Guardando dalle finestre Betlemme è una città morta,
pur essendo l’ultimo dell’anno.
Intorno alle 23,30 si brinda all’anno nuovo. Un brindisi a Betlemme in
guerra. Comincio a capire “perché siamo venuti” dalla gioia di questo
grande padre francescano, che percepisce nella nostra visita il segno
di una amicizia concreta e operosa.
Penso al mio anno che si sta chiudendo e capisco che a Betlemme
stanotte c’è davvero “l’angelo della pace”, anche se i segni sono
quelli della guerra. Quando vado a letto telefono ad alcuni amici in
Italia. Vorrei dire loro tutta la gioia e l’emozione di essere a
Betlemme. Il silenzio della notte di Betlemme, visto dalla finestra
della mia camera è impressionante. Mi viene da pensare ai giorni
dell’assedio, a quello che hanno vissuto questi frati. Forse non siamo
stati lontani da loro.
1 gennaio. Mi alzo e guardo le strade: deserto assoluto. Non ci sono
soldati, non ci sono vetture, non c’è la gente. Come aveva detto la
sera prima padre Ibrahime, basta una camionetta che dà l’avviso e tutti
si rinchiudono in casa.
Immaginavo il coprifuoco con i soldati per la strada, come si vede nei
film. Invece qui le cose sono più semplici, o più semplicemente la
paura è più grande, avendo sperimentato sulla pelle la presenza dei
carri armati e dei soldati in città. Ibrahime ci dice che per noi non
ci sono problemi. Ha avuto il permesso dalle autorità israeliane, ci
possiamo muovere anche con il coprifuoco.
UN LEGAME DI FRATERNITÀ CON BETLEMME
Alle 10 siamo alla chiesa di S. Caterina per la Messa della pace del
primo dell’anno. Arriviamo e la chiesa è già piena dei cattolici di
Betlemme, che hanno sfidato il coprifuoco per venire alla Messa e
incontrare gli amici toscani. Questo rende ancor più sorprendente il
vuoto del giorno prima al corteo.
La liturgia è molto curata. Il coro accompagna con canti arabi. La
Messa è concelebrata dai frati e dai vescovi e preti toscani. Presiede
il card. Piovanelli. Ibrahime ci accoglie con un grande saluto e
ringraziamento verso la Toscana, le sue chiese, i suoi cristiani e la
sua gente. Il Vangelo è proclamato in arabo e in italiano. Tutti siamo
molto emozionati. All’entrata in chiesa diverse persone mi hanno
abbracciato e salutato con grande affetto. Al Vangelo il card.
Piovanelli parla della pace e del legame profondo tra la terra di
Toscana e la terra di Gesù. Alla fine della Messa, Ibrahime di nuovo ha
voluto ringraziare anche le istituzioni toscane e anche me per l’aiuto
e la vicinanza nei giorni dell’assedio. Sono commosso. Penso anch’io ai
giorni dell’assedio, che erano poi i giorni dell’agonia di Piera. È una
liturgia densissima. Si percepisce un legame di fraternità grande.
Valeva la pena di venire per tutto questo, solamente per tutto questo.
Andiamo poi a visitare la basilica della Natività. Eccetto noi, non c’è
nessuno. Un grande senso di freddo e di vuoto. Non vediamo neanche i
monaci ortodossi, una volta assolutamente presenti. Non ci sono più i
segni fisici dell’assedio, ma questo vuoto ne è il segno più grande.
Alle 14 andiamo a visitare una cooperativa di donne che producono
ricami. Ci chiedono di aprire un rapporto con la Coop toscana, perché
non sanno come vendere i loro prodotti, vista l’assenza del turismo.
Nei loro locali c’è anche un museo del ricamo. È tutto molto piccolo,
siamo vicinissimi alla piazza della basilica. Diamo la disponibilità ad
attivare il rapporto con la Coop, sperando che produca i frutti che
hanno conseguito gli artigiani del legno.
Si parte di nuovo per Gerusalemme. Andiamo a visitare il Cenacolo… poi
partiamo per l’appuntamento con il card. Martini.
L’INCONTRO CON IL CARD. MARTINI
Arriviamo alla casa dei gesuiti, a Gerusalemme ovest. Il card. Martini
è sulla porta a riceverci. Siamo in sei: il card. Piovanelli, mons.
Cetoloni, il sindaco di Pratovecchio, il vice presidente del Consiglio
regionale con la moglie, ed io. Ci saluta con grande cordialità e ci
accoglie in un salottino. Racconta la sua giornata, divisa a metà tra
studio e preghiera.
Lo studio è la realizzazione dell’edizione critica di un manoscritto
del Nuovo Testamento, che è in Vaticana. Finito questo, si dedicherà
alla edizione critica di un manoscritto della bibbia greca, presente
anch’esso in Vaticana. Solo in rarissimi casi accetta di fare
meditazioni e conferenze e mai in un contesto, come dire,
istituzionale. La preghiera riempie l’altra parte del suo tempo. Si
definisce come Mosè, che dopo aver combattuto tutta la giornata gli
amaleciti sale sul monte a pregare. Egli apprezza molto il nostro
pellegrinaggio, perché ha avuto il coraggio di venire. Insiste
nell’indicare la sua preghiera come preghiera di intercessione, di
colui che si pone in mezzo al conflitto, ma portando avanti a Dio i
diritti e i dolori di ciascuna delle parti. Per risolvere il problema
ci vorrebbe un miracolo, dice.
Insiste sul fatto che non si debba prendere parte, schierarsi con una
parte contro l’altra, che è tipico di chi vede il conflitto dal di
fuori. Bisognerebbe conoscere in profondità tutta la situazione. Dice
che bisognerebbe conoscere bene l’arabo e l’ebraico e non solamente
l’inglese, per poter tentare di dire qualche parola. Dunque ha scelto
una linea di silenzio, che non è la fuga dalla complessità della
situazione, ma il luogo per una comprensione nuova e più feconda di
tutta la vicenda, e poi è soprattutto il luogo dell’intercessione, da
cui usciranno nuove parole per mettere insieme gli uni e gli altri.
Ha scelto di non avere rapporti istituzionali e di non partecipare agli
incontri ufficiali. Ci racconta di aver partecipato solamente ad un
pranzo promosso dal nunzio con tutti i vescovi cattolici di Gerusalemme
(sei sono le chiese cattoliche presenti a Gerusalemme). Essi parlavano
dell’incontro che avevano avuto con il presidente della Repubblica
israeliano, al quale a nome di tutti aveva parlato il vescovo
ortodosso, ma in maniera che non aveva soddisfatto nessuno. Martini
raccontava questo episodio per indicare le difficoltà delle chiese in
una situazione difficile, che accentua anche le differenze tra di loro.
È sembrato assolutamente preoccupato della possibile guerra in Iraq,
che aprirebbe scenari del tutto imprevedibili e rischiosi. Ha insistito
sul valore dei pellegrinaggi, non solo per i palestinesi ma anche per
gli israeliani. È importante dare segnali di pace per tutti. Mostrare a
tutti che non si dimentica la pace a Gerusalemme, che c’è una vicinanza
e un’amicizia nei confronti di tutti. Ci invita, tornando in Italia, a
farci promotori di pellegrinaggi in Palestina, secondo il disegno sopra
indicato.
LA REALTÀ DI BETLEMME OGGI
Si lascia il card. Martini intorno alle 19, per tornare a Betlemme con
il nostro pulmino. Appena arrivati, incontriamo il custode di Terra
Santa, p. Battistelli e il nunzio apostolico mons. Sambi. Grande
cordialità. Ambedue li avevo già conosciuti, il padre ad un convegno a
Montepulciano, e il nunzio nel 2001 in un precedente viaggio. Ci sono
anche gli scout di Betlemme, siamo tantissimi. È arrivato anche Mark
Innaro, della Rai, che ha scritto insieme a Buonavolontà un libro, a
mio giudizio assai superficiale, sull’assedio: l’unico merito è di
pubblicare pagine, per altro incomplete, del diario di Ibrahime.
Alla cena mi trovo accanto a p. Battistelli. Cerco di chiedere qualche
cosa sui giorni dell’assedio. Conferma quanto detto anche da p.
Ibrahime: l’unico italiano che si è impegnato davvero in quei giorni
per sbloccare l’assedio è stato Romano Prodi, soprattutto per le
pressioni su Arafat, che ha giocato e gestito direttamente tutta la
vicenda, utilizzandola per migliorare la sua situazione.
Dopo cena si rimane a parlare con Ibrahime. Si parla di gruppi di
ragazzi che, distrutta l’autorità palestinese e la sua polizia, hanno
in mano Betlemme. Si parla delle divisioni presenti anche tra le chiese
cattoliche e si condivide l’idea della necessità che il patriarcato
latino sia più autonomo rispetto alle posizioni politiche. Ho
l’impressione di un mondo palestinese frantumato in mille gruppi e
senza una politica. Il fallimento in termini numerici della marcia del
giorno prima qualcosa deve pur voler dire. Gli israeliani saranno stati
felici di vedere quel fallimento e quella divisione.
NON C’È ALTERNATIVA AL RICONOSCIMENTO GLI UNI DEGLI ALTRI
2 gennaio. Ci alziamo presto. Alle sette dobbiamo essere alla Scuola
francescana per salutare i ragazzi che rientrano dopo il periodo
natalizio, assai più breve per recuperare i giorni perduti con il
coprifuoco e l’occupazione. Arrivano un migliaio di ragazzi e ragazze,
che si riuniscono nel cortile della scuola. In fila secondo le classi,
cantano e pregano, in arabo. Sembrano assai curati nel loro modesto
vestire. I più piccoli ci sorridono. Certo qui il calendario scolastico
è dettato dal coprifuoco, dall’occupazione, dai soldati israeliani.
In questo quadro appare un miracolo che ci sia una scuola che funziona,
fatta di cristiani, la maggior parte, e di musulmani. Essa è sostenuta
dalla Cei, dai vescovi toscani e dalla Toscana, che si è molto
impegnata nell’adozione a distanza dei ragazzi, con l’obiettivo di
farli studiare.
Dopo, io e il vicepresidente del Consiglio regionale andiamo a
incontrare la comunità ebraica italiana a Gerusalemme, presso la
sinagoga degli italiani. Ci attende l’avvocato Lazar, che è stato
presidente fino a pochi mesi fa. Ora è stato eletto il dott. Cassuto,
già vicesindaco di Gerusalemme. Ci racconta della presenza degli ebrei
italiani in Israele. Sono circa dodicimila (in Italia sono poco più di
trentamila), che si sono installati a partire dall’inizio degli anni
’50. Ancora oggi questo flusso esiste, sia di famiglie che vengono ad
abitare in Israele, sia di giovani ebrei che vengono a studiare in
Israele. Gli ebrei italiani hanno assunto un peso nella società
israeliana, anche se pochissimi hanno avuto un qualche risultato in
politica.
Spiego il senso della nostra visita, che è nata dopo una lettera che
l’avv. Lazar mi aveva scritto dopo il viaggio che feci in Palestina nel
gennaio dell’anno scorso. Una visita di dialogo e di pace, nella
convinzione che non c’è alternativa alla coabitazione e al
riconoscimento agli uni degli altri.
Parlo della situazione di Betlemme, del coprifuoco, della non
convenienza anche per Israele del degrado della società palestinese,
perché tutto questo alimenta il terrorismo. La sua risposta è netta e
semplice, anche se non convincente: da Betlemme arrivano i terroristi e
dunque noi abbiamo neutralizzato Betlemme. Egli continua scaricando su
Arafat ogni responsabilità, proponendo in questo modo alla fine dei
luoghi comuni.
PROGETTO DI COLLABORAZIONE CON DUE OSPEDALI
Intorno alle 17 siamo al monte delle Beatitudini, dove il card.
Piovanelli presiede l’Eucarestia. Ci sono invisibilmente in questa
Eucaristia i bambini della scuola di Betlemme e gli ebrei italiani di
Gerusalemme; e in una terra che è la parabola di tutte le divisioni e
di tutti i conflitti, c’è la pagina del Vangelo di Gesù: questa Parola
dentro e oltre i conflitti.
Arriviamo a Nazareth alle 19,30. È arrivato anche Giuseppe Fraizzoli,
direttore dell’ospedale Sacra Famiglia, che appartiene ai
Fatebenefratelli. È un ospedale italiano e israeliano al tempo stesso.
Ho conosciuto Fraizzoli questa estate e abbiamo già avviato progetti di
collaborazione. Ci presenta l’attività del suo ospedale, i suoi
rapporti con l’ospedale di Jenin (una delle città palestinesi più
colpite dall’occupazione militare israeliana) e ci consegna un nuovo
progetto di collaborazione tra i due ospedali, sul piano del primo
intervento e della formazione. Dunque, un ospedale cristiano aperto a
tutti, anche a ebrei e musulmani, che collabora con città palestinesi i
cui ospedali sono allo stremo e non possono curare i loro malati, per
cui molti muoiono semplicemente perché non è possibile curarli.
3 gennaio. Alle 8 c’è la Messa conclusiva alla basilica
dell’Annunciazione. Tutto quello che abbiamo visto, vissuto, sofferto e
sperato in questi giorni è messo davanti alla grotta dell’Annunciazione
a Maria. Penso a Piera, a mia figlia, alle donne palestinesi e
israeliane che hanno sperimentato la morte dei figli a causa della
violenza.
Alle 9,30 con il vicepresidente del Consiglio regionale andiamo a
visitare l’ospedale del dott. Fraizzoli. Discutiamo i dettagli del
progetto che ci ha presentato. Parlo con l’assessore alla sanità della
Regione Toscana, Rossi, con cui fisso un rapido appuntamento per
mettere in moto la macchina del progetto. Egli si farà carico di
presentarlo alla riunione degli assessori alla sanità delle Regioni
italiane, in modo da ottenere il più ampio consenso e coinvolgimento.
MASSIMO TOSCHI